Note per un libretto delle assenze
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Note per un libretto delle assenze
Note per un libretto delle assenze Francesco Forlani Dire fari Adesso che la neve è scomparsa totalmente dai prati, ora verdissimi, di ritorno a casa mi sono fermato all’altezza della rotonda oltre la Dora, a un passo da dove abito. Ho alzato lo sguardo per notare la differenza tra quella lampada appena sostituita e le altre del viale alberato. La lucentezza del metallo ricurvo che la faceva nuova di zecca, uscita di fabbrica, del metallo ricurvo non sarebbe sfuggita nemmeno a un occhio poco avvezzo così come la luce del lume più fredda e meno filtrata dalle polveri di smog e di vento. Perché il lampione in questione me l’ero trovato spezzato al ritorno di uno dei frequenti viaggi dello scorso inverno. I due ragazzi curdi che lavorano all’angolo me l’avevano raccontato. Un inquilino al quinto piano aveva perso ogni speranza, il lume della ragione al dolore della recente scomparsa dell’amata moglie e saltando giù si era come aggrappato all’ultima luce. Dell’incidente restava la segatura mescolata alla neve, sul selciato e il segno della testa del lampione sostituita, più nuova di tutte le altre. Mi aveva impressionato non il corpo che non avevo visto, il gesto estremo, l’urlo, che non avevo sentito, ma il peso dell’assenza della luce nei giorni precedenti all’intervento di rimpiazzo. Un albero monco, di metallo, inutilmente genuflesso sull’incrocio, che sembrava quasi un inchino riverente ai passanti. Quello era. E di col- Dire fari po ho pensato a quella volta che un amico mi presentò alla sua conoscente antiquaria. In una delle vie che alla maniera delle radici sfilano dalla Reggia fin dentro al centro della città. Mi aveva assai colpito quell’immagine del crocifisso senza un braccio. Che un cattivo gesto aveva amputato, forse solo una distrazione noncurante nel trasporto. E se ne stava davanti a uno specchio anch’esso antico, sul ripiano di marmo e appoggiato a un orologio con le sue lance in posa di tempo. Ho pensato al miracolo della cosa. Che non era per il Cristo di risorgere, ogni volta, con il distacco dalla croce e il suo pellegrinare in terra. Il vero miracolo era di rimanere inchiodato per un solo braccio al destino. Così come il signore del quinto piano che aveva sfidato il lume e la sua gravità di peso, pensai. La luce se l’era portata via con sé, nascondendola tra la neve. Nota due Livraisons Molti sono i casi più o meno legittimi di esproprio, ma in uno solo si realizza l’esperienza che diremo del furto reciproco e consapevole e che solitamente accade alla fine di una lunga storia d’amore. Perché nelle storie delle separazioni fioccano e si propagano come micosi racconti di forchette e coltelli, di pezzi sottratti alle argenterie comuni, di librerie, di mobili scomposti, smodulati, leggendo a ritroso il libretto delle istruzioni, dal Vangelo secondo Ikea e ricostituiti altrove monchi di una cassettiera o di un piano di lavoro. Eppure lo sai che il vero furto, quello compiuto in modo consapevole, riguarda i libri di chi si è amato, e sempre si amerà, al momento in cui si preparano gli scatoloni — in genere alla letteratura si riservano quelli recuperati al supermercato sotto casa, dei pelati e della frutta e verdura — e non si sa bene come, pur non ignorandone il perché, ci si appropria indebitamente dei libri che non sono i tuoi, ma i suoi. In genere non è il titolo a fare gola quanto la collanina, la matrice grafica della casa editrice e sicuramente un posto di primo piano lo occupano le adelphiane e a seguire le bianche Einaudi. Così quando l’antico amato ti invita nel suo nuovo appartamento la prima cosa che ti viene di osservare non è la presenza sul comodino di una nuova fotografia, «la faccia sovrapposta a quella di chissà chi altro, oh oh», ma se tra i suoi libri doves- Livraisons se spiccare un titolo che ti appartiene magari con dedica a sancirne la proprietà. Si rubano, da veri lettori forti, non tanto i libri che non si sono letti quanto quelli amati condivisi, scoperta avvenuta durante il magnifico momento della messa in comune delle librerie. Quando si rivelano i doppioni — i libri come gli amori non sono mai atti unici — con un certo orgoglio da lecteurs avertis, così Bachmann, Bachtin, Broch, — lei li sistemava in ordine alfabetico tu per casa editrice — ed ecco allora che si ruba, si prende inavvertitamente la migliore edizione delle due, lasciando l’édition de poche o taroccata, all’altro. Talvolta invece vince la curiosità, il piano di lettura di opere che da anni aspettavano di essere lette, esattamente come il corpo così a lungo desiderato e non conquistato come si sarebbe voluto, e bisogna fare attenzione a che l’altro non abbia in mente la stessa lista dei desideri e quindi si ravveda più facilmente dell’ammanco. Ma i veri libri rubati sono quelli che ti porti dentro senza nemmeno sentire la necessità di possederne l’involucro, la carta. Sono fatti di personaggi e frasi che ormai ti abitano e che se pure ti sfiorasse l’idea di restituirli, non puoi, perché dovresti raschiare a fondo, strapparteli dalle corde vocali, dall’anima. Come se fosse possibile restituire carezze e baci della prima notte trascorsa insieme, magari all’addiaccio! Sono quei libri che fanno dei tuoi occhi lo sguardo di un ladro e vi osservate a lungo, voi amanti precari, nel corridoio che vi divide dai destini diversi, dalle camere separate, ac- Livraisons cennando ad un breve sorriso, come di colui che è stato colto con le mani nel sacco, anzi negli scatoloni e quasi ti sussurra: C’est la vie... E già, la vita, sempre quella. Nota tre Primo Hommage Quando il citofono suona sono già pronto a scendere, anzi quasi ne anticipo lo squillo, orribile, sussurrando, per non svegliare gli altri: scendo. Ho poco più che vent’anni e si parte, in banda per Roma. Ma questa volta non per ammirare i musei vaticani o le piazze storiche come avevamo fatto durante le famose gite scolastiche del biennio al liceo scientifico Diaz di Caserta. E tanto meno per marciare sui fori imperiali il due giugno, come ogni anno, per tre di fila, avevo fatto da cadetto della Nunziatella. Si va a Roma per il primo maggio, per la festa dei lavoratori, per la falce e il martello, ma soprattutto per affermare il diritto e non più il dovere di essere comunisti. Quando la corriera si mette in movimento nel cielo nero brillano ancora le polveri degli ultimi mattoni del muro di Berlino esploso per inerzia della storia, e il grido soffocato dal corteo di carri armati, dello studente di Tienammen. Si doveva partire e andare tutti a Roma per prendere a calci nel culo il coccodrillo liberato su tutte le pagine dei giornali, che recitava: «fine del comunismo». Alle ultime file ci sono i più radicali mentre accanto all’autista c’è uno della FGC. Noi più libertari siamo nel mezzo, e quando attraversiamo le strade deserte della piccola città bastardo posto, piccola città bastardo posto dorme an- Primo Hommage cora. All’imbocco dell’autostrada si infilano le prime macchine dei pendolari ma siamo i soli a prendere direzione Roma. Sulle prime non si parla, troppo sonno, troppa curiosità interiore, poi ciascuno dialoga con la propria memoria. La prima bandiera rossa come labbra baciate per la prima volta, quella in un angolo della sede di Vicolo Solferino, Lotta Continua per il Comunismo. Una bandiera che come certi vini, era migliorata col tempo, e il rosso più rosso. Vi si accedeva tramite un cortile e per arrivarci si poteva sia dal lato di Via Mazzini che dalla Flora. Se si decideva per la prima possibilità si rischiava doppiamente. Uno, perché cinquanta metri più in là, al Buffolano, c’erano i fascisti, secondo perché cinquanta metri prima c’era la sede della Protezione civile, quella che mio padre Roberto Forlani aveva tirato su dopo vent’anni di campi di lavoro in tutta Italia e antincendio insieme a quelli della forestale. Se mi avessero visto gli uni, i fasci, o mio padre, il risultato sarebbe stato lo stesso, e allora, meglio arrivarci dalla Flora. Perché quella di lotta Continua era — a detta degli altri, non mia — un Covo di terroristi, una sorta di vivaio a cui prima Linea aveva negli ultimi deliri lottarmatisti attinto a piene mani — cosa non assolutamente falsa. Devo dire che chi non abbia toccato, maneggiato, un ciclostile non potrà mai capire gli anni settanta, i primi ottanta. I nostri anni di piombo erano tutti in quella tipografia portatile, e se dei proiettili c’erano rimasti in gola solo i bossoli delle leggi speciali, devo dire che dell’altro piombo, quel- Primo Hommage lo dell’inchiostro, c’era rimasta la malattia della scrittura. La stessa che di domenica, nella città operaia del nord che mi ospita, oggi, vent’anni dopo, mi spinge a cercare in un angolo recondito della memoria un lembo di bandiera rossa, la ruggine della falce e il legno indurito del martello. O il ricordo nitido della prima manifestazione. Quella per riparare i cessi della Diaz e così la seconda e la terza. Giancarlo Leone, che sarebbe diventato un eccellente cabarettista aveva inventato anche lo slogan. Olì olà i cessi c’hanne rà, (trad. olir olar i cessi ci devon dar). Insomma, negli anni ottanta, in provincia, le grandi rivendicazioni ideologiche si erano ridotte al corretto funzionamento delle turche. In parole povere, poverissime, il riflusso ovvero quello che pomposamente veniva definito come tale, era una questione di scarichi nelle grandi fogne della realtà di ogni forma di utopia. E che tutti si potesse finalmente dire: viva i cazzi nostri. Agli inizi dei novanta invece era esploso nei licei e nelle università un rigurgito di antifascismo, come avrebbero cantato i 99 posse, che non erano ancora i 99 posse ma Luca e Marco, ora seduti agli ultimi posti del pullman su cui viaggiamo e accompagnati da capelli lunghissimi legati dietro. Al novantesimo minuto della grande partita giocata dal movimento avevamo strappato dalla cantina la bandiera rossa dei nostri fratelli. Uno di loro, ormai pubblicitario affermato, scriveva la nostra storia a partire dall’avvistamento di una pantera nelle campagne romane. In realtà non si è mai saputo se ne fosse stata una, né provata la cosa seppure ogni Primo Hommage tanto spuntasse un video girato da un videoamatore, in cui si aggirava furtiva tra gli alberi. Ripresa puntualmente dai telegiornali. «La pantera siamo noi» — gridavamo, anzi lo scrivevamo dappertutto. Da Palermo, dove tutto era cominciato, a Napoli e Roma, a Torino passando per Bologna e Firenze. Una lotta con le occupazioni totali delle università a colpi di fax e fotocopiatrici. Un consumo di carta tale da far sparire l’equivalente di San Marino, della foresta amazzonica. Ma a noi, all’epoca non ce ne fregava un cazzo, di San Marino. E ora alle otto del mattino, in una prima pausa da autogrill, prima di Cassino, morti di sonno andiamo al primo maggio che sarà come i tempi supplementari di una partita giocata tra due campi. In realtà di un campo solo visto che a giocarsi il titolo di esistenza ci sono soltanto i comunisti. Da una parte quelli che non sanno di esserlo e dall’altra, quelli che sanno di non esserlo più. Una pantera nel motore, sarebbe bastata a farci arrivare in orario al mega appuntamento in Piazza Esedra, a ridosso di Termini. E mai animale sulla cui silhouette si sovrapponeva quella del puma campione del Napoli di Maradonas mi era sembrato così azzeccato, nella rivincita generazionale in corso. Ci aspettava un primo maggio da inizio secolo, da rivoluzione bolscevica, di quelli che avrei vissuto a Parigi nel ’95, quando mezza Francia fu bloccata da uno sciopero a oltranza di tutta la classe operaia e intellettuale. Quando sfilavo Primo Hommage pieno d’orgoglio con il sindacato anarchico della CNT, quello delle bandiere rosse e nere e con il gatto dal pelo dritto nel mezzo. Il rosso e il nero di Leo Ferré, per capirci, dei comunardi irredentisti e utopisti di fine ottocento. Tra i fumogeni rossi che come lanterne ferroviarie anticipavano la fiumana di popolo straripante lungo tutti i grandi boulevard da Nation alla Bastille, dall’Opera alla Republique, e Saint Michel. Secoli di rivolte scandite dagli slogan e dalle icone portate in processione con le bandiere. Da Che Guevara a Marx, Lenin, Mao, Ho chi min, fino agli antichissimi Spartaco e Garibaldi, i grandi sindacati, CGT (Confédération Generale du Travail) Act Up, i movimenti omosessuale e lesbico, quelli della Ligue Révolutionnaire, i comitati di base. Ora, a qualche mese da Italia novanta, dalla penombra delle ultime file del pullman su cui siamo, qualcuno grida, «esproprio proletario». All’autogrill di Cassino, dove ci siamo fermati, in realtà l’unica cosa espropriabile è un caffè, e una velocissima lavata ai bagni. Una sigaretta nell’area di sevizio che sa di benzina e tubi di scappamento. Il caso vuole che ci si trovi al punto esatto da cui una coda interminabile di autobus con bandiere rosse sui fianchi percorre l’autostrada. Dal sud diretti a Roma. Il mio compagno di viaggio, alza il pugno chiuso e uno dei mezzi con una potente tromba risponde al saluto. Come quando ricambi il saluto da un ponte sulla Senna che stai attraversando nel momento esatto in cui un Bateau Mouche percorre il fiume e i turisti in poppa ti fanno ciao con la mano e tu rispondi al sa- Primo Hommage luto. Fai ciao con la mano. Si fa rapidamente la conta per essere sicuri di non lasciare nessuno a terra e si riparte. Qualcuno intona John Brown giace e altri lo seguono. A un certo punto Tonino Ombra attacca con la canzone del movimento studentesco napoletano, e che sull’aria di spingole francese faceva così: Nu juorno mme ne jètte do partite Perché vuleve fà a rivoluzione Nu juorno mme ne jètte do partite Perché vuleve fà a rivoluzione Mme chiamma nu cinese: «Trase, trase, Viene cum mè si vo’ fa à rivoluzione» Mme chiamma nu cinese: «Trase, trase, Viene cum mè si vo’ fa à rivoluzione» Io, che sóngo nu poco leniniste Ie me ne iette nu poco chiù a sinistra Spontaneista mò nun song chiù So militante dell’esse U (che non è un supermercato ma stava per sinistra universitaria, N.d.A) Adesso però, dieci anni dopo, bisognava fare il percorso a ritroso, più che ire bisognava trasire, ovvero fare Primo Hommage finta che si entrasse nel PCI, perché si chiamava Partito Comunista Italiano, mica la Cosa, o PDS, Ds, s,... Bisogna cantare adesso perché così il tempo passa in fretta. Siamo in orario, tra un’ora si arriva e non vediamo l’ora, quell’ora. E allora si canta. Chissà perché i canti comunisti sono un inno al sacrificio. La stessa bella Ciao, che ha un’aria allegra, è una storia di morte, se ci si sofferma sulle parole. Eppure all’origine non era così, cioè solo in parte, come l’internazionale che comincia con con la constatazione che la classe operaia, sfruttata, schiavizzata, massacrata, l’ha presa nel culo fin qui ma che, nel futuro, d’allora in poi, con il sole dell’avvenire si farà il culo a quegli altri. Diversa Morti di Reggio Emilia, che è terribile e umana, anzi tanto più terribile perché umana attraverso quei nomi e cognomi di operai, scanditi su un’aria verdiana. Quando dalle prime file partono le prime note di In morte di SF, di Guccini e i Nomadi, Lunga e diritta correva la strada è tutto un grattarsi i coglioni. Qualcuno grida «no, NOOO, basta che porta sfiga quella...» Meglio Lucio Battisti. Ma è di destra. E chi l’ha detto. Lui, in un’intervista. E chi se ne frega. Cantiamo Umberto Tozzi, almeno lui era di sinistra, lo sapete, coi diritti di ti amo finanziava l’Autonomia. Se proprio si deve cantare Tozzi preferirei Gloria. E infatti una ragazza affiliata alla FGC grida stonata «Gloria, GloriaAAA, manchi tu nell’ariaAAA...» Primo Hommage - Vorrei essere libero, libero come un uomo — mormoro. — Che c’è? — mi chiede Chiara, la mia ragazza — Niente — faccio io. Roma. Il cartello Roma ha su di noi lo stesso effetto che sui marines americani che risalendo da Anzio, nella guerra di liberazione, giungevano alle porte della città aperta. E se il raccordo anulare di sinistro non ha solo il nome di un dito piantato in un occhio, nel migliore dei casi, l’esperienza dell’autista, compagno anche lui, faceva che si imbroccasse la strada giusta al primo colpo. Accadeva anche questo nei primi novanta. Quando arriviamo in Roma centro, che è sabato, non c’è nessuno. Niente bandiere, posti di blocco polizia. Nessuna banda di Reggio Emilia che intona tutti i canti rivoluzionari del mondo e che mi fa vibrare ogni volta come una spiga al vento. Ci guardiamo tutti esterrefatti come chi si rechi a uno stadio che non ha partita, a un appuntamento amoroso e si ritrovi senza amata. Lo sguardo corre al direttorio che è nelle prime file e che ha organizzato tutto, i tre pullmann, il soggiorno, il luogo e l’ora, l’incontro con gli altri compagni in provenienza da Napoli. Il loro sguardo perso nel nulla tuttavia non lascia immaginare nulla di buono. Non c’è nessuno, è ora di pranzo il sole picchia come un celerino infuriato. Quando si scende, poi, ti divora gli abiti impregnandoli di sudore. Si scende tutti un po’ alla volta, chi per sgranchirsi le gambe, chi per fumare una sigaretta, tutti per cercare di capire. Primo Hommage E tutti ci si guarda intorno. Trovare che so un manifesto da primo maggio, una bancarella dell’ex repubblica democratica tedesca (Deutsche Demokratische Republik), una tenda cubana con Rum d’annata. Nada de nada. Per fortuna arriva un vigile trafelato. Pensiamo che sia un compagno che accorra a darci lumi e invece è un vigile incazzatissimo che ci intima di ripartire perché lì non possiamo stare. — Scusi signor vigile — gli chiede il figiciotto, ma il primo maggio? Lui lo guarda manco gli avesse chiesto come fare per togliere una multa. — Non c’è più- gli risponde quasi seccato — Come non c’è più? Rilancia il primo seguito da altri compagni — Ma da dove venite, scusate? — Da Caserta — Adesso capisco — sorride e la cosa non mette di buon umore i viaggiatori — C’è il 31 aprile al posto del primo maggio — E chi l’ha deciso? — chiedo io — Il partito — Quale partito? — Il partito Comunista Italiano. Scandisce bene le lettere perché non si presti ad equivoci — Quando? — Stanotte? — Ma dove? Primo Hommage — Qui, alla sede del partito, anzi all’ex sede dell’ex partito — E allora? — Niente partito e niente primo maggio — È sicuro, signor vigile? — Certo. Non c’è più niente. Però di una cosa sono sicuro ed è che dovete andare via di qui, subito. — E se ne va. Noi restiamo senza parole. Senza coraggio e basiti. Nemmeno incazzati. Qualcuno aveva deciso e se aveva deciso così era per il bene di tutti. Noi eravamo arrivati con un giorno di anticipo. Se fossimo arrivati l’indomani sarebbe stato con un giorno di ritardo. E d’ora in avanti, come è giusto che accada per ogni utopia, sarebbe stato sempre o troppo presto o troppo tardi. Poi qualcuno ha cantato Era de maggio e te cadéano ‘nzino, a schiocche a schiocche, li ccerase rosse... Fresca era ll’aria...e tutto lu ciardino addurava de rose a ciento passe... e noi con lui. Nota diciotto Quintadicopertina Scopri le altre collane e gli altri ebook di quintadicopertina. Collegati a www.quintadicopertina.com