“Una storia i cui personaggi sono l`industria, l`iniziativa individuale, l
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“Una storia i cui personaggi sono l`industria, l`iniziativa individuale, l
“Una storia i cui personaggi sono l’industria, l’iniziativa individuale, l’umanità che marcia alla conquista della felicità” Charlie Chaplin, (Tempi Moderni, 1936) 1 Introduzione Il periodo compreso tra il 1945 e la fine degli anni sessanta, fu certamente uno dei momenti di maggiore prosperità della storia dell’uomo. Le popolazioni dei paesi capitalisticamente più avanzati conoscevano il boom economico, le lusinghe del sistema di welfare inclusivo, le prime comodità. Anche i paesi più arretrati, provavano sulla scia delle lotte per l’indipendenza, ad intraprendere la strada dello “sviluppo”, offerto dai guru dell’economia dell’epoca come a portata di mano per chiunque. I paesi socialisti, sotto la guida del gigante sovietico, s’impegnavano anch’essi in ambiziosi programmi di crescita economica. Alla fine degli anni sessanta il panorama cambiava completamente. Disordini sociali, guerre neocoloniali, economia internazionale in frenata, fine della stabilità monetaria, e ancora crisi energetiche ed il fenomeno nuovo della stagflazione: nel corso di un decennio terrificante, che aveva messo fine a tutte le certezze, molte dinamiche erano profondamente cambiate. Come vedremo nel primo capitolo, l’interpretazione che tutt’ora va per la maggiore è che a provocare la crisi siano stati una serie di avvenimenti che combinatasi con le difficoltà intrinseche dell’organizzazione dello spazio economico internazionale nato dalle ceneri del secondo conflitto mondiale, hanno portato al collasso l’economia mondiale. Per questa tesi, la fine del patto sociale di matrice americana con l’avvento di una “nuova epoca” in cui i temi all’ordine del giorno ed i rapporti di forza sono completamente cambiati, rappresenterebbe il lascito più concreto ed importante di un decennio di turbolenza. Il nuovo paradigma della flessibilità, il declino del welfare state, l’emergere del pensiero neoliberista come dogma 2 dominante: sarebbero quindi questi temi il prodotto più genuino dei cambiamenti intercorsi, che essi piacciano oppure no. Ma proprio nel periodo suddetto, un gruppo di studiosi a vario titolo, tendeva a ribaltare la validità delle tesi “classiche” contrapponendo ad esse dei punti di vista che, seppur eterogenei tra loro, avevano in comune il rifiuto di un’analisi storica priva di una visione di lunga durata. In particolare, due di questi studiosi, Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi, offrivano delle prospettive completamente differenti dal quale osservare non soltanto la crisi, ma tutta la storia dell’economia capitalistica mondiale (o economia-mondo) dalla sua nascita alle tribolazioni attuali. Le loro proposte, profondamente influenzate dall’approccio storicocomparativo dello storico francese Fernand Braudel, hanno provato certamente a rompere gli schemi della storiografia. Recuperando una visione della storia lunga, ed andando alla ricerca delle caratteristiche salienti del sistema capitalistico, al fine di individuarne il funzionamento e di poter formulare ipotesi sulle prospettive future, Wallerstein ed Arrighi sono riusciti a ricostruire le dinamiche del mutamento in atto. Come vedremo nella seconda parte dell’elaborato, la crisi degli anni settanta, diventa quindi un punto di fondamentale importanza per comprendere non solo la rilevanza storica di quest’ultima, ma anche e di più perché essa tende a presentarsi –seppur in modi diversi a seconda dell’autore- come uno spartiacque, al di là del quale sono rappresentate la crisi terminale dell’economia-mondo (in Wallerstein) e il declino degli Stati Uniti, ed in parte della geocultura occidentale (in Arrighi). Infine, è opportuno nuovamente sottolineare come le due proposte siano abbastanza diverse l’una dall’altra; nonostante ciò, tra gli obbiettvi di questo lavoro c’è quello di tentare , nella parte conclusiva, una piccola sintesi delle prospettive future delle due posizioni. Buona lettura. 3 • CAPITOLO I: INQUADRAMENTO STORICO 1.1 Ricostruzione Uscita distrutta da due guerre mondiali e da una grande crisi globale nel giro di trent’ anni, l’ economia internazionale fu plasmata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati in funzione di tre esigenze fondamentali. In primis, garantire una situazione politica internazionale di omogeneità di scelte politiche e di punti di vista; in secondo luogo, sviluppare un’ armatura di istituzioni economiche sopranazionali capaci di garantire stabilità a lungo termine; Infine, garantire la coesione interna ai singoli stati, condizione fondamentale per uno sviluppo uniforme dei singoli stati, e barriera contro il “richiamo” del blocco socialista. Gli Stati Uniti, consapevoli della necessità di costituire un ambiente economico favorevole al libero mercato e capace di rimettere in sesto le economie degli alleati, guidarono con forza la fase di ricostruzione, sfruttando l’ enorme accumulo di tecniche e tecnologie frutto dello sforzo bellico e riversandolo, -come nel caso del piano Marshall- in Europa e Giappone, dove alta era la domanda di materiali e materie prime per la ricostruzione. Inoltre, fondamentale fu il lavoro di persuasione dei nordamericani volto a convincere gli alleati dei vantaggi a lungo termine della scelta di un comune progetto di sviluppo economico che saldasse interessi politici, economici e di sicurezza di tutto il blocco capitalista. La leadership statunitense fu quindi fondamentale nel costruire traiettorie politiche di cooperazione, capaci di legare le singole economie nazionali sotto la propria guida, dando impulso ad un’ armonizzazione delle scelte politiche, e spingendo gli alleati sulla via della collaborazione in cambio di assistenza. Nata per evitare il ritorno alle politiche egoistiche degli anni trenta, la conferenza di Bretton Woods fornì la cornice istituzionale del nuovo ordine economico internazionale. Obbiettivo prioritario, era “progettare un sistema di commercio aperto che incoraggiasse l’ espansione del commercio internazionale, bloccando la svalutazione come strumento competitivo e i tentativi di autarchia nazionale1” . Per il raggiungimento di questo scopo, furono edificati due regimi e due istituzioni. Il regime monetario internazionale tornò a basarsi su tassi di cambio fissi, con le varie valute nazionali ancorate al dollaro o all’oro e la divisa Usa, vero perno del sistema, convertibile in oro al tasso di 35 dollari l’oncia. Il Fondo Monetario Internazionale era l’ 1 . Piore/Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, Petrini editore, 1992 4 istituzione che vigilava sul corretto funzionamento del sistema, garantendo crediti di riserva e aggiustamenti concertati del tasso di cambio in caso di squilibri nella bilancia dei pagamenti. Il sistema rappresentava quindi “un compromesso tra il rigido regime aureo della fine del XIX secolo […] e l’ anarchia monetaria degli anni ‘30” garantendo “contemporaneamente autonomia e stabilità2”. L’ esigenza di generare un’ ampia apertura del commercio internazionale, fu invece alla base degli accordi che istituirono il GATT, strumento che garantì un generale abbassamento concertato in una serie di round- delle barriere commerciali. L’ effetto della liberalizzazione degli scambi si combinò poi con un più ampia garanzia di apertura dei mercati nazionali, anche in presenza di crisi. L’ accordo divenne quindi la base della più lunga e proficua fase di espansione del commercio internazionale della storia. Infine, chiave di volta della politica estera Americana dal ‘44 in poi, la stabilizzazione delle economie dell’ Europa occidentale e del Giappone era la precondizione necessaria per la creazione di un mercato internazionale capace di assorbire le enormi eccedenze produttive della superpotenza e snodo cruciale dell’ opera di dissuasione delle classi lavoratrici occidentali dalle sirene Sovietiche. La scelta fu quindi quella di esportare il proprio modello economico e di relazioni industriali. Alla base di questo approccio vi fu l’ accordo tra capitale e lavoro. In sostanza la forza lavoro accettò un’ economia di tipo capitalista ed orientata ad una graduale apertura ai mercati internazionali in cambio di assistenza pubblica, alti salari, tutela occupazionale, il tutto garantito dallo stato. Gli imprenditori, in cambio di un’ istituzionalizzazione dei rapporti di fabbrica, ottennero la garanzia di meccanismi regolatori in grado di stabilizzare i mercati. Si creò quindi una convergenza di posizioni tra le politiche economiche europee e nordamericane “costruendo un compromesso per porre fine alle battaglie degli anni trenta” ed edificando “intese , de facto oppure de iure, tra gli attori presenti all’ interno della società3”. Prescindendo dal colore politico di chi le applicava, le teorie del keynesismo storico, basate su una serie di pratiche che richiedevano l’ accettazione del principio di regolazione dei mercati4, divennero uno strumento politico generale, capace di convogliare tutti gli interessi dell’ occidente capitalistico nella medesima direzione. 2 R. Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, 2000 3 P. Gourevitch, La politica dei tempi difficili, 1988 4 La pratica del keynesismo storico si basava su due tipi di misure fondamentali. In primis, la concordanza tra evoluzione dei salari reali e quella della produttività, ottenuta di solito per via negoziale. Il secondo, riguarda la gestione della domanda globale, con incentivi all’ economia nei momenti di turbolenza tramite aumenti di spesa pubblica, finanziamenti per le infrastrutture, manovre di tasso d’ interesse e sostegno al credito per singoli ed imprese. 5 Il sistema industriale che si accompagnava al welfare capitalism, incentivò lo sviluppo delle grandi imprese, sia grazie all’ introduzione delle più moderne tecniche per la produzione di massa, sia grazie al nuovo modello di relazioni di fabbrica, basato su di un’ intelaiatura di regole tali da contenere i conflitti in ambiti strettamente definiti. Così, sia in Europa che in Giappone enormi masse di lavoratori vennero attirati verso le zone industrializzate dalle politiche di alti salari delle grandi fabbriche, a discapito delle pratiche produttive di tipo artigiano, che comunque in Europa sopravvissero nelle zone di maggior tradizione, ma quasi come unità produttive residuali rispetto ai singoli settori della produzione di massa. 1.2 Funzionamento del sistema Rispetto alle intenzioni statunitensi, il Sistema internazionale pianificato a Bretton Woods, funzionò in maniera differente dalle aspettative, a causa di alcune scelte discutibili e di una fiducia, forse eccessiva, in uno sviluppo senza fine. La scelta di non dotare l’ FMI di un cospicuo fondo d’ intervento- scelta per la quale spinsero i maggiori banchieri americani ed i più conservatori all’ interno dell’ amministrazione statunitense- unita alla posizione USA di prima potenza mondiale e alla convertibilità dollarooro, rese possibile un equilibrio monetario solo tramite l’ accumulo di dollari da parte degli altri paesi. Il privilegio di fornire la moneta di riferimento all’ economia internazionale, conferì agli USA il cosiddetto “diritto di signoraggio”. In sostanza, gli Stati Uniti potevano battere moneta ed indebitarsi fortemente per ogni loro esigenza, senza pericoli di conseguenze negative. Tuttavia, ciò implicava “che un giorno gli Stati Uniti sarebbero stati incapaci di convertire in oro, al prezzo concordato, tutti i dollari in possesso di investitori privati e di governi stranieri5”. In sostanza, man mano che gli Stati Uniti avessero accumulato deficit, la loro posizione e quella della loro divisa, si sarebbe fatta sempre più pericolosa. Inoltre, la mancanza di fondi d’ intervento, determinò la convergenza degli sforzi del Fondo soprattutto a sostegno dei paesi industrializzati, al fine di mantenere l’ equilibrio tra le varie realtà economiche nazionali. Così, i PVS, che necessitavano invece d’ interventi profondi, al fine di edificare delle economie nazionali stabili e competitive6, rimasero prive 6. R. Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, 2000 6 . In particolare, in tutti gli stati sorti dai processi di decolonizzazione, si evidenziò una completa assenza d’ interventi al fine di indirizzare lo sviluppo economico sulla strada di una maggiore forza di queste realtà nell’ arena internazionale. Al contrario, “lo sviluppo dipese da strutture economico/sociali ereditate”. Così, gli scambi commerciali erano strutturalmente sfavorevoli alle economie esportatrici di materie prime, “e dunque l’ aumento 6 della funzione d’ indirizzo e stimolo di cui necessitavano per poter competere in maniera paritetica sui mercati internazionali, rimanendo esportatori di materie prime, altamente dipendenti dalle importazioni di prodotti finiti dal Nord del Pianeta. Per di più, già nella seconda metà degli anni 60’ si iniziava ad osservare un rallentamento della crescita dei consumi nazionali nei principali mercati, causata dal fatto che molti beni durevoli erano ormai talmente diffusi tra le famiglie, che era ormai ipotizzabile in un futuro non molto lontano un rischio di saturazione dei mercati, che avrebbe reso più difficile incrementare le economie della produzione di massa. Inoltre, visto che il commercio internazionale tra gli stati più forti si era sviluppato essenzialmente sullo scambio tra prodotti simili, sarebbe stato molto difficile per le imprese incrementare le quote di mercato estere in presenza di saturazione dei mercati interni. Ancora, il grande successo del keynesismo storico portò ad un appiattimento del dibattito sulle politiche di sviluppo economico, portando ad un’ omologazione delle scelte e dei punti di vista. La prosperità degli anni 50’ e 60’ “sembrava aver soppresso un buon numero di alternative politiche […] e sembrava condannare i critici di destra e di sinistra all’ oblio 7”. Gli stati, forti dell’ appoggio degli attori sociali, intervennero massicciamente nell’ economia, determinando le condizioni di sviluppo delle varie aree sotto la sua giurisdizione. In particolare, paesi europei di forte tradizione interventista, come Francia e Italia, guidarono le dinamiche economiche nazionalizzando le imprese dei settori strategici, come la siderurgia e il settore energetico, pianificando lo sviluppo delle aree depresse, basandosi sulla creazione di unità industriali di grandi dimensioni, il tutto pensato in collaborazione con le élite imprenditoriali ed i rappresentanti dei lavoratori. Questo stesso modello fu adottato, con le dovute differenze, dalle élite burocratiche dei PVS, nell’ ottica più ampia delle strategie di sostituzione delle importazioni8: in entrambi i casi, i risultati furono molto modesti, ed i costi per gli stati, a volte addirittura insostenibili. delle esportazioni di queste ultime, non poteva rappresentare la soluzione ai problemi di sviluppo”, ma paradossalmente, un rischio di maggiore dipendenza. [A. M. Gentili, Il leone e il cacciatore, Carocci, 1995] 7 P. Gourevitch, La politica dei tempi difficili, 1988 8 . Queste strategie consistevano nella creazione di poli industriali nei settori strategici, protetti dalla concorrenza internazionale da alti dazi doganali e massicci aiuti economici. Adottare questo tipo di modello di sviluppo fu possibile solo per realtà grandi e già massicce esportatrici di materie prime, come il Brasile, l’ Egitto ed altri. Nella realtà, queste strategie furono fallimentari, e per i bassi standard di qualità di buona parte di queste produzioni, e a causa di limiti strutturali interni, come l’ assenza di un mercato interno forte a tal punto da assorbire la quasi totalità di una produzione spesso inutilmente eccessiva. 7 Nonostante tutte queste questioni, il sistema funzionò efficacemente, grazie al senso di responsabilità USA, ad un’apertura delle economie lenta e graduale, alla fiducia reciproca, all’ assenza di perturbazioni internazionali significative. Ma quando la situazione internazionale mutò, questi ed altri problemi vennero a galla. 1.3 L’ avvento della crisi: una sintesi degli avvenimenti La seconda metà degli anni sessanta rappresentò l'inizio della crisi economica che investì le economie industriali e una rottura nel modello di sviluppo affermatosi nel dopoguerra. La contestazione sociale e la dipendenza energetica difatti segnarono una crisi profonda del modello di gestione dei rapporti sociali. Con questa crisi, che aprì una lunga fase di instabilità ma, al tempo stesso, innescò importanti trasformazioni tecnologiche, produttive e sociali, avrebbe preso il via un nuovo ciclo della vita economico-sociale dell'Occidente, nel quale siamo tuttora immersi. Dapprincipio, un’ aumento delle agitazioni sociali nell’ Occidente, iniziò a minare il compromesso del secondo dopoguerra. Proteste per l’ inclusione nel sistema di welfare capitalism di ampie fasce della popolazione non ancora tutelate e speranze di trasformazione sociale legate a teorie neomarxiste, ruppero la trama del consenso creatasi intorno al sistema economico del secondo dopoguerra. Inizialmente, la risposta degli stati, fu quella di una graduale estensione delle protezioni sociali, al costo di una maggiore vulnerabilità delle economie all’ inflazione. Nello stesso periodo, i limiti del sistema monetario internazionale vennero fuori. L’enorme aumento dei flussi di capitale speculativo minò la salute delle principali valute. La posizione del dollaro, in particolare, si faceva sempre più traballante. La volontà dell’amministrazione Nixon di non aumentare le tasse per nascondere i costi della guerra in Vietnam, e di puntare tutto su strategie di ulteriore stimolo dell’ economia, generarono un’ulteriore spinta inflazionistica che si ripercosse su tutta l’ economia mondiale. Gli attacchi speculativi,l’ aumento del disavanzo commerciale e le forti pressioni dei partners europei, oramai restii a difendere un dollaro sopravvalutato, portarono nell'agosto 1971 alla decisione degli USA di sospendere la convertibilità del dollaro in oro e di svalutare il dollaro, nel tentativo di ridare slancio alle esportazioni e per abbattere il debito statunitense. Il sistema dei cambi fissi si disintegrò, portando con sé, nonostante le reazioni contrarie di una parte degli analisti economici, la fine del coordinamento monetario. Si generò “un non sistema” dove 8 mancavano “regole prestabilite che aiutassero a decidere”; al suo posto fu instaurato ”un accordo politico instabile tra le potenze economiche, amministrato dalle banche centrali9” . Questa nuova configurazione monetaria ebbe forti ripercussioni, e sul controllo della moneta, -rendendo più difficile mantenere una riserva di valore immutata nel tempo- e sulle politiche delle grandi industrie, private dello strumento della stabilità dei tassi di cambio e costrette a rivedere le scelte d’ investimento estero. La crisi petrolifera del ‘73 e la questione del grano sovietico10 dello stesso periodo, si andarono quindi a situare in una situazione già difficile da affrontare. In entrambi i casi, si dovette fare affidamento sulle scorte alimentari ed energetiche, in particolare USA. La crisi dei cuscinetti generò una situazione ulteriormente precaria. I prezzi dei prodotti cerealicoli ed energetici, privi delle riserve di magazzino, iniziarono a rispecchiare le variazioni nella scarsità di prodotti. In particolare, il venir meno della volontà araba di fornire petrolio a buon mercato al sistema produttivo mondiale, portò a tre conseguenze. In primo luogo, la crisi portò con se un enorme aumento dell’inflazione. La parola stagflazione, un mix di inflazione e alta disoccupazione, con bassi tassi di crescita, fece per la prima volta capolino sulle prime pagine dei giornali e nei discorsi della gente. Ciò portò ad una prima rottura della concertazione delle politiche nazionali. Gli USA tentarono di rispondere, senza particolare successo, all’ abbassamento del potere d’ acquisto, con politiche di stimolo alla domanda; gli europei cercarono invece di portare avanti perlopiù misure deflazionistiche, frenando così la crescita delle proprie economie; il Giappone, dal canto suo, approfittò della crisi per mettere in atto una notevole riorganizzazione della propria struttura produttiva, rendendola più capace di navigare tra le tempeste del mercato. Una seconda conseguenza, fu l’ aumento dei costi della produzione in serie. Le aziende si ritrovarono a fare i conti con monete non più stabilizzate e prezzi in balia degli eventi internazionali. Ciò provocò un diffuso aumento dell’ incertezza ed enormi difficoltà nella 9 R Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, 2000 10 . La crisi petrolifera nacque in seguito allo scoppio della quarta guerra arabo-israeliana (detta dello Yom Kippur): Egitto e Siria attaccarono contemporaneamente le linee israeliane a Suez e sul Golan; dopo iniziali successi, vennero fermati dalla controffensiva d’Israele. Dopo la tregua imposta dall’ ONU, lo schierarsi a favore degli israeliani da parte di UK e USA, provocò come rappresaglia la riduzione delle esportazioni petrolifere dei paesi arabi verso Europa e USA. La questione del grano in Unione Sovietica, nacque invece da una serie di raccolti insufficienti tra il ‘70 ed il ‘72, e dalla repentina diminuzione delle scorte sovietiche per far fronte a questa situazione. 9 pianificazione, che unite agli affanni degli stati, provocarono una frenata nella produzione in interi settori, come quello automobilistico e quello degli elettrodomestici. Ciò ci porta al terzo effetto della crisi, il passaggio negli obbiettivi di politica economica dall’espansione alla limitazione. Difatti, nel momento in cui gli elementi che mantenevano unito il compromesso del secondo dopoguerra si sfaldavano, schiacciati dalle pressioni internazionali, gli stati risposero con un’ ampia varietà di politiche, ma tutte, o quasi, volte a rintuzzare gli effetti del peggioramento dell’economia mondiale nel breve periodo. Si navigava a vista, in attesa che il peggio passasse, e le politiche deflazionistiche, le più utilizzate nel periodo, non fecero altro che generare nuovi problemi, provocando depressione e declino della domanda. Rispetto ai paesi industrializzati, i PVS, forti di una partecipazione più marginale al circuito mondiale dell’ economia, sperimentarono un aumento dei tassi di crescita, che seppur eterogeneo11, illuse gli apparati di potere del Sud del Mondo che il ritardo nello sviluppo di quei paesi potesse essere, almeno in parte, colmato. L’enorme aumento dei prezzi del petrolio generò un surplus di capitali per i paesi produttori, riuniti in un cartello, l’OPEC, che regolava l’estrazione giornaliera dei partecipanti. I proventi dell’ oro nero andarono ad incrementare il volume dei capitali speculativi, e in parte, furono intercettati dai PVS, sotto forma di prestiti. Difatti l’aumento dei capitali internazionali fluttuanti portò ad un crollo dei tassi d’ interesse reali. A queste condizioni c’era un vantaggio sia per i PVS, nel richiedere finanziamenti a lungo termine, sia per le banche a concederli12. In generale, in tutta questa prima fase della crisi, nonostante il crollo del regime di cambi fissi e i problemi derivanti dalla crisi petrolifera, rimase un’ intesa di fondo tra le grandi potenze. Vi furono tentativi di ricreare condizioni ottimali di crescita, e la fiducia nel Welfare capitalism si era attenuata, ma non era scomparsa. Verso la fine degli anni ‘70, “i paesi 11. Si passava infatti, dagli elevati tassi di crescita di alcune economie del sud-est asiatico, del Brasile e del Messico, alla crescita sostenuta del Nord Africa, del Medio Oriente non esportatore di petrolio e dell’Argentina, alla crescita comunque blanda delle economie dell’Africa nera e dell’Asia centrale. 12 . Essendo il tasso d’interesse reale” la differenza tra il tasso a cui si può avere in prestito denaro dalle banche e il tasso a cui esso perde valore a causa dell’inflazione”[Piore/Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, Petrini editore, 1992] era evidente come costasse poco, in un periodo di iperinflazione, prendere denaro in prestito al tasso d’interesse di un anno e restituirlo, negli anni successivi, con i guadagni inflazionati. Anche gli istituti di credito avevano interesse a concederli, per facilitare la circolazione del denaro in un momento di scarsi investimenti, a causa della crisi. 13. R Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, 2000 10 capitalistici avanzati incominciavano a convincersi di potersi riprendere, mantenendo intatte le loro istituzioni e le loro idee di politica economica13”. Quando i prezzi del petrolio ripresero ad aumentare, in seguito alla rivoluzione iraniana, le economie industrializzate, colpite per l’ennesima volta in un decennio, non ressero più bene l’urto. L’inflazione riprese a correre a ritmi tali che, seppur differenti tra i vari stati, costrinsero i vari governi a varare nuovamente politiche di contenimento della domanda. La crescente integrazione finanziaria, intanto, faceva sì che le politiche macroeconomiche di uno stato avessero un forte impatto sull’economia di altri paesi, rendendo difficile il ricorso a misure, come le manovre di tasso d’interesse, capaci di diminuire la pressione inflazionistica. Si faceva sempre più strada l’idea che “bisognasse mettere ordine prima in casa propria” limitando in primo luogo “l’interventismo statale in economia14”. Questo ragionamento, si basava quindi sull’ assunto che il deciso intervento nell’ economia contemporanea da parte dello stato, fosse alla base di tutte le distorsioni del mercato e dell’ incapacità di ripresa economica degli anni ‘70. Quando una nuova generazione di politici ed economisti, plasmati da queste idee, si fece largo nella gestione di istituzioni ed imprese, i risultati furono sconvolgenti. Nel 1980 la decisione di Volcker, nuovo presidente della Federal Riserve e fervente adepto delle teorie neoliberiste, di alzare a livelli astronomici i tassi d’interesse, generò il panico in tutte le economie. I PVS più esposti con il sistema bancario mondiale e con l’FMI, che negli anni ‘70 aveva tentato di pungolare la loro crescita, furono travolti da una violenta crisi del debito e furono costretti a rinegoziare il proprio debito con lo stesso Fondo, accettando in cambio le richieste di aggiustamento della propria struttura economica15. Con l’ ascesa della Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti, l’ agenda politica internazionale cambiò profondamente e “l’orizzonte delle politiche possibili si spostò” facendo si che “le forze e gli umori del mercato sostituissero i valori del passato nel guidare le politiche16”. Si passava in pochi anni, da sterili dibattiti sul futuro di un nuovo modello redistributivo a livello globale, una sorta di keynesismo mondiale, all’esatto contrario, 14 R Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, 2000 15 I programmi di aggiustamento strutturale comprendono tre tipi di misure: un’azione sulla domanda “mirante a ridurre le spese pubbliche e private di consumi ed investimenti” ed un azione sull’offerta per “aumentare le ricette pubbliche e private, favorendo la produzione”. Infine una terza misura, settoriale, al fine di modificare “ comportamenti e strutture in materia di prezzi, commercio e gestione delle imprese pubbliche” verso una maggiore liberalizzazione e per “incentivare le privatizzazioni” [A. M. Gentili, Il leone e il cacciatore, Carocci, 1995] 16 P. Gourevitch, La politica dei tempi difficili, 1988 11 un concentrato di deregulation finanziaria e ridimensionamento del ruolo dello stato a vantaggio delle “libere forze” del mercato. A questo punto sarà opportuno chiederci come accadde tutto ciò e qual è stato il ruolo della crisi nel determinare un cambiamento di rotta così radicale nei punti di vista e nelle scelte politiche. 1.4 Gli attori sociali di fronte alla crisi Nel momento del crollo del sistema di Bretton Woods e del patto sociale a esso collegato, nuove possibilità di gestione dell’ economia si affacciavano, mentre la protesta metteva in dubbio le capacità redistributive della struttura. In primo luogo vi fu l’emergere di movimenti antisistemici, in aperta critica sia col modello sovietico, sia con il modello di gestione sociale del capitalismo. Questi movimenti, formati da una nuova generazione di giovani e plasmati da nuove teorie neomarxiste, attaccavano duramente il socialismo reale dell’Unione Sovietica, in quanto traditore degli ideali rivoluzionari; l’URSS era inoltre accusata di aver aperto la strada a gestioni autoritarie dello stato, spiccando anche per una forte spinta imperialistica all’ esterno dei confini nazionali. Ma un attacco altrettanto violento fu quello portato avanti contro il keynesismo storico, accusato di essersi ridotto “a una dogmatica semplicistica che conveniva perfettamente alla socialdemocrazia dominante17”. Essa, per le analisi neomarxiste, permetteva quindi una gestione dell’accumulazione di capitale che era la più accettabile possibile. La sinistra “parlamentare”, colpita al cuore dalla critica dei movimenti di protesta e dai nuovi intellettuali radicali ed incapace di offrire risposte politiche forti alla crisi, iniziava un lento declino nella sua capacità di coagulare interessi diversi verso un unico obbiettivo. I partiti socialdemocratici rimasero arroccati a difesa dei resti del keynesismo storico o iniziavano, come in Gran Bretagna, una lenta, ma decisa marcia di avvicinamento alle posizioni dei loro avversari politici. Contemporaneamente alla crisi delle sinistre, anche il potere contrattuale della forza lavoro nei paesi più industrializzati declinò velocemente. La frattura tra forza lavoro e classe imprenditoriale divenne palese. Tutti i gruppi di imprenditori avevano accettato “ l’interpretazione secondo la quale i problemi internazionali erano causati da costi del lavoro, comportamento dei lavoratori, e dagli strumenti della regolazione che la forza lavoro aveva 17 S. Amin, Il capitalismo del nuovo millennio,2001, Edizioni Punto Rosso 12 sostenuto18”. Anche il settore agricolo iniziava a schierarsi contro i privilegi dei lavoratori del settore industriale. Così, sindacati e lavoratori furono costretti ad elaborare strategie difensive, a difesa di livelli salariali e servizi sociali. Anche l’emergere di capitali internazionali metteva i lavoratori di fronte a difficoltà enormi. Difatti, il fatto che questi capitali non erano più legati a basi nazionali, faceva sì che gli investimenti venissero selezionati su scala globale, alla ricerca dei maggiori guadagni a breve o medio periodo, portando ad un aumento della competitività tra i PVS ed un abbassamento degli standard minimi di tutela della forza lavoro anche nei paesi più industrializzati. La stessa internazionalizzazione dei capitali, portò anche una certa difficoltà dello stato nella gestione delle politiche economiche. In una situazione di cambiamenti così sconvolgenti, con i maggiori attori sociali impegnati a ridefinire le politiche economiche e con una ripresa che stentava ad arrivare, una nuova idea di economia, si affacciava strizzando l’occhio alle richieste degli imprenditori e del grande capitale internazionale. Le nuove teorie conservatrici prendevano spunto dall’idea che l’interventismo dello stato nel dopoguerra, sia stata la causa scatenante della crisi. Queste analisi, tendevano dunque ad una volontà di correzione della rotta sin qui tenuta, a vantaggio di una deregulation diffusa e di un estrema libertà del mercato di autoregolarsi. La base teorica di questo filone di pensiero nella politica economica internazionale fu la teoria Monetarista. I monetaristi partivano dall’ assunto che esistesse, a seconda del singolo stato, un tasso di disoccupazione naturale, dipendente dal tipo di struttura produttiva del paese. Partendo quindi dall’ assunto che l’inflazione fosse un fenomeno causato da eccessiva creazione di quantità di denaro da parte delle banche centrali, i tentativi di abbassare la disoccupazione gestendo la domanda aggregata, avrebbero portato solo ad aumenti dell’inflazione, senza miglioramenti significativi dal lato dell’occupazione. L’attacco era quindi portato al cuore del capitalismo sociale. La ricetta per uscire da questa situazione era solo quella di una banca centrale attenta negli aumenti dell’ offerta di moneta e nel contempo di smantellamento delle protezioni sociali, a tutto vantaggio delle idee basate sul bisogno di una ridefinizione delle legislazioni nazionali in materie di mercato del lavoro su nuovi standard, più flessibili e meno costosi per le imprese. La nuova destra, forte dell’appoggio delle èlite economiche e della disillusione degli abitanti dei paesi industrializzati, seppe quindi leggere o approfittare -a seconda delle opinionidella situazione, offrendo nuove parole d’ordine e nuove idee, che avrebbero permeato ben presto le società sia degli stati più forti, sia di gran parte di quelli più deboli. 18 P. Gourevitch, La politica dei tempi difficili 13 1.5 Le risposte alla crisi: imprese e stato Nei precedenti paragrafi abbiamo visto come l’instabilità crescente dei mercati e la concorrenza internazionale sempre più aggressiva, privarono dunque le imprese di quel quadro di certezze entro cui aveva potuto realizzarsi sino agli anni ‘60, una programmazione di lungo periodo, la cui redditività era fondata da espansione dei mercati e da produzioni di massa e standardizzate. Una prima strada, particolarmente battuta dalle grandi imprese americane, fu quella della conglomerazione. Formare una conglomerata, significava diversificare i propri investimenti, entrando od acquistando il controllo di aziende di settori diversi da quello in cui un’ azienda si era inizialmente specializzata. La forma conglomerata, fu, nella maggior parte dei casi, fallimentare. Infatti, la diversificazione in mercati e settori diversi “invece di riequilibrare i rischi, li cumulava” a causa del fatto che “ i rischi non nascevano da incidenti aziendali, ma dagli shock dell’ insieme dell’ economia19”. Una scelta aziendale rivoluzionaria, fu quella della forma organizzativa multinazionale. L’idea di base, era quella che, di fronte a mercati nazionali saturi, l’unico modo per ottenere economie di scala, fosse quello di allargare la visione produttiva, iniziando a produrre dei beni vendibili in più mercati simultaneamente. Collegata a questa strategia, vi era l’idea della necessità di estendere le attività in alcuni PVS, in particolare decentrando in questi paesi le attività ad alta intensità di lavoro, così da sfruttare l’enorme quantità di manodopera disponibile a bassi salari presente in questi stati. Nei primi anni ‘70, questo tipo di strategia, incontrò non pochi problemi, a causa sia di una situazione dei tassi di cambio a livello internazionale tutt’altro che stabile, sia a causa delle, peraltro legittime, pretese degli stati in via di sviluppo, di determinare politiche dei redditi non umilianti per i lavoratori delle controllate estere delle multinazionali. Nello stesso periodo, una nuova forma di produzione, legata alle tradizioni del passato e capace di reggere l’urto con i capricci di un mercato sempre più instabile e con consumatori dai gusti sempre più mutevoli, seppe approfittare delle nuove tecnologie, segnando l’inizio di una nuova epoca. In sostanza, grazie alla capacità di poter mutare rapidamente la produzione grazie allo sviluppo tecnologico, che ridusse enormemente i costi organizzativi e produttivi, si crearono le condizioni per il rilancio della piccola impresa, come nuovo tipo di unità produttiva, capace di 19 Piore/Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, Petrini editore, 1992 14 reagire in maniera migliore alle mutazioni del costo dei fattori e alle dinamiche del mercato. Nasceva un nuovo modello di produzione, il regime di specializzazione flessibile. Questo modello di sviluppo si basava sulla capacità dei produttori di modificare velocemente i loro prodotti in funzione della domanda di differenti gruppi di consumatori, utilizzando una forza lavoro altamente specializzata ed un metodo di relazioni di fabbrica informale e non sindacalizzato. Il tutto avveniva all’ interno “di comunità industriali20 che incentivavano le forme di competizione, favorendo l’ innovazione21”. L’enorme successo della specializzazione flessibile e delle regioni dove essa si era formata, creò altri problemi di gestione per gli stati. Pressati dall’alto nuovo capitale transnazionale ed incalzati ora dalle richieste di maggiore autonomia delle regioni in fase di crescita, le èlite dei paesi più industrializzati risposero in maniera molto diversa l’uno dagli altri. Il Giappone, riorganizzando la sua struttura produttiva, fu il vero protagonista della fine degli anni ‘70 e dei primi anni ‘80. L’ ascesa dell’export nipponico, essenzialmente formato da beni ad alto tasso di tecnologia a prezzi ragionevoli, travolse interi settori della produzione europea e statunitense.La chiave di tutto fu la razionalizzazione dei piccoli fornitori a monte, con la creazione di federazioni legate all’ assemblatore, ma indipendenti. Questa politica, voluta dal governo, iniziò i primi passi negli anni ‘50, creando una tradizione di innovazione permanente, che si rivelò molto utile negli anni della crisi. Unita al sistema del just-in-time, sviluppato negli anni settanta, e capace di ridurre le scorte di magazzino, la riorganizzazione produttiva fu la chiave di volta della crescita enorme del Giappone in questo periodo. Ma nell’area dell’est asiatico, nuove realtà si affacciavano con forza nel sistema economico mondiale. Quattro paesi, Singapore, Corea del Sud, Hong Kong e Taiwan, sperimentavano a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta, una crescita vorticosa dei propri indicatori economici, che fece quasi gridare al miracolo. L’aggressività insita nelle scelte di politica economica e la forza negli stati nel promuovere lo sviluppo nel nuovo quadro economico internazionale, fece si che questi paesi fossero definiti dagli analisti le tigri del sudest asiatico. Le tigri furono capaci di attirare i capitali transnazionali, tramite una politica di ristrutturazione delle proprie economie, seguendo i desiderata delle agenzie mondiali, 20 Geograficamente esso si concretizzava nei c.d. distretti industriali, zone dove storicamente era sempre esistita una struttura produttiva di tipo artigianale con vocazione verso specifici settori. Essa, nasceva in passato per servire la domanda locale, ma si sviluppava ora utilizzando il contesto locale di conoscenze e le innovazioni tecnologiche, per crescere ed interconnettersi in un segmento del mercato mondiale di un determinato prodotto. 21 Piore/Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, Petrini editore, 1992 15 riuscendo nello stesso tempo a guidare lo sviluppo con un sistema, denominato confuciano22 dagli studiosi, mutuato in gran parte dall’esperienza giapponese. All’ interno di questo gruppo di paesi, vi furono delle scelte differenti che andavano da quella di Singapore, consistente nell’attirare capitali ed investimenti stranieri senza tentare di creare una classe imprenditoriale nazionale, a quella della Corea, tutta tesa ad imitare il Giappone nel settori auto e hi tech. Ma tutte, in generale, furono capaci di levarsi di dosso il marchio di PVS e di entrare a pieno titolo nel sistema economico mondiale, partecipando alla divisione internazionale delle mansioni, come fornitori di manodopera a basso costo (Taiwan), come erogatori di servizi logistici e bancari (Singapore ed Hong Kong), o come produttore in serie sul modello del just-in-time (Corea Del Sud). Nello stesso periodo, il grande gigante cinese, a partire dal famoso discorso di Deng Xiaoping del 1974, iniziava a muovere i primi passi verso il sistema capitalistico. La nuova politica morbida degli USA, i primi ad intuire le potenzialità economiche della Cina, ed il susseguente ingresso all’ONU, anche come membro permanente al Consiglio di Sicurezza, spianarono la strada ad una prima, timida apertura nei confronti del capitalismo. Si posero così le basi per il tumultuoso sviluppo economico degli anni ‘90. In Europa Occidentale, L’Italia fu la grande protagonista, con un enorme crescita delle aree del sistema denominato NEC (nord-est centro), legate alla riscoperta del paradigma artigianale. L’enorme successo della specializzazione flessibile italiana, ottenuta inizialmente senza alcun intervento statale, cambiò l’ equilibrio istituzionale all’ interno del paese, ponendo le basi per un decollo delle amministrazioni locali come enti “che contribuivano attivamente alla creazione di uno spazio per un’ espansione innovativa23”. Anche la Germania Occidentale, seppur tra mille difficoltà, decise di porsi sul binario del recupero di un sistema che stava per essere abbandonato. Questa scelta, favorevole alla riorganizzazione del sistema delle piccole officine, tra le protagoniste dell’ industrializzazione tedesca nell’‘800, determinò la vittoria di una visione dello sviluppo dal basso, declinata dai singoli Laender, contro l’amministrazione centrale, convinta di poter ancora orientare lo sviluppo delle singole aree ad un livello più elevato. Al contrario, la Francia, con la vittoria elettorale nelle presidenziali del 1982 della coalizione di sinistra PSF-PCF, appoggiata da un blocco sociale molto vasto che andava dai 22 Il modello di sviluppo confuciano si basa su un tipo di industrializzazione export oriented, cioè basata sulle esportazioni, in antitesi con le vecchie strategie di sostituzione delle importazioni. La struttura istituzionale ( definita da Chalmers Johnson “developmental state”), pone lo sviluppo come obbiettivo primario da raggiungere. Esso è molto resistente alle pressioni dei gruppi forti, ed è sempre a stretto contatto con gli imprenditori per ciò che riguarda la definizione delle proprie politiche. 23 Piore/Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, Petrini editore, 1992 16 dipendenti e funzionari pubblici, agli operai delle grandi imprese, ai lavoratori delle aziende di proprietà dello stato, sceglieva di intraprendere la strada di un ritorno al dirigismo. La presidenza Mitterand, si caratterizzò inizialmente per una serie di iniziative allo scopo di aumentare le protezioni sociali per le classi più colpite dalla crisi. Nel contempo, si sceglieva di nazionalizzare le industrie dei settori strategici, così da poter orientare l’ economia nazionale verso un’ opzione di tipo neokeynesiana. Col governo Barrè, nel 1984, l’accordo con la base elettorale del biennio precedente, si sgretolò, determinando nuove scelte volte a modificare le legislazioni nazionali a vantaggio delle grandi imprese, facendo si che, nonostante vari tentativi, la scelta di uno sviluppo basato sulla specializzazione flessibile rimanesse una chimera. Nello stesso periodo, a livello internazionale, gli stati europei, consci delle difficoltà di affrontare un sistema così complesso, scelsero la via dell’ integrazione forte, allo scopo di “isolare l’ Europa dagli effetti devastanti delle politiche macroeconomiche americane” scegliendo di convergere “sulla stabilizzazione dei tassi di cambio, attraverso tassi relativamente fissi […] ed ancorando le monete al marco tedesco24”, trasformando la Bundesbank in una sorta di Banca Centrale Europea. Intanto, nei paesi anglosassoni, la rivoluzione conservatrice aveva portato al potere i due campioni del liberismo mondiale. In Gran Bretagna, l’elezione di Margareth Thatcher, aprì la strada ad un drastico ridimensionamento del ruolo dello stato nell’ economia. Il rimedio alla crisi economica, fu dunque quello richiesto a gran voce dai principali sostenitori del partito conservatore in quegli anni. L’alta finanza della City ottenne quindi politiche intese a favorire “diminuzione dei costi, crescita dei profitti, pressione sui salari, ed eliminazione dei sussidi e delle restrizioni all’economia25”. Inoltre, nonostante lo stato sociale non fu del tutto smantellato, molti furono i tentativi intesi a spostare fondi dalle politiche di protezione sociale a settori ”di maggior interesse nazionale”, in una simbiosi di liberismo e recrudescenze nazionalistiche. Negli Stati Uniti, la presidenza ottenuta da Reagan nel 1980, pose fine ad ogni tentativo di sostenere l’economia tramite politiche di sostegno alla domanda. Le ristrutturazioni nell’economia, portarono alla negazione dei programmi di assistenza sociale che avevano caratterizzato l’era Carter. I tagli al welfare state furono massicci, ma nonostante l’enfasi tutta liberista sui metodi di casa repubblicana (tagli al welfare più tagli alle tasse), in realtà l’era Reagan segnò il più grande deficit mai accumulato dagli Stati Uniti. Infatti, al contrario di ciò 24 R Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, 2000 26. P. Gourevitch, La politica dei tempi difficili, 1988 17 che si può credere, la “Reaganomics”, invece di tagliare le spese dello stato, cambiò semplicemente i destinatari dell’intervento. Si passava quindi, da politiche di stimolo sociale, a palesi aiuti all’ industria bellica. La giustificazione di una recrudescenza della guerra fredda, in realtà, mal copriva l’enorme bisogno d’ aiuto da parte dell’industria pesante americana, ancora troppo legata a sistemi di produzione di massa, ed incapace di intraprendere strade nuove. Nell’ambito delle politiche economiche internazionali, la grande superpotenza decideva ora di guardare ad est, alla grande regione dell’Asia-Pacifico, iniziando a comprendere i vantaggi derivanti dagli accordi regionali. In particolar modo, si avvantaggiarono della nuova collaborazione in Asia le imprese multinazionali, che iniziarono ad investire massicciamente in nuovi impianti, al fine di delocalizzare quelle produzioni dove l’ alto costo del lavoro negli USA aveva penalizzato interi settori industriali, alle prese con la terribile concorrenza dei manufatti a basso costo di paesi come Sud Corea e Messico. Nell’ambito delle risposte dei vari attori alla crisi, abbiamo visto come una serie di tendenze si siano affermate. La specializzazione produttiva, con la divisione internazionale del lavoro, aveva impresso una svolta epocale al modo d’intendere l’ economia. Il riemergere del paradigma artigianale organizzato ora in distretti, sfruttati anche dalle multinazionali come punti nel quale apprendere nuove tendenze della produzione, pose in essere un meccanismo dove i nuovi piccoli imprenditori vedevano in malo modo i sindacati e preferivano legare i salari alla produttività. La forza lavoro perdeva potere e l’ emergere di nuovi competitors aggravava la situazione. In questo quadro gli stati più forti risposero con un’enorme varietà di politiche, iniziando a guardare più alle possibilità di salvaguardare la propria posizione internazionale, che a pensare politiche nuove di collaborazione. Il liberismo permeava così tutti gli strati delle società, imponendo la propria visione dell’ economia e della politica. I PVS, in particolare quelli africani e quelli dell’ Asia Centrale, erano in tutto questo gli altri sconfitti dalla crisi: costretti ad abbandonare le chimere di sviluppo autonomo, furono obbligati ad accettare i diktat degli organismi internazionali, anch’essi ormai allineati al nuovo credo che iniziava a monopolizzare le scelte e le idee di politica economica. 18 • CAPITOLO II. IL CONTRIBUTO DI WALLERSTEIN ED ARRIGHI: CRISI SISTEMICA E CRISI DELL’EGEMONE 2.1 L’originalità dei contributi Per certi versi estramemente eterogenei, i contributi di Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi al dibattito sulle cause e le conseguenze della crisi degli anni settanta, sono accomunati da una forza dirompente capace di rompere gli edifici dell’analisi storica classica e dalla capacità di partire da lontano, al fine di abbandonare vecchi schemi dello studio storico per elaborarne di nuovi. Le analisi nascono dal comune obbiettivo di riformulare lo studio delle scienze sociali, ripartendo dalla riscoperta di un’analisi storico-comparativa capace di comprendere le congiunture ed i segnali provenienti dal passato al fine di rianalizzare le dinamiche del presente e di formulare ipotesi plausibili sugli sviluppi futuri. Entrambi gli autori riconoscono di dovere molto al pensiero di Fernand Braudel, storico francese tra i fondatori della scuola degli Annales ed uno dei primi storici ad interessarsi dello studio comparato. Braudel fu uno dei primi studiosi a scagliarsi contro il ruolo della storia ridotto ad evenementielle, un termine polemico con il quale intendeva “attaccare la pratica dominante degli storici, che concentrarono le loro energie sulla registrazione degli eventi a breve termine26”. A questa visione della storia, Braudel contrapponeva la storia della longue durèe. Essa, basata su una visione lunga della storia, costituì una teoria nuova, che partiva dalla analisi della storia structurelle, dove la struttura “è un sistema che impedisce alle variabili, le cui fluttuazioni costituiscono la congiuntura [l’histoire conjuncturelle, che si articola sulle trasformazioni lente della struttura], di elevarsi al di sopra di un certo livello massimo” poiché la struttura è solida per secoli, ma “il suo tempo è lento ed irreversibile27”. Così sia le intuizioni sulla configurazione dei sistemi storici di Wallerstein, che il metodo di approccio allo studio dei modelli storici di Arrighi, sono in debito con gli studi dello storico francese. Così l’analogia più importante tra i due autori è certamente quella che riguarda la comune volontà di rileggere la storia partendo da un metodo che cerca di “sfuggire al dato”, di 26 27 I Wallerstein, Le temps, la durèe et le tiers non exclu: Rèflexions sur Braudel et Prigogine, 1999 K. Pomian, voce “ciclo” dell’ Enciclopedia Einaudi, 1988 19 ricostruire, di avanzare ipotesi e spiegazioni, di rifiutare il reale così come è percepito, riprendendo l’insegnamento Braudeliano che la difficoltà dello storico che si accinge ad analizzare il presente consiste nel saper riconoscere dai fatti dell’ histoire événementielle i movimenti lunghi e profondi della storia che ci consentono di andare alla ricerca del rapporto tra le dimensioni economica, politica e culturale nell’evoluzione storica delle società. Ma, a questo punto, sarà utile far affiorare anche le differenze profonde tra i due autori, così da poterli meglio inquadrare. In primo luogo, una differenza sostanziale riguarda l’approccio di studio. Infatti, l’analisi di Wallerstein tende ad offrirci uno sforzo di comprensione del reale molto più alto di quello di Arrighi, che si limita ad una rilettura analitica delle dinamiche economico-sociali degli ultimi cinque secoli, alla luce dei modelli da egli stesso proposti. Al contrario, Wallerstein tende a dimostrarsi più “sociologo”, nel senso in cui la sua prospettiva incorpora una serie di elementi, come la dialettica liberalismo- democrazia e le indagini sulla formazione della scienze sociali nel diciannovesimo secolo, che portano a seconda dei punti di vista, o ad una maggiore completezza descrittiva o ad una maggiore spinta teorico-costruttiva. Così, l’analisi di Wallerstein si concentra sullo sviluppo dei sistemi storici ed in particolare sul sistema-mondo capitalistico, inteso come un unico mondo connesso da una complessa rete d’interscambi economici e caratterizzato dalla dicotomia capitale-lavoro e dalla lotta per l’accumulazione di capitale. Tentando di far convergere tutti i suoi sforzi sull’analisi delle dinamiche interne e sui meccanismi evolutivi (ritmi e tendenze) dell’economia-mondo capitalistica, Wallerstein punta molto a ricercare le relazioni che intercorrono all’interno del sistema. Inoltre, obbiettvo deliberato di Wallerstein è quello di tentare un’inversione rispetto ai modelli di lavoro dei saperi sociali istituzionalizzati, alla ricerca di una nuova elaborazione del sapere. L’analisi di Arrighi nasce invece dalla ricerca comparativa su di una serie di elementi economici, politici e sociali. Questo approccio tende ad offrire un modello ricorrente in cui l’elemento chiave è l’aumento della spinta finanziaria internazionale, che fa da spartiacque tra un’epoca di egemonia di uno stato o gruppi di stati ed un’altra. Così, utilizzando lo strumento del confronto con il passato ci offre una prospettiva illuminante sull’evoluzione in corso, pur non facendo luce su tutti gli aspetti delle ere di transizione. Soprattutto, la prospettiva di Arrighi non comprende un’analisi dei sistemi storici nella sua complessità: egli è vicino per certi versi alla prospettiva sistema-mondo, ma non è da quella prospettiva che egli trae la spinta propulsiva determinante per lo sviluppo del suo modello. 20 Come vedremo, molte sono in sostanza le differenze anche profonde tra le prospettive analitiche di questi due studiosi, ma c’è anche qualcosa che li unisce: la spinta verso la ricerca di nuove strade da percorrere, all’interno di una rilettura comune dove il ruolo dei nuovi movimenti antisistemici nella fase caotica in cui per entrambi ci troviamo ora e ci troveremo in futuro a vivere, diventa un punto fondamentale per influenzare positivamente il divenire. Inoltre, è di fondamentale importanza, per comprendere il contributo di questi studiosi, capire come i due –a dire il vero Wallerstein più di Arrighi- abbiano operato con i loro studi una rottura con il paludato panorama delle scienze sociali così com’erano fino agli anni sessanta del novecento, portando ad una salutare scossa a tutto l’ambiente ed inserendosi come portatori di un pensiero autonomo e, per certi versi, addirittura radicale. Pur con notevoli differenze, entrambi hanno dato valore alla crisi degli anni settanta, portando un’estrema innovazione interpretativa, che porta addirittura “dilatare” i tempi della crisi, rendendola tutt’oggi presente ed attuale. 2.2 Wallerstein: Crisi e biforcazioni La prospettiva dell’ economia-mondo, nasce in aperta polemica con le scienze sociali, così come si sono formate nel diciannovesimo secolo. E’in questo periodo, infatti, che si avvia un processo di organizzazione dei saperi accademici, il cui compito era quello di giustificare la fase di egemonia inglese, utilizzando lo strumento del liberalismo. La base di partenza della critica alle scienze sociali nate nell’‘800, è quindi l’operare del liberalismo verso una certa organizzazione dei saperi sociali in cui politica, economia e cultura, erano analizzate come tre sfere, in larga misura autonome, dotate ciascuna di leggi particolari. Questa logica, secondo Wallerstein, si riverberò sulla costituzione del complesso dei saperi accademici, dando vita a materie differenti. Così, la scienza politica divenne l’unica titolare dell’analisi su tutto ciò che riguardava gli affari politici, e la scienza economica l incaricata ad analizzare l’economia. Si formavano anche la sociologia, come contenitore di ciò che non era né politico né economico, e l’antropologia, per lo studio delle culture più lontane dalla produzione accademica del centro capitalistico. In questo contesto, gli studi storici erano utilizzati come “spiegazione del particolare, per come esso è realmente accaduto nel passato” delegando alla scienza sociale “la formulazione di quel sistema universale di regole che spiega il comportamento umano/sociale28”. 28 I. Wallerstein, La scienza sociale: come sbarazzarsene, Il Saggiatore, 1995 21 Questo tipo di divisione disciplinare, fece cadere una coltre di nebbia sullo studio della realtà effettiva. L’idea dell’ irreversibilità del progresso, la descrizione di un capitalismo capace di autoregolarsi e non bisognoso di aiuti da parte del settore pubblico, lo stato-nazione come unità di analisi di base in tutti gli studi: : tutto ciò, permeando movimenti, istituzioni, popoli, generò una situazione che ebbe l’effetto “di chiudere l’accesso, anziché aprirlo, a molti dei più interessanti ed importanti problemi29” Alla visione dominante le scienze sociali dalla metà del secolo scorso, Wallerstrein oppose un nuovo modo di vedere le cose. Il punto di partenza è una prospettiva di lunga durata che nasce dallo studio dei sistemi storici, entità autonome e temporalmente limitate, in cui è presente una trama di processi economici, politici, culturali, intrecciati tra loro a mantenere insieme il sistema. La prospettiva sistema-mondo prese certamente spunto dagli studi sui sistemi viventi di un fisico belga di origine russa, Ilya Prigogine. La sua analisi partiva dall’assunto che i sistemi fisici stabili, di matrice newtoniana, non costituissero che una piccola parte della realtà fisica. Esistevano quindi dei sistemi instabili30, i quali non seguivano sempre la via più semplice. Così, il funzionamento della macchina-natura era ora dovuto alla complessità dei processi a carattere irreversibile. Questi concetti, furono ripresi per spiegare la non linearità e la complessità dei sistemi storici. Così, lo studio della storia diviene studio delle strutture storiche, i sistemi-mondo, i quali storicamente si sono presentati sotto forma di imperi-mondo, dotati di una struttura dominante centralizzata e di un forte apparato burocratico, o di economie-mondo, prive di singole strutture di dominio. Nella prima parte della storia gli imperi-mondo sembravano essere più forti delle economie-mondo, le quali gravitavano spesso intorno ai primi, prima di essere spesso assorbite dagl’imperi. Ma intorno al 1500, “avvenne qualcosa di strano: la forza relativa della forma economia-mondo e quella di impero-mondo, conobbero un’inversione” cosicché, una particolare economia mondo, costituitasi in Europa Occidentale, “sopravvisse, e fu dunque in grado di servire come contesto per il pieno sviluppo di un modo di produzione capitalistico31”. 29 I. Wallerstein, La scienza sociale: come sbarazzarsene, Il Saggiatore, 1995 30 Il concetto chiave introdotto nell’ analisi sitemica da Prigogine, fu quello di struttura dissipativa. Ciò aiutò per la prima volta a comprendere il comportamento dei sistemi ad equilibrio instabile per ciò che riguarda il grado di apertura/chiusura nei confronti degli stimoli esterni. Così i sistemi interagiscono con i flussi di energia esterni e, pur producendo entropia (cioè disordine secondo l'interpretazione classica), sono capaci di autostrutturarsi acquisendo una forma di organizzazione interna. Questa forma resiste fin quando il sistema non è più capace di ritrovare un equilibrio a causa dell’ azione dei flussi di energia nei tempi lunghi. 31 I. Wallerstein, La scienza sociale: come sbarazzarsene, Il Saggiatore, 1995 22 Il moderno sistema mondo, nasce quindi come economia mondo capitalistica, nel corso del lungo sedicesimo secolo, in Europa Occidentale. La sua originaria divisione del lavoro includeva parte dell’ Europa ( ma con l’esclusione degli imperi Russo ed Ottomano) e parte delle Americhe. Esso nel corso degli anni ha segnato sì una crescita come sistema, ma questa crescita non è stata lineare. Al contrario, la crescita del sistema in questione “mostra un carattere ciclico e questa configurazione ciclica è costitutiva dell’economia-mondo” poiché “la spinta all’accumulazione perpetua che la caratterizza crea della contraddizioni tali che la sua crescita non può essere perfettamente lineare32”. Così l’incessante accumulazione di capitale genera delle contraddizioni, basate sul fatto che ciò che è giusto fare per ottenere l’obbiettivo a breve termine di un’ulteriore accumulazione di capitale, esula dalla possibilità di conseguire lo stesso obbiettivo nel medio periodo. Queste contraddizioni sono alla base dell’esistenza di ritmi ciclici, i più importanti dei quali sono chiamati cicli di Kondratieff33, dal nome dell’economista russo degli anni venti che per primo formulò l’ ipotesi dell’ esistenza di cicli di 45-60 anni nell’ economia capitalistica. Così, i cicli ascendenti (Fasi A di Kondratieff) sono fasi di espansione dell’ economia mondo; al contrario, i cicli discendenti (Fasi B) sono periodi di ristrutturazione e riorganizzazione del sistema. Ma l’esistenza di un andamento ciclico non comporta stabilità della struttura. Difatti, non esiste un punto di equilibrio stabile, poiché i ritmi ciclici, derivanti dalle scelte degli accumulatori di capitale in una fase storica, non sono perfettamente simmetrici, determinando al contempo le tendenze secolari, le quali null’altro sono se non le conseguenze sul lungo periodo delle soluzioni adottate. Le tendenze secolari, “definite come tendenze monotone nella storia del sistema-mondo capitalistico”, sono sia tendenze in numeri assoluti che in “proporzioni relative, tali che la crescita comporti il movimento verso un asintoto34”. Ed ecco, che nel momento in cui la crescita percentuale ha un limite finito, si crea il problema dell’asintoto, ovvero di quel punto in cui “non è più possibile, per i ritmi ciclici, riportare il sistema in equilibrio”,aprendo la strada “alla crisi terminale35” del sistema. 32 Wallerstein, Hopkins et al., Cyclical rhitms and secular trends in the capitalistic world-economy, FBCpapers,1996 33 Kondratieff ipotizzò l’esistenza di fluttuazioni di lungo periodo, della durata di 45-60 anni, basandosi su parametri quale prezzi, tassi d’interesse, produzione. Da qui pervenne alla tesi secondo cui il capitalismo possiede dei meccanismi regolatori capaci di rigenerare il sistema in crisi; questi andavano dalle guerre alle scoperte minerarie all’ estensione geografica. Il limite delle sue analisi è dato dal fatto che esse esistono in maniera certa dal periodo della rivoluzione industriale. Così, anche per lo stesso Wallerstein, è difficile capire con certezza l’esistenza di questi cicli nei periodi precedenti la prima industrializzazione. 34 Wallerstein, Hopkins et al., Cyclical rhitms and secular trends in the capitalistic world-economy, FBCpapers,1996 35 Wallerstein, Globalization or the age of transition, FBC papers, 1997 23 In questo quadro, anche il ruolo svolto dagli stati viene ad essere completamente diverso da quello descritto dal pensiero liberale. Utilizzando lo strumento delle ideologie, gli stati affermano il loro ruolo fondamentale nel mettere a freno le ansie di riforma delle popolazioni. Lo stato nel sistema-mondo diviene il protettore degli interessi di parte degli accumulatori di capitale, rendendo possibili semi-monopoli in determinati settori e periodi, al fine di elevare il livello dei profitti dei capitalisti. Le relazioni interstatali diventano così il luogo delle relazioni tra le potenze centrali, impegnate nella lotta per il controllo delle aree periferiche e per la conquista dell’ egemonia. Così, nel momento in cui una potenza è nettamente superiore alle altre per tecnologia e capacità di accumulazione, si generano dei cicli di egemonia, con un’alternanza tra ascesa, vittoria e maturità egemonica di uno stato centrale nei confronti degli altri, e di declino dell’ egemonia, con nuovi competitors che si affacciano in un conflitto con la vecchia potenza, poiché “il vantaggio tecnologico è di per sé soggetto a scomparsa attraverso emulazione” e i salari reali delle produzioni ad alta tecnologia “sono soggetti a crescita endemica36”, allo scopo di mantenere alta la produzione. Gli stati più deboli, infine, vengono ad essere un punto di fondamentale importanza per il sistema. Assunti a periferie di quest’ultimo, essi forniscono nuova manodopera a bassi livelli salariali (nuova proletarizzazione), al fine di mantenere alti i profitti, particolarmente nei periodi di crisi. Per ciò che riguarda la crisi avvenuta negli anni ’70, comprendiamo subito come Wallerstein tenti una rilettura delle vicende che vada oltre i singoli avvenimenti e cerchi d’inscrivere il periodo storico all’interno delle dinamiche proprie dell’economia-mondo. Vista da questa prospettiva il ‘67/’73 diviene un punto di fondamentale importanza per l’economiamondo; così, la tesi che Wallerstein insieme al suo gruppo di studio vogliono sviluppare, è che gli accadimenti di quel periodo siano ascrivibili a problemi strutturali del sistema nel suo insieme. “[Una] possibilità è che quei nuovi fenomeni, che hanno cominciato a essere ben visibili negli anni settanta, ma che a nostro avviso non possono essere analizzati semplicemente come il riflesso di una normale fase B di Kondratieff o dell’ inizio di un declino egemonico, si rivelino sufficientemente significativi e imponenti da non rendere più ragionevole attendersi che il sistema continui a funzionare più o meno nello stesso modo, con solo alcuni adeguamenti37”. 36 37 Wallerstein, Hopkins et al., Cyclical rhitms and secular trends in the capitalistic world-economy, FBCpapers,1996 Wallerstein-Hopkins, L’era della transizione, Asterios, 1997 24 L’economia mondo, nel corso del XX secolo, ha assistito all’ascesa di un nuovo egemone38, gli Stati Uniti, che, liberatisi dalla concorrenza tedesca nel corso della guerra dei trent’anni (il periodo 1914/1945), ha detenuto un enorme potere nell’immediato dopoguerra. Questa superiorità si è espressa in una volontà di apertura dei mercati, scelta tipica degli stati in fase di egemonia. Di questa politica di apertura graduale e di diffusione delle tecnologie si avvantaggiarono in particolar modo l’Europa Occidentale ed il Giappone, ponendo le basi dello sviluppo di un sistema interstatale che favorì la ricostruzione europea e giapponese. L’aumento acuto della domanda mondiale, causato oltre che dal ruolo USA, anche dalle politiche redistributive susseguenti la crisi degli anni ‘30 e la guerra, relativamente alle zone centrali del sistema, diede il via ad una nuova fase A del ciclo di Kondratieff. In questa dinamica di crescita, lo schema di contrapposizione classico di quegli anni, la guerra fredda USA-URSS, riveste un ruolo marginale. Per Wallerstein, questa fu in realtà un esercizio molto controllato di forza, dietro il quale si nascondeva il vantaggio per entrambe, di poter tenere sotto controllo i propri alleati con maggiore efficacia. Nelle zone centrali del sistema mondo, si assistette quindi ad un’elevata crescita; anche una parte della periferia ne era interessata, ma in misura minore, rappresentando essenzialmente una crescita riflessa di quella delle regioni centrali. Sempre nelle periferie, dopo il 1945, si faceva intensa la lotta di liberazione nazionale, caratterizzata da una visione di lungo termine delle popolazioni e delle organizzazioni coinvolte: obbiettivo finale era partecipare alla redistibuzione di capitale da cui ora erano escluse. Sul finire degli anni ‘60, nel momento in cui l’ offerta di beni iniziò ad essere superiore alla domanda degli stessi nei paesi centro, il trend s’invertì: “i profitti della produzione scesero considerevolmente dai livelli ai quali si trovavano nella precedente fase A39”, determinando l’inizio di una lunga fase B, nella quale siamo tuttora immersi. Ciò portò ad una serie di conseguenze tipiche delle fasi di contrazione del sistema, come alta disoccupazione, inflazione nei paesi centro, lieve riduzione del gap economico tra centro e periferia. e delocalizzazione industriale verso le periferie del sistema, a causa degli alti costi di manodopera al centro, e della diffusione tecnologica, che aveva posto fine ad importanti monopoli e semimonopoli. 38 Per Wallerstein, l’egemonia è il risultato della convergenza di posizioni dominanti in vari settori economici. Dallo studio delle tre egemonie del sistema mondo moderno (olandese, britannica e statunitense), emerge una scansione delle posizioni dominanti in cui le imprese residenti incrementavano il loro margine di profitto “prima nella produzione agroindustriale, poi nel commercio, infine nella finanza”; l’egemonia si riferisce quindi “a quella sorta d’intervallo in cui il vantaggio è presente simultaneamente nei tre ambiti economici”[I. Wallerstein, Alla scoperta del sistema mondo, Manifestolibri, 2003] 39 Wallerstein, Globalization or the age of transition, FBC papers, 1997 25 Inoltre, una serie di fattori che emersero nel periodo ‘67/’73, come l’ instabilità valutaria, la crisi fiscale dello stato egemonico, l’emergere di nuovi poli decisionali, erano sintomatici dell’ inizio del declino dell’ era egemonica americana. Ciò è del tutto naturale, poiché, di solito ”il punto di svolta di un ciclo egemonico coincide con quello di un ciclo di Kondratieff40”. Ma a questo punto, secondo l’ipotesi di Wallerstein, l’economia mondo non si ritrova semplicemente alle prese con una fase di contrazione, ma ha a che fare con dinamiche più profonde, capaci di minare alla base le capacità di accumulazione degli attori del sistema. L’analisi parte quindi dallo studio delle differenze tra questa fase di crisi dell’ accumulazione e le precedenti fasi. In primo luogo, bisogna soffermarsi sul declino di alcuni ambiti istituzionali, vettori al cui interno ha avuto luogo l’agire sociale. Individuati sei di questi ambiti – sistema interstatale, produzione mondiale, forza-lavoro mondiale, il sistema del welfare, coesione sociale, saperi sociali-, e compreso in che misura il declino di questi vettori sia da ascrivere semplicemente alle difficoltà tipiche che le istituzioni incontrano nelle fasi di contrazione, Wallerstein individua delle dinamiche di lungo periodo, le quali descrivono una traiettoria che chiaramente indica la possibilità che la moderna economia mondo capitalistica si stia avvicinando alla sua crisi terminale. Una prima tendenza che emerge è quella della perdita di legittimità delle strutture statali come titolari esclusivi delle dinamiche di costruzione delle identità nazionali e degli spazi politici. Accollandosi i costi infrastrutturali, intervenendo nel mercato per sostenere la formazione di monopoli e quindi di alti guadagni per i capitalisti, lo stato è stato il maggiore strumento utilizzato nella lotta per l’accumulazione. Rendendo, all’ inizio del ventesimo secolo “le classi originariamente pericolose, il proletariato urbano dell’ Europa Occidentale e del Nord America, non più dannose41”, lo stato liberale garantì la coesione sociale, utilizzando la chimera dell’ accesso più equo alla redistribuzione delle ricchezze. Ma dietro a tutte le affermazioni basate sul riformismo liberale, si nascondeva una realtà semplice quanto inquietante. Nei fatti, il successo del programma liberale nei paesi centro “dipendeva da una variabile nascosta: lo sfruttamento economico del Sud, combinato al razzismo nei confronti del Sud42”. Così, a partire dal 1919, si tentò di esportare questa formula all’interno del sistema interstatale (sotto forma di autodeterminazione più sviluppo per il Sud), ma, proprio a causa dell’ impossibilità di dare accesso alla redistribuzione del reddito al Sud senza compromettere l’accumulazione al centro, esso si arenò. 40 I. Wallerstein, Alla scoperta del sistema mondo, Manifestolibri, 2003 41 I. Wallerstein, State? Sovereignty? The dilemmas of capitalist in an age of transitino, FBC papers, 1997 42 I. Wallerstein, Alla scoperta del sistema mondo, Manifestolibri, 2003 26 Con le proteste scoppiate a partire dal 1968, la capacità dello stato di indirizzare ideologicamente i suoi cittadini, fu messa seriamente in discussione. Nel sistema si assisteva ad una “trasformazione delle geoculture” a causa “della perdita di speranza delle masse popolari nel riformismo liberale e nei suoi avatar a sinistra43”. Nelle periferie del sistema, le stesse popolazioni che avevano appoggiato i ceti politici in lotta per l’indipendenza, prendevano ora le distanze da quest’ultimi, accusandoli di non essere riusciti ad agganciare il treno dello sviluppo. In definitiva, un paradigma multisecolare, quello della sovranità statale, entrava in una fase difficile, caratterizzata anche dal crollo del secolarismo e dalla crisi del dogma liberale, da sempre puntelli ideologici indispensabili delle scelte statali. In secondo luogo, in un quadro di difficoltà generalizzata delle istituzioni del sistema mondo, alcuni trend secolari emergono come possibile ulteriore elemento di disturbo al funzionamento del sistema stesso. Tre curve sembrano infatti approssimarsi all’ asintoto, legate alla gestione mondiale della forza lavoro, all’ emergere dell’ istruzione di massa, ai rischi ambientali. In primis, lo sviluppo in risposta alla crisi degli anni ‘70, della percentuale dei lavoratori avita-lavorativa-parziale, rispetto ai classici lavoratori proletarizzati, ha accentuato una tendenza da sempre presente nel sistema, “la non-universalizzazione del processo di proletarizzazione”. Negli anni ‘70 e ‘80, questa tendenza si è presentata nei paesi centro, con un ricorso sempre più massiccio al lavoro delle donne e degli immigrati. Nelle periferie, si è palesata invece con un aumento massiccio del ricorso all’economia informale. Il tutto in un quadro di sviluppo di sistemi di reti produttive locali, con forte vocazione allo sfruttamento di queste fascie di lavoratori ed inclini alla localizzazione produttiva anche in aree rurali. In sostanza si osserva quindi “un appiattimento della variazione del grado di proletarizzazione, rispetto alle differenze centro-periferia ed urbano-rurale44”. In sostanza, la corsa verso la flessibilità come nuovo paradigma lavorativo,ha provocato “una rottura radicale con i modelli del passato, sia recente che lontano45”. A causa di questa dinamica, in un futuro non molto prossimo sarà sempre più difficile giocare la carta della proletarizzazione della forza lavoro di riserva. In secondo luogo, la generalizzazione dell’istruzione a livello globale, ha indebolito le dinamiche di gerarchizzazione (più studio, più ascesa sociale), minando uno dei maggiori stabilizzatori del sistema. 43 I. Wallerstein, State? Sovereignty? The dilemmas of capitalist in an age of transitino, FBC papers, 1997 44 Wallerstein-Hopkins, L’era della transizione, Asterios, 1997 45 F. Tabak in: L’era della transizione, Asterios, 1997 27 Infine, le politiche di esternalizzazione dei costi da parte delle imprese, sono rese più difficili a partire dagli anni ‘70 dall’ emergere di un movimento ecologista che punta il dito contro sprechi e crescente inquinamento. Infatti, l’enorme aumento dello sfruttamento delle risorse ambientali negli ultimi due secoli, ha portato ormai in molti a considerare oltrepassata la soglia di sfruttamento possibile del Pianeta. A questo problema è connesso quello del come porre fine agli sprechi e all’inquinamento. Ciò ha un costo elevatissimo, che né gli stati, né le imprese vogliono accollarsi. In particolare, la soluzione di una internalizzazione dei costi connessi alla salvaguardia dell’ ambiente “potrebbe avere una pressione sui margini di profitto incredibilmente alta46”. Il periodo a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, lungi dal rappresentare semplicemente una fase discendente del ciclo di Kondratieff, si presenta quindi come prima spia dei malesseri strutturali del sistema nel suo insieme. La crisi dei saperi sociali “liberali” e del liberalismo nel suo complesso come collante ideologico delle masse, la minore capacità di presa sulle popolazioni dello stato-nazione, il problema degli asintoti della forza-lavoro mondiale, dell’istruzione e dei problemi connessi all’ambiente, sono quindi le problematiche aperte da questa fase. A questo punto, è lecito attendersi un futuro per il sistema veramente difficile. La fase B di Kondratieff, iniziata nel 67’/73’, rappresenta un punto di svolta, poiché, sulla base della analisi sin qui svolta, il sistema è, secondo Wallerstein, vicino alla sua crisi terminale. La crisi di un sistema storico, è il momento in cui il sistema si ritrova in una situazione in cui non è più possibile un ritorno ad un equilibrio, a causa dell’ incedere delle sue tendenze verso un limite. È a questo punto che il sistema, ritrovatosi lontano dall’ equilibrio comincia a biforcare. Dall’ inizio delle biforcazioni in poi, è possibile asserire che il sistema è in crisi, aprendo la strada ad un periodo caotico, dal quale emergerà un nuovo, o dei nuovi, sistemi storici. La tesi proposta, è quella secondo cui, noi saremmo già immersi nella crisi ultima del sistema. Le biforcazioni, rappresentano quindi un punto nella quale vi sono due o più soluzioni , due o più strade alternative tra le quali sarà possibile scegliere il sistema storico ( o i sistemi storici) del prossimo futuro. Dovremo attendere quindi, nel prossimo futuro, l’acutizzarsi della crisi sistemica. Questa crisi sarà caratterizzata dall’ inizio di una nuova fase A di crescita. Assisteremo ad una lotta per l’ egemonia, probabilmente all’ interno della triade Europa - Giappone - Stati Uniti,con le ultime due probabilmente alleate sia per motivi geopolitica e geoculturali che per motivi di mera opportunità. Ma, sullo sfondo di questa sfida, il sistema nel suo insieme sarà incapace di mantenersi stabile, poiché la crisi sistemica interferirà seriamente con la traiettoria. Ci 46 Wallerstein, Globalization or the age of transition, FBC papers, 1997 28 troveremo di fronte ad un periodo di grandi disordini sociali, al centro come nelle periferie. In particolare, il crollo del programma liberale e la susseguente inarrestabile ascesa della democratizzazione47, porterà un aumento della pericolosità delle classi sociali escluse. Ciò si tradurrà al centro come in periferia, in una lotta della classe media per rimanere tale, ed in una sempre maggiore tendenza all’ identificazione in gruppi, siano essi etnici, religiosi o di altra natura, che contribuiranno in misura notevole all’ instabilità delle strutture statali. Assisteremo quindi ad oscillazioni strutturali sempre più intense della struttura, ed anche piccoli avvenimenti potranno influenzare sensibilmente l’andamento della crisi ( una dinamica che Wallerstein definisce come “amplificazione del rumore sordo”). Ma ciò che è infine certo, è che secondo questa prospettiva, in un futuro non molto lontano, non ci ritroveremo più nel sistema mondo che attualmente si sta sgretolando. “Certo, al caos sistemico seguirà un nuovo ordine o nuovi ordini. Non è possibile conoscere in anticipo quale sarà questo nuovo ordine. E’ solo possibile affermare ciò che noi volemmo che fosse, e lottare per renderlo tale.48” 2.3 Arrighi: Transizione egemonica Lontano per certi versi dalla visione offerta da Wallerstein, Arrighi certamente s’inserisce nel dibattito sulle dinamiche della crisi degli anni settanta con un’analisi che esula dagli schemi classici. Con tutte le maggiori letture del Novecento, l’economista condivide l'opinione che la crisi economico-sociale apertasi negli anni Settanta abbia avuto valore periodizzante rompendo definitivamente il sistema commerciale e monetario internazionale sorto nella prima metà del secolo e consolidatosi dal secondo conflitto mondiale in poi attorno all'egemonia americana. Tuttavia, diversamente dalla maggior parte delle proposte interpretative disponibili, per Arrighi quella crisi di egemonia non costituisce un fatto senza precedenti nella vicenda dello sviluppo capitalistico ma presenta al contrario molte delle caratteristiche proprie dei periodi di transizione da un ciclo di accumulazione capitalistica ad un altro susseguitesi nei secoli passati 47 Secondo Wallerstein liberalismo e democrazia sono in gran parte termini contrari:. Così, il liberalismo fu “inventato” in risposta alla democrazia, per contenere le classi sociali più pericolose, concedendo un minimo accesso alla redistribuzione senza intaccare l’ accumulazione. La democrazia, al contrario, è “ il diritto di partecipare al sistema dei benefici socioeconomici” ed è “sinonimo di antiautoritario” [I. Wallerstein, Alla scoperta del sistema mondo, Manifestolibri, 2003] 48 Wallerstein-Hopkins, L’era della transizione, Asterios, 1997 29 Arrighi punta i fari sull’ esistenza di transizioni egemoniche. Così, il mutamento strutturale è intimamente legato al ruolo di quegli stati o gruppi di stati, i quali nel corso dei secoli abbiano avuto al capacità di centralizzare al loro interno le capacità sistemiche,costruendo catene di merci e catene ideologiche, di cui loro fossero emanazione e punto nodale. Il caos sistemico è quindi figlio “del fatto che l’incremento nel volume e nella densità dinamica del sistema, a un certo punto supera la capacità organizzativa del particolare blocco egemonico che aveva creato le condizioni dell’ espansione sistemica49”. In sostanza, ogni apparato che ha storicamente detenuto le principali leve del potere globale in un determinato periodo storico, è destinato a soccombere sotto i colpi delle dinamiche di cui esso stesso aveva favorito la creazione. Lo schema proposto, prevede l’esistenza di periodi di espansione sistemica sotto la guida dell’egemone, a cui fanno seguito periodi di caos sistemico, dal quale emergerà un nuovo ordine. L’evoluzione e la definizione del sistema, per Arrighi non è segnata tanto dalle infrastrutture e/o dai processi innovativi di cui esso si serve (tecnologie, modo di produzione, forza lavoro) quanto dal tipo di attività economica che di volta in volta si mostra più idonea all'accumulazione di capitale: attività manifatturiera, commercio, finanza. Proprio quest'ultima risulta l'elemento più ricorrente e tipico di ogni stadio di transizione da un regime di accumulazione ad un altro: tanto più nei momenti di eclissi e transizione da un'economia mondo ad un'altra manifestatisi in età moderna. Il modello offertoci dall’ economista, , descrive uno schema ricorrente, basato sui vari passaggi dall’ egemonia, al caos, alla nuova egemonia. Ma questo modello descrive anche uno schema in evoluzione, “poiché ogni nuova egemonia porta una maggiore concentrazione di capacità organizzative e un maggior volume e una più alta densità del sistema rispetto all’ egemonia precedente50”. Le ondate di espansione economica sono quindi l’elemento tipico di ogni epoca di transizione. Esse si formano, dal punto di vista della domanda, in seguito all’aumento della liquidità finanziaria, causata dalla sovraccumulazione di capitale nei settori produttivi,a sua volta frutto dell’aumento della competizione intercapitalistica. Nello stesso tempo, dal lato dell’offerta, si assiste ad un aumento della competizione tra organizzazioni territoriali, allo scopo d’intercettare la maggior parte dei capitali accumulati dai mercati finanziari. Sul piano politico, questa dinamica “tende ad essere associata con l’emergere di una nuova configurazione del potere” che mina irrimediabilmente “la capacità dello stato egemonico in 49 Arrighi – Silver, Caos e governo del mondo,Bruno Mondatori Editore, 2003 50 Ibidem 30 crisi di portare a suo vantaggio l’intensificazione della competizione nel sistema51”. Allo stesso modo, la diminuzione degli investimenti produttivi sfocia sul piano sociale in un percepito aumento del disagio ed in una intensificazione dei movimenti di protesta. Per ciò che riguarda la storia dell’ economia moderna, Arrighi individua tre periodi di transizione egemonica: dall’ eclissi della città stato italiane nel tardo ‘500, alla crisi del sistema olandese nel XVII secolo, alla fine dell’ egemonia britannica a cavallo tra ‘800 e ‘900. A partire dagli anni settanta, è questa la tesi di Arrighi, l’ economia mondiale si trova di fronte alla quarta transizione egemonica, segnata dal declino degli USA e da consistenti cambiamenti dello scenario mondiale, che interessano tanto le strutture statali, tanto le imprese, tanto l’ambito sociale e culturale. “L’espansione finanziaria globale degli ultimi vent’anni circa non è né un nuovo stadio del capitalismo mondiale, né il prodromo di un imminente egemonia dei mercati globali. Piuttosto, è il segno più chiaro che ci troviamo nel bel mezzo di una crisi egemonica.52.” Il punto di partenza dell’ analisi di Arrighi è quindi l’espansione di commercio e attività produttive nei periodi di egemonia da parte di una struttura statale. I benefici della riorganizzazione del sistema e la conseguente spinta all’emulazione, portano nel medio periodo ad un aumento delle rivalità interstatali. E’ evidente che in questa situazione l’aumento della concorrenza nei settori produttivi, porta gli accumulatori di capitale ad una scelta drastica: essi, infatti, tendono a stornare una parte sempre più cospicua del proprio capitale da attività commerciali ed industriali ad attività di tipo finanziario, ingrossando le fila della speculazione internazionale. Questo modello può chiaramente essere rinvenuto sia nelle passate transizioni sia in quella attuale. Infatti, nel corso degli anni settanta, il capitale eccedente “fu canalizzato in direzioni tali –prestiti ai paesi semiperiferici e periferici e speculazioni sul mercato monetario- da incrementare ulteriormente le pressioni competitive, l’incertezza sul commercio e nella produzione mondiali53”. Questa situazione si sviluppò all’interno di un aumento della competizione USA- URSS, in particolare nel periodo di presidenza Reagan. Difatti, gli USA, mediante “un aumento dei tassi d’interesse reali sui mercati finanziari”, riuscirono a venire in soccorso al dollaro debole ed a “sfruttare la linea di credito apparentemente illimitata54” per intensificare la corsa agli armamenti, nel corso di quella che è stata definita da Fred Holliday 51 Arrighi, Tracking global turbulence, New left review, springs 2003, XX 52 Arrighi – Silver, Caos e governo del mondo,Bruno Mondatori Editore, 2003 53 Arrighi, Workers of the world at century’s end, New left Review, summer 1996, XIX,3 54 Arrighi, Globalization, state sovereignity, and the “endless” Accumulation of capital, FBC papers, 1997 31 “la seconda guerra fredda”. Ma la vittoria sull’Orso sovietico ebbe un costo enorme, poiché il combinato keynesismo militare- taglio delle tasse, porto il debito USA a livelli astronomici, fornendo “al capitale eccedente interno ed estero uno sbocco più sicuro di quello che si era venuto a creare all’inizio dell’espansione finanziaria55”. Con il problema del debito estero americano, è possibile analizzare un’altra analogia con i passati periodi di transizione, basata sul decremento lento ma inesorabile delle capacità di controllo del sistema da parte della potenza egemone. Infatti, come nelle transizioni passate, ed in particolar in forte analogia con il tramonto dell’egemonia britannica, gli Stati Uniti erano inizialmente riusciti a volgere a proprio vantaggio l’intensificazione della competizione interstatale, raccogliendo i frutti della propria egemonia. Ma nel lungo periodo, la fortissima spinta inflazionistica, ha sicuramente spinto l’America in una crisi che ha minato le capacità di controllo sul sistema. La trasformazione degli USA da grande creditore a primo debitore del sistema mondiale, è il segnale del declino della loro supremazia finanziaria, a tutto vantaggio delle regioni mondiali attualmente in ascesa. Anche le nuove concezioni sull’organizzazione d’impresa, sono per Arrighi un interessante spunto di analisi sui periodi di transizione. Vista da questa prospettiva, la crisi giunge nel momento in cui la monopolizzazione di settori ad alto valore aggiunto diventa costosa a causa della spinta che il successo di queste pratiche porta con sé nel far emergere nuovi competitori. Così, il successo della formula organizzativa delle grandi imprese fordiste negli Stati Uniti già alla fine del diciannovesimo secolo, basata sull’ utilizzo di strumenti d’integrazione orizzontale (fusioni, acquisizioni, associazioni) allo scopo di contenere entro certi ambiti la concorrenza e garantire lauti guadagni, spinse il governo americano verso la creazione in Europa “di uno spazio politico- economico grande a sufficienza da permettere al capitale statunitense di godersi una seconda giovinezza oltreatlantico56”. In sostanza, l’esportazione del modello multidivisionale e multinazionale portò ampi margini di guadagno alle industrie americane, poiché esse furono le prime ad operare su scala globale. Questo tipo di strutturazione delle attività imprenditoriali divenne il modello che si tentava d’imitare in tutto il mondo, sino al punto in cui “un crescente numero di aziende europee aveva trovato il modo di far fronte efficacemente alla sfida, diventando competitive anche nel mercato statunitense”, rendendo possibile un aumento della competizione tra imprese e “una nuova metamorfosi del sistema d’imprese dominante57”. Da questa nuova situazione un nuovo modello alternativo, 55 Arrighi, Workers of the world at century’s end, Review, summer 1996, XIX,3 56 Arrighi – Silver, Caos e governo del mondo,Bruno Mondatori Editore, 2003 57 Arrighi – Silver, Caos e governo del mondo,Bruno Mondatori Editore, 2003 32 caratterizzato dalla sua informalità e da un’alta flessibilità organizzativa, iniziò ad emergere tra gli anni settanta ed ottanta. Così, nuove regioni molto più pronte a gestire un modello produttivo completamente opposto a quello precedente, si affacciano nell’arena economica internazionale, proponendosi come nuove poli di accumulazione in forte ascesa. Così si spiega quindi l’enorme crescita dell’Asia Sud Orientale come centro più dinamico dell’accumulazione a partire dalla fine degli anni settanta, in un quadro di crisi generale sia dell’egemone statunitense sia dei competitori europei. “Dopo seicento anni in cui i “doni” della storia e della geografia fecero dell’ occidente la principale sede del capitalismo mondiale, sembra ora che la(e) civiltà(e) dell’Asia Orientale si trovino in una posizione migliore per avvantaggiarsi di quest’ultima svolta nella spinta organizzativa del capitalismo mondiale.58” La spettacolare ascesa della regione dell’Asia Orientale come “officina del mondo” e contenitore della liquidità mondiale, lungi dall’essere figlia semplicemente di scelte momentanee da parte degli accumulatori, è quindi il segno più tangibile dell’attuale periodo di cambiamento nei rapporti di forza all’interno del capitalismo mondiale. Il configurarsi di questa nuova situazione, porta però con sé una serie di dinamiche nuove e tutte da interpretare per comprendere i futuri sviluppi degli assetti di potere mondiali. In primo luogo, l’emergere dell’Asia Orientale nel corso dell’ ultimo trentennio, sembra per la prima volta portare ad una inversione dei rapporti di forza a favore di una regione non occidentale. Difatti, se nelle passate transizioni un elemento di continuità era che il ruolo di egemone passava sempre da mani occidentali ad altre mani occidentali, oggi assistiamo ad un probabile passaggio ad un’altra area geoculturale. Già sul finire degli anni sessanta, il Giappone, uno dei principali motori della rinascita Orientale, aveva intrapreso la via di un tumultuoso sviluppo sotto la protezione dell’ombrello militare americano. Sul finire degli anni settanta, in contemporanea con una delle fasi più acute della crisi americana, era già chiaro come “la relazione di vassallaggio politico ed economico del Giappone nei confronti degli Stati Uniti, si era trasformata in una relazione di mutuo vassallaggio 59”, con il Giappone intento a comprare titoli di debito americani al fine di mantenerne l’apparato militare. Nello stesso periodo, anche la Cina sceglieva di rientrare nei circuiti dell’economia mondiale, basandosi sull’accordo tra i quadri dirigenti del PRC e la diaspora d’oltremare cinese: il PRC 58 Arrighi, Workers of the world at century’s end, Review, summer 1996, XIX,3 59 Arrighi, Globalization, state sovereignity, and the “endless” Accumulation of capital, FBC papers, 1997 33 offriva l’immenso serbatoio di forza-lavoro, mentre la diaspora finanziava lo sviluppo delle aree costiere. Così, “già dalla metà degli anni ottanta, il ruolo guida delle compagnie giapponesi nella formazione delle reti regionali d’impresa fu affiancata, ed in alcune aree strategiche sorpassata, dalle attività della diaspora cinese d’oltremare60”. Il sud-est asiatico e la Cina in particolare, dimostrarono quindi la loro enorme capacità di attrarre investimenti nel quadro del nuovo paradigma produttivo.Ma a questo punto, per Arrighi, un altro elemento in evoluzione interviene a rendere particolare questa transizione. Infatti, la crisi porta con sé un forte indebolimento delle capacità regolatrici anche degli stati più forti. Questo, “è il frutto più peculiare dell’egemonia statunitense” ma anche “un fattore di primaria importanza nelle tendenza all’informalizzazione61”. Questo poiché la risposta alla crisi da parte delle grandi corporations americane, è stata quella di affidarsi ai sistemi di reti come valvola di sfogo su cui decentralizzare la produzione, aumentando, invece di diminuire, il controllo complessivo sul mercato. Questo sistema, inizialmente espansosi sotto la spinta giapponese, è di fatto la chiave di lettura dell’attuale emergere dell’Asia Orientale, in un contesto di “concentrazione senza centralizzazione”, dove il potere economico non è ancora sotto il pieno controllo di accumulatori di capitale locali, in dissonanza con le passate transizioni, in cui il capitale locale degli stati in ascesa aveva maggior controllo sulle dinamiche produttive. Tutto ciò va ascritto all’interno di un quadro in cui, a livello di sistema interstatale, si presenta una nuova e diversa configurazione del potere non presente , anzi in contrasto, con le precedenti transizioni. In passato, uno dei passaggi fondamentali nell’ascesa di un nuovo egemone era sempre stato “la fusione del potere finanziario e militare mondiale nella giurisdizione dell’egemonia in ascesa”; al contrario “la transizione attuale si è risolta in una fissione delle due fonti del potere mondiale sotto diverse giurisdizioni62”. Così, la biforcazione del potere militare e finanziario, si configura come la vera anomalia geopolitica e finanziaria della transizione attuale. Storicamente, la tendenza alla massima concentrazione della forza militare in un numero sempre minore di stati si è fatta man mano più forte nel corso dei secoli. Così, nel momento in cui aumentavano dimensione, raffinatezza tecnologica, intensità di capitale investito negli apparati militari impegnati in un conflitto, diminuiva il numero degli stati capaci di simili sforzi. Tendenza già presente nel passaggio dall’egemonia olandese a quella britannica (basti 60 Arrighi, The Rise of East Asia and the Withering Away of the Interstate System, FBC papers, 1997 61 Arrighi – Silver, Caos e governo del mondo,Bruno Mondatori Editore, 2003 62 Arrighi – Silver, Caos e governo del mondo,Bruno Mondatori Editore, 2003 34 pensare alla netta superiorità della flotta di sua maestà su tutte le altre), divenne più forte nel passaggio all’egemonia USA. Con lo sviluppo degli armamenti nucleari e dei primi programmi spaziali, “le capacità militari globali divennero un effettivo duopolio di Stati Uniti ed Unione Sovietica63”. Così, nel momento in cui l’URSS non riuscì più a rispondere in maniera efficace all’enorme sforzo finanziario e militare profuso dagli Stati Uniti nel corso della seconda guerra fredda, crollando economicamente e politicamente, l’equilibrio nella corsa agli armamenti lasciò il posto all’unipolarismo americano. Come corollario, anche i principi di Westfalia, ovvero i concetti di sovranità dello stato e di balance of power, furono accantonati, anche qui dopo un lungo processo storico. Già nel diciannovesimo secolo la Gran Bretagna era riuscita a creare un sistema di divisione mondiale del lavoro basato su di essa, aprendo la strada ad un ciclo di auto rafforzamento basato sul colonialismo e l’espansione politico-economica, violando così i principi di Westfalia, per ciò che riguarda gli stati extraeuropei, e dando il via al processo d’industrializzazione della guerra. Successivamente, con la fine della seconda guerra mondiale, con la creazione delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti (e in subordine l’Unione Sovietica) riaffermarono solo formalmente la sovranità64, ma utilizzando la loro superiorità nelle reciproche sfere d’influenza, svuotarono di significato il principio di uguaglianza, configurando una nuova autorità sovrastatale “che restringeva giuridicamente la sovranità di tutti, ma non degli stati più potenti65”. Così, l’URSS s’impose nel controllo di una regione –l’Europa Orientale-, mentre gli Stati Uniti s’imposero come superpotenza a livello globale, affermandosi come perno del sistema finanziario (con la conferenza di Bretton Woods) e delle politiche di sicurezza collettiva (con gli accordi regionali come la NATO, l’ANZUS ed altri). Con il crollo sovietico del 1989, l’unica superpotenza militare globale si ritrovava ad essere anche il più grande debitore 63Ibidem, 64 2003 In particolare, Arrighi si riferisce all’articolo 2 paragrafo 1 della Carta delle Nazioni Unite, che sancisce che “L’organizzazione è fondata sul principio della sovrana eguaglianza di tutti i suoi membri”. Ma, per l’autore, in un epoca di accentuata tendenza alla centralizzazione delle capacità politico-militari , è evidente come il potere maggiore tendeva ad esprimersi al di là e al di sopra dei principi legali, in misura della propria superiore capacità, attraverso “restrizioni fattuali imposte dai due stati preminenti […] nelle proprie rispettive e reciprocamente riconosciute sfere d’influenza”. [Arrighi, Globalization, state sovereignity, and the “endless” Accumulation of capital, FBC papers, 1997] 65 Arrighi, Globalization, state sovereignity, and the “endless” Accumulation of capital, FBC papers, 1997 35 mondiale, mentre “stati che sono arrivati a controllare la quota più grande della liquidità mondiale (a parte il Giappone) non sono nemmeno degli stati nazionali66”. Concludendo, il modello illustrato da Arrighi ci invita a riflettere su un’analisi storicocomparata, sottolineando la continuità di una serie di problematiche sempre presenti nei periodi di transizione egemonica. Le ondate di espansioni finanziarie sono il perno intorno al quale si snodano una serie di dinamiche, come i cambiamenti nella struttura produttiva e l’emergere sullo sfondo della crisi dell’egemonia declinante, di un nuovo apparato statuale capace di centralizzare in sé le capacità sistemiche. Allo stesso modo, una serie di tendenze nuove intervengono a rendere diversa questa crisi egemonica. La fissione tra potere militare e potere economico, lo sviluppo di un sistema d’imprese basato sulla concentrazione senza la centralizzazione, lo spostamento del baricentro del potere economico verso oriente: tutti questi elementi sono caratteristici di questa transizione, ed è ad essi che l’autore intende far riferimento per comprendere le possibili evoluzioni future del sistema mondiale. Al contempo sarà fondamentale seguire una nuova tendenza che caratterizza la società contemporanea: un’accelerazione della storia sociale. Ciò perché rispetto alle crisi egemoniche passate, in cui l’intensificazione delle rivalità interstatali “precedette e modello a fondo l’intensificazione del conflitto sociale” , nel corso della attuale transizione è stato proprio l’intensificazione del conflitto sociale che “precedette e modellò a fondo l’intensificazione delle rivalità tra grandi potenze67”. Quindi bisognerà tenere presente che la perdita di potere dei movimenti sociali a partire dagli anni ’80 in poi, è stato un fenomeno in larga misura congiunturale, a cui probabilmente seguirà una nuova ondata di conflitti sociali che vedranno “l’emergenza di un movimento operaio mondiale in cui donne e gente di colore avranno un peso maggiore ed un’influenza di gran lunga più grande di quello avuto in passato68”. In definitiva, le variabili fin qui analizzate, saranno sicuramente in grado di giocare un ruolo fondamentale nella ridefinizione degli assetti di potere di un sistema che nel prossimo futuro vedrà probabilmente l’Asia Orientale in generale, e Cina in particolare, nel ruolo di perno fondamentale del sistema mondiale. La probabile caduta degli stati occidentali, prigionieri di un modello di sviluppo che ha fatto la loro fortuna in passato e che oggi non possono abbandonare senza causare disordini sociali al loro interno, sarà in gran parte subordinata alla capacità statunitense di non “trasformare la loro potenza egemonica in una dominazione sfruttratrice69”. 66 Arrighi – Silver, Caos e governo del mondo,Bruno Mondatori Editore, 2003 67Ibidem, 2003 68 Arrighi, Workers of the world at century’s end, Review, summer 1996, XIX,3 69 Arrighi, Tracking global turbulence, New left review, springs 2003, XX 36 In questo senso, molto importante sarà la gestione del cambiamento in atto nell’equilibrio di potere tra civiltà occidentali e non occidentali: entrambe le parti dovranno essere conscie del proprio ruolo e consapevoli che il ruolo delle contraddizioni sociali sarà ben più decisivo che nel passato nell’ incidere profondamente sia gli sviluppi della crisi di transizione, sia qualunque nuovo ordine che alla fine emerga dall’incombente caos sistemico, in particolar modo proprio nei nuovi centri dell’ economia mondiale in Asia Orientale. “Quanto drastica e dolorosa sarà questa trasformazione, […] dipende in definitiva da due condizioni: in primo luogo, quanto intelligentemente i centri principali della civiltà occidentale saranno capaci di adattarsi ad una posizione meno dominante; e, in secondo luogo, se i centri principali della riemergente civiltà imperniata sulla Cina, sapranno collettivamente mostrarsi all’altezza del compito di fornire soluzioni a livello di sistema ai problemi lasciati in eredità dall’egemonia statunitense70” 70 Arrighi – Silver, Caos e governo del mondo,Bruno Mondatori Editore, 2003 37 Conclusioni Proponendosi come prosecutori ideali dell’opera braudeliana ed adottando un approccio storico-comparato, caratterizzato da una visione di lunga durata, Wallerstein ed Arrighi certamente si segnalano per l’originalità delle loro prospettive di analisi e per la forte critica di fondo che emerge nei confronti del capitalismo storico. La prospettiva dell’economia-mondo, portata avanti da Wallerstein, si basa sullo studio del capitalismo come sistema storico, caratterizzato dalla spinta verso l’accumulazione di capitale e dotato di una serie di meccanismi che ne garantiscono una certa evoluzione, attraverso il perpetuarsi di contraddizioni che determinano uno sviluppo di tipo ciclico, con l’alternanza di cicli espansivi e cicli di contrazione. Il sistema diventa quindi l’unità di analisi, il vero oggetto di studio. Dato che un sistema nasce e si sviluppa per poi scomparire, anche l’economia-mondo capitalistica è soggetta a scomparsa. Quando il sistema non è più capace di contenere le proprie contraddizioni interne, esso entra in crisi. La parola crisi, quindi, acquista in questa prospettiva un significato particolare, ossia di quel momento in cui il sistema entra nella sua fase terminale. Così, da un’analisi comparata dei cicli del sistema, Wallerstein segnala come le turbolenze degli anni settanta siano il segnale di una crisi del sistema nel suo complesso, che ci porterà al crollo del sistema stesso e alla nascita di uno o più nuovi sistemi storici. Diversamente, il modello offertoci da Arrighi si basa sullo studio dei tipi di attività economica ritenuti di volta in volta più idonei all’accumulazione di capitale, segnalandoci come i periodi di transizione da un regime di accumulazione ad un altro (ognuno dei quali associato ad una potenze egemone) siano caratterizzati da uno spiccato aumento delle attività finanziarie, a causa dell’ aumento della competitività manifatturiera e commerciale, sviluppatasi in seguito all’aumento della concorrenza nei confronti dell’egemone. L’analisi comparata con le precedenti transizione, porta Arrighi a considerare la crisi degli anni settanta come l’inizio della transizione verso un nuovo regime di accumulazione ed un nuovo egemone. Da quanto scritto, è evidente come l’approccio di Wallerstein risulti molto più complesso di quello di Arrighi. Wallerstein, infatti, si muove in una prospettiva che partendo dall’individuare le strutture storiche che sostengono i processi di crescita del sistema, si 38 allarga a rileggere dal punto di vista dell’economia-mondo, tutte le dinamiche tipiche di questo sistema, portando ad un livello di complessità elevatissimo lo studio del sistema. Al contrario, Arrighi si muove su di un campo molto più ristretto, e pur non rigettando in toto la prospettiva sistemica, si concentra sullo sviluppo di un modello di analisi comparativa capace di rendere comprensibile il mutamento in atto, concentrandosi in larga parte sullo studio delle dinamiche economiche, pur non tralasciando gli aspetti riguardanti l’evoluzione dei movimenti sociali, ma evitando decisamente l’unità d’analisi spazio-temporale rappresentata dall’economia-mondo. Ovviamente, da approcci così differenti non possono non scaturire delle ipotesi sulle evoluzioni future completamente diverse. Nella prospettiva dell’economia-mondo, i giorni futuri saranno caratterizzati da una forte intensificazione della competizione economica tra gli stati più forti al fine di assicurarsi una posizione di egemonia, il tutto in una situazione in cui il fallimento del programma liberale di contenimento delle classi più pericolose sarà oramai palese. Ciò avverrà però sullo sfondo della fase terminale del sistema storico economia-mondo, caratterizzata da oscillazioni strutturali sempre più intense e dal caos sistemico, dal quale sorgerà un nuovo ordine. Ciò comunque non significa che dalla crisi scaturirà necessariamente una catastrofe. Il significato della crisi è certamente da inquadrare all’interno di una dialettica che lo porta ad interrogarsi sulle alternative storiche presenti in un mondo caotico in transizione sistemica. Per ciò che riguarda il modello descritto da Arrighi, i prossimi anni saranno caratterizzati dall’acutizzarsi della crisi dell’egemone declinante e dalla contemporanea ascesa dell’Asia Orientale come principale sede dell’accumulazione di capitale. In questo quadro, molto peseranno i problemi di gestione dell’economia mondiale a causa di una serie di nuove configurazioni del potere non presenti in passato. In particolare, la biforcazione potere militare- potere economico e il cambiamento dell’equilibrio di potere tra mondo occidentale e Asia orientale,renderanno molto più difficile la gestione della transizione da parte delle elite politico-economiche, pressate anche dalla spinta dal basso dei movimenti antisistemici. Ovviamente, se è forte la differenza tra i due modelli, è pur vero che molti sono i punti di contatto. 39 In primo luogo, per entrambi la crisi degli anni settanta ha un valore altissimo, rappresentando un passaggio fondamentale, caratterizzato dall’emergere di una serie di dinamiche che, rilette alla luce delle proposte dei due autori, diventano portatrici di segnali che indicano con chiarezza l’approssimarsi di cambiamenti profondi. Inquadrando in una prospettiva di lunga durata le dinamiche del sistema capitalistico, essi tendono ad inglobare gli ultimi trent’anni della storia mondiale, guardandolo come un unico periodo omogeneo di transizione, dal quale dovrà venire alla luce nel lungo periodo una risistemazione profonda delle istituzioni cardine del nostro Pianeta, attraverso un cambiamento della configurazione geopolitica del potere mondiale, come sostiene Arrighi, oppure grazie al crollo dell’attuale sistema storico e all’edificazione di uno nuovo, come sostiene Wallerstein. Infine, all’interno di questo periodo di transizione, entrambi danno importanza alle strategie dei movimenti antisistemici come agenti del cambiamento in questa fase di transizione. Con il Sessantotto questi nuovi movimenti, caratterizzati dalla presenza di soggetti sociali e politici estranei alla tradizione del movimento operaio rivoluzionario teorizzato dai marxisti, sono per la prima volta venuti fuori, contestando allo stesso modo capitalismo e socialismo reale, e sperimentando forme organizzative ed associative nuove. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica i movimenti anti-sistema si sono trovati di fronte a condizioni inedite di azione politica: sia per Arrighi che per Wallerstein il ruolo che sapranno svolgere nel prossimo futuro, potrebbe essere anche determinante. 40 BIBLIOGRAFIA Amin S., Il capitalismo del nuovo millennio,2001, Edizioni Punto Rosso –pp. 37-73 Arrighi G./Silver B., Caos e governo del mondo,Bruno Mondatori Editore, 2003 Gourevitch P., La politica dei tempi difficili, 1988- pp. 5-76; 230-306 Gilpin R. Le insidie del capitalismo globale, 2000- pp.13-106 Gentili A. M., Il leone e il cacciatore, Carocci Editore, 2002- pp. Piore M./Sabel C., Le due vie dello sviluppo industriale, Petrini editore, 1992 Pomian K., voce “ciclo” dell’ Enciclopedia Einaudi, 1988, pp.1092-1144 Wallerstein-Hopkins, L’era della transizione, Asterios, 1997 Wallerstein I., La scienza sociale: come sbarazzarsene, Il Saggiatore, 1995 Wallerstein I., Alla scoperta del sistema mondo, Manifestolibri, 2003 PAPERS DEL FERNAND BRAUDEL CENTER: Arrighi G., Globalization, state sovereignity, and the “endless” Accumulation of capital, 1997 Arrighi, The Rise of East Asia and the Withering Away of the Interstate System, 1997 Wallerstein I., Le temps, la durèe et le tiers non exclu: Rèflexions sur Braudel et Prigogine, 1999 Wallerstein, Hopkins et al., Cyclical rhitms and secular trends in the capitalistic world-economy, 1996 Wallerstein, Globalization or the age of transition, FBC papers, 1997 Wallerstein I., State? Sovereignty? The dilemmas of capitalist in an age of transition ,1997 SAGGI DA “NEW LEFT REVIEW”: Arrighi, Workers of the world at century’s end, Review, summer 1996, XIX,3 Arrighi, Tracking global turbulence, New left review, springs 2003, XX SITI INTERNET CONSULTATI: www.binghampton.edu/fbc www.ilmanifesto.it/lemondediplomatique 41 INDICE INTRODUZIONE……………………………………………..2 CAPITOLO I: Inquadramento storico…………………………4 1.1 Ricostruzione…………………………………………….4 1.2 Funzionamento del sistema……………………………....6 1.3 L’avvento della crisi: una sintesi degli avvenimenti……..8 1.4 Gli attori sociali di fronte alla crisi……………………...12 1.5 Le risposte alla crisi: impresa e stato……………………14 CAPITOLO II 2.1 L’originalità dei contributi………………………………19 2.2 Wallerstein: crisi e biforcazioni…………………………21 2.3 Arrighi: transizione egemonica………………………….29 CONCLUSIONI………………………………………………38 BIBLIOGRAFIA………………..…………………………….41 42