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® CSAM - 25121 BRESCIA, VIA PIAMARTA 9 • Poste Italiane S.p.A - Sped. D.L. 353/03 (conv. L. 27/02/04 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Brescia - contiene I.P. Esperienze di dialogo interreligioso DO S S I E R Film e missione Tra memoria e futuro www.saveriani.bs.it/missioneoggi Sommario n. 5/2009 Mensile dei Missionari Saveriani dal 1903 al 1978 Fede e Civiltà Direttore Mario Menin Redattori Mauro Castagnaro, Franco Ferrari, Federico Tagliaferri Segreteria Salvatore Leardi Gruppo redazionale Michele Agosti, Giusy Baioni, Michela Bono, Maria Teresa Cobelli, Domenico Cortese, Roberto Cucchini, Flavio Dalla Vecchia, Lydia Keklikian, Piero Lanzi, Fausto Piazza, Marino Ruzzenenti, Anna Scalori, Gabriele Smussi, Franco Valenti, Annachiara Valle Hanno collaborato a questo numero Cesare Fabbris e Maria Letizia Giacometti, Fabrizio Tosolini, Stefano Vecchia, Mauro Castagnaro, Edgardo Lander, Marco Bertoni, Federico Tagliaferri, Lino Ferracin, Fiorenzo Raffaini, Maria Grazia Piredda, Franco Sottocornola, Giampiero Alberti, Paulin Batairwa, Yusuf Daud, Antonio Sottocornola, Marco Dal Corso Direzione Via Piamarta, 9 - 25121 Brescia Tel. 0303772780 - Fax. 0303772781 www.saveriani.bs.it/missioneoggi E-mail:[email protected] 3 Editoriale Assisi... e Gerusalemme pellegrinaggi di pace 4 Lettere L’importanza dell’annuncio (C. Fabbris e M.L. Giacometti) e missione 5 Parola Paolo e le sue Chiese (Fabrizio Tosolini) fatto e il commento 7 Il L’India alle urne (Stefano Vecchia) sul futuro 11 Interviste Luci e ombre della rivoluzione bolivariana (Edgardo Lander) di Missione Oggi 14 Campagne Pressione alle banche armate e sviluppo 15 Comunicazione Ciad: una radio per chi non ha parola (Marco Bertoni) 17-32 | DOSSIER Film e missione tra memoria e futuro a cura di Federico Tagliaferri e Fiorenzo Raffaini Amministrazione e abbonamenti Centro Saveriano Animazione Missionaria (C.S.A.M.) Via Piamarta, 9 - 25121 Brescia Tel. 0303772780 - Fax. 0303772781 [email protected] Abbonamenti Italia Europa Extra Europa Un numero separato € 26,00 € 36,00 € 44,00 € 3,00 Missione Oggi è stampata interamente su carta riciclata. C.C.P. 11820255 intestato a Missione Oggi Via Piamarta, 9 - 25121 Brescia Grafica: Enzo Chisacchi / Paolo Mabellini Realizzazione: D.G.M. / Brescia Stampa: Squassina / Brescia ISNN 0392-6389 Editore: Centro Saveriano Animazione Missionaria CSAM - Soc. Coop. a R.L., Via Piamarta 9, 25121 Brescia, n. 50127 in data 19-2-1993. Direttore Responsabile: Marcello Storgato. Registrato al Tribunale di Parma n. 399 del 7-3-1967 e missione 33 Concilio Tensione missionaria e identità sacerdotale (Franco Sottocornola) il convegno 35 Verso Milano, una Chiesa in dialogo (Giampiero Alberti) Il dialogo interreligioso a Taiwan (Paulin Batairwa) Il dialogo interreligioso a Giacarta (Yusuf Daud) e inculturazione 43 Missione Il “Kimoci” cultura delle sfumature (Antonio Sottocornola) libro al mese 47 Un “Il muro di vetro” (Marco Dal Corso) Foto di copertina: Donne di fede musulmana in dialogo con le Carmelitane del monastero di Sassuolo (Mo). FOTO/Gruppo “Camminare Insieme”- Fiorano/Sassuolo (Mo). Foto di apertura dossier: Bangladesh: padre Agostino Carlesso dietro la macchina da presa, 10 novembre 1994 - 26 gennaio 1995. FOTO/Archivio Videomission - CSAM (Bs). editoriale Assisi... e Gerusalemme pellegrinaggi di pace Q Missione Oggi | maggio 2009 AFP /SANTIAGO LYON ualche settimana fa il noto scrittore cattolico, Vittorio Messori dalle pagine del “Corriere della Sera” (20 aprile 2009) ha definito “parate sincretiste” gli incontri di preghiera per la pace di Assisi, voluti e realizzati da Giovanni Paolo II: il primo, il più celebre, il 27 ottobre 1986; l’ultimo nel 2002, dopo il tragico attentato alle Torri Gemelle di Nuova York. Sembra che le ragioni di questa stroncatura postuma di Assisi siano due: una, più superficiale, riguarda la spettacolarizzazione wojtyłana di momenti religiosi, che, stando a Messori, rischiano di trasformarli in vuote sfilate di moda, in “parate” appunto; l’altra, più profonda, riguarda il convenire di rappresentanti di religioni diverse per pregare per la pace, che, sempre stando al saggista cattolico, corrisponderebbe a forme “sincretiste” di religione che fanno perdere ai cristiani il senso della Chiesa e di Gesù Cristo. In questa stroncatura di Assisi mi sembra che non si tenga sufficientemente conto della motivazione prima di quegli incontri, la ricerca della pace. L’Onu aveva proposto il 1986 come “anno internazionale della pace” e il Papa voleva associarvisi suscitando “un movimento mondiale di preghiera per la pace” che, superando le frontiere delle nazioni e unendo i credenti di tutte le religioni, arrivasse ad abbracciare il mondo intero. Se la guerra poteva essere decisa da pochi, la pace, secondo Giovanni Paolo II, presupponeva l’impegno di tutti, cristiani e non cristiani. E Assisi, la città del Poverello, aveva un alto valore simbolico, addirittura per i non credenti: offrire al mondo la prova che le religioni sono al servizio della pace. L’unico spettacolo che il Papa voleva offrire al mondo era quello dello stare insieme, per pregare, sulla base della convinzione che la pace è un dono di Dio più che un’opera dell’uomo. Forse è sfuggito a Messori, sempre così puntuale nelle sue analisi, che negli incontri di Assisi i rappresentanti delle diverse religioni non hanno mai pregato insieme, “sincretisticamente”, ma si sono trovati insieme per pregare ciascuno – in spazi e/o tempi diversi – con le formule della propria tradizione religiosa, nel rispetto dell’identità di ogni fede. Addirittura nel 2002, per evitare qualsiasi pericolo di sincretismo, sono state prese delle precauzioni particolari. Così solo i cristiani hanno pregato nelle chiese di Assisi, gli altri hanno avuto a loro disposizione degli spazi nei conventi dei francescani, al riparo da curiosi indiscreti. Se è vero che l’intenzione di Giovanni Paolo II nell’invitare i responsabili religiosi ad Assisi era quella di prolungare e interpretare la lettera e lo spirito del Vaticano II – la Chiesa è “il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” –, bollando così negativamente tali incontri non si rischia di censurare lo stesso Concilio? E che cosa dire allora del prossimo viaggio del Papa in Israele, Palestina e a Gerusalemme? Sappiamo quanto sia incerta la situazione politica dell’area e quanto siano fragili le prospettive di pacificazione. Ma il Papa si mette in cammino ugualmente, per parlare di pace e perché l’odio lasci finalmente il passo alla riconciliazione. Commentando la “grande preghiera” di Assisi, Giovanni Paolo II ebbe a dire: “O impariamo a camminare insieme in I pace e armonia, o andiamo alla deriva verso la rovina nostra e degli altri”. 3 lettere in redazione A PROPOSITO DI ANNUNCIO C SIAMO RIMASTI... ANNUNCIATI C arissimo Mario, stimolati dal tuo... corso di missionologia, vinciamo la pigrizia e l’impreparazione, per una risposta all’editoriale di MO 3/2009 sull’annuncio. Siamo una coppia di laici bolognesi tra i pochi che si occupano dell’argomento specifico: culto, catechesi, caritas, la fanno da padroni ovvero sono più gettonati. Abbiamo appena terminato una missione popolare chiamati da un raro prete che si fida di laici che parlano di Gesù (è un caso dieci anni fidei-donum in Tanzania?). Accompagnati da seminaristi del 4°-5° anno del Seminario Regionale, anche questo è un esperimento interessante, in 15 giorni si è entrati in decine di famiglie per... l’annuncio. Che Dio ti vuol bene per quello che sei, che il tuo peccato di auto-sufficienza non ti permette spesso di capirlo, che nell’incontro personale con Gesù puoi aprire gli occhi, che per dargli fiducia devi conoscerlo meglio leggendo la Scrittura, sembra scontato e scolastico, ma non è così. Entrando in queste semplici case popolari del quartiere S. Donato, abbiamo scoperto che Dio ci aveva già preceduto e siamo rimasti... annunciati da chi ci ha accolto con dubbi e perplessità per le situazioni di sofferenza. Stiamo ora proseguendo la missione animando gruppi di lettura della Parola, formatisi in seguito a questi colloqui. Mi sembra una cosa povera, semplice, elementare quindi evangelica! Ancor più bella se condivisa con la moglie! Con affetto. CESARE FABBRIS E MARIA LETIZIA GIACOMETTI Bologna 4 Missione Oggi | maggio 2009 arissimo P. Mario, desidero dirti tutta la mia soddisfazione per l’editoriale di MO 3/2009 e spero vivamente che la rivista si orienti coraggiosamente in questa direzione. Anzitutto, per dare maggior voce, spazio, attenzione al primo dei tre vocaboli che costituiscono il sottotitolo della rivista: Annuncio. Ma, più ancora, penso io come saveriano, per rispondere meglio alla natura della rivista quale fu fondata e voluta dal Conforti (allora sotto il nome di Fede e Civiltà, titolo che potrebbe oggi essere reinterpretato come invito ad un annuncio che si accompagna con il dialogo tra le culture o le civiltà, di cui la religione è l’anima. Ciò aiuterebbe a dare più spazio anche al secondo vocabolo del sottotitolo!). E, soprattutto, perché, come cristiano, sono intimamente convinto che questa è tuttora la tematica vitale, decisiva, della MISSIONE OGGI, come tu molto bene - affermi nella conclusione dell’editoriale. La liberazione che noi saveriani proponiamo e per la quale lavoriamo è la salvezza che Gesù Cristo ha rivelato e portato. Ciò - sia ben chiaro non per sminuire l’importanza o tanto meno negare la necessità di altre componenti o forme di liberazione (politiche, economiche, sociali...) ma: 1) per testimoniare - in quanto cristiani - la fondamentale necessità, la suprema bellezza, la novità radicale e trascendente del messaggio di Cristo per una liberazione o salvezza integrale, totale, dell’umanità, la quale deve includere e mettere al primo posto i valori spirituali, i doni della gratuita salvezza che Dio ci offre in Cristo invitandoci alla comunione di vita con Lui per mezzo della fede, l’orizzonte di una vita eterna che supera immensamente gli angusti confini del mondo visibile e perituro in cui ora per breve tempo siamo; 2) per portare avanti - in quanto saveriani - in collaborazione con altre forze operanti per questo scopo, alle quali competono altri campi e altre metodologie, il nostro specifico contributo alla liberazione/salvezza dell’umanità, il quale, per noi saveriani, è definito dal fine unico ed esclusivo della nostra famiglia religiosa, ossia il “primo annuncio del Vangelo di Cristo a quanti ancora non lo conoscono”. Solo così - credo la rivista saveriana MO potrà svolgere il suo servizio proprio, quello per cui fu fondata, e coprire, anche, uno spazio suo proprio, importante, vitale, nel mondo della stampa cattolica in genere, e delle varie testate missionarie in particolare, e svolgere quello che tu giustamente, nel tuo editoriale, definisci “il primo servizio che possiamo rendere al mondo!”. FRANCO SOTTOCORNOLA, SX Missionario in Giappone UN INTERROGATIVO SUGLI ABBONAMENTI C arissimi (del gruppo redazionale), vorrei sollevarvi un interrogativo sugli abbonamenti di MO. Mi è capitato di discutere con un signore che conosco, per tanti anni abbonato a MO. Quest’anno non aveva rinnovato, perché essendo a conoscenza del cambio di gestione prima di farlo voleva vedere il numero di gennaio. Si é molto meravigliato, tanto perché il numero di gennaio non gli è pervenuto, quanto perché nessuno si è premurato di sollecitarlo ad abbonarsi. Avendo chiesto il mio parere, mi sono sentito parte in causa. Da parte mia non ho potuto che meravigliarmi a mia volta e confermargli che nei miei numerosi abbonamenti a riviste italiane ed estere non mi era mai capitata una cosa del genere… Con amicizia. GABRIELE SMUSSI Brescia Ho sottoposto il caso all’amministrazione, che mi ha confermato circa la prassi di MO: la rivista viene inviata per quattro mesi oltre la scadenza, gratuitamente. Al quarto mese all’abbonato viene inviato un invito a rinnovare. Soltanto in caso di non risposta l’amministrazione interrompe l’invio. (m. m.) Fabrizio Tosolini, missionario saveriano, di Tricesimo (UD), licenziato in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico di Roma, dottore in Teologia Biblica presso la Facoltà di Teologia della Fu Jen Catholic University di Taipei (Taiwan) con una tesi sulla Lettera ai Romani, insegna Sacra Scrittura a Taipei FABRIZIO TOSOLINI IL FONDAMENTO È SOLO CRISTO CONOSCIAMO POCO DELLE PRIME COMUNITÀ CRISTIANE Q uello che conosciamo della vita delle prime comunità cristiane è molto poco, limitato a quell’essenziale che è utile ai cristiani di tutti i tempi per conseguire la salvezza. Ad esempio, non sappiamo molto dei rapporti tra le comunità e i loro capi, delle comunità tra loro, dei rapporti tra le comunità e i loro fondatori, dei capi e dei fondatori tra loro. Ad esempio, cosa si può dedurre da quanto Paolo scrive in 1 Cor 9,1-6? Secondo questo testo, sulla base di due esperienze (l’aver visto Cristo risorto, l’aver fondato la comunità di Corinto) egli si equipara ad alcuni che sono chiamati apostoli, i quali viaggiano e fanno visita alle diverse Chiese, portando con sé delle donne che li servono, a spese del- parola e missione Paolo e le sue Chiese le comunità che li ospitano. Insieme a questo gruppo di apostoli, e probabilmente anche come parte di esso, Paolo cita i fratelli del Signore e Cefa (Pietro). Che Pietro visitasse le Chiese risulta da At 9,32 e da Gal 2,11. At 18,27 ci parla poi di Apollo che va a Corinto; Rm 16,7 di Andronico e Giunia, parenti di Paolo, apostoli insigni e membri della Chiesa prima dello stesso Paolo. Per quanto riguarda Apollo, mentre è a Efeso viene istruito nella fede da Aquila e Priscilla, la coppia che aveva aiutato Paolo a Corinto (At 18,2-3), e che poi a Roma riceve i suoi saluti (Rm 16,3): potremmo considerarli appartenenti al gruppo degli apostoli? In questo contesto si pone la domanda su quale fosse il rapporto che Paolo instaurava con le sue Chiese. Anzi tutto, Paolo non chiama sue le comunità che ha fondato o dove ha lavorato. Di fatto, mentre chiama i discepoli “figli” e dice che essi sono la sua gioia, la sua corona di gloria, non ritiene mai che una Chiesa sia sua. Riconosce certo, e vuole che si riconosca, la funzione speciale che egli ha avuto nella loro nascita alla fede, ma sa che la loro vita è Cristo, essi appartengono a lui, e nega con forza che essi siano suoi (1 Cor 1,10-16). Nondimeno, la scelta di annunciare Cristo solo là dove non era ancora giunto il suo nome, “per non costruire su un fondamen- ISPIRAZIONE PREPASQUALE Già al tempo di Gesù c’è un’incipiente organizzazione della comunità: l’esperienza di essere mandati (apostoli) a predicare, risale al tempo prepasquale. Era un comando del Signore, ma era anche un imitare e un continuare quanto lui faceva. Gesù è ospitato, insieme a coloro che lo accompagnano (non dovevano essere pochi), in case di amici, siano essi discepoli o persone interessate al suo messaggio; ci sono delle benefattrici insigni, tra cui Giovanna, moglie dell’amministratore di Erode; tra i Dodici c’è un economo incaricato anche della beneficenza. Ci si può chiedere se tale esperienza copia un modello già esistente. Sappiamo inoltre dal Nuovo Testamento che gruppi giudaici presenti a Gerusalemme o in Palestina hanno dei membri anche in altre regioni e città dell’impero romano: seguaci del Battista ad Efeso (At 19,3), gruppi di sacerdoti nella provincia di Asia (At 19,14; 21,27), Giudei di Cirene, della Cilicia, di Alessandria (At 6,9). E’ quindi possibile che anche le prime comunità avessero non solo un’organizzazione interna (cf. Fil 1,1), comprendente servizi di assistenza (At 9,39-41; 1 Tim 5,1-16), ma anche delle funzioni di collegamento tra loro, atte a mantenere e accrescere la loro unità. Missione Oggi | magio 2009 5 parola e missione to altrui” (Rm 15,20) richiede spiegazione. Sappiamo che, dopo un inizio in cui probabilmente evangelizza da solo, Paolo collabora con Barnaba, sotto l’egida della Chiesa di Antiochia, nel primo viaggio missionario in Asia Minore. Perché in seguito decide di continuare di nuovo da solo, o con altri, ma sotto la sua responsabilità (At 15,40; 16:3)? Sono possibili alcune congetture, che si legano alla sua visione del Vangelo, e anche all’importanza che egli attribuisce al “porre fratello debole turbandone la coscienza, Paolo dice che è bene rinunciare al proprio diritto per il vantaggio del fratello, perché per lui Cristo ha rinunciato perfino alla propria vita (1 Cor 8,11; Rm 14,15). CHIESE COME ASTRI NEL MONDO Ci deve essere stata in Paolo una coscienza speciale dell’importanza della qualità dei rapporti sui quali si snoda il cammino di accesso alla fede, tale da suggerirgli di affrontare la sfida dell’annuncio soltanto quando era abbastanza sicuro di poter offrire un certo tipo di esperienza relazionale le fondamenta sapientemente”, come dice in 1 Cor 3,10, precisando che il fondamento è solo Cristo. Nello stesso tempo ci deve essere stata in Paolo una coscienza speciale dell’importanza della qualità dei rapporti sui quali si snoda il cammino di accesso alla fede, tale da suggerirgli di affrontare la sfida dell’annuncio soltanto quando era abbastanza sicuro di poter offrire un certo tipo di esperienza relazionale, quindi solo con dei collaboratori che avessero il suo stesso cuore (Fil 2,20-21). IL CONTENUTO DEL VANGELO Per quanto riguarda il contenuto del Vangelo, sembra di poter dire che Paolo vuole un annuncio che evidenzi l’immediatezza della mediazione del Cristo. Ciò che salva è l’atto della sua donazione. In questo contesto ogni altra legge o miracolo o sapienza (1 Cor 1,22-24) diventano secondari, e perfino possono ostacolare la semplice e limpida adesione di fede che Paolo sente e sa necessaria alla salvezza. Questo si rispecchia storicamente nelle forme di vita che propone ai cristiani che lo seguono, forme il cui archetipo sembra già presente nella comunità di Antiochia. In primo luogo, le comunità vivono nella 6 Missione Oggi | maggio 2009 consolazione dello Spirito e nell’abbondanza dei suoi doni, che probabilmente Paolo ha insegnato a riconoscere, a condividere e valorizzare. La lista di 1 Cor 12,28-30 deve aver un riscontro nell’esperienza della Chiesa di Corinto. In questo clima spirituale i credenti toccano con mano la vita del Risorto, la loro appartenenza a lui, l’essere insieme parte del suo corpo mistico. Questa atmosfera deve essere stata la forza capace di attrarre molti alla fede. In secondo luogo, Paolo propone la libertà e il rispetto per i modi in cui spontaneamente (il che significa anche: secondo la propria tradizione) ciascuno vive al servizio del Signore. Egli non omologa tutti sotto le stesse forme di vita, ma invita continuamente a scegliere “ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore, senza distrazioni” (1 Cor 7,35, CEI 1971). Su due punti Paolo è molto chiaro. Il primo è la necessità di condurre una vita santa, secondo la tradizione biblica: “Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti né rapaci erediteranno il regno di Dio” (1 Cor 6,10, CEI 1971). Il secondo deriva dalla reciproca appartenenza, mediata da Cristo, vissuta all’interno della Chiesa. Per cui, se un comportamento, in sé possibile, dà scandalo al È facile vedere come queste comunità splendano come astri nel mondo (Fil 2,15), e abbiano una grande forza di attrazione. Per questo Paolo non vuole costruire su fondamento altrui. Anche perché è cosciente che agli inizi dell’esperienza cristiana, come nel tempo dell’infanzia, è facile ricevere ferite le cui conseguenze si portano poi per tutta la vita. Questa consapevolezza lo rende cauto nell’entrare nel mondo spirituale di una comunità di cui non conosce la storia, quale quella dei Romani (cf. Rm 6,17; 16,17-20); e lo fa reagire quando qualcuno distoglie i pensieri dei suoi cristiani dalla loro semplicità e purezza nei riguardi di Cristo (2 Cor 11,3). Egli è anche sensibile a come viene considerato dai suoi cristiani: non per un qualPER SAPERNE DI PIÙ che senso di autorità e di orgoglio personale, ma perché sa che dimenticare la qualità dell’esperienza vissuta (2 Cor 12,11) significa allontanarsi dalla concretezza della fede e cominciare a perdersi nel labirinto di inconcludenti dialettiche dottrinali (cf. 1 Cor 4,6-15). Quanto ai rapporti all’interno del gruppo dei colPer un approfondimento: laboratori di Paolo, posBruno Maggioni, Il Dio di Paolo. siamo supporre che fosIl vangelo della grazia sero molto profondi, e il e della libertà, gruppo rappresentasse Paoline, Milano 2008 (seconda edizione). una sorta di bozzetto di presso: quanto l’apostolo [email protected] ma. Diversamente non si spiegherebbe l’importanza attribuita al tema dell’imitazione: egli chiede ai cristiani di imitarlo, come lui imita Cristo, e propone i suoi collaboratori come visibilità del suo tenore di vita (1 Cor 4,17; 11,1; 2 Cor 7,13; 12,17-18; Fil 2, 20-21; 4,9). L’esperienza di Chiesa passa attraverso la percezione reale, vissuta nella concretezza delle relazioni interpersonali, della presenza del Risorto. FABRIZIO TOSOLINI STEFANO VECCHIA L a grande macchina elettorale indiana è arrivata finalmente al primo traguardo, quello dell’apertura delle urne, il 16 aprile, dopo una campagna dura e convulsa come può avvenire solo in un paese di dimensioni continentali, diviso in 35 Stati e Territori e frazionato in centinaia di etnie, lingue, fedi; di interessi e velleità non sempre in armonia come la Costituzione e la tradizione vorrebbero. Obiettivo del voto, la formazione della nuova Lok Sabha (“Camera del Popolo”, la nostra Camera dei Deputati), di 545 membri, la vera fucina della democrazia indiana. A dominare sui temi della campagna, è il futuro stesso della democrazia, mentre il paese si smarrisce tra particolarismi, interessi, corruzione, dimenticando i suoi ideali di sviluppo condiviso, nonviolenza e convivenza. Temi essenziali, questi ultimi, nei programmi dei partiti laicisti e progressisti, insieme a quelli dell’economia. Mai come in occasione delle elezioni l’India ricompatta le sue divisioni per accentuare il ruolo della politica e mai come in tempi recenti le divisioni si sono approfondite. Dal Kashmir all’Orissa, dal Gujarat all’Assam, l’immenso il fatto e il commento MO MO MO L’India alle urne TRE MESI DI VOTAZIONI, 35 STATI E TERRITORI, OLTRE 800 MILA SEGGI, OLTRE MILLE I PARTITI POLITICI REGISTRATI: BASTEREBBERO QUESTE CIFRE A DARE UN’IDEA DELL’INCREDIBILE COMPLESSITÀ DELLA MACCHINA ELETTORALE INDIANA CHE SI È MESSA IN MOTO PER DESIGNARE I COMPONENTI DELLA “CAMERA DEL POPOLO”, IL PRINCIPALE ORGANO DELLA “DEMOCRAZIA PIÙ GRANDE DEL MONDO”. I PROBLEMI CHE CARATTERIZZANO LE ELEZIONI SONO ALTRETTANTO ENORMI: VIOLENZE, SETTARISMI, CORRUZIONE, STRUMENTALIZZAZIONE DELLE RELIGIONI: UN MISCUGLIO PERICOLOSO CHE VEDE CONTRAPPOSTI UNO SCHIERAMENTO LAICISTA E UNA COMPAGINE NAZIONALISTA paese è attraversato da profonde ingiustizie e da attività terroristiche, dal separatismo etnico e dalla violenza a sfondo religioso. Cinismo e corruzione minano le istituzioni e la società, mentre la crisi globale erode la fiducia nelle prospettive di sviluppo. La vita politica del paese è stata polarizzata per cinque anni (l’intervallo di tempo tra Campagna elettorale in India, aprile 2009. Missione Oggi | maggio 2009 7 il fatto e il commento MO 714 milioni di aventi diritto di voto esprimono la loro preferenza in 828.804 seggi elettorali con l’ausilio di 1.368.430 apparecchiature automatiche; decine di migliaia di candidati proposti da 7 partiti a livello nazionale e 36 a livello locale: nei numeri, una democrazia senza compromessi e senza confronti, quella indiana. Contemporaneamente al voto per il rinnovo della Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento, si vota negli Stati o nei distretti degli Stati non ancora interessati dalla fitta serie di scadenze elettorali iniziata lo scorso autunno. La consultazione elettorale per la Lok Sabha avviene in questa occasione in cinque diverse giornate (16, 23 e 30 aprile; 7 e 13 maggio), anche il voto negli Stati e Territori è variabile e prevede fino a cinque fasi. Il Partiti maggiori e coalizioni si trovano tutti di fronte alla crescente frammentazione della vita politica. Il moltiplicarsi dei partiti e dei movimenti, un pregio della democrazia partecipativa, nel contesto indiano è sovente preludio all’ingovernabilità. Sono oltre mille i partiti politici registrati in India. Di questi, solo una trentina hanno dimensioni e velleità per influire sulla politica nazionale a fianco di sette partiti panindiani Campagna elettorale in India, aprile 2009. 8 Una gigantesca macchina elettorale Missione Oggi | maggio 2009 un’elezione l’altra) tra uno schieramento laicista guidato dal Partito del Congresso, portabandiera (per la verità un po’ in affanno) degli ideali della lotta d’indipendenza, di nonviolenza e di sviluppo condiviso per decenni fatti propri dalla dinastia Gandhi-Nehru oggi sotto la presidenza di Sonia Gandhi, e tra una compagine nazionalista con al centro il Bharatiya Janata Party (Bjp, “Partito del popolo indiano”) in cui maturano – insieme a istanze di conservazione di identità e valori – anche aspetti discriminatori e xenofobi dell’induismo. LA FRAMMENTAZIONE DELLA VITA POLITICA Partiti maggiori e coalizioni si trovano tutti di fronte alla crescente frammentazione della vita politica. Il moltiplicarsi dei partiti e dei movimenti, un pregio della democrazia partecipativa, nel contesto indiano è sovente preludio all’ingovernabilità. Sono oltre mille i partiti politici registrati in India. Di questi, solo una trentina hanno dimensioni e velleità per influire sulla politica nazionale a fianco di sette partiti panindiani. Ci sono Stati nella “più grande democrazia del mondo” governati da partiti che hanno raccolto solo il 15% dei voti. Tutto questo rende difficile governare da soli, problematiche le alleanze, quasi impossibile la governabilità sul lungo periodo. Il Congresso ha una vocazione unitaria e laicista, ma è un partito elefantiaco, infiltrato dalla corruzione e dai personalismi. A livello centrale, nell’ultimo quinquennio si è posto alla guida dell’Alleanza progressista unita (218 seggi nella Camera uscente, di cui 145 del partito della Gandhi), affiancata dal Fronte delle sinistre (59 seggi). Quest’ultimo ha abbandonato la maggioranza nel 2008, alla firma dell’accordo sulla condivisione di tecnologia nucleare a sco- ma di tutela legale di numerosi gruppi della popolazione. Tutela non riconosciuta a fedi minoritarie che non siano uscite in passato dall’alveo dell’induismo, come buddhisti e sikh, e che solo di recente i cristiani hanno iniziato a reclamare, pur se in modo non uni- po pacifico tra India e Stati Uniti, pur continuando a sostenerla dall’esterno. L’opposizione dell’Alleanza democratica nazionale (181 seggi) ha al centro il Bjp e i suoi 138 parlamentari. Quest’ultimo, in particolare, ha dovuto imparare a proprie spese che una proposta efficace non può basarsi esclusivamente sul nazionalismo a sfondo religioso, rigettato come strumento politico persino dai possibili alleati. Mai come in queste elezioni, il Bjp ha puntato la propria proposta sui temi dello sviluppo e dell’economia, ed è chiaro il suo tentativo di racco- il fatto e il commento MO conteggio inizierà ovunque il 16 maggio. Per la Lok Sabha sono eleggibili i cittadini che abbiano compiuto almeno 25 anni, mentre l’età minima del voto è di 18 anni. La Costituzione prevede che i membri della Lok Sabha possano arrivare a un massimo di 552, di cui 530 eletti nei vari Stati e 20 nei Territori dell’Unione Indiana (questo il nome ufficiale dell’India), 2 indicati direttamente dal Presidente della Repubblica. La Camera uscente ha 545 membri: 530 eletti negli Stati, 13 nei Territori e due rappresentanti della comunità anglo-indiana di nomina presidenziale. Una caratteristica della Camera bassa del Parlamento è che un numero di seggi è riservato alle comunità riconosciute come storicamente discriminate. Attualmente sono 84 le Caste registrate e 45 le Tribù registrate. Uno dei paradossi di questo paese, la cui Costituzione chiude la porta a ogni discriminazione per nascita, censo, fede e genere, ma che nella prassi prevede un complesso siste- voco. Il rischio, infatti, è di una ulteriore ghettizzazione, seppure sotto tutela ufficiale. Il prossimo governo – ha ricordato il cardinale Vithayathil, presidente della Conferenza episcopale dell’India – “dovrebbe immediatamente porre rimedio” alla condizione dei poveri e degli emarginati che devono “essere assimilati nel complesso della società”. Perché si concretizzi questa aspirazione, come pure in generale una maggiore tutela e il pieno riconoscimento dell’identità “indiana” dei cristiani (il 2% dei cittadini), occorre una loro maggiore partecipazione alla politica. Un’esigenza avanzata apertamente dai laici e sempre meno ostacolata dalla gerarchia. “Le minoranze religiose sono sempre state viste come banche di voti e noi vogliamo cambiare questo stato di cose” è la posizione del laicato cattolico, non più indirizzato a firmare un assegno in bianco per il Congresso, abituale calamita del voto cristiano a livello nazionale. (s.v.) gliere voti delle minoranze religiose – musulmani, cristiani e buddhisti – puntando sull’”indianità”, ovvero sull’orgoglio nazionale, più che sul pericoloso slogan dell’ “induità” (Hinduttva), ovvero dell’identità indù imposta su tutti. RISCHIO INGOVERNABILITÀ MO Per gli osservatori, il rischio che né il Congresso, né il Bjp arrivino alla maggioranza assoluta è quasi scontata e con esso la prospettiva dell’ingovernabilità, salvo gli abituali giochi post-elettorali e uno spregiudicato incrociarsi delle alleanze. Con uno spunto d’interesse in più… La “Terza Forza”, che si presenta come outsider, è una coalizione ostile alla politica tradizionale e ancor più verso i tradizionali schieramenti; una compagine pronta a raccogliere i consensi di coloro che non si sentono rappresentati dai maggiori schieramenti. Nell’incontro di presentazione ufficiale, il suo ideatore Dewe Gowda, ha definito l’iniziativa un’“occasione storica per unire tutti i partiti democratici, laicisti e della sinistra nel paese”. A capo si è posta, con il peso della sua singolare esperienza, della sua popolarità e soprattutto dei 120 milioni di elettori dell’Uttar Pradesh di cui è Stefano Vecchia, giornalista professionista, da alcuni anni risiede in Asia, con base a Bangkok, da dove svolge l’attività di corrispondente per quotidiani nazionali, agenzie e periodici di attualità. Nel dicembre 2008 ha visitato le zone dell’India in cui i cristiani sono vittime di aggressioni e violenze Missione Oggi | maggio 2009 9 il fatto e il commento primo ministro, la “regina degli intoccabili”, Mayawati Naina Kumari. Il suo è stato un autaut, in stile con la sua personalità: o capolista nella carica di premier, oppure la rinuncia a vincere la fiducia dei fuoricasta e di buona parte degli emarginati. Per quanti sono disposti a darle il voto, essa rappresenta la speranza di riscatto per decine di milioni di emarginati. Autoritaria, con pochi scrupoli e con molti detrattori (che non mancano di ricordare i suoi rapporti conflittuali MO Sono in molti a credere che mai come in questa tornata elettorale, l’India stia mettendo in gioco i suoi valori spirituali e la sua grandezza morale Sonia Gandhi, presidente del “Partito del Congresso”. 10 Missione Oggi | maggio 2009 con il fisco), tra iniziative populiste e atteggiamenti messianici, la Mayawati ha convinto i dalit e non solo loro (anche buona parte dell’elettorato cristiano nel suo Stato) che sarà lei il premier della svolta nazionale. Più difficile sarà convincere eventuali alleati a credere in lei. I VALORI IN GIOCO E IL RUOLO DELLA CHIESA E a proposito di credenze… Sono in molti a credere che mai come in questa tornata elettorale, l’India stia mettendo in gioco i suoi valori spirituali e la sua grandezza morale. Arrivata alla fine di una campagna elettorale in cui violenze di ogni genere hanno affiancato e spesso sostituito comizi e raduni, il voto dirà anche quanto gli indiani credano ancora nell’integrazione delle genti e delle fedi in un’unica grande nazione. L’Orissa, da quarant’anni al centro dell’esperimento di “pulizia religiosa” attuato dall’induismo radicale associato a potentati economici e interessi politici, ha vissuto un anno drammatico e i suoi cristiani sono stati oggetto di vera e propria persecuzione, che nel periodo di maggior tensione, lo scorso anno, ha registrato 70 morti, centinaia di feriti e 50 mila profughi, in particolare tra la popolazione tribale del distretto di Kandhamal. Tra i primi ad aderire alla nuova formazione denominata “Terza Forza”, è stato il Bjd (Biju Janata Dal) guidato dal primo ministro dell’Orissa, Naveen Patnaik. Il partito, al governo nello Stato, era appena uscito dall’alleanza difficile con il Baharatiya Janata Party, denunciando proprio le violenze anticristiane avvenute tra il dicembre 2007 e il settembre 2008. Alla vigilia della prima tornata elettorale del 16 aprile, a sette mesi dalle violenze, 3.200 cattolici erano ancora nei campi profughi e a molti che avevano perso il documento elettorale nelle violenze non ne erano stati forniti di nuovi. In molti villaggi il boicottaggio contro i cattolici tribali rimaneva forte, al punto da impedirne il ritorno e l’esercizio regolare del voto. “18 mila abitanti del Kandhamal vivono ancora a Bhubaneshwar, Cuttack e Berhampur. La Commissione elettorale può facilmente giudicare come sia possibile una libera e corretta consultazione elettorale nel distretto. Può altresì considerare le concrete possibilità di rientro degli elettori in occasione del voto, oppure provvedere affinché coloro che vivono in altre parti dell’Orissa o dell’India votino per corrispondenza”, ricordava ancora nell’imminenza del voto mons. Raphael Cheenath, arcivescovo di Cuttack-Bhubaneshwar. “Se non sarà data una risposta ragionevole a queste domande, il voto del Kandhamal sarà soltanto una finzione di democrazia”, ha aggiunto l’arcivescovo. Anche in questa occasione, la Chiesa non ha lasciato cadere un’opportunità importante per far sentire la propria voce e per chiedere ai cattolici un diverso impegno. “Sono momenti critici per il paese e la Chiesa, pur non sostenendo partiti politici, ha l’obbligo morale di assicurarsi che il nostro popolo voti per chi garantirà la sovranità democratica e le credenziali laiche della nostra amata patria”, ha ricordato il cardinale Varkey Vithayathil, presidente della Conferenza episcopale indiana in un suo messaggio in vista delle elezioni. STEFANO VECCHIA Luci e ombre della rivoluzione bolivariana Interviste sul futuro MO Intervista a Edgardo Lander A CURA DI MAURO CASTAGNARO Edgardo Lander è docente al Dipartimento di Studi latinoamericani della Scuola di sociologia dell’Università Centrale del Venezuela e membro del Consiglio latinoamericano delle scienze sociali (Clacso) T ra dicembre del 2007 e febbraio del 2009 i venezuelani hanno prima respinto col 51% la riforma costituzionale proposta dall’esecutivo, poi confermato la maggioranza di governo nelle amministrative del novembre 2008 e infine approvato col 54% l’emendamento costituzionale che consente al capo dello Stato Hugo Chavez di ricandidarsi alla presidenza della Repubblica senza limiti nel numero dei mandati. Qual è il significato politico di queste consultazioni? Il risultato del referendum del 2007 sorprese l’opposizione, che non sperava di vincere né si aspettava che Chavez riconoscesse la sconfitta. Nel chavismo si aprì un vivace dibattito sull’inefficienza delle politiche statali e sulla corruzione, che però si spense nel giro di due-tre mesi, di fronte all’incombere delle elezioni amministrative. Nel frattempo si è consolidato un nuovo orientamento dell’opposizione, molto eterogeneo, comprendendo settori di estrema destra, liberali e socialdemocratici. Fino al 2006 era stata l’ala golpista a egemonizzare l’opposizione, che puntava a rovesciare il governo con ogni mezzo: il colpo di Stato (2002), il blocco dell’industria petrolifera (2002-2003), il boicottaggio delle elezioni parlamentari (2005). In vista delle presidenziali del 2006, però, i settori più reazionari avevano perso peso e l’opposizione aveva presentato un candidato, Manuel Rosales, raccogliendo il 37% dei voti. Alle ultime amministrative ha orgaMissione Oggi | maggio 2009 11 interviste sul futuro Bisogna ricordare che solo la straordinaria mobilitazione dei settori popolari aveva permesso al governo di sopravvivere ai tentativi eversivi del 2002-2003 nizzato un fronte unitario, riuscendo a conquistare i tre Stati più popolosi (Zulia, Miranda, Carabobo), nonché il municipio di Caracas. In molti posti ciò è dovuto al malcontento popolare, anche nelle file del chavismo, perché la gestione di alcuni sindaci e governatori era stata molto scadente. Ciò ha prodotto una ridefinizione del conflitto politico, che era stato costruito sulla polarizzazione governo-opposizione ovvero difesa-cacciata del presidente: ora l’opposizione ha capito che sul terreno dello scontro permanente Chavez vince, quindi ha cominciato a creare organizzazioni, elaborare programmi, in funzione delle presidenziali del 2012, cercando di ampliare la propria base, rafforzare la propria unità e dimostrare che ha capacità di governo risolvendo a livello locale i problemi della sicurezza o della raccolta dei rifiuti, in cui l’esecutivo risulta del tutto inefficace. Inoltre nel campo chavista la gente comincia a distinguere, per cui vota a favore di Chavez, ma contro un candidato sindaco sgradito o si astiene. In questo contesto che ruolo ha la questione della rieleggibilità di Chavez? Chavez e il chavismo sono coscienti della propria vulnerabilità politico-elettorale, anche perché la crisi economica globale avrà un impatto sulla capacità di spesa pubblica del governo, tenendo conto che nel 2008 il 93% del valore delle esportazioni derivava dal petrolio e che le riserve valutarie accumulate permettono di compensare il calo del prezzo internazionale del greggio solo per il 2009. Bisogna ricordare che solo la straordinaria mobilitazione dei settori popolari aveva permesso al governo di sopravvive- MO re ai tentativi eversivi del 2002-2003, dopo i quali l’esecutivo ha sviluppato una politica sociale estremamente attiva attraverso le “missioni”, come Barrio Adentro, che con l’ausilio di 18mila medici cubani ha garantito a milioni di poveri un medico disponibile 24 ore su 24 e l’accesso gratuito alle medicine. Le “missioni” hanno innescato un processo di trasformazione nell’educazione, sanità, creazione di posti di lavoro, promozione di cooperative, che ha garantito alla “rivoluzione bolivariana” l’appoggio della maggioranza della popolazione. Tanto il governo quanto l’opposizione sono convinti che il miglior candidato per il chavismo nel 2012 sia Chavez. Da qui la scelta della maggioranza di eliminare i vincoli alla sua ricandidatura. Anch’io credo che non ci sia attualmente un leader alternativo a Chavez e un ritorno della destra al governo in Venezuela avrebbe conseguenze negative non solo per il paese, ma per tutta l’America latina. Ma questo non pone problemi a un processo di trasformazione che si vuole democratico? C’è in effetti una contraddizione alla lunga insostenibile tra un discorso e una pratica che enfatizzano la partecipazione democratica, soprattutto di base, attraverso Consigli comunali, Comitati di salute, Comitati di terra, e il fatto che le decisioni si concentrino soprattutto nelle mani del Presidente. La possibilità per la gente di incidere nelle scelte di politica nazionale esige meccanismi che non esistono. Anche la creazione del Partito socialista unito del Venezuela (Psuv) per raggruppare i sostenitori del chavismo non è servita in questo senso, non solo perché esso comprende marxisti-leninisti ortodossi, correnti tecnocratiche, settori militari nazionalisti e una “boliborghesia” corrotta, ma perché continua a essere una cinghia di trasmissione delle decisioni che arrivano dall’alto. Inoltre la dipendenza da una singola persona rende la rivoluzione bolivariana assai vulnerabile e più esposta a derive populiste. Chavez è riuscito a dare direzione e unità al malcontento popolare, avviando un processo di politicizzazione impensabile pochi anni fa. Se però non si producono forme di istituzionalizzazione, non si creano meccanismi collettivi di presa di decisioni, non emergono nuovi dirigenti e una figura così potente potrebbe finire per frenare i processi di allargamento della partecipazione. Quando una leadership si prolunga, finisce per rendersi autonoma dalla società. Se la “rivoluzione boliva- MO Se la “rivoluzione bolivariana” non progredisce nella democrazia e nell’inclusione, rischia di perdere la possibilità di costruire un’altra società con la forza una riorganizzazione della società, quella venezuelana è un processo di trasformazione che avviene per via elettorale e costituzionale, per cui richiede un consenso elettorale maggioritario. D’altro canto, simile è la concezione della relazione tra l’ambito pubblico-statale e quello politico-partitico: siccome si ritiene che queste siano separazioni liberali e non si è riflettuto sul piano teorico su una possibile forma diversa di organizzazione dello Stato, la distinzione tra i due ambiti tende spesso a rarefarsi. Così si dice che la compagnia Petroleos de Venezuela S.A. (Pdvsa) risponde al chavismo, però non solo nel senso che la politica petrolifera è definita dal governo, ma le sue risorse sono dello Stato o del Psuv in forma relativamente indifferenziata. Oppure i Consigli comunali sono proposti come base dell’organizzazione della nuova società, in cui le comunità si riu- niscono e affrontano i problemi legati alla gestione dell’acqua, dell’assistenza sanitaria, ma se sono trasformati in organismi chavisti, resta fuori quasi la metà della popolazione. Pure tra organizzazione sociale e partito i confini non esistono o sono poco chiari. Stato-partitoorganizzazione sociale finiscono per essere una serie di ingranaggi senza autonomia reciproca, per cui sono forti i processi di cooptazione e controllo, anche perché buona parte dei movimenti popolari dipende da risorse pubbliche. Quello che manca è una riflessione sull’egemonia, perché un progetto di paese non esige solo l’inclusione di chi è sempre stato escluso, ma deve offrire una prospettiva a tutti i cittadini, compreso quel 40% che vota per l’opposizione e non è riducibile all’alta borghesia: almeno il 1520% è costituito da settori popolari, c’è la maggior parte del ceto medio, un gruppo di intellettuali, tutti gli imprenditori privati, una quota di studenti universitari. Un processo di trasformazione intacca interessi e cambia le relazioni di potere, perché nel passaggio da una straordinaria disuguaglianza a una maggiore equità si devono perdere privilegi, che nessuno cede volontariamente. Tuttavia il chavismo usa un discorso molto settario e conflittuale, per cui, per esempio, gli imprenditori, che pure in questi anni hanno guadagnato moltissimo, vivono costantemente nell’attesa di essere cacciati, perciò non investono, non fanno programmi per il futuro. Come entra in questo progetto di cambiamento la questione ambientale? Dopo la fine dell’esperienza sovietica, un “socialismo del XXI secolo” deve essere profondamente e radicalmente democratico nonché assumere come priorità storica immediata il tema della vita nella sua integralità (il riscaldamento globale, la difesa dell’acqua, ecc.). Qui la “rivoluzione bolivariana” vive una contraddizione di fondo: riconosce l’urgenza di un modello di civiltà che non sia in guerra permanente contro la natura (e che quello basato sul consumo petrolifero minaccia a breve termine la possibilità della vita sul pianeta), ma fonda le politiche sociali e i progetti d’integrazione col resto del continente sulle entrate provenienti dal greggio. Ovviamente non si può cambiare da un giorno all’altro, ma riproporre l’idea del “Venezuela, potenza energetica mondiale” e investire nello sfruttamento dei giacimenti della fascia dell’Orinoco consolida un modello che si critica. A CURA DI MAURO CASTAGNARO interviste sul futuro riana” non progredisce nella democrazia e nell’inclusione, rischia di perdere la possibilità di costruire un’altra società, il che avrebbe un elevatissimo costo politico per le prospettive di trasformazione sociale in tutto il continente. Come si pone il rapporto tra Stato, partito e movimenti sociali? A differenza della rivoluzione cubana, che ha conquistato l’apparato dello Stato e imposto Quello che manca è una riflessione sull’egemonia, perché un progetto di paese non esige solo l’inclusione di chi è sempre stato escluso, ma deve offrire una prospettiva a tutti i cittadini, compreso quel 40% che vota per l’opposizione e non è riducibile all’alta borghesia: almeno il 1520% è costituito da settori popolari Il presidente del Venezuela Hugo Chavez. Missione Oggi | maggio 2009 13 campagne mo MO Pressione alle Banche armate L a Campagna di pressione alle “banche armate” (promossa dalle riviste Missione Oggi, Mosaico di pace e Nigrizia,) – pur apprezzando la pubblicazione anche quest’anno del Rapporto del Presidente del Consiglio sui lineamenti di Politica del Governo sull’esportazione e il transito di materiale d’armamento e la sua accessibilità attraverso la pubblicazione sul sito della presidenza del consiglio (www.governo.it/Presidenza/ UCPMA/rapporto_2008.html) – è fortemente preoccupata per il consistente incremento delle autorizzazioni alle esportazioni di armamenti, che nel 2008 hanno raggiunto la cifra record di oltre 3 miliardi di euro, con un crescita di quasi il 29% rispetto al 2007. Senza dire che il valore delle autorizzazioni delle transazioni bancarie ha superato i 4 miliardi di euro. «In particolar modo – denunciano padre Alex Zanotelli, padre Mario Menin e padre Franco Moretti, direttori delle riviste Mosaico di Pace, Missione Oggi e Nigrizia – ci preoccupano, e crediamo che non possano essere lasciate senza spiegazioni, le autorizzazioni verso paesi in conflitto (tra cui Israele), in zone di forte tensione (Medio Oriente, Africa e Asia), dove le organizzazioni internazionali segnalano “gravi violazioni dei diritti umani”, e, più in generale, verso i paesi del sud del mondo, a cui, nell’insieme, lo scorso anno è stato destinato più del 30% del14 Missione Oggi | maggio 2009 l’esportazione militare italiana, pari a quasi 928 milioni di euro». La campagna, inoltre, nel valutare la volontà espressa dalla presidenza del Consiglio di «incrementare ulteriormente la trasparenza sulle attività», non ritiene giustificata la mancanza nel Rapporto della tabella riassuntiva del “Valore degli importi autorizzati” agli istituti di credito che forniscono servizi d’appoggio al commercio di armi. «Una tabella che – sottolineano i direttori – non dovrebbe mancare dalla più ampia Relazione che la presidenza del consiglio ha consegnato al parlamento: una tabella la cui pubblicazione, contestualmente al Rapporto, avrebbe indicato una chiara volontà di trasparenza su tutti i settori dell’esportazione di armamenti». «Ricordiamo – prosegue la nota dei tre direttori – che nel giugno 2008 la nostra Campagna, con una lettera ufficiale alla presidenza del Consiglio e alle amministrazioni competenti, ha segnalato la mancanza nell’allegato alla Relazione del ministro dell’economia e delle finanze (dipartimento del tesoro) del “Riepilogo in dettaglio suddiviso per Istituti di Credito”: un documento voluminoso che il suddetto ministero ha sostituito – senza alcuna spiegazione – con un “Riepilogo in dettaglio suddiviso per Aziende” (Documento E), che, di fatto, ha sottratto al controllo parlamentare e della società civile informazioni di decisiva rilevanza circa l’operato in materia degli istituti di credito. Stiamo ancora aspettando risposta a quella lettera inviata alla presidenza del Consiglio e alle amministrazioni competenti». «Vogliamo, perciò, credere che la volontà espressa dalla presidenza del Consiglio nell’attuale Rapporto di porre “ogni sforzo per continuare il dialogo con i rappresentanti delle organizzazioni non governative interessate al controllo delle esportazioni e dei trasferimenti dei materiali d’armamento, con la finalità di favorire una più puntuale e trasparente informazione nei temi d’interesse”, intenda comprendere anche un confronto approfondito sui temi delle informazioni che riguardano le operazioni bancarie. Operazioni che sono l’unico modo per garantire un riscontro ufficiale e preciso agli istituti di credito che hanno messo in atto politiche restrittive in materia, e consentono alla società civile di valutare l’operato delle banche con il rigore e l’attenzione che sono indispensabili». «Ci associamo, pertanto, alla richiesta della Rete Italiana Disarmo – di cui la nostra campagna è parte – nel chiedere un incontro urgente con la presidenza del consiglio e le amministrazioni competenti per poter valutare nel merito l’attuale Rapporto e, più in generale, la politica del governo sull’esportazione materiale d’armamento, e chiediamo fin d’ora che il parlamento analizzi l’attuale Rapporto e la Relazione che gli è stata inviata anche con un dibattito finale in aula che preveda una votazione esplicita su un tema così delicato come quello dell’esportazione militare italiana». Missione Oggi, Mosaico di pace e Nigrizia La linea editoriale della RTN è impostata su quattro punti principali: T Informare la popolazione e la comunità di tutta la regione sulla situazione locale, nazionale ed internazionale. Fornire un’informazione che crea un legame tra le differenti comunità presenti sul territorio. T Formare gli ascoltatori attraverso dei programmi a carattere pedagogico. T La promozione integrale dell’uomo attraverso delle emissioni su salute, agricoltura, ambiente, giustizia e pace, diritti dell’uomo, promozione della donna, ecc. T Promozione della cultura locale e nazionale attraverso la musica folk, gli artisti locali e i racconti (favole in 3 lingue) o i dibattiti nelle varie lingue. Ciad una radio per chi non ha parola MARCO BERTONI R STORIA ED OBIETTIVI adio Terre Nouvelle (RTN) è la radio della diocesi di Pala (Ciad) che ha iniziato ad emettere a Bongor sui 98.4 FM nell’anno 2000 e poi ha aggiunto un ripetitore a Pala nel 2003. Trasmette in 9 lingue (Francese, Arabo locale, Masa, Musey, Tupuri, Mundang, Zimé, Ngambay, Fufuldé). Questa è una scelta che, nonostante le difficoltà, ci permette di parlare a tutta la popolazione della regione nella loro lingua e quindi di avere una comunicazione più diretta. Come obiettivo, che è anche lo slogan, la RTN ha “La comunicazione a servizio dello sviluppo”, e più precisamente una radio a servizio dell’uomo e di ogni uomo. Una radio che cerca lo sviluppo integrale di ogni uomo e che tiene conto degli strati più deboli dando spazio alle donne e ai giovani. Normalmente trasmettiamo 2h e 30m al mattino (dalle 6 alle 8:30) e 5 ore la sera (dalle 16 alle 21). I programmi prevedono al mattino una griglia di informazione (giornale in francese) e spazio “sanità” che nel corso della settimana sono riprodotti nelle varie lingue. Al pomeriggio i programmi sono più variati ma il filo conduttore è l’animazione portata avanti con un programma sull’ambiente e lo sviluppo, uno sui diritti, le leggi o altri temi di educazione civica. RADIO ED EVANGELIZZAZIONE La radio, pur essendo della diocesi, si rivolge a tutti e quindi il primo approccio è il dialogo e l’attenzione a tutti gli ascoltatori. La RTN vorrebbe essere una presenza cristiana reperibile ed effettiva tra i vari media, ma con uno spirito libero che rivolge il suo messaggio al maggior numero possibile di ascoltatori. Senza essere una radio religiosa, i giornalisti analizzano alcuni avvenimenti alla luce della fede e, anche se la priorità è data ai cattolici, non si dimenticano le feste musulmane. Più complesso è il rapporto con la religione tradizionale comunicazione e sviluppo A. CAUSIN LA LINEA EDITORIALE DELLA RTN La radio, pur essendo della diocesi, si rivolge a tutti e quindi il primo approccio è il dialogo e l’attenzione a tutti gli ascoltatori Uno speaker della RTN. Missione Oggi | maggio 2009 15 comunicazione e sviluppo A. CAUSIN Lo spazio religioso copre il 4% delle emissioni e comprende il Vangelo del mattino ed un’emissione “Vangelo e società” la domenica. Si sta facendo uno sforzo per avere un maggiore legame con le comunità di base e alle diverse sensibilità religiose. Lo spazio religioso copre il 4% delle emissioni e comprende il Vangelo del mattino ed un’emissione “Vangelo e società” la domenica. Si sta facendo uno sforzo per avere un maggiore legame con le comunità di base che potrebbero aiutare la radio sia nelle trasmissioni sia nella proposizione di temi da trattare, dando spazio ai loro problemi o alla formazione partendo dai loro bisogni e dalla vita concreta. RADIO E “NEW MEDIA” Andrea Causin (al centro), consigliere regionale del Veneto, in visita a Bongor nel Ciad; Padre Marco Bertoni, saveriano, direttore della RTN. 16 Missione Oggi | maggio 2009 Il Ciad, come quasi tutti i paesi del Sud, conosce uno sviluppo della telefonia mobile che offre anche servizi Internet. Per la radio è un buon servizio, ma, come per tutta la popolazione, è pagato a caro prezzo e crea dipendenza. Il telefono è diventato uno status symbol e tanta gente si procura un telefono pur di “apparire”, rinunciando spesso al mangiare. Le ricariche normali sono di 500 franchi Cfa (meno di un euro). Internet è utilizzato da pochissima gente ed anche noi abbiamo problemi di connessione, per cui preferiamo prendere tante notizie dalla televisione satellitare o attraverso la radio World Space. In questo campo il Ciad, che non aveva una televisione nazionale, quest’anno è riuscito A. CAUSIN che non possiede grandi culti né santuari e le cui feste sono cicliche e lunari. Purtroppo in questo senso oggi vi è la tendenza alla folclorizzazione e si moltiplicano i festival o i revival (stile ritorno alle radici e alla tradizione) che cerchiamo di “coprire” mediaticamente portando uno sguardo rivolto al futuro e adattando i valori tradizionali ai tempi attuali. L’evangelizzazione passa attraverso una sensibilità che il giornalista fa trasparire come tela di fondo e come apertura all’altro OBIETTIVI DELLA RTN Lo scopo di ogni programma e di tutta l’animazione mira a: T Responsabilizzare la popolazione per trovare assieme delle soluzioni ai problemi causati dalla povertà e dal sottosviluppo; T Cercare di risolvere i conflitti intercomunitari e promuovere una buona coabitazione; dibattere dei problemi sociali come l’Aids o l’alcolismo, ecc. T Offrire uno spazio per un divertimento sano e soddisfacente. T Essere una radio al servizio di quelli che, nella società, non hanno mai la parola. T Una delle caratteristiche della radio è la “prossimità”, il fatto di essere vicina alla gente ed ai suoi problemi, cercando di raggiungerla parlando il suo linguaggio. ad ottenere uno spazio su un satellite arabo per trasmettere alcuni programmi giornalieri. LE SFIDE DELLA COMUNICAZIONE Le sfide della comunicazione, in una regione multietnica e multiculturale, sono di arrivare a tutti gli ascoltatori parlando la loro lingua e utilizzando il loro linguaggio per essere al centro di tutti i cambiamenti ed aiutare ad un vero sviluppo dell’uomo e della società. In un paese marcato dalla guerra e dai conflitti, la radio vuole essere la voce che porta la pace, la gioia e la speranza. La comunicazione è soprattutto dare buone notizie ed aiutare la crescita del paese per il bene di tutti senza nessuna distinzione. Una delle sfide maggiori è la lotta contro le ingiustizie ed informare sui propri diritti e doveri, sia come uomo sia come cittadino. In questo senso il sogno è di dare voce a chi non ha voce, ai deboli e a tutti quelli che subiscono ingiustizia o non sono rispettati nei loro diritti per costruire una società dove regni la pace. MARCO BERTONI dossier Film e missione tra memoria e futuro Se il cinema è la “settima arte”, come a cura di FEDERICO TAGLIAFERRI e FIORENZO RAFFAINI ormai anche i più restii sono disposti ad ammettere, allora non c’è da stupirsi se a pochi anni dalla sua nascita esso abbia intrecciato la sua storia con i temi religiosi e, in particolare, con quelli missionari. Come in altri campi più tradizionali (letteratura, pittura, scultura, architettura), lo spirito religioso ha bisogno dell’arte per esprimersi e per portare il suo messaggio. Ecco dunque la nascita del cinema “missionario”, un piccolo ma ricco filone produttivo che ha interessato sia film, sia documentari. Alcuni istituti missionari hanno abbracciato presto la nuova arte, tra questi i saveriani sono stati dei precursori, impegnandovi alcuni dei migliori ingegni a disposizione. Avviare oggi una riflessione sul ruolo prezioso che ancora possono svolgere film e pellicole (con la loro incredibile modernizzazione tecnologica) è forse inevitabile, in una società, come quella contemporanea, che si basa sull’immagine a tutti i livelli e proprio per questo è sazia, disincantata e smaliziata. Ma, forse, ancor più s’impone la domanda su quali temi, personaggi ed esperienze basarsi nell’offrire allo spettatore una storia che sia raccontata in maniera professionale e di livello qualitativo elevato. Riusciranno i missionari a “bucare” schermi e video e a far giungere ancora il loro messaggio? C’è da augurarselo: sarebbe davvero un peccato se il fascino delle vecchie pellicole dovesse svanire definitivamente, archiviate negli schedari della storia del cinema, senza essere rimpiazzate da nuove, dinamiche, coraggiose opere al servizio del messaggio evangelico. Missione Oggi | maggio 2009 17 dossier Storia del cinema missionario LA FIGURA DEL MISSIONARIO È STATA TRATTEGGIATA IN DIVERSI FILM, DOVE RICORRONO ALCUNI CLICHÉ CHE A VOLTE NE RENDONO UN’IMMAGINE STEREOTIPATA. LINO FERRACIN, ESPERTO DI CINEMA E AUTORE DI MOLTE PUBBLICAZIONI, DA ANNI CURA LE PRESENTAZIONI DI FILM AD ALTO VALORE INTERCULTURALE SULLE PAGINE DI “CEM MONDIALITÀ”. IN QUESTA PANORAMICA CI OFFRE UN’INTERESSANTE ANALISI DEI TEMI AFFRONTATI E UNA SCEL- che eroe! TA CRITICA DELLE PRINCIPALI PELLICOLE CHE HANNO PER PROTAGONISTI IL MISSIONARIO E LA MISSIONE. Il missionario LINO FERRACIN D Padri Saveriani dietro la macchina da presa a Loyang (Cina, anni ’30). 18 Missione Oggi | maggio 2009 iversamente da quanto istintivamente valutavo, non sono molti i film, prodotti per il grande pubblico, che nella storia del cinema sono stati dedicati alla figura di un missionario. Intendo quello che parte dall’Occidente cristiano e civilizzato per portare a popoli lontani la parola del Signore, non ci interessano cioè tutte quelle altre storie ambientate in periferie malfamate, in carceri violenti, in agnostici salotti borghesi o in fabbriche senza Dio; non si parla di sacerdoti o pastori in missione qui ma di missionari al lavoro là. Una quindicina? Pochi pare, perché un film, che abbia come protagonista un missionario o che ricostruisca una vicenda legata alla presenza di missionari in terre lontane, è facile e allettante, infatti le qualità e la storia di chi parte per annunciare Cristo sono naturalmente cinematografiche e l’idea romantica che il pubblico ha del missionario ben si adatta alla più classica delle sceneggiature. LA FIGURA DEL MISSIONARIO-EROE Al centro di un buon film di massa deve esserci un eroe in una situazione difficile e il missionario è un personaggio che può avere tutte le no in discussione il loro potere, ma per la sua gente, i più deboli, i più poveri, i rifiutati. Le sue armi sono la fede, la tenacia, la capacità di ascolto, la forza delle sue scelte. L’ambiente dove il missionario opera è, naturalmente, esotico e bellissimo, se al contrario è difficile, povero o al limite dell’inumano, comunque ha la forza di attrazione del lontano e del diverso. Offrendo, inoltre, le vicende della diffusione del cristianesimo, spesso legate ad avvenimenti storici decisivi per i popoli e le nazioni che per prime accolsero i missionari, la possibilità di inserire le vicende missionarie nella Storia e di poterle in qualche modo adattare o piegare a motivazioni ideologiche, non importa se lontane dal messaggio evangelico, facilita la programmazione di pellicole per il grande pubblico. Insomma, gli ingredienti ci sono tutti per un bel film di avventura con buone possibilità di cassetta. IL RISCHIO DELLO STEREOTIPO suo fare, del suo partire, del suo rischiare. Alle spalle lascia storie di affetti e sentimenti: genitori e parenti lontani, a volte amori giovanili; con sé porta amore per gli altri, odio per lo sfruttamento e la schiavitù materiale o morale. È per definizione dalla parte del bene; Dio è con lui e anche la sconfitta è vittoria nel Regno dei Cieli. La vicenda di un’esperienza missionaria è già quasi scritta: vi è una partenza, variamente motivabile, vi è un viaggio di avvicinamento, a volte difficile e pericoloso, vi è un incontro con l’altro, a cui seguono difficoltà di comprensione e accettazione, affrontate con l’arma della bontà e del sacrificio. C’è poi l’accoglienza e la fondazione di una nuova piccola società positiva e aperta al futuro, che saprà affrontare i problemi che verranno perché la speranza è molto più di un sogno. Se invece vi è sconfitta, affrontata con coraggio ed eroismo fino al martirio, questa non dipende dal nostro eroe ma è opera dell’“altro”, selvaggio violento, nemico della fede, o potente egoista. Sul piano degli ideali il nostro eroe non è partito per i potenti, che generalmente lo vedono con diffidenza e lo rifiutano appena si accorgono che il suo fare e il suo stile di vita metto- Il rischio, dopo quanto detto sopra, è che il fatto missionario, l’essenza di quella storia che l’ha fondato e lo sostiene, rimanga di pura superficie o talmente stereotipata da risultare accessoria. Ne vogliamo una prova? Riguardiamo Abuna Messias di Alessandrini, vincitore della Coppa Mussolini come Miglior Film alla Mostra di Venezia del 1939. Il film, anche se voluto da don Alberione con la collaborazione dei Cappuccini del Piemonte, relega in secondo piano la figura del Cardinal Massaia, le cui vicende sembrano essere solo occasione per la propaganda e il sostegno, con motivazioni di civiltà anche religiosa, di una politica di espansione coloniale. Tema centrale del film non è tanto l’opera del missionario Massaia quanto l’invidia per la sua opera e i giochi di potere attorno alla sua missione: la nazione etiopica è presentata sotto cattiva luce, essendo infatti governata da uomini interessati solo al potere e a prevalere sugli altri, anche il capo della Chiesa copta è connotato in modo fortemente negativo. Che il film mostri qualcosa di diverso rispetto al soggetto suggerito dal titolo è colto subito dall’inviato del Corriere della Sera a Venezia. Leggiamo infatti nel numero del 1° settembre 1939: “Peccato che sia andata sacrificata la figura del padre Massaia, le sue vicende, le sue lotte, la sua vita intima, la vita delle co- dossier caratteristiche di un eroe. Ha una fede per cui è disposto a morire, non ha paura di lasciare agiatezze e sicurezze per buttarsi verso l’ignoto; è solitamente solo a guardare dalla tolda di una nave il mare immenso o a cercare dall’alto di un dirupo tracce lontane di anime da convertire; è “uno” in mezzo a molti, lontano dalla patria e dai suoi cari, disarmato in mezzo a nemici spesso fanatici. Di lui conosciamo le motivazioni del Sul piano degli ideali il nostro eroe non è partito per i potenti, che generalmente lo vedono con diffidenza e lo rifiutano appena si accorgono che il suo fare e il suo stile di vita mettono in discussione il loro potere, ma per la sua gente, i più deboli, i più poveri, i rifiutati Padre Alessandro Maria Chiarel e la sua macchina fotografica. Missione Oggi | maggio 2009 19 dossier Proprio rivedendo i film del nostro elenco ci possiamo accorgere di come negli anni è cambiato l’immaginario sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare e sul suo porsi in relazione con l’altro Cinepresa Bolex Paillard H16 reflex, 16mm a molla, utilizzata da p. Carlesso come macchina di riserva. Nella pagina successiva, dall’alto in basso, don Giacomo Alberione, p. V.C. Vanzin. 20 Missione Oggi | maggio 2009 munità che aveva suscitato con la sua parola, dei compagni che egli aveva guidato con il suo esempio; tal che, alla fine, tutta la sua vita di trent’anni di apostolato pare ridursi per lo spettatore alla consacrazione di un solo prete, alla fondazione di una sola missione e alla guarigione di qualche caso di vaiolo”. Ma il film di Alessandrini non è l’unico nel quale cogliamo una presenza condizionante della propaganda, pensiamo ad esempio ai film degli anni 50/60 ambientati in Cina oppure a Mission, dove si respira una forte contestazione nei riguardi di una Chiesa istituzionale schierata dalla parte dei potenti e, di contro, un deciso schierarsi (militarmente anche) dalla parte degli ultimi, posizione mutuata dalle teologie della liberazione. È naturale che sia così, perché i film respirano l’aria del loro tempo, sono in parte specchio del loro pubblico e sempre hanno uno sguardo ideologicamente condizionato sulla realtà che ricostruiscono e sull’uomo che rappresentano. Proprio rivedendo i film del nostro elenco ci possiamo accorgere di come negli anni è cambiato l’immaginario sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare e sul suo porsi in relazione con l’altro. Riflettiamo anche solo sul diverso sguardo e spazio che è dato a quelli che sono oggetto della missione, “i selvaggi” sono passati da comparse indistinte o stereotipate dei primi film a comprimari portatori di una identità, orgoglio e appartenenza culturale e di conseguenza da un atteggiamento del missionario di tutto buono/tutto cattivo ad un mettersi prima di tutto in ascolto e in discussione. Certamente è anche cambiato lo sguardo sulle esperienze passate e sulle giustificazioni ideologiche, dal “Dio-lo-vuole” a riflessioni più attente e amare in merito al connubio, inevitabile forse, tra fede e cultura e a quello, obbligatoriamente evitabile, tra crocifisso e spada. D’altra parte ogni spettatore guarda e vive con sensibilità e reazioni diverse le immagini dello schermo e ha le sue graduatorie e i suoi preferiti. Dalla prima volta ho sempre amato Le chiavi del Paradiso e ancora adesso è sempre il mio preferito, anche doLINO FERRACIN po la visione di Mission. Origini e vicende della produzione saveriana el 1924 il missionario saveriano p. Lorenzo Fontana, con il caldo incoraggiamento di mons. Guido Maria Conforti, fondatore dei Missionari Saveriani, girava Il Nido degli Aquilotti, il primo film missionario in assoluto realizzato in Italia. Il film narrava la storia di una vocazione e riscosse un ampio successo. P. Fontana si ripeté nel 1928 con Fiamme, un drammatico episodio di vita missionaria tra i pellerossa. In seguito arrivò Africa Nostra (1931): la trama si ispirava alla vita di Charles de Foucauld, le riprese furono realizzate in Africa settentrionale. Figura di rilievo nel gruppo dei registi saveriani di quel tempo fu p. Mario Frassinetti che aveva doti non comuni di regista, soggettista e operatore. Dopo questi primi tentativi andati a buon fine, l’Istituto Saveriano pensò di ricorrere alla collaborazione di specialisti. Nacque Abuna Messias, su soggetto dei pp. Vittorino C. Vanzin e Luigi Bernardi e la regia di Goffredo Alessandrini. Il film, sovvenzionato e distribuito dalla Sampaolo Film, fu premiato con la Coppa Mussolini (diventata dopo la guerra il Leone d’oro) alla mostra cinematografica di Venezia nel 1939. Incentrato sulla figura del card. Guglielmo Massaia, di cui metteva in evidenza i caratteri missionari, il film entusiasmò soprattutto il pubblico dei giovani per i suoi spunti avventurosi ed umani. La guerra interruppe ma non fiaccò i progetti cinematografici dei Saveriani. Nel 1950 p. Frassinetti realizzò Il grande alveare. Il tema era, ancora una volta, la storia di una vocazione missionaria. Si ispirava alla figura di p. Giovanni Botton, ucciso dai giapponesi in Cina nel 1944. Sereno e vivace affresco dello stile saveriano, il film offre una galleria di personaggi simpaticamente entusiasti, colmi di un gran desiderio di donarsi in un’aper- dossier N tura mentale e di cuore che riproduceva il ritratto del missionario voluto dal fondatore. La produzione cinematografica saveriana fu affiancata da un’intensa attività di propaganda sulla stampa per la creazione di una cinematografia missionaria di vasto respiro e d’interesse nazionale: alcuni articoli dei pp. Vanzin e Bernardi apparirono su L’Osservatore Romano, Primi Piani, Missioni Illustrate, e La Rivista del Cinematografo. P. Bernardi ricoprì in seguito il ruolo di primo direttore del Sottosegretariato internazionale Cinema e Missioni. Gli anni ‘50 videro l’affermazione in Italia della grande cinematografia internazionale e di quella statunitense in particolare: per la produzione missionaria, vivace ma povera di mezzi, fu impossibile reggere il confronto. I Saveriani si dedicarono alla realizzazione di documentari, di mediometraggi e del doppiaggio di alcuni film che rispondevano alle finalità dell’animazione missionaria. Le campane di Nagasaki (1952), Una lettera per Tetsuò (1956), Maria del villaggio delle formiche (1963) e Hokkaido (1969) furono i film scelti per la versione italiana. È di particolare rilievo che i registi di queste opere non fossero cristiani. Nel 1924 il missionario saveriano p. Lorenzo Fontana, con il caldo incoraggiamento di mons. Guido Maria Conforti, fondatore dei Missionari Saveriani, girava “Il Nido degli Aquilotti”, il primo film missionario in assoluto realizzato in Italia. Il film narrava la storia di una vocazione e riscosse un ampio successo. Missione Oggi | maggio 2009 21 dossier Dodici pellicole a cinque stelle Abuna Messias. Vendetta africana Regia: Goffredo Alessandrini, Italia, 1939. 96 min. Nell’Etiopia della metà Ottocento il Cardinal Massaia, chiamato dagli etiopi Abuna Messias, fonda una missione con l’appoggio interessato del ras Menelik, in lotta per il potere contro il Negus Joannes. Il capo della chiesa copta, l’Abuna Atanasio, fortemente contrario all’opera del Massaia, grazie al suo potere religioso sulle masse costringe il Negus a espellere l’Abuna Messias. Il Massaia lascia così la terra etiopica: ha perduto il confratello ma ha consacrato un giovane sacerdote, speranza di un futuro migliore. Le chiavi del Paradiso (The Keys of the Kingdom) Regia: John M. Stahl, USA, 1944. 137min. Foto dal set del film “Abuna Messias” di Goffredo Alessandrini, su soggetto dei saveriani p. Vittorino C. Vanzin e p. Luigi Bernardi. 22 Missione Oggi | maggio 2009 Francis Chisholm è un sacerdote serenamente libero nell’affrontare i problemi dei suoi parrocchiani, ma non piace ai suoi superiori che lo convincono a partire per la missione in Cina. Qui saprà, anche nei momenti difficili della guerra, allacciare relazioni positive con il potere locale, con i missionari di altre confessioni, con la madre superiora del piccolo convento, con la gente più umile. Il suo diario, bilancio di una vita, aiuterà il suo vescovo a guardare in modo nuovo nel proprio cuore e in quello dei fedeli. La locanda della sesta felicità (The Inn of the Sixth Happiness) Regia: Mark Robson, USA, 1958. 158min. Gladys Aylward, giovane inglese, è fortemente decisa a partire come missionaria per la Cina e, nonostante la sua congregazione non l’aiuti, dopo un lungo periodo di attesa vi riesce. In missione si industria in ogni modo per annunciare la Parola e per aiutare tutti, anche se l’essere donna non le facilita il lavoro, ma con gli anni la sua dedizione e determinazione ottiene rispetto e le conversioni arrivano. L’invasione giapponese la obbliga però a lasciare tutto e portare in salvo centinaia di bimbi con una lunga marcia. Molokai, l’isola maledetta Regia: Luis Lucia. Spagna, 1959. 91min. Padre Damiano de Veuster accetta di stabilirsi nell’isola di Molokai, nell’arcipelago delle Hawaii, per aiutare i lebbrosi che vi sono prigionieri e vivono in situazioni tragiche, abbandonati da tutti e soggetti ai soprusi dei più violenti. Il religioso, con un gruppo di ammalati, si prodiga per alleviare le sofferenze di tutti. Colpito anch’egli dalla lebbra si rifiuta di lasciare l’isola e vi muore in fama di santità. Hawaii Regia: George Roy Hill. USA, 1966. 130min. Nel 1820 padre Abner, pastore calvinista, arriva su un’isola dell’arcipelago hawaiano per aprire una missione. Nei suoi confronti da parte degli indigeni e da parte dei marinai delle navi di passaggio, abituati ad ogni tipo di libertà con gli abitanti delle isole, vi è una forte ostilità a causa del suo rigore morale che lo porta al rifiuto Mission Regia: Roland Joffè, Gran Bretagna 1986. 124min. Dalla metà del XVII secolo nelle terre di confine tra Argentina, Paraguay e Brasile prosperano con il lavoro agricolo e artigianale le riduzioni, comunità di indios fondate dai padri gesuiti. Queste realtà sono però di ostacolo agli interessi economici e schiavistici dei governi spagnolo e portoghese, che ne richiedono la soppressione. Nel 1750 il Papa dà incarico di dirimere la questione al cardinale Altamirano, il quale, prima di cedere ai due governi, visita la missione di padre Rodrigo e di padre Gabriel, restandone affascinato. Alla notizia dell’arrivo di soldati per sottometterli, padre Gabriel decide di resistere con la preghiera, padre Rodrigo di difendere il villaggio con le armi. È una strage. Al cardinale non restano che i dubbi, l’amarezza e la coscienza di una sconfitta. Giocando nei campi del Signore (At Play in the Fields of the Lord) Regia: Hector Babenco, USA, 1991. 186min. In un villaggio sperduto dell’Amazzonia atterrano due avventurieri e vengono coinvolti dal poliziotto locale per cacciare dal loro ricco territorio la tribù degli indios Niaruna, che vive isolata nella foresta. Uno dei due, Lewin Moon, americano di origini cheyenne, affascinato da quella vita primitiva, decide di calarsi col para- P. Mario Francesco Frassinetti dossier della cultura locale e al tentativo di imporre nuove rigide regole di comportamento. Con gli anni la situazione sembra migliorare, ma Abner viene rimosso per l’età, ciò appare come una sconfitta, ma la richiesta di aiuto di un giovane dà nuove speranze. Regista dei primi film missionari, missionario in Cina Nato a Faenza (Ra) nel 1901, entrò tra i Saveriani a Parma nel 1923, fu ordinato sacerdote da mons. Conforti nel 1928. Collaborò alla realizzazione del film Il Nido degli Aquilotti (1924); realizzò Fiamme (1928), Africa Nostra (1931) ed Il Grande Alveare (1950). Fu missionario in Cina, nella Diocesi di Loyang, dal 1931 al 1946; morì a Roma nel 1952. P. De Martino ne tratteggiò l’impegno e l’opera sul mensile saveriano Fede e Civiltà (l’attuale Missione Oggi) con un articolo intitolato Portò sullo schermo il mondo missionario. È morto il p. Mario Frassinetti: portò a termine quattro film missionari, stava curando il doppiaggio del film giapponese Le Campane di Nagasaki e preparando un nuovo soggetto, La Madre. La notizia della sua morte provoca uno schianto, una frana nel nostro cuore e nel nostro lavoro. Venne nell’Istituto Saveriano dall’Università di Bologna, dove studiava legge. Un suo fratello, p. Enrico, l’aveva preceduto; egli venne a Parma a vedere e ci restò: era un bel giovane, solido, elegante, con un eloquio facile ed avvincente. Due attività lo interessarono subito: la cinematografia e la stampa missionaria. Per la cinematografia aveva trovato nell’Istituto Saveriano la prima idea, l’embrione di questa attività che stava concretandosi nel primo film, Il Nido degli Aquilotti. Egli se ne innamorò e completò il lavoro. Poi ne cominciò un altro e lo condusse a termine, lavorando con entusiasmo: Fiamme. È un film realizzato con pochi mezzi e senza artisti, precedendo con felice intuito gli insegnamenti della scuola realistica italiana in materia di cinematografia. Con queste esperienze tentò un lavoro più ambizioso, Africa Nostra, che girò in Africa e che ebbe giudizi assai lusinghieri. La seconda attività fu la stampa. Al periodico Fede e Civiltà, che diresse per parecchi anni, diede un’impronta seria ed elegante. Dotato di indole oratoria, nelle conferenze e nelle prediche trascinava il pubblico dove voleva: avvinceva e convinceva. Durante il tempo che fu in Cina si trovò in situazioni socio-politiche difficili e tragiche; per evitare che l’Ospedale della Missione fosse confiscato e quindi distrutto dal Governo (perché appartenente a sudditi dell’Italia, in guerra contro la Cina), d’intesa con i Confratelli, trovò lo stratagemma nel giro di pochi giorni di passarlo in proprietà ad un generale d’armata suo amico. Il Governo, aggirato, desistette. Quando l’esercito giapponese avanzò e occupò tutto il territorio della Missione, p. M. Frassinetti, cercato dai giapponesi, dovette ritirarsi a Ciung-king; terminata la guerra fu invitato in America, dal Governo degli U.S.A. come esperto organizzatore di aiuti in favore della Cina. Vi rimase poco. Nel 1946 rientrò in Italia per cure e, sottoposto all’operazione per ulcera, si riebbe in modo sorprendente. Ancora convalescente ritornò ad occuparsi di cinematografia e realizzò Il Grande Alveare, che fu accettato con favore dal pubblico e che egli invece chiamava “un tentativo”. Il messaggio più bello ci viene dal suo carattere: gioiva come un bambino man mano che scopriva i segreti di Dio ed i misteri della Grazia; gli parevano sue scoperte e nelle confidenze fraterne ne parlava con calore, da commuovere a sentirlo. Da “Fede e Civiltà” (1952), pp.75-76. Missione Oggi | maggio 2009 23 dossier cadute sul villaggio e di diventare membro della tribù per meglio aiutarli. Con la tribù entrano in contatto anche due predicatori evangelici: uno è saldo nelle proprie certezze, l’altro più timoroso e più attento a non offendere le diversità. I tre tentativi di salvare quel mondo sperduto sembrano all’inizio un gioco, ma si trasformano inesorabilmente in tragedia e genocidio. Manto nero (Black Robe) Regia: Bruce Beresdorf, Canada, 1991. 110min. Quebec, Canada, 1634. Il Padre gesuita Laforgue, accompagnato da un giovane seminarista e dal capo Chonina con alcuni guerrieri, deve risalire un fiume per raggiungere una missione da anni insediata presso una tribù urone. Padre Laforgue è soprannominato “Manto nero” a sottolinearne il rigore morale, la fede profonda e la spinta missionaria. Durante il viaggio, che si rivela insidioso per la durezza dell’ambiente e la violenza delle tribù incontrate, sono attaccati, massacrati e dispersi; il solo Laforgue arriva alla missione dove infuria la febbre. Il battesimo chiesto e donato sembra aprire al futuro, ma la Storia ricorda la tragica fine di quel tentativo. Molokai: the Story of Father Damien Regia: Paul Cox, Belgio, 1999. Nel film si ripercorre, con un occhio più attento alla sensibilità di oggi, la vicenda di Padre Damiano de Veuster, beatificato nel 1995 da Giovanni Paolo II. Muzungu Regia: Massimo Martelli. Italia, 1999. 100min Dodò sembra riuscirci, ma il vescovo ha visto e capito tutto. Il giorno della partenza Dodò decide di fermarsi nella missione. Un film leggero, ma con sorridenti buoni spunti di riflessione. Parola e utopia (Palavra e utopia) Regia: Manoel de Oliveira. Portogallo / Francia / Brasile/Spagna, 2000. 133min. Portogallo, 1663. Padre Antonio Vieira, gesuita, è convocato dal Tribunale dell’Inquisizione per difendersi dalle denunce sulla sua predicazione durante gli anni di missione in Brasile. Condannato a non poter più predicare si trasferisce a Roma, ma il cuore lo riporta in Brasile dove muore. Padre Vieira, difensore degli indios e nemico della schiavitù, è stato uno dei più grandi predicatori del Settecento. La punta della lancia (End of the Spear) Regia: Jim Hanon. USA, 2005. 107min. Nella foresta dell’Ecuador vivono tribù di indios che per la loro violenza rischiano l’estinzione. Nel 1953 quattro missionari evangelici americani riescono ad entrare in contatto con un piccolo gruppo. La diffidenza degli indigeni è forte, l’abitudine alla violenza radicata, il ricordo di altri tragici incontri con i bianchi ancor viva, così il minimo errore diventa una strage. Anni dopo, il figlio di uno dei martirizzati giunge sullo stesso lembo di terra in visita ad alcuni missionari amici, invitato dagli indios a fermarsi con loro tenta di resistere, ma la confessione/verità sulla morte di suo padre lo porta a nuove scelte (l.f.). Dodò, Freddy e Soraya atterrano con l’aereo in panne vicino ad una missione in Kenya dove sono soccorsi dall’anziano padre Luca e costretti, per l’assenza di trasporti, a rimanervi. Mentre Freddy e Soraya passano in fretta dal fascino dell’avventura alla noia, Dodò si lascia coinvolgere dalla nuova vita, fino ad accettare di sostituire l’anziano missionario ammalato, proprio quando il nuovo vescovo viene in visita alla missione. Cinepresa Arriflex 16 SR, con la quale p. Agostino Carlesso ha girato quasi tutti i suoi numerosi documentari. 24 Missione Oggi | maggio 2009 Nell’elenco i film sono dodici ma possiamo ancora ricordare Il diavolo alle 4 (The Devil at 4 o’Clock) di Mervyn LeRoy del 1961 o ancora La mano sinistra di Dio (The Left Hand of God) di Edward Dmytryk del 1955 e sappiamo di certo di avere dimenticato qualche opera o di avere letto male il contenuto di altre. dossier L’uomo che cerca parole Regia: Gigi Dall’Aglio. Italia, 2008. 93min. P er avere un’idea della trama del film è sufficiente riportare i titoletti che accompagnano le nove parti più i due intermezzi di cui è composta l’opera. Sono situazioni e cose tutte molto serie, ma raccontate con leggerezza, sorriso e ironia come se non lo fossero. 1. Dove si descrive un sardo e la sua casa nella savana africana. Niente più. 2. Dove si vede il sardo che va al mercato alla ricerca di parole. 3. Dove si attiva un collegamento radio con Mauro di Oristano. 4. Dove si parla di un viaggio, di porri, di una scatolina e di insetti stercorari. 1° Intermezzo [Domande sul passato, sul secchiello per il superfluo, sulla vocazione...]. 5. Dove si parla di motociclette, flauti e Gesù Cristo. 6. Dove si racconta di una trasferta con i giovani del villaggio. E di altre cose. 7. Dove si racconta della ricerca di un’anima, perché una persona senz’anima non è una persona. 2° Intermezzo [Lettera di lavoro di un’amica]. 8. Dove si parla di cibo, registrazioni e pastori. 9. Dove si racconta di un granaio davvero speciale. Fine. Un uomo che cerca parole e lo fa in modo serio, con attenzione, badando ai particolari (perché le parole sono particolari) e ogni tanto cerca di forzare la materialità delle cose per far sì che le parole siano obbligate a dirsi, come quando mette un secchiello in mezzo allo spiazzo del villaggio per vedere di che cosa si riempie, perché il suo problema è come si dice superfluo in lingua Masa, nella quale la parola sembra non esistere. Ma siccome certamente esistono cose superflue, basta scovarle e si arriva al concetto. La parola non l’abbiamo trovata, il secchiello è rimasto vuoto, abbiamo scoperto che il superfluo è nel nostro cervello e che il secchiello adesso qualcuno lo usa per farci fermentare la birra. E in modo serio fa cento altre cose, come il missionario, ma se glielo dici fa spallucce come a non crederci e a convincere noi di non crederci. Che ventata di aria fresca, di sereno impegno, di vita vissuta e gustata in questi quasi cento minuti dedicati a La parola non l’abbiamo trovata, il secchiello è rimasto vuoto, abbiamo scoperto che il superfluo è nel nostro cervello e che il secchiello adesso qualcuno lo usa per farci fermentare la birra Missione Oggi | maggio 2009 25 dossier presentarci Antonino Melis, il ricercatore di parole, il primo ad aver messo per iscritto una lingua fino a quel momento solo orale, approntando così uno strumento fondamentale per difenderla, per metterla al sicuro, per poterla tirare fuori nei momenti di carestia, un dizionario come il granaio che alla fine si costruisce e su cui conta un villaggio intero per i momenti duri. Inizio del film: l’obiettivo scorre sulla parete dove sta il crocifisso, poi scende su alcune maschere tradizionali del Ciad e della Sardegna, poi passa sul dizionario di francese e sul dizionario italiano-sardo e su una carta delle lingue tribali del La fotografia di Pier Paolo Pessini ha momenti umanissimi e il commento musicale a tratti porta dentro un coro sardo che canta una liturgia latina in stile tradizionale Scene dal film “L’uomo che cerca parole”. A destra: il saveriano padre Antonino Melis, protagonista del film. 26 Missione Oggi | maggio 2009 Ciad. Poi la foto di gruppo dei compagni di corso, una zumata sul volto di padre Antonino Melis in primo piano mentre dorme, prime tracce di bianco sulla barba, i capelli radi, maschera tra le maschere. Una zanzariera che si muove al girare di un ventilatore. C’è il disordine ordinato di un single con la testa in cento cose. È una presentazione per immagini e non è necessaria spiegarla se non per quel crocifisso senza braccia e senza gambe, un Cristo che ancor più degli altri ha bisogno di braccia per accogliere e di gambe per andare incontro. Un Cristo diversamente abile, inutile e quasi irriconoscibile se Antonino non ci mettesse le sue braccia e le sue gambe. Dopo il caffè padre Melis sceglie le ciabatte giuste e si avvia verso il mercato in cerca di parole. E noi seguiamo quell’uomo che accompagna altri uomini lungo la strada per il mercato: è come un’indicazione di metodologia missionaria e cristiana. PADRE ANTONINO MELIS Autopresentazione di padre Melis, di fronte alla luna: e se avessi fatto il biologo, punto e basta? Adesso avrei fatto due figli, due femmine come tradizione di famiglia; i Melis fanno più femmi- LO SCENEGGIATORE Mario Ghiretti Nasce nel 1946 a Parma. Nel 1970 si laurea in Economia. Dal 1964 è attore del Teatro Universitario di Parma, di cui diventa direttore nel 1969. Produce video per eventi commissionati da enti pubblici e da aziende private. Nel 1996 e nel 2008 progetta due grandi mostre itineranti dedicate al continente africano. IL REGISTA Gigi Dall’Aglio nasce a Parma nel 1943. Inizia la sua lunga carriera come attore e regista al Centro Universitario Teatrale, del quale è direttore dal 1969 al 1971. È tra i fondatori della Compagnia del Collettivo. Regista e autore si è cimentato anche in opere musicali, conducendo nel 1995 un interessante progetto a tre con Mario Martone e Giorgio Barberio Corsetti: L’historie du soldat. ne che maschi. Io sono il primo Melis che non fa figli, che fa il prete; il primo Melis che parla africano; il primo Melis che scrive un libro: Tradizioni orali Masa nella savana del Ciad; sono il primo che scrive un vocabolario masa-francese; il primo che sta cercando il superfluo. Sono un prete che ha cento fedeli per parrocchia, che sono un po’ cristiani e un po’ qualcos’altro; che ha cento casini uno per fedele. La fotografia di Pier Paolo Pessini ha momenti umanissimi e il commento musicale a tratti porta dentro un coro sardo che canta una liturgia latina in stile tradizionale. Ma non è un idillio, anche se la chiacchierata di Antonino con la luna, seduto sul tetto di lamiera della missione, può sembrarlo, perché c’è Bernadette che sta male, ha l’Aids e domani Antonino andrà a trovarla e lui, uomo delle parole, non è sicuro di saper trovare quelle giuste da dirle... è vero che il crocifisso sulla parete della stanza di sotto è senza braccia e gambe, ma il cuore... ce l’ha tutto. (l.f.) dossier Intervista a Padre Fiorenzo Raffaini direttore di Videomission Tra Oltremare e film Videomission A CURA DI FEDERICO TAGLIAFERRI N egli ultimi anni la Chiesa ha fatto un notevole sforzo per adeguare il suo messaggio ai moderni mezzi di comunicazione di massa, in particolare nel campo degli audiovisivi e dei “new media”. A che punto siamo? È passata molta acqua sotto i ponti da quando Papa Gregorio XVI con la Mirari vos, il 15 agosto 1832, condannò la libertà di stampa, seguito in questo anche da Pio X nel 1906, con la Pieni l’animo. Solo più tardi Pio XII intuì la grande potenzialità del cinema, distinguendo tra mezzi e contenuti. Fu infine il Concilio Vaticano II ad affermare la libertà di stampa e d’informazione: “Appartiene dunque alla società umana il diritto all’informazione su quanto, secondo le rispettive condizioni, convenga alle persone, sia singole sia associate” (Inter mirifica, 4 dicembre 1963). Credo che la distinzione tra mezzo e contenuto sia necessaria ancora oggi. Ogni mezzo in sé è neutro, si tratta di vedere come lo si vuole usare, dei contenuti che si vuole veicolare e delle finalità per raggiungere le quali si vuole veicolare tali contenuti. Se parlando di Chiesa s’intende la Santa Sede, ci sono state aperture notevoli sull’uso dei nuovi mezzi di comunicazione. Si è cercato di “strizzare l’occhio” ai giovani, di essere un poco cool, sostenendo ad esempio che il fenomeno di Facebook, “in fondo incarna un’utopia: quella di stare sempre vicini alle persone a cui teniamo in un modo o nell’altro, e di conoscerne altre che siano compatibili con noi...”. La Conferenza episcopale italiana, invece, è più prudente: “Oggi, nell’era del così detto Web 2.0, la Chiesa è consapevole delle potenzialità, ma anche dei rischi di Internet”. Davanti al proprio computer, ciascuno rimane apparentemente in contatto col mondo, ma in realtà questo mondo rimane distante, non coinvolgente, asettico, e non “compromette” il Padre Fiorenzo Raffaini in Colombia nel Parco del caffè (2001). Missione Oggi | maggio 2009 27 dossier I documentari missionari, anche senza i mezzi e la tecnologia dei grandi “network”, possono portare ad un vasto pubblico una visione del mondo (in particolare del Sud del mondo) libera da condizionamenti politici ed economici Padre Aldo Rottini, iniziatore nel 1987 di “Videomission”. 28 Missione Oggi | maggio 2009 fruitore dei new media e questi a sua volta non si misura con la realtà in un rapporto incarnato. Quale spazio trova l’annuncio missionario in questi sviluppi? Limitandosi alla breve storia dei Missionari Saveriani, tra la fine dell’’800 e gli inizi del ’900 il fondatore Guido Maria Conforti vide nelle immagini e nelle pellicole un potente mezzo far vivere la realtà missionaria alla gente comune, facendo conoscere luoghi e personaggi della missione, suscitando interesse, affetto ed entusiasmo. Oggi i reportage sulle realtà del Sud del mondo sono debitori dei documentari missionari. Non solo in molti casi registi e produttori si appoggiano alle strutture missionarie, ma si servono dell’esperienza e della conoscenza della storia e del territorio da parte dei missionari per realizzare il loro lavoro. Non sempre le loro intenzioni sono limpide: si cerca una storia, un personaggio che possa colpire la sensibilità della gente e poi si fa “passare” tutto quello che si vuole. I reportage della Rai sulla guerra del Congo, ad esempio, hanno mostrato di non aver capito le vere ragioni di quella guerra. Al contrario, la documentaristica missionaria, anche senza i mezzi e la tecnologia dei grandi network, può portare ad un vasto pubblico una visione del mondo (in particolare del Sud del mondo) libera da condizionamenti politici ed economici. Quali sono gli istituti o le organizzazioni che più si sono impegnati in questo settore? Si dedicavano alla documentaristica missionaria soprattutto i Comboniani, il Pime, la Consolata, i Saveriani, per quanto riguarda gli istituti esclusivamente missionari. Certo esistono ancora i Salesiani, la NovaT dei Cappuccini, i Paolini e le Paoline che producono audiovisivi. Ma, per usare un’espressione della “formula uno”, di scuderie che producono tutto in casa ne sono rimaste pochissime. Le ragioni? Molte: i costi, la concorrenza con prodotti all’apparenza similari, la difficoltà di raggiungere il grande pubblico, un certo disinteresse del clero diocesano. I gruppi missionari, super impegnati, non riescono ad organizzarsi anche nell’annuncio ad gentes. Su di essi si riversa una valanga di messaggi e di immagini che vanno dalla filantropia all’ecologia passando per il pacifismo, il mercato equo e solidale la democrazia, i diritti dell’uomo, il debito estero dei paesi del Sud del mondo, ecc. La nostra voce diventa poco udibile, poco interessante perché ormai ciò che veicolavamo, come giustizia, solidarietà, democrazia, libertà, tanti altri lo fanno, con mezzi più importanti. E allora? Quale strada percorrere? C’è una scarsa conoscenza e considerazione del mezzo audiovisivo. Nonostante l’era di Internet e della velocità, l’immagine nel mondo religioso è ancora vista come l’ancella della carta stampata. È percepita come una cosa bella, ma superflua, perché ciò che conta è “altro”. Manca una strategia che abbia come obiettivo l’educazione all’audiovisivo di coloro che vivono in prima linea l’animazione missionaria. È dunque necessario capire il linguaggio di questi mezzi per renderli flessibili nell’annunciare il Vangelo. Quali sono i temi trattati e quali si potrebbe ancora toccare? Agli inizi del cinema missionario, il tema era la vita del missionario. A volte ciò si traduceva in veri e propri film, ma dagli anni ’50 in poi del secolo scorso l’avvento del colore e del cinema statunitense ci ha costretti a ripiegare sul documentario, più agile e meno costoso. Negli ultimi vent’anni anche questa strada è diventata difficile, perché molti hanno iniziato a produrre documentari sullo stile dei nostri. Oggi differenziarsi è più difficile ed entusiasmare la gente è un’impresa ardua. Pur rivolgendoci a tutti, chi si interessa è una sempre più una sparuta minoranza. I temi trattati sono legati all’annuncio del Vangelo, e di conseguenza ai temi della giustizia sociale, della pace, dello sviluppo, del debito estero dei paesi del Sud del mondo, del rispetto degli altri. Che cos’è “Videomission” e come definirebbe il suo lavoro? Videomission s’inserisce nel lungo cammino saveriano nel mondo dell’immagine. Il fondatore ha sempre voluto che i missionari riportassero degli oggetti dai luoghi di missione per creare un museo perché la gente potesse avvici- dossier Internet “straordinario potenziale” Nel suo Messaggio per la 43a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, Benedetto XVI considera come internet stia determinando cambiamenti fondamentali nei modelli di comunicazione e nei rapporti umani, specialmente tra i giovani, la “generazione digitale”, che - scrive il Pontefice - sa approfittare dello “straordinario potenziale delle nuove tecnologie”, da lui definite “un vero dono per l’umanità”. La Rete è una rivoluzione antica: replica forme di trasmissione del sapere e di vivere civile, ostenta nostalgie, dà forma a desideri antichi. In particolare il desiderio di comunicazione e amicizia “è radicato nella nostra stessa natura di esseri umani” e risponde alla chiamata di Dio “che vuol fare dell’umanità un’unica famiglia”. Quando la Rete, chiamata a connettere, finisce invece per isolare, allora tradisce se stessa. narsi a culture diverse. Foto e film completavano questa strategia di animazione agli ideali missionari. Oggi non stupisce che dei missionari s’impegnino in settori che non sono considerati “classici” della pastorale, anzi stupirebbe forse il contrario. Ma non è stato sempre così. La stampa, la radio, il cinema e la televisione hanno spesso suscitato diffidenza, se non ostilità, nelle gerarchie ecclesiastiche, soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo. Ma grazie al contributo particolare di personaggi come don Giacomo Alberione, anche nel mondo, inizialmente diffidente, di chi aveva la responsabilità di guidare il popolo di Dio, si è fatta strada la certezza che la positività o negatività degli strumenti di comunicazione non stava nel mezzo in sé, ma nel suo uso. Queste invenzioni sono un “dono” che Dio ha messo alla portata dell’uomo per la ricerca e la diffusione del bene (Pio XII, Miranda prorsus, 8 settembre 1957). Videomission è nata nel 1987 per iniziativa di p. Aldo Rottini, che aveva intuito le nuove potenzialità espressive del mezzo magnetico (telecamere e videoregistratori in sostituzione della pellicola) per le riprese. Allo stesso tempo continuava comunque anche il filone video su pellicola iniziato da p. Agostino Carlesso, che a sua volta continuava l’opera dei padri Bonari, Frassinetti e Serra. Scomparso p. Carlesso, ho ricevuto io l’incarico di recuperare il materiale filmico precedente. Ora continuo l’opera di approccio al mondo missionario non solo dal punto di vista religioso, ma anche umano e sociale. Quali sono le ultime produzioni di “Videomission”? Che soggetti presentano e a chi sono destinate? Abbiamo ultimato un video su Annalena Tonelli, uno su Guido Maria Conforti, fondatore dei Missionari Saveriani, un altro su p. Piero Uccelli, un altro ancora sui Martiri Giapponesi. Abbiamo inoltre completato un video sulla parrocchia missionaria, inserendovi storie dal Congo, dal Bangladesh e dal Brasile, mentre un altro lavoro è dedicato ai martiri saveriani del Burundi, del Congo e del Bangledesh (quest’ultimo in fase di ultimazione). FEDERICO TAGLIAFERRI Oggi non stupisce che dei missionari s’impegnino in settori che non sono considerati “classici” della pastorale, anzi stupirebbe forse il contrario. Ma non è stato sempre così Padre Fiorenzo Raffaini, con il fratello p. Leonardo, missionario saveriano, sullo sfondo di Bogotà. Missione Oggi | maggio 2009 29 dossier Film& mission Intervista a Maria Grazia Piredda MARIA FRANCESCA PIREDDA È LAUREATA IN STORIA E CRITICA DEL CINEMA ALL’UNIVERSITÀ CATTOLICA DI MILANO CON UNA TESI SUL CINEMA COLONIALE ITALIANO. ATTUALMENTE È AS- SEGNISTA DI RICERCA NELLA SEZIONE CINEMA DIPARTIMENTO MUSICA E SPETTACOLO DELL’UNIVERSITÀ DI BOLOGNA. LE ABBIAMO DEL RIVOLTO ALCUNE DOMANDE SUL RAPPORTO TRA CINEMA E MISSIONE. PER SAPERNE DI PIÙ Maria Grazia Piredda, Film & Mission. Per una storia del cinema missionario. EdS, Roma 2005. presso: [email protected] 30 Missione Oggi | maggio 2009 L ei ha pubblicato di recente “Film & Mission. Per una storia del cinema missionario” (EdS, Roma 2005). Quale rapporto esiste tra evangelizzazione e comunicazione? Si può comunicare la missione con il cinema? È abbastanza facile immaginare come la questione dell’evangelizzazione si accompagni da sempre al problema della corretta forma comunicazionale da adottare. L’attività missionaria, alla quale è stata in gran parte demandato il compito di diffondere la religione cristiana nel mondo, si è dovuta confrontare nei secoli con problemi concreti quali la difficoltà di avvicinare popolazioni aventi lingua, usi e culture differenti da quelli dei religiosi, nonché con l’esigenza di informare i fedeli in Europa sull’attività dei missionari oltreoceano. Una delle soluzioni frequentemente adottate è stata quella di affidarsi alle immagini (dipinti, cartoline, foto- grafie ecc.), per la facilità e piacevolezza di apprendimento che queste garantirebbero e per il fascino in grado di esercitare su un pubblico eterogeneo. Le immagini, dunque, hanno costituito spesso il primo canale comunicativo tra i missionari e le popolazioni oggetto dell’attività di evangelizzazione e insieme la “prova” dell’operato dei missionari. Le immagini cinematografiche si inseriscono, appunto, all’interno del rapporto secolare che la Chiesa intesse con le arti rappresentative: esse affascinano, informano, educano. I missionari lo capirono molto presto e se ne servirono sin dai primi anni del XX secolo. Tuttavia, il cinema non comunica necessariamente la realtà della missione, piuttosto la mette in forma. Un documentario girato negli anni Trenta, per esempio, è inevitabilmente figlio della cultura imperialista dell’Italia del fascismo. Questo non diminuisce l’importanza delle immagini cinematografiche rispetto alla possibilità che queste possiedono di comunicare la missione; anzi, ci dicono qualcosa non solo sull’oggetto rappresentato (appunto, la missione), ma anche su chi lo ha rappresentato (i missionari e, ritornando al mio esempio, il rapporto con il colonialismo). Che cos’è il “cinema missionario”. Quali sono le sue chiavi di lettura? Con l’espressione “cinema missionario” ho voluto indicare tutte le pellicole cinematografiche che prevedono il coinvolgimento dei missionari in fase di realizzazione e di distribuzione. Dunque, sia le opere girate espressamente dai religiosi, sia quelle commissionate da questi a professionisti, i lavori firmati dai missionari in fase di ideazione e quelli distribuiti con marchi legati agli Istituti. All’interno di questo gruppo, inoltre, dossier è possibile riconoscere sia film di finzione (racconti che tematizzano la vita in missione) sia documentari, questi ultimi ulteriormente distinguibili per i contenuti che spaziano dalla predilezione per la dimensione naturalistica e etnografica dei popoli indigeni all’attività missionaria, dall’informazione giornalistica alla didattica. Si tratta, dunque, di un corpus di opere molto vario e consistente, che si muove nei punti di intersezione di settori differenti – l’industria cinematografica e l’amatoriale, la propaganda missionaria, l’inchiesta giornalistica, l’antropologia ecc., dei quali bisogna tener conto per tentare un’analisi profonda del materiale filmico. Quali sono i percorsi del cinema missionario fino ai nostri giorni? I missionari iniziano ad utilizzare le immagini del cinematografo dai primi anni del XX secolo, servendosi soprattutto dei film che danno rappresentazione della Passione di Cristo e i documentari di tipo naturalistico realizzati da importanti case di produzione. A partire dagli anni Dieci del secolo scorso, tuttavia, anche i missionari si mettono dietro la macchina da presa con l’intento di informare sulla propria attività e sulle realtà incontrate nel corso dei proprio viaggi. In base ai dati che finora sono emersi dagli studi sull’argomento, il primo lavoro prodotto da missionari italiani è un documentario piuttosto lungo, circa sei ore, girato in Eritrea nel 1922 dai missionari Cappuccini, che dà rappresenta- P. Agostino Carlesso e la “Oltremare Film” Dopo l’ordinazione sacerdotale (1953), p. Carlesso fu destinato a Parma col compito di seguire la cinematografia. Una destinazione indovinata, vista la mole di lavoro che portò a termine. P. Carlesso frequentò il CIAC (Centro Italiano Addestramento Cinematografico) per i corsi di regia e di direttore della fotografia. Fu incaricato da p. Vanzin di organizzare la settimana INCOM, basandosi su una serie di documentari girati in Indonesia, Giappone, Sierra Leone e Bangladesh da alcuni confratelli muniti di cinepresa, di un manuale pratico e soprattutto di tanta passione ed entusiasmo. L’iniziativa si fermò al decimo documentario per mancanza di tempo da parte dei cineamatori e da difficoltà logistiche, nonché per mancanza di fondi. Nel 1959 fu mandato a Roma dove restò fino a pochi giorni dalla morte, avvenuta nel 1996. Nel 1967 fece il suo primo viaggio da regista-cineoperatore in Sierra Leone. In seguito ne intraprese altri 14. Trascorse 41 anni dietro una cinepresa o davanti ad una moviola con l’intento di comunicare con suoni ed immagini la vita dei missionari e della loro gente. Dai suoi lavori emergeva viva anche l’atmosfera culturale nella quale i protagonisti si muovevano. P. Agostino sentiva che le richieste erano al limite delle possibilità culturali dell’Istituto e allora si arrangiava partecipando a concorsi, chiedendo aiuti “per finire il lavoro”. La sua produzione fu enorme, girò 60 documentari e scattò decine di migliaia di diapositive. Le sue opere non furono di denuncia politica o religiosa, ma si concentravano sulla gente e sulle sue reazioni di fronte alle avversità della vita, ai disagi del clima e delle situazioni politiche. Non si interessò mai di politica internazionale. La sua scelta fu quella di cogliere il missionario nel suo farsi prossimo. Lo mostrò nel dare risposte concrete per alleviare la sofferenza della gente senza però ricorrere alla violenza, ai movimenti di massa, alla guerriglia o alle rivoluzioni, se non quella del cuore. Piccole storie quotidiane di lavoro, di fatica, di difficoltà, dove ciò che conta per il regista è la figura di questo “eroe” umile che è il missionario, amato dai bambini e dai poveri. Un “eroe”, a volte solitario, che lascia i posti di prestigio alle realtà ecclesiali locali per lavorare nelle periferie, nelle contrade sperdute delle foreste equatoriali, mai sprecato, mai inutile perché porta con sé la Buona Novella da annunciare ai poveri che appunto abitano la periferia di questo mondo. Le sue opere avevano fondamentalmente lo scopo di rappresentare un sussidio per l’animazione vocazionale e missionaria. Esse evidenziano il fascino delle tradizioni orientali, dai colori alle danze ai costumi, che formano una cornice affascinante in cui si svolge il lavoro del missionario. Appare così evidente l’intento di suscitare interesse, risvegliare vocazioni dimenticate da qualche parte nel cuore dei giovani. Missione Oggi | maggio 2009 31 dossier 32 Missione Oggi | maggio 2009 nema potrebbe essere assunto come esempio del percorso di tutto il cinema missionario italiano lungo il XX secolo: da amatori a professionisti del settore. Oltre, poi, che registi e produttori, tra i Saveriani si possono annoverare alcune delle figure che più hanno animato e approfondito la discussione in merito al rapporto tra cinema e attività missionaria: a titolo di esempio ricordo i nomi dei padri Vittorino C. Vanzin e Francesco De Zen, di cui è possibile ancora oggi constatare la passione degli interventi espressi in varie occasioni. Il caso certamente più emblematico del cinema missionario saveriano è dato da un film realizzato nel 1929 e dal titolo Fiamme, regia di padre Mario Frassinetti. Numerose le particolarità di questo prodotto, a partire dalla scelta di girare un’opera di finzione e non un documentario come era stato abituale fino ad allora. La vicenda raccontata, inoltre, costruisce uno schema narrativo imitato da molte opere successive: la figura del missionario – in opposizione a quella dello stregone – si pone quale difensore degli indigeni messi in pericolo dalla loro stessa ignoranza, fino al compiersi della conversione alla religione cristiana. In più Fiamme decide di ambientare la vicenda in America, mettendo in scena uno scontro tra indiani e rangers, cioè adatta alcune caratteristiche del genere cinematografico western ai valori e alle esigenze dell’attività missionaria. Questo dimostra non solo un’apertura e un apprezzamento per il linguaggio cinematografico che sono assolutamente atipici per il periodo, ma anche una profonda conoscenza dell’immaginario popolare, amante delle storie avventurose ed esotiche. Il film viene realizzato in brevissimo tempo, da dilettanti, che così trascorrono le vacanze estive sugli Appennini intorno a Parma, tra inseguimenti a cavallo e benedizioni della macchina da presa; dunque non possiede velleità artistiche e tuttavia ancora oggi stupisce per l’originalità di concezione e di realizzazione. Il valore di Fiamme, inoltre, è dato dal fatto che resta a tutt’oggi il primo film missionario di cui possediamo le immagini, il cui apprezzamento, insomma, non si costruisce unicamente tramite fonti indirette (per esempio, la stampa del periodo). Con queste premesse, sembra quasi naturale che i Saveriani abbiano continuato nella produzione cinematografica, aggiornando ovviamente tecniche e linguaggi fino ai nostri giorni (a cura di m.m.). MISSIONE OGGI - N. 5/2009 - CSAM - VIA PIAMARTA 9 - 25121 BRESCIA - [email protected] I Missionari Saveriani di Parma hanno dimostrato un’attenzione duratura nel tempo per il cinematografo. È sufficiente dire che il primo lavoro da essi realizzato risale al 1924 zione della colonia italiana e della missione cappuccina in loco. È necessario sottolineare come i religiosi non avessero una preparazione professionale, dunque i lavori di questo periodo risentono di un certo dilettantismo (riprese incerte, pellicole e macchinari di fortuna, scarsa originalità rispetto agli argomenti trattati), ma nonostante questo è encomiabile la sensibilità fotografica, il desiderio di sperimentazione, la fiducia riposta nelle capacità comunicative del cinematografo, cosa insolita visto il contemporaneo scetticismo espresso dalla Chiesa di Roma. La fase per così dire “pionieristica” ha termine con la seconda guerra mondiale: dalla fine degli anni Quaranta si assiste alla proliferazione di iniziative (come festival e concorsi), di case di produzione promosse dagli Istituti missionari, di dibattiti ospitati all’interno delle riviste missionarie circa il corretto utilizzo del cinema nell’attività evangelica. L’insieme di questi fenomeni sta a testimoniare come il cinematografo avesse ormai conquistato un posto importante nell’attività missionaria; sempre come ausilio della parola, ma non necessariamente in forma dilettantistica. Questi dati si confermano nei decenni successivi, caratterizzati da un incremento esponenziale della produzione audiovisiva. Tuttavia, mentre alcuni missionari continuarono ad impegnarsi in prima persona nella realizzazione di film e documentari, la maggior parte degli Istituti preferì dare vita a realtà produttive gestite da laici, professionisti del settore. L’avvento della tecnologia digitale e l’ampliarsi del mercato dell’audiovisivo a partire dagli anni Ottanta, infatti, hanno portato alla nascita di numerose case di produzione nel mondo, mentre la concorrenza della televisione e di Internet ha avuto come conseguenza l’utilizzo del cinema quale strumento di approfondimento e informazione, piuttosto che didattico o di cronaca. Quale parte hanno avuto i Missionari Saveriani nella storia del cinema missionario? Può indicare un caso significativo? I Missionari Saveriani di Parma hanno dimostrato un’attenzione duratura nel tempo per il cinematografo. È sufficiente dire che il primo lavoro da essi realizzato risale al 1924 (Il nido degli aquilotti, un film purtroppo perduto, ma che doveva servire a suscitare nuove vocazioni tra i suoi spettatori) e ancora è operativa Videomission, nata nel 1987 per iniziativa di padre Ottorino Maule, con sede a Brescia. In qualche modo, insomma, il rapporto tra Saveriani e ci- Tra i grandi mutamenti e, perché no, turbamenti, che hanno accompagnato il rinnovamento della Chiesa chiesto dal Concilio, occorre senz’altro annoverare anche una crisi di identità dei presbiteri o sacerdoti. Questa è stata condizionata certamente dalle concomitanti grandi trasformazioni avvenute nella società e ripercossesi nella stessa Chiesa durante la “rivoluzione culturale” che ebbe il suo apice negli eventi del ‘68. Ma, in un certo senso, essa è stata anche indirettamente provocata dal Concilio Vaticano II che, chiedendo ai ministri tutti della Chiesa cambiamenti non piccoli nel modo di auto-comprendersi, ha contribuito a questa “crisi di identità” dalla quale solo ora, sembra, ci si stia lentamente riprendendo. Prove dolorose di questa crisi sono state, tra l’altro, le molte defezioni, la diminuzione nel numero di candidati al sacerdozio (sebbene anche qui le cause siano molteplici), oltre ad una inusitata difficoltà a perseverare nel mandato ricevuto e nell’impegno assunto. ROVESCIAMENTO DI PROSPETTIVA Mentre il Concilio di Trento, a motivo della sua finalità propria e dei compiti concreti e urgenti con cui doveva confrontarsi, partiva dalla riaffermazione della verità di fede del sacrificio eucaristico per ribadire ed esprimere la identità del “sacerdote” (come il “presbitero” era definito in senso reAFP Tensione missionaria e identità sacerdotale concilio e missione MO P. Franco Sottocornola, missionario saveriano, di Bergamo, è fondatore e direttore del Centro di spiritualità e dialogo interreligioso Shinmeizan a Tamana-gun (Kumamoto, Giappone), nonché consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso CRISI DI IDENTITÀ FRANCO SOTTOCORNOLA V olendo riflettere sul mistero della Chiesa, la sua natura e struttura, la sua ragion d’essere profonda, il Concilio Vaticano II si è occupato in modo specifico e dettagliato dei ministeri che sono elemento essenziale della sua identità. Tra i 16 documenti discussi, approvati e offerti come autorevole insegnamento e guida per la vita della Chiesa, troviamo infatti un decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi, e ben due decreti che riguardano i presbiteri: uno sulla loro formazione e l’altro sul loro ministero e la loro forma di vita. Vorremmo qui soffermarci sulle indicazioni che il Concilio ha dato per comprendere il servizio ministeriale e per viverlo fruttuosamente all’interno del grande mistero che è la Chiesa, corpo di Cristo, sua presenza viva nella storia del mondo e strumento della sua azione di salvezza. strittivo), e, inoltre, trattava del ministero nella Chiesa a partire appunto dai sacerdoti, il Vaticano II, con una intenzione più ampia e generale, nella Costituzione sulla Chiesa (“Lumen gentium”) colloca il discorso sui ministeri all’interno del più vasto discorso sulla Chiesa tutta, partendo dal ministero dei vescovi, successori degli Apostoli, e all’interno di questo ministero coglie e delinea l’identità del presbitero. Di conseguenza, l’identità del presbitero Missione Oggi | maggio 2009 33 concilio e missione Per un superamento felice della crisi di identità del ministero presbiterale, è necessario che quanti vi sono chiamati assumano con consapevolezza e con entusiasmo i tratti di questa identità come delineati dal Concilio, trasformandoli in forma di vita e facendone il proprio orizzonte spirituale. Si può ben capire che questo cambio di prospettiva possa salutarmene mettere in crisi molti sacerdoti, ma anche aiutarli a superare questa crisi con una chiara e gioiosa consapevolezza della propria vera identità. Essa li unisce intimamente a Cristo, in modo nuovo e speciale; ma ciò avviene nella Chiesa, attraverso una concreta e vissuta comunione di missione con il vescovo e con la comunità dei fedeli, e nella prospettiva della salvezza di tutta l’umanità. E’ questa la prospettiva che domina anche la conclusione del decreto conciliare sui presbiteri (Cf. n. 22). Papa Benedetto XVI, in occasione del 150mo anniversario della morte del santo curato d’Ars, Jean Marie Vianney, ha recentemente proclamato un “anno sacerdotale”, che inizierà il 19 giugno 2009, solennità del “Cuore”, ossia del mistero di amore misericordioso, di Cristo. La massima “estensione” della missione del presbitero non può non essere radicata e sostenuta dalla massima “intensità” della sua percezione e appropriazione in una identificazione mistica con questo “Cuore”, questo amore, di Cristo, fonte e luogo di vita e di salvezza per il mondo intero. viene vista nel suo insieme, come collaboratore del vescovo in tutto il suo servizio alla Chiesa e al mondo, servizio definito tradizionalmente dal triplice ambito, del governo o guida pastorale, della predicazione della parola di Dio, e della celebrazione dei segni sacramentali della presenza e dell’azione salvifica di Cristo nella sua Chiesa. IL DECRETO SUI PRESBITERI Non potendo qui analizzare in dettaglio tutto il ricco testo del decreto “Presbyterorum ordinis”, ci soffermiamo sulla impostazione generale del discorso sui presbiteri e sulla precisa e chiara affermazione della loro missione universale come elemento costitutivo della loro identità. Il decreto, sulla scia della “Lumen gentium”, inizia descrivendo il ministero presbiterale come partecipazione al ministero dei vescovi, e definendo questi come continuatori del ministero apostolico nella Chiesa. Ne consegue una concezione del ministero presbiterale ricca e feconda, radicata nel ministero degli Apostoli, ampia, universale, aperta sul mondo intero. Con una felice citazione di un bellissimo e denso testo paolino, il 34 MO Superamento della crisi Missione Oggi | maggio 2009 Concilio afferma: “Dato che i Presbiteri hanno una loro partecipazione nella funzione degli Apostoli, ad essi è concessa da Dio la grazia per poter essere ministri di Cristo Gesù fra le genti mediante il sacro ministero del Vangelo, affinché l’oblazione delle genti sia accettabile, santificata nello Spirito Santo (cfr. Rom. 15, 16 gr.)... Effettivamente, il loro servizio, che comincia con l’annuncio del Vangelo, deriva la propria forza e la propria efficacia dal Sacrificio di Cristo, e ha come scopo che ‘tutta la città redenta, cioè la riunione e società dei santi, offra a Dio un sacrificio universale per mezzo del Gran Sacerdote, il quale ha offerto se stesso per noi con la sua Passione, per farci diventare corpo di così eccelso Capo’ (Agostino, De Civ.Dei 10,6). Pertanto, il fine cui tendono i Presbiteri con il loro ministero e la loro vita è la gloria di Dio Padre in Cristo. E tale gloria si dà quando gli uomini accolgono con consapevolezza, con libertà, e con gratitudine, l’opera di Dio realizzata in Cristo e la manifestano in tutta la loro vita” (n. 2). Il termine “uomini” (homines) qui sarebbe meglio tradotto, in italiano, con “l’umanità tutta”! Il n. 10, con cui inizia il cap. III, riafferma esplicitamente questa prospettiva universa- le del ministero presbiterale: “Il dono spirituale che i Presbiteri hanno ricevuto nell’Ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale missione di salvezza, ‘fino agli ultimi confini della terra’ (Atti, 1,8), dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli Apostoli. Infatti il sacerdozio di Cristo, di cui i Presbiteri sono resi realmente partecipi, si dirige a tutti i popoli e a tutti i tempi, né può subire limite alcuno di stirpe, nazione o età...”. LA PREGHIERA DI ORDINAZIONE Queste indicazioni conciliari sono state accolte e come condensate nella più importante delle modifiche introdotte dalla riforma liturgica post-conciliare nel rito di ordinazione dei presbiteri, nella stessa preghiera di ordinazione pronunciata dal vescovo, che si conclude con una visione grandiosa, missionaria, universale, del loro ministero: “Siano degni cooperatori dell’ordine episcopale, perché la parola del Vangelo mediante la loro predicazione, con la grazia dello Spirito Santo, fruttifichi nel cuore degli uomini, e raggiunga i confini della terra [...] Siano uniti a noi, o Signore, nell’implorare la tua misericordia per il popolo a loro affidato e per il mondo intero. Così la moltitudine delle genti, riunita a Cristo, diventi il tuo unico popolo, che avrà il compimento nel tuo regno”. FRANCO SOTTOCORNOLA DI ESSERE PASSATI DALLA FASE DELLA “PRIMA CONOSCENZA” A QUELLA DELLA “FIDUCIA”, ALMENO CON LA MAGGIOR PARTE DELLE REALTÀ MUSULMANE PRESENTI NELLA DIOCESI AMBROSIANA. ORA LE RELAZIONI SONO PIÙ FACILI, CI SI CONOSCE MEGLIO, CI SI FIDA GLI UNI DEGLI ALTRI, I RAPPORTI SONO PIÙ SCIOLTI, NON SI TEME DI Milano Una Chiesa in dialogo AFFRONTARE LE DIFFERENZE E LE DIVERGENZE verso il convegno AP PHOTO/CORRADO GIAMBALVO GRAZIE AL PAZIENTE IMPEGNO DI QUESTI ANNI, ORA POSSIAMO DIRE GIAMPIERO ALBERTI H o già descritto, in “Missione Oggi” del mese di ottobre 2007, la pastorale per il dialogo interreligioso della Chiesa di Milano. Racconterò ora degli sviluppi del nostro lavoro, anche a livello di Forum delle Religioni, che avevo solo citato nel precedente articolo. DALLA “CONOSCENZA” ALLA “FIDUCIA”, UN PASSO AVANTI Grazie al paziente impegno di questi anni, ora possiamo dire di essere passati dalla fase della “prima conoscenza” a quella della “fiducia”, almeno con la maggior parte delle realtà musulmane presenti nella diocesi ambrosiana. Ora le relazioni sono più facili, ci si conosce meglio, ci si fida gli uni degli altri, i rapporti sono più sciolti, non si teme di affrontare le differenze e le divergenze. Questa reciproca fiducia permette e richiede un lavoro più approfondito ai vari livelli. Si cerca cioè di capire sempre meglio, al di là dei ter- mini che possono sembrare uguali nelle due religioni, ciò che ogni religione intende, professa e vive realmente. Ad esempio ci si confronta su cosa musulmani e cristiani rispettivamente intendono quando si parla di Dio, di Gesù Cristo, di libertà religiosa, di democrazia di laicità e simili. Questa ricerca di chiarezza avviene da sempre, altrimenti non ci sarebbe mai stato incontro, dialogo. Ora, instaurata la fiducia, si può lavorare sempre più in profondità e soprattutto con maggiore libertà. E non è poco, se si tiene presente la confusione che spesso ancora si riscontra a proposito dei valori accennati, anche nei media. Il significato dato ai termini, la comunicazione, intesa come vera comprensione del pensiero, generano ancora confusione che ostacola il dialogo creando incomprensione e favorendo superficialità e sincretismo. Anche lo sforzo formativo è volto a rendere capaci di chiarezza e approfondimento, nella massima reciproca libertà. Così che ogni operatore pastorale o semplice Giampiero Alberti, sacerdote di Milano, specializzato in Islamistica presso il PISAI (Pontificio istituto studi arabi e islamistica) di Roma, esperto di islam dell’Ufficio ecumenismo e dialogo dell’arcidiocesi ambrosiana, membro del CADR (Centro ambrosiano di documentazione sulle Religioni) e del Comitato scientifico della rivista“Ad Gentes” dell’EMI di Bologna Missione Oggi | maggio 2009 35 verso il convegno fedele possa essere abilitato ad aprirsi ad un vero dialogo nell’ambito in cui svolge il suo impegno o semplicemente là dove si trova a vivere, testimoniando la sua fede. IL “FORUM DELLE RELIGIONI” DI MILANO Sulla scia di altre iniziative simili, sia pure con genesi e fisionomie diverse, già presenti in altre città italiane, gli operatori pastorali del settore hanno sentito il desiderio e la necessità di un Forum delle Religioni anche per Milano. Così, dopo anni di contatti, incontri, riunioni, preghiera e collaborazione si è giunti il 21 marzo 2006 alla firma dello Statuto del Forum delle Religioni a Milano. L’avvenimento che ha segnato l’inizio della storia del Forum delle Re- La costituzione del Forum delle Religioni a Milano intende offrire alla città la presenza e il servizio di un organismo interreligioso, in cui le religioni siano rappresentate attraverso l’adesione non di singole persone, ma delle stesse organizzazioni e comunità religiose formalmente costituite ligioni a Milano risale però al 25 ottobre 2000, quando per l’annuale appuntamento, organizzato anche a Milano per rivivere l’indimenticabile incontro interreligioso del 1986 ad Assisi, l’arcidiocesi milanese rivolse ad ogni comunità ed organizzazione religiosa presente in città e alle altre confessioni cristiane, l’invito di potersi ritrovare tutti allo stesso titolo e intorno allo stesso tavolo, allo scopo di pensare e programmare, promuovere e realizzare un’iniziativa a livello cittadino, che fosse “interreligiosa” fin dal suo inizio e dalla sua impostazione. In piena e paritetica collaborazione venne elaborato un programma di incontro pubblico (con interventi su L’accoglienza dell’altro via alla pace di D. Teundrup, R. Sirat, M. Bashir alBani, C.M. Martini, in rappresentanza di buddhisti, ebrei, musulmani e cristiani) e fu redatto un Appello alla città, che sulla civica piazza di S. Angelo venne solennemente firmato da diversi leader religiosi di Milano e consegnato al Sindaco. Il positivo risultato dell’evento e la fecondi36 Missione Oggi | maggio 2009 LO STATUTO IN SINTESI Le Comunità religiose e le Organizzazioni religiose presenti a Milano di tradizione buddhista, cristiana, ebraica e musulmana, che sottoscrivono il presente documento si costituiscono in Forum delle Religioni a Milano (FRM). SCOPI 1. Approfondire la mutua relazione e progredire nella reciproca accoglienza, nella conoscenza dei fondamenti teorici e delle prassi di ciascuna comunità. 2. Promuovere la cultura del dialogo, della solidarietà e della pace. 3. Favorire il confronto sulle tematiche di comune interesse in rapporto all’interazione con la società civile. 4. Esprimere un punto di riferimento significativo delle tradizioni religiose presso gli enti locali e le istituzioni civili. 5. Promuovere la tutela della libertà di culto, di religione e di fede e impegnarsi contro ogni forma di discriminazione religiosa. ADERENTI La partecipazione al FRM avviene in rappresentanza delle singole Organizzazioni e Comunità religiose e non a titolo personale. tà del metodo sperimentato hanno confermato la volontà di continuare sulla strada intrapresa: già il giorno successivo fu offerta ai leader religiosi di Milano una qualificata presentazione di World Conference on Religion and Peace, cui si è ispirato il successivo cammino. Infatti, soprattutto nel periodo 2001-2004, si è privilegiato il processo di costituzione di una sezione milanese di Religions for Peace. Con essa è stato possibile promuovere alcune iniziative qualificate nella loro dimensione interreligiosa. In questa ottica si possono menzionare alcune veglie interreligiose di preghiera, a cominciare da quella intitolata Religioni a Milano per la Pace e organizzata l’11 ottobre 2001, un mese dopo gli attentati terroristici negli Usa. Gli stessi annuali incontri del 27 ottobre e diverse altre iniziative verso il convegno AP PHOTO/CORRADO GIAMBALVO si sono avvalse della collaborazione interreligiosa dapprima di Religions for Peace e poi del gruppo di lavoro impegnato nella costituzione del Forum delle Religioni a Milano. Infatti dal giugno 2004 si è dato l’avvio al processo di costituzione del Forum con lo scopo di integrare le funzioni della sezione milanese di Religions for Peace, alla quale i soci, anche se qualificati rappresentanti delle proprie religioni, aderiscono solo a titolo personale. Con la costituzione del Forum delle Religioni a Milano si intende invece offrire alla città la presenza e il servizio di un organismo interreligioso, in cui le religioni siano rappresentate attraverso l’adesione non di singole persone, ma delle stesse organizzazioni e comunità religiose formalmente costituite. Per questo lo statuto, inteso come carta d’intenti, viene sottoscritto da ogni firmatario a nome del singolo soggetto di cui è responsabile o che lo ha deputato a rappresentarlo. Hanno aderito: la Comunità ebraica, alcune Associazioni buddhiste, Cristiani cattolici, alcune Associazione cattoliche, Avventisti, Evangelici, Protestanti, alcune Comunità musulmane. La cerimonia della firma è stata ricca di simboli, il più significativo il gesto dell’acqua: all’inizio il rappresentante di ogni area religiosa ha versato dell’acqua in un recipiente, quindi le acque si sono mescolate, al termine, ognuno ha ripreso l’acqua così mescolata da portare come segno nella propria comunità. Ogni anno si ricorda la data della firma dello Statuto in una ce- rimonia pubblica e si cambiano i simboli. Dall’acqua si è passati all’ulivo (ai presenti è stato dato un ulivo-bonsai) e poi all’aria (è stato distribuito un flauto), quest’anno saranno i frutti. I simboli sono eloquenti, non richiedono spiegazioni e sono adatti per ogni area religiosa. Ogni anno il 27 ottobre, presso il Convento di Sant’Angelo dei Frati Francescani in Milano, il Forum, e relativi fedeli sempre più numerosi, si ritrova per ricordare e rivivere lo spirito del famoso Incontro Interreligioso di Assisi, e ogni anno si sviluppa un tema, che viene presentato, e per il quale si prega. È evidente l’importanza che in una grande città come Milano gli esponenti delle varie Religioni presenti in città e dintorni abbiano aderito a questo organismo così specifico e davvero interreligioso, che è diventato un significativo referente anche per la società civile. Ad esempio, abbiamo iniziato, insieme, a metterci a disposizione di scuole e enti che desiderano conoscere meglio le religioni presenti sul nostro territorio. Abbiamo altresì risposto alla richiesta del Sindaco di Milano accettando di collaborare al progetto di un incontro internazionale per celebrare nel 2013 i 1700 anni del Rescritto di Licinio e Costantino (Milano 313 d.C.). Inoltre i fedeli delle singole aree religiose vengono “formati” a vivere gli scopi del Forum nella vita quotidiana, nelle loro relazioni familiari e sociali. È il dialogo dei “piccoli passi”, della gente comune che forma il tessuto della società e che realizza la Pace. GIAMPIERO ALBERTI Ogni anno si ricorda la data della firma dello Statuto in una cerimonia pubblica e si cambiano i simboli. Quest’anno saranno i frutti. I simboli sono eloquenti, non richiedono spiegazioni e sono adatti per ogni area religiosa Missione Oggi | maggio 2009 37 verso il convegno MO Il dialogo interreligioso a Taiwan PAULIN BATAIRWA IL MIRACOLO RELIGIOSO DI TAIWAN Paulin Batairwa Kubuya, missionario saveriano della R.D. Congo, ordinato sacerdote nel 2000, è stato destinato alla Delegazione Cinese dei saveriani a Taipei (Taiwan), dove sta concludendo il dottorato in Interreligious dialogue presso la Fu Jen University. L’articolo che qui pubblichiamo era già apparso su “Quaderni del Centro Studi Asiatico” 3/2008 38 Missione Oggi | maggio 2009 L a pacifica convivenza delle religioni è uno dei miracoli di Taiwan. La società taiwanese è molto religiosa, ci sono templi dappertutto e le attività e le celebrazioni religiose si svolgono durante tutto l’anno. Può accadere che membri della stessa famiglia venerino divinità differenti, ma ciò non sembra essere fonte di contrasti né di conflitti sociali. Nell’isola vi è un proliferare di templi piccoli e grandi, nei villaggi, sulle montagne, in città. A Taiwan sono 26 le confessioni religiose ufficialmente registrate, la maggior parte dei gruppi buddhisti più influenti sono registrati come “fondazioni”. La legge sulle registrazioni è molto severa, ma il governo non interferisce nell’amministrazione interna di queste istituzioni. Naturalmente, vi è un’interazione di potere tra i partiti politici e queste importanti istituzioni religiose. Da un lato, gli uomini politici cercano il patrocinio di autorevoli maestri spirituali, dall’altro, le organizzazioni religiose possono disporre di migliori informazioni su come ricevere fondi dal governo. Inoltre, nel contesto di emarginazione politica in cui si trova Taiwan a livello internazionale, alcuni uomini politici hanno messo in evidenza il sostegno ricevuto dalle organizzazioni religiose nel dar voce alla propria causa. È per questo motivo che Taiwan presta particolare attenzione alle attività religiose internazionali: ciascuna di esse offre l’opportunità di farsi notare e di reclamare con forza quello “spazio” che le viene negato in molte altre situazioni. Il governo è sempre molto interessato. IL DIALOGO INTERRELIGIOSO NELLA CHIESA CATTOLICA DI TAIWAN Nel 1943 il cardinal Yu Bing fondò a Chongqing (Cina) l’Associazione cinese dei credenti, Per quanto riguarda il futuro del dialogo interreligioso, ci sono motivi per ben sperare, soprattutto nella diocesi di Taipei. Il nuovo vescovo (nominato nel dicembre 2007) ha posto il dialogo interreligioso tra le priorità del suo impegno pastorale. Si tratta di vedere come ciò potrà verificarsi. Anzi tutto, egli ha incaricato un giovane prete locale di presiedere la commissione che conduce incontri consultivi finalizzati a chiarire gli obiettivi e le priorità della commissione stessa. Uno dei compiti di tale commissione diocesana è di chiarire e selezionare le differenti necessità provenienti dal dialogo ecumenico e dal dialogo interreligioso. Inoltre, la commissione si propone di coordinare le iniziative e le energie sparse di vari gruppi e congregazioni religiose che, per mancanza di coinvolgimento della Chiesa locale, appaiono lontane dall’essere uno sforzo cattolico per il dialogo interreligioso. La ricerca è un campo interessante in cui il dialogo interreligioso viene portato avanti, in particolare da parte del Teologato Gesuita e dell’Università Fu Jen. La proposta della commissione diocesana per il dialogo interreligioso è di tenere un convegno annuale o semestrale con specialisti di queste due istituzioni cattoliche. La collaborazione con questo ambiente accademico contribuisce a ricordare e a far emergere le questioni e le aree che richiedono più dialogo. verso il convegno Il futuro MO MO quale punto di partenza di un percorso di pace. Si tratta della prima organizzazione interreligiosa sponsorizzata e promossa dalla Chiesa cattolica in Cina, molto tempo prima del Concilio Vaticano II. Al momento della fondazione, il cardinal Yu Bing accettava come membri dell’associazione soltanto i rappresentanti delle religioni mondiali. Ma una volta trasferitosi a Taiwan (dopo la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, 1° ottobre 1949 – n.d.r.), allargò i criteri di ammissione per far spazio alle religioni locali. Alla sua morte, l’associazione era diventata un organismo che comprendeva 18 delle confessioni religiose ufficialmente registrate a Taiwan. Lo spirito di questa associazione ha spronato e promosso l’impegno della Chiesa cattolica nel campo del dialogo interreligioso. In seguito, la Chiesa fu naturalmente influenzata dalle direttive del Concilio; nel 1990 la Conferenza episcopale di Taiwan creò la propria Commissione per il dialogo interreligioso. La Chiesa di Taiwan si muove a due velocità. Mentre in via di principio il dialogo interreligioso è definito una priorità, la Chiesa locale non sempre riesce a trovare il personale e i mezzi per promuoverlo. Un serio impegno in questo campo nel clero e tra i laici locali è ostacolato dalle discussioni teologiche sul paradosso esistenziale tra la missione/proclamazione e il dialogo interreligioso. I religiosi e i sacerdoti nati a Taiwan nutrono dubbi sull’opportunità del dialogo con quelle tradizioni religiose che, una volta che essi si sono convertiti al cristianesimo, hanno allontanato dalla loro mente. Questa circostanza spiega il fatto che la maggior parte degli obiettivi della Commissione sono indirizzati verso i fedeli e i responsabili delle comunità. Essa evidenzia inoltre le esitazioni in cui si dibatte una Chiesa nascente, che si trova nella necessità di tracciare i confini del mondo religioso che un convertito si lascia alle spalle. In effetti, il campo del dialogo interreligioso sembra attrarre più i religiosi che il clero locale. Un’altra difficoltà che il dialogo interreligioso incontra è l’unificazione in un solo ufficio diocesano, competente sia per il dialogo sia per l’ecumenismo. La ragione principale data per questa soluzione è la mancanza di personale. Il risultato è che le denominazioni protestanti, che sono a conoscenza di questa decisione, si sentono umiliate. Questa è una difficile controversia, se si considera che, a parte l’Australia, Taiwan era l’unico luogo al mondo dove la La Chiesa di Taiwan si muove a due velocità. Mentre in via di principio il dialogo interreligioso è definito una priorità, la Chiesa locale non sempre riesce a trovare il personale e i mezzi per promuoverlo Nella pagina precedente: Taipei, manifestazione contro la corruzione politica; a fianco, dall’alto in basso: festa popolare a Taiwan; monaci buddhisti in metropolitana a Taipei. PER SAPERNE DI PIÙ presso: [email protected] Missione Oggi | maggio 2009 39 verso il convegno MO no in fondo la sua opera e trovare un sostituto per il ruolo e la fiducia che p. Mathis aveva saputo guadagnarsi tra gli altri leader religiosi. Egli ha bussato alle porte delle maggiori istituzioni religiose di Taiwan proponendo loro un dialogo al quale si stanno ora aprendo, e perciò esse si aspettano di più da una Chiesa alla ricerca di un’ispirazione carismatica. I SAVERIANI Nella delegazione saveriana lo spirito del dialogo interreligioso è vissuto in maniera diversa, a seconda degli incarichi e delle opportunità in cui ciascuno vive il proprio contesto Fedeli in preghiera in un tempio buddhista a Taipei. 40 Missione Oggi | maggio 2009 Chiesa cattolica era membro del Consiglio Mondiale delle Chiese e della Società Biblica Cristiana. IL CONTRIBUTO DEI RELIGIOSI AL DIALOGO INTERRELIGIOSO La Chiesa Cattolica di Taiwan ha una lunga storia di dialogo interreligioso, grazie al rispetto e all’amicizia tra i leader delle tradizioni religiose. L’amicizia e la comprensione reciproca tra i leader religiosi deve essere contagiosa ed espandersi ai fedeli delle rispettive tradizioni. Uno dei principali protagonisti di tale filosofia è stato il gesuita p. Albert Poulet Mathis, che ha speso la vita visitando templi e personalità religiose. Egli è stato segretario esecutivo della commissione per il dialogo interreligioso della FABC (Federazione delle conferenze episcopali asiatiche), e ha avuto lo stesso incarico per la Conferenza episcopale di Taiwan fino al suo pensionamento. Durante questo periodo, egli ha creato una rete di amicizia tra i diversi leader religiosi di Taiwan. Il suo impegno è stato veramente notevole, e oggi è difficile apprezzare fi- La delegazione cinese (dei saveriani – n.d.r.) ha preso in considerazione la possibilità di un coinvolgimento più profondo nel campo del dialogo interreligioso, anche prima che ciò fosse esplicitamente annunciato nella Ratio Missionis Xaveriana (Guadalajara 2001). Nella delegazione, lo spirito del dialogo interreligioso è vissuto in maniera diversa, a seconda degli incarichi e delle opportunità in cui ciascuno vive il proprio contesto. Per coloro che vivono sul continente (la Repubblica Popolare Cinese – n.d.r.) è vissuto più nei termini della consapevolezza di una cultura caratterizzata dall’ateismo. In altre situazioni, l’assistenza ai malati e ai disabili e la necessità di una fattiva collaborazione hanno consentito uno scambio ecumenico per coloro che sono impegnati nel sociale. A Taipei, invece, il dialogo interreligioso è parte della vita comunitaria, specialmente perché il dialogo ha richiesto che un membro della comunità (il sottoscritto) si qualificasse a questo scopo. Fin dal mio arrivo a Taipei, ho cercato di acquisire una formazione in tal senso, al momento seguo un corso di dottorato nel dipartimento di studi religiosi dell’Università Fu Jen. Al completamento degli studi, il mio compito sarà di animare la comunità saveriana in questo campo. Uno degli impegni previsti dall’ultima assemblea è la consapevolezza che la pluralità dei mondi religiosi che ci circonda deve comparire nel linguaggio che adoperiamo con la gente e nel nostro stile di vita. Desidero inoltre ricordare che da tre anni è attivo un “gruppo di riflessione” composto da cristiani interessati al dialogo interreligioso, che si sforza di incentivarne lo spirito. Le riunioni comprendono meditazioni su passi biblici e riflessioni su documenti della Chiesa. Si discute inoltre di questioni religiose connesse agli avvenimenti della vita (nascita, matrimonio, morte), situazioni in cui le credenze religiose possono diventare causa di divisioni. PAULIN BATAIRWA LA TENDENZA MISTICA, MANIFESTATASI FIN DAGLI INIZI NELL’ISLAM, COME IN ALTRE ESPERIENZE RELIGIOSE, PORTÒ MOLTI ASCETI A VESTIRSI DI PANNI DI RUVIDA LANA (SUF). PROPRIO DA TALE PRATICA SAREBBE DERIVATA LA PAROLA “SUFI” (CHE INDICA IL MISTICO ESOTERICO), E PURE IL TERMINE TASAWWUF (SUFISMO), LA SAGGEZZA CHE SUGGERISCE L’ITINERARIO PER ACCOSTARSI A DIO IN SPIRITO D’AMORE E TOTALE SOTTOMISSIONE. einterreligioso il dialogo Il “Sufi Centre” YUSUF DAUD LA “MISSION” DEL CENTRO SUFI “MYSKATUL ANWAR” L verso il convegno L’ESPERIENZA DI UN MUSULMANO a Giacarta a mission del Centro Sufi Myskatul Anwar di Giacarta è la promozione della consapevolezza dei valori comuni presenti nelle diverse tradizioni religiose: cristiane, musulmane e di altre religioni. Il Centro forma persone in grado di sviluppare una migliore comprensione tra le diverse tradizioni religiose e culturali. Inoltre, introduce allo studio e alla pratica dei diritti umani. In questo modo, le diverse tradizioni religiose sono più preparate ad affrontare incomprensioni, stereotipi e intolleranze all’interno delle loro comunità, favorendo una genuina comprensione dell’altro, la convivenza e la collaborazione per una società più giusta e riconciliata. Di fronte al drastico cambiamento del mondo, ovunque sempre più multiculturale e multireligioso, è facile cadere nelle tentazioni della xenofobia, dell’intolleranza e dello scontro di ci- viltà. Per questo il Sufi Centre si è impegnato, fin dalla fondazione, nel 1992, nella promozione del dialogo interreligioso, a partire dal principio del pluralismo religioso, inteso come occasione di unità e fratellanza nella famiglia umana, piuttosto che come causa di divisioni e guerre. LA SPIRITUALITÀ, IL LUOGO PIÙ ADATTO PER IL DIALOGO La spiritualità è il luogo più adatto per il dialogo interreligioso. Nel corso degli ultimi anni ci siamo vieppiù convinti che ciò che le altre religioni si aspettano dall’islam è una testimonianza pratica dell’amore che si incontra nel Corano (qur’ àn). Non è per caso che la regola d’oro “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” è comune a tutte le grandi religioni. Essa ci richiede di “diventare una cosa sola con gli altri”, di “vivere l’altro”. Yusuf Daud, musulmano indonesiano del Sufi Centre Myskatul Anwar Padepokan Thaha, vive a Giacarta. Ha frequentato recentemente il PISAI (Pontificio Istituto Studi Arabi e Islamistica) e l’Università Gregoriana di Roma, con una borsa di studio offerta dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso del Vaticano Traduzione dall’inglese di Michela Bono Missione Oggi | maggio 2009 41 verso il convegno Non si tratta solo di gentilezza, apertura e stima, ma anche di “svuotamento” di sé per diventare uno con gli altri, “entrare nella pelle dell’altro” e capire più in profondità cosa significa per l’altro essere cristiano, musulmano, indù, buddhista, ecc. L’effetto è duplice: a) l’uscita dai limiti di una singola cultura; b) la conoscenza della religione e del linguaggio dell’altro che predispone all’ascolto. Il Centro Myskatul Anwar Padepokan fu fondato per aiutare le attività di insegnamento Y. DUD Gli insegnamenti del Centro sono universalistici. Infatti, uno dei principali scopi dell’iniziazione è “comprendere l’islam come verità universale”; questo trova sostanza nell’accettazione non solo di musulmani, ma anche di cristiani, indù, buddhisti e persone di altre fedi per l’iniziazione religioso. Il termine “Padepokan” suggerisce un insegnamento tradizionale come quello dei collegi “pondok” o “pesantren”, dove i giovani, solitamente maschi, hanno un tutor spirituale personale per l’apprendimento delle scienze islamiche, inclusi gli insegnamenti esoterici Sufi. In ogni modo, a Giacarta il “Padepokan” non è residenziale, ma provvede ad un’ospitalità occasionale soprattutto per chi, dall’interno viene in città e sente il bisogno di un cammino spirituale personale. IL METODO E GLI STRUMENTI Yusuf Daud in udienza dal Papa a Roma. 42 Missione Oggi | maggio 2009 Myskatul Anwar ha lettori e mediatori. Il metodo d’insegnamento prevede la discussione, la condivisione tra il mediatore e i partecipanti del medesimo livello, e sessioni di do- mande e risposte immediatamente dopo la lezione. Chiaramente lo stile dell’insegnamento vuole essere simile a quello che la maggior parte della clientela con istruzione superiore ha sperimentato all’università, uno stile che afferma il loro desiderio di esercitare la loro stessa saggezza e che, tuttavia, non esclude l’aiuto spirituale di cui un neofita ha bisogno per affrontare le sorprese dell’ esperienza dopo l’iniziazione. Così il Centro ha acquisito una grande autorevolezza soprattutto agli occhi di coloro che immaginavano di avere a che fare con l’autoritarismo religioso del “vecchio stile” Sufi. Il programma del Centro è costruito su una ferma base religiosa, ma che attinge a nozioni dell’auto-aiuto e dell’apprendimento attraverso la propria esperienza, centrali nell’educazione moderna. Confronti sul Corano e le tradizioni (hadìth), discussione su libri e film, lo studio della lettura del Corano e un intenso dialogo con altre tradizioni religiose, servono a promuovere la ricerca accademica e l’educazione sul tema interreligioso e sul dialogo interculturale, sulla carità e sui lavori sociali. Gli insegnamenti del Centro sono universalistici. Infatti, uno dei principali scopi dell’iniziazione è “comprendere l’islam come verità universale”; questo trova sostanza nell’accettazione non solo di musulmani, ma anche di cristiani, indù, buddhisti e persone di altre fedi per l’iniziazione. Le fonti per conoscere Dio in modo diretto non si riducono al Corano, ma si allargano alla Torah, al Nuovo Testamento, al Gita e al Tao-Te-Ching. E riferendosi a tutte le tradizioni religiose, il maestro sottolinea che il vero islam, la vera consegna di sé stessi a Dio, è l’accettazione della Verità nella sua percezione ultima, mistica. Quindi, l’obbedienza alle leggi di una particolare religione, sia essa l’islam o meno, non è sufficiente per la salvezza. Attraverso l’iniziazione “si deve morire prima della morte”, lasciandosi dietro i limiti delle impressioni/conoscenze dedotte dalle formule verbali delle verità religiose, e aprendosi a una percezione mistica oltre tutti i credi e le dottrine. Oggi il centro sta prosperando e altri centri funzionanti sotto la guida del fondatore del Myskatul Anwar, Bapak Rachmat, in Indonesia, Singapore, Malesia, Australia, Nuova Zelanda. Speriamo di essere cresciuti nella reciproca comprensione delle nostre somiglianze come popolo di Dio, così come delle differenze e unicità delle nostre tradizioni. YUSUF DAUD C Cultura ome comunità dedita all’annuncio è importante conoscere le caratteristiche della società a cui siamo mandati. Metterci in ascolto dei nostri ascoltatori, ciò che propriamente si chiama dialogo. Vogliamo conoscere meglio i nostri ascoltatori, nel nostro caso i giapponesi: come un giapponese sente e conosce in quanto vive esattamente in questa società e cultura. Prendiamo, perciò, come punto di riferimento il kimoci in quanto struttura della conoscenza propria dei giapponesi. Quando, al di là della splendida organizzazione, della gentilezza e della poesia cerchiamo i valori che motivano il kimoci, restiamo spiazzati. In Giappone la morale c’è e non c’è. Il bene e il male ci sono, ma è più importante stare assieme in buona armonia che cercar di capire che cosa sono. Anche la morale, in altre parole, partecipa del pragmatismo missione e inculturazione MO Ildelle kimoci sfumature ANTONIO SOTTOCORNOLA del kimoci; cambia e si adatta; “i nemici di ieri sono gli amici di oggi”, dice il proverbio giapponese. Il kimoci stesso fa da morale e da valore. Se la morale è un modo per arrivare alla felicità, il kimoci promette questa felicità, e se per ora è piccola e comporta sacrifici, il kimoci insegnerà ad accontentarsi. UN’AMPIA FUNZIONE COMUNITARIA E SOCIALE Il kimoci sfuma i confini delle cose, e così, grazie al fatto di non definire, attutisce gli urti, assorbe ciò che gli resiste, non esaspera le differenze, e raccoglie tutto in un’armonia che mantiene in equilibrio anche gli opposti; assomigliando in ciò a una specie di carità cristiana che omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet, e nutre virtù opposte. Fat- Processione di sacerdoti shintoisti in abito cerimoniale. Missione Oggi | maggio 2009 43 missione e inculturazione to è che con questo modo sfumato, ma condiviso e radicato, il kimoci svolge una vasta funzione: psicologica, sociale, politica, estetica, religiosa ed anche etica: così che per i giapponesi l’agire in conformità con ciò che noi chiamiamo la coscienza si sovrappone e si confonde praticamente all’agire in conformità con il kimoci. In particolare, il kimoci ha dato ansa e stimolo ad una cultura dell’intuizione, dell’allusione, del simbolo, del doppio senso, dell’ambiguità, del non so che, della sensazione, in onore la bellezza e gli altri: onorando cioè gli altri con semplici regole di buona educazione, il kimoci coltiva a modo suo valori etici. A noi può a volte sembrare solo esteriorità e mania di regolamenti, ma in realtà ciò a cui mira è l’armonia dei rapporti all’interno del kimoci. Da queste piccolezze dipende la pace, la serenità e la forza della società e del kimoci individuale. Afferrare in concreto questa moralità è possibile solo in proporzione del nostro partecipare di fatto alla vita del kimoci: etichetta e regolamenti compresi. MO Per capire l’altro non bastano le parole o le intenzioni: se ne devono pesare le sfumature ed entrare di intuito nel contesto dell’altro. Un minimo gesto in Giappone dice già tutta una relazione sociale. Tutto: gesti, parole, cose, situazioni si trovano impastati assieme nel kimoci, il cui sapore decide alla fine la moralità del tutto Cattedrale di Tokyo. 44 Missione Oggi | maggio 2009 del presentimento, del forse, dell’indefinito, del contradittorio, dell’eco e del silenzio in cui tutti però sanno quello che gli altri pensano. È dentro questo sottile e delicato intrico di relazioni che vive e si manifesta la moralità: il bene e il male. La difficoltà stessa della lingua è dovuta in gran parte al fatto che deve seguire le curve e le sfumature del kimoci, il quale ha piegato non solo le schiene ma anche grammatica e sintassi per onorare le relazioni sociali. Non credo ci sia lingua al mondo capace di mettere gli altri a proprio agio come i termini e le circonlocuzioni onorifiche della lingua giapponese, dove anche le cose materiali vengono nominate in modo da renderle dignitose e onorate. Neglette dalle nuove generazioni, queste forme di linguaggio onorifico vengono oggi recuperate nei circoli culturali e nelle scuole e fanno sempre parte della estetica di questa società. Questa gentilezza mira ad un’utilità, è cioè calcolo, ma questo calcolo è esatto perché tiene UNA MORALE DELLA SITUAZIONE I giapponesi sono con noi stranieri molto comprensivi: non vogliono cioè imporci pesi che loro stessi faticano a portare. Non si meravigliano, ad esempio, che uno straniero ignori tante sfumature o parli come può, perché sanno che ciò comporta appunto condividere vita, situazioni, costumi; ma se da una parte apprezzano molto la nostra buona volontà, reagiscono però vivacemente se si urta il kimoci. È rimasto famoso l’episodio del padre Furetto che aspettava una sera a un semaforo di Sennan, e quando un uomo gli ha chiesto la strada ha risposto innocentemente: shiranai (non lo so), prendendosi un pugno in faccia. In quel momento shiranai esprimeva infatti un esplicito e urtante rifiuto di relazioni: “Va fuori dai piedi!”, diremmo in italiano. Questo però non lo insegnava la grammatica ma il kimoci. In questo caso un giapponese si sarebbe dato da fare, e solo dopo aver mostrato che da parte sua aveva fatto il possibile, o co- MO Dal punto di vista di ciò che noi chiamiamo la coscienza, tutto ciò a noi pare e forse è segno di una società permissiva. Ma se noi vogliamo identificare la coscienza morale del kimoci, è esattamente nel kimoci che dobbiamo cercarla: allorché questo o quel comportamento metterà i vantaggi dell’individuo al di sopra del gruppo, allora scatterà la sanzione: “Non si deve! Mi metti nei guai! Non far più assolutamente una cosa del genere!”; che significa: non stai agli impegni presi nel gruppo. La moralità si esprime cioè non nella coscienza individuale a se stante, ma nelle relazioni che essa ha con gli altri, e il cui nodo è espresso dalla promessa fatta e ripetuta nel gruppo, la cui anima e autorità è sempre il kimoci sociale. Capiamo da qui come il riconoscimento del lavoro fatto, la lode, la critica fatti in pubblico siano per il giapponese assolutamente determinanti per il suo comportamento, perché lo collocano dentro o fuori della sua stessa coscienza: fuori o dentro cioè dello stesso kimoci (identità, diremmo noi); mentre per un occidentale, ad esempio, lodi e critiche hanno il valore di opinioni e non costituiscono certo la sua coscienza mo- me minimo dopo aver mostrato che era veramente dispiaciuto di non poter aiutare, avrebbe detto non un freddo shiranai ma un qualcosa di più gentile e meno urtante. Avrebbe insomma pensato soprattutto al kimoci dell’altro. Per capire l’altro non bastano le parole o le intenzioni: se ne devono pesare le sfumature ed entrare di intuito nel contesto dell’altro. Un minimo gesto in Giappone dice già tutta una relazione sociale. Tutto: gesti, parole, cose, situazioni si trovano impastati assieme nel kimoci, il cui sapore decide alla fine la moralità del tutto. Mazui significa sia sgradevole al gusto, sia mal fatto dal punto di vista delle relazioni. E in questo saper cogliere uniti in una sola percezione i vari aspetti delle cose, gioca molto anche il senso di concretezza proprio dei giapponesi. La moralità dell’atto, voglio dire, non discende tanto da un precetto, né esce dalla coscienza, ma viene percepita dall’insieme delle cose in quell’istante. Naturalmente la comunità fa da catalizzato- missione e inculturazione La dinamica della coscienza rale. Poichè “morale” qui si identifica con “sociale”, la coscienza personale perde secondo noi di autorità e probabilmente di responsabilità in senso morale. Per i giapponesi tuttavia, questo abbandonare la coscienza privata a se stessa è in fondo anche onesto. Dire infatti, da parte di un kimoci che tutto pervade e decide: “Per quanto riguarda il tuo interno, ti abbandono a te stesso”, significa ammettere dei limiti e porre dei confini tra sé e le singole persone, rispettando indirettamente il cuore o coscienza dell’individuo. Ovviamente il kimoci agisce anche qui per motivi pratici: la piramide dei doveri sociali, che mette gli uni al di sopra degli altri, logora tanto che se un superiore potesse far pressione anche sulle coscienze il peso diverrebbe insopportabile. Mentre onora la persona con l’etichetta, il kimoci sa che ci sono in essa profondità che esso non può raggiungere: l’orgoglio, la vendetta, la crudeltà, l’odio, la rivalità, ma anche l’amore del cuore umano lo sfidano sempre. Il valore della individualità che esso tenta di sfumare nel tutto sociale, resta una minaccia: relegata nell’individuo e tenuta pragmaticamente a bada, ma sempre una minaccia. Ma appunto per ciò esso vale, perché tenta di salvare il salvabile: tenta di domare, almeno dall’esterno, quella furia che è l’egoismo. Per quanto si dia arie assolutiste, la sua funzione è quella del pedagogo biblico: una salvezza per il momento, in attesa di una salvezza migliore. re. È questa la coscienza morale: una morale di ordine comunitario ed estetico, fatto cioè di percezioni che tengono in armonia col gruppo; e chi vive nel kimoci capisce. Noi diremmo: una morale della situazione a briglia sciolta. E tuttavia questo atteggiamento non è, come a noi parrebbe, indifferenza morale. Se mai per i giapponesi è rispetto della persona in quanto lascia a ognuno di decidere, distinguendo tra la situazione che uno vive individualmente e gli interessi del gruppo in generale. L’importante è che pur partendo diversi si concluda assieme. I TEMPI LUNGHI DI UN’ELABORAZIONE DI GRUPPO Camminare a passo con la morale del kimoci esige una vera immersione nella loro cultura. Si tratta solo di abbandonare per un momento la sicurezza che ci viene dalle idee chiare e distinte per affidarci al vago del kimoci, il quale nella Monaco buddhista che chiede la carità. Missione Oggi | maggio 2009 45 missione e inculturazione sua aleatorietà è in realtà più disponibile a un atteggiamento di fede di quanto sembri. Il meglio che possiamo fare è di stare con loro, soprattutto là dove ancora vivono le antiche usanze, i riti, le feste, le tradizioni, ma anche in certi incontri quotidiani come il furo (bagno casalingo), soprattutto il sento (bagno pubblico), o negli onsen (acque termali), dove ci si immerge assieme non tanto nell’acqua calda quanto in un kimoci. Lì i giapponesi rinascono, attingono motivi di vivere. In queste occasioni, come il bagno è ristoro e spia della salute fisica, pragmatico, non teoretico o sistematico; sfuma e attutisce ma per tenere assieme gli opposti. È vero che la sua libertà fluida e contraddittoria accontenta tutti e tutto alla semplice condizione di non “disturbare il prossimo”. Ma proprio in quanto prassi, il kimoci è anche storia. In altre parole, è consapevole dei propri limiti, sa che deve arrangiarsi con i mezzi che ha e che non ha sufficiente spazio sociale e culturale per esprimere i profondi drammi interiori della persona. Esso tuttavia, pur presentandosi esternamente come un tutto, quasi un assoluto che funge da MO MO Il meglio che possiamo fare è di stare con loro, soprattutto là dove ancora vivono le antiche usanze, i riti, le feste, le tradizioni, ma anche in certi incontri quotidiani come il “furo” (bagno casalingo), soprattutto il “sento” (bagno pubblico), o negli “onsen” (acque termali), dove ci si immerge assieme non tanto nell’acqua calda quanto in un “kimoci”. Lì i giapponesi rinascono, attingono motivi di vivere. Il Torii, l’arco che delimita lo spazio sacro. Padre Antonio Sottocornola e Padre Pier Giorgio Manni (a destra), superiore provinciale dei saveriani in Giappone. 46 Missione Oggi | maggio 2009 così il kimoci fa da rivelatore e da lubrificante delle complicazioni e degli attriti sociali. A forza di sfumare, la morale del kimoci parrebbe aver diluito perfino la grande protagonista dell’esistenza che è la libertà delle persone e quindi la responsabilità morale. Ma non è possibile che il kimoci escluda un estremo così decisivo del dramma umano. Il suo equilibrio è morale e da religione (il Nihonkyoo, come lo chiamavano quarant’anni fa), sarebbe pronto io penso ad accogliere qualsiasi morale o religione purché si dimostrasse alla prova dei fatti utile al bene della società. È spiritualmente disponibile: soltanto non si cura di esprimersi sulle problematiche a tavolino. La mia impressione è che si tratti di mancanza di mezzi per esprimersi teologicamente, più che di una mentalità che esplicitamente eviti di misurarsi con una responsabilità radicale verso il bene e il male. Da qui l’incapacità di confrontarsi in modo radicale con il problema del male, e non solo del dolore. Le reazioni del kimoci obbediscono a ritmi di gruppo, dicevamo, in cui nessuno pare prendere l’iniziativa e dove nulla pare muoversi, ma dove tuttavia, alla lunga, appare una decisione unanime. Mentre sembra fluida e superficiale l’opinione pubblica si cerca, si saggia e si organizza. La mancanza di riferimento a principi la fa apparire insicura, e invece è solo in paziente attesa che il convincimento comune arrivi a maturazione. Naturalmente si tratta di tempi lunghi; in ogni caso bisogna intuire i segni dei tempi, ossia del kimoci. ANTONIO SOTTOCORNOLA l’Italia delle religioni Q uesto lavoro si propone come un primo rapporto sul pluralismo religioso in Italia, mentre è in atto una profonda trasformazione del campo religioso, non è più così monolitico, eppure sempre più presente nel discorso pubblico. Plurale sia ad intra, in un mondo cattolico sempre più diversamente “appartenente”, come ad extra, per la presenza di religioni altre “portate” da popolazioni immigrate. E quando non sono religioni diverse, diversi sono i modi di viverle. Accanto ad una breve ricognizione sociologica, l’opera avanza alcune piste d’interpretazione della realtà plurireligiosa italiana. Lo fa servendosi di esperti che scandagliano il tema da diversi punti di vista. Il risultato è un “rapporto” sull’Italia delle religioni che indaga la realtà e le sue contraddizioni (prima parte: analisi), fa memoria di figure che si sono spese e si spendono per la “città del dialogo” (seconda parte: profili) come di eventi ed iniziative che concorrono a costruire, nonostante Per richieste di libri e DVD: [email protected] | Tel. 030.3772780 tutti i problemi, la storia civile e religiosa di questo paese (terza parte: documenti e dati). Ora, se il pluralismo “di fatto” è un’evidenza inconfutabile, meno evidente è, invece, accogliere le indicazioni che la realtà multi religiosa offre. La prima è la pluralizzazione dei riferimenti religiosi che la “consistenza” storica della religione islamica pone al cittadino italiano. L’islam, misurato sui dati statistici, è la seconda religione d’Italia (oltre che d’Europa). Abbiamo imparato ad essere plurali, anche dal punto di vista religioso, con l’islam. I buddhisti, invece, se mai si arriverà all’Intesa con lo Stato, sono coloro che insegnano al cittadino italiano ad andare oltre il “confine” giudaicocristiano, mentre la presenza plurimillenaria, per quanto numericamente piccola, della comunità ebraica chiede che l’educazione alla cittadinanza sia interreligiosa. Queste le indicazioni del pluralismo religioso. È la stessa realtà che denuncia alcuni nodi. Accanto a quello culturale-politico, ad oggi incapace di proporre una legge sulla libertà religiosa che superi la legislazione del Ventennio, anche quello culturale-comunicativo di un paese che si “percepisce” ancora come “cattolico”. Al mondo dell’informazione “religiosa” è dedicato uno dei lavori che compongono il rapporto e che conclude con la severa osservazione di trovarsi di fronte ad un “paese a bassa laicità”. L’indagine continua segnalando pluralismi evidenti come quello rappresentato dall’immigrazione, dalle chiese evangeliche africane, dalla religiosità popolare come dal nomadismo spirituale che chiede, quest’ultimo, di “elaborare una approfondita teologia del pluralismo religioso” (p. 154). Ma anche pluralismi “nascosti” come quello che sta dentro il meccanismo dell’otto per mille, quello della galassia musulmana, che invece appare omogenea agli occhi dell’opinione pubblica, oppure quello dei blog religiosi o delle pratiche e percorsi di insegnamento della religione a scuola. Tutti argomenti, questi, studiati all’interno di rispettivi articoli che compongono il rapporto. Al quale non potevano mancare i riferimenti a persone e figure che, nel corso dell’anno passato, hanno partecipato, a vario titolo, ad un “discorso pubblico” sulla religione contribuendo a “vedere” ed accogliere il pluralismo religioso. Che, come documentato nella parte conclusiva del lavoro, è rintracciabile anche negli eventi e nei dati. Tra le mani, allora, un “documento” che indica un percorso: quello di rompere il “muro di vetro” che fa vedere (il vetro) gli altri, ma con i quali non permette (il muro) di relazionarsi e mettersi in rapporto. Ma, questa la tesi degli autori, i muri, di qualsiasi materiale, non favoriscono la maturazione della democrazia e non aiutano il cammino delle chiese e delle comunità umane e religiose. Un progetto, quello del rapporto, che si propone con cadenza biennale e del quale si sentiva la necessità. MARCO DAL CORSO un libro al mese Il muro di vetro Paolo Naso Brunetto Salvarani Il muro di vetro l’Italia delle religioni primo rapporto 2009 EMI, Bologna 2009 pp. 220, Euro 13,00 Missione Oggi | maggio 2009 47