scarica il formato PDF - Missionari Saveriani Brescia

Transcript

scarica il formato PDF - Missionari Saveriani Brescia
®
CSAM - 25121 BRESCIA, VIA PIAMARTA 9 • Poste Italiane S.p.A - Sped. D.L. 353/03 (conv. L. 27/02/04 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Brescia - contiene I.P.
Esperienze di dialogo
interreligioso
DO S S I E R
Film e missione
Tra memoria e futuro
www.saveriani.bs.it/missioneoggi
Sommario n. 5/2009
Mensile dei Missionari Saveriani
dal 1903 al 1978 Fede e Civiltà
Direttore
Mario Menin
Redattori
Mauro Castagnaro, Franco Ferrari,
Federico Tagliaferri
Segreteria
Salvatore Leardi
Gruppo redazionale
Michele Agosti, Giusy Baioni, Michela Bono, Maria Teresa Cobelli, Domenico Cortese, Roberto
Cucchini, Flavio Dalla Vecchia, Lydia Keklikian,
Piero Lanzi, Fausto Piazza, Marino Ruzzenenti,
Anna Scalori, Gabriele Smussi, Franco Valenti,
Annachiara Valle
Hanno collaborato a questo numero
Cesare Fabbris e Maria Letizia Giacometti, Fabrizio Tosolini, Stefano Vecchia, Mauro Castagnaro,
Edgardo Lander, Marco Bertoni, Federico Tagliaferri, Lino Ferracin, Fiorenzo Raffaini, Maria Grazia
Piredda, Franco Sottocornola, Giampiero Alberti,
Paulin Batairwa, Yusuf Daud, Antonio Sottocornola, Marco Dal Corso
Direzione
Via Piamarta, 9 - 25121 Brescia
Tel. 0303772780 - Fax. 0303772781
www.saveriani.bs.it/missioneoggi
E-mail:[email protected]
3 Editoriale
Assisi... e Gerusalemme pellegrinaggi di pace
4 Lettere
L’importanza dell’annuncio (C. Fabbris e M.L. Giacometti)
e missione
5 Parola
Paolo e le sue Chiese (Fabrizio Tosolini)
fatto e il commento
7 Il
L’India alle urne (Stefano Vecchia)
sul futuro
11 Interviste
Luci e ombre della rivoluzione bolivariana (Edgardo Lander)
di Missione Oggi
14 Campagne
Pressione alle banche armate
e sviluppo
15 Comunicazione
Ciad: una radio per chi non ha parola (Marco Bertoni)
17-32 | DOSSIER
Film e missione tra memoria e futuro
a cura di Federico Tagliaferri e Fiorenzo Raffaini
Amministrazione e abbonamenti
Centro Saveriano Animazione Missionaria
(C.S.A.M.)
Via Piamarta, 9 - 25121 Brescia
Tel. 0303772780 - Fax. 0303772781
[email protected]
Abbonamenti
Italia
Europa
Extra Europa
Un numero separato
€ 26,00
€ 36,00
€ 44,00
€ 3,00
Missione Oggi è stampata interamente
su carta riciclata.
C.C.P. 11820255
intestato a Missione Oggi
Via Piamarta, 9 - 25121 Brescia
Grafica: Enzo Chisacchi / Paolo Mabellini
Realizzazione: D.G.M. / Brescia
Stampa: Squassina / Brescia
ISNN 0392-6389
Editore: Centro Saveriano Animazione Missionaria CSAM - Soc. Coop. a R.L., Via Piamarta 9, 25121 Brescia, n. 50127 in data 19-2-1993. Direttore Responsabile: Marcello Storgato. Registrato al Tribunale di Parma
n. 399 del 7-3-1967
e missione
33 Concilio
Tensione missionaria e identità sacerdotale (Franco Sottocornola)
il convegno
35 Verso
Milano, una Chiesa in dialogo (Giampiero Alberti)
Il dialogo interreligioso a Taiwan (Paulin Batairwa)
Il dialogo interreligioso a Giacarta (Yusuf Daud)
e inculturazione
43 Missione
Il “Kimoci” cultura delle sfumature (Antonio Sottocornola)
libro al mese
47 Un
“Il muro di vetro” (Marco Dal Corso)
Foto di copertina: Donne di fede musulmana in dialogo con le Carmelitane del monastero di Sassuolo (Mo). FOTO/Gruppo “Camminare Insieme”- Fiorano/Sassuolo (Mo). Foto di apertura dossier: Bangladesh: padre Agostino Carlesso dietro la macchina da presa, 10 novembre 1994 - 26 gennaio 1995. FOTO/Archivio Videomission - CSAM (Bs).
editoriale
Assisi...
e Gerusalemme
pellegrinaggi di pace
Q
Missione Oggi | maggio 2009
AFP /SANTIAGO LYON
ualche settimana fa il noto scrittore cattolico, Vittorio Messori dalle pagine del “Corriere della Sera” (20 aprile 2009) ha definito “parate sincretiste” gli incontri di preghiera per la pace di Assisi,
voluti e realizzati da Giovanni Paolo II: il primo, il più celebre, il 27 ottobre 1986; l’ultimo nel 2002,
dopo il tragico attentato alle Torri Gemelle di Nuova York. Sembra che le ragioni di questa stroncatura
postuma di Assisi siano due: una, più superficiale, riguarda la spettacolarizzazione wojtyłana di momenti religiosi, che, stando a Messori, rischiano di trasformarli in vuote sfilate di
moda, in “parate” appunto; l’altra, più profonda, riguarda il convenire di rappresentanti di religioni diverse per pregare per la pace, che, sempre stando al saggista cattolico, corrisponderebbe a forme “sincretiste” di religione che fanno perdere ai cristiani il senso della Chiesa e di Gesù Cristo.
In questa stroncatura di Assisi mi sembra che non si tenga sufficientemente
conto della motivazione prima di quegli incontri, la ricerca della pace. L’Onu
aveva proposto il 1986 come “anno internazionale della pace” e il Papa voleva
associarvisi suscitando “un movimento mondiale di preghiera per la pace” che,
superando le frontiere delle nazioni e unendo i credenti di tutte le religioni, arrivasse ad abbracciare il mondo intero. Se la guerra poteva essere decisa da pochi,
la pace, secondo Giovanni Paolo II, presupponeva l’impegno di tutti, cristiani e
non cristiani. E Assisi, la città del Poverello, aveva un alto valore simbolico, addirittura per i non credenti: offrire al mondo la prova che le religioni sono al servizio della pace. L’unico spettacolo che il Papa voleva offrire al mondo era quello dello stare insieme, per pregare, sulla base della convinzione che la pace è un
dono di Dio più che un’opera dell’uomo.
Forse è sfuggito a Messori, sempre così puntuale nelle sue analisi, che negli incontri di Assisi i rappresentanti delle diverse religioni non hanno mai pregato insieme, “sincretisticamente”, ma si sono trovati insieme per pregare ciascuno – in
spazi e/o tempi diversi – con le formule della propria tradizione religiosa, nel rispetto dell’identità di ogni
fede. Addirittura nel 2002, per evitare qualsiasi pericolo di sincretismo, sono state prese delle precauzioni particolari. Così solo i cristiani hanno pregato nelle chiese di Assisi, gli altri hanno avuto a loro disposizione degli spazi nei conventi dei francescani, al riparo da curiosi indiscreti.
Se è vero che l’intenzione di Giovanni Paolo II nell’invitare i responsabili religiosi ad Assisi era
quella di prolungare e interpretare la lettera e lo spirito del Vaticano II – la Chiesa è “il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” –, bollando così negativamente tali incontri non si rischia di censurare lo stesso Concilio? E che cosa dire allora del prossimo viaggio del Papa in Israele, Palestina e a Gerusalemme? Sappiamo quanto sia incerta la situazione politica
dell’area e quanto siano fragili le prospettive di pacificazione. Ma il Papa si mette in cammino ugualmente, per parlare di pace e perché l’odio lasci finalmente il passo alla riconciliazione. Commentando
la “grande preghiera” di Assisi, Giovanni Paolo II ebbe a dire: “O impariamo a camminare insieme in
I
pace e armonia, o andiamo alla deriva verso la rovina nostra e degli altri”.
3
lettere in redazione
A PROPOSITO
DI ANNUNCIO
C
SIAMO RIMASTI... ANNUNCIATI
C
arissimo Mario, stimolati dal tuo...
corso di missionologia, vinciamo la
pigrizia e l’impreparazione, per una risposta all’editoriale di MO 3/2009 sull’annuncio. Siamo una coppia di laici bolognesi tra i pochi che si occupano dell’argomento specifico: culto, catechesi, caritas, la fanno da padroni ovvero sono più
gettonati. Abbiamo appena terminato
una missione popolare chiamati da un
raro prete che si fida di laici che parlano
di Gesù (è un caso dieci anni fidei-donum
in Tanzania?). Accompagnati da seminaristi del 4°-5° anno del Seminario Regionale, anche questo è un esperimento interessante, in 15 giorni si è entrati in decine di famiglie per... l’annuncio.
Che Dio ti vuol bene per quello che sei,
che il tuo peccato di auto-sufficienza
non ti permette spesso di capirlo, che
nell’incontro personale con Gesù puoi
aprire gli occhi, che per dargli fiducia devi conoscerlo meglio leggendo la Scrittura, sembra scontato e scolastico, ma non
è così. Entrando in queste semplici case
popolari del quartiere S. Donato, abbiamo scoperto che Dio ci aveva già preceduto e siamo rimasti... annunciati da
chi ci ha accolto con dubbi e perplessità
per le situazioni di sofferenza. Stiamo
ora proseguendo la missione animando
gruppi di lettura della Parola, formatisi
in seguito a questi colloqui.
Mi sembra una cosa povera, semplice,
elementare quindi evangelica! Ancor
più bella se condivisa con la moglie!
Con affetto.
CESARE FABBRIS
E MARIA LETIZIA GIACOMETTI
Bologna
4
Missione Oggi | maggio 2009
arissimo P. Mario, desidero dirti tutta la mia soddisfazione per l’editoriale di MO 3/2009 e spero vivamente che
la rivista si orienti coraggiosamente in
questa direzione. Anzitutto, per dare
maggior voce, spazio, attenzione al primo dei tre vocaboli che costituiscono il
sottotitolo della rivista: Annuncio. Ma,
più ancora, penso io come saveriano,
per rispondere meglio alla natura della
rivista quale fu fondata e voluta dal
Conforti (allora sotto il nome di Fede e
Civiltà, titolo che potrebbe oggi essere reinterpretato come invito ad un annuncio che si accompagna con il dialogo tra
le culture o le civiltà, di cui la religione è
l’anima. Ciò aiuterebbe a dare più spazio anche al secondo vocabolo del sottotitolo!). E, soprattutto, perché, come cristiano, sono intimamente convinto che
questa è tuttora la tematica vitale, decisiva, della MISSIONE OGGI, come tu molto bene - affermi nella conclusione
dell’editoriale. La liberazione che noi saveriani proponiamo e per la quale lavoriamo è la salvezza che Gesù Cristo ha
rivelato e portato. Ciò - sia ben chiaro non per sminuire l’importanza o tanto
meno negare la necessità di altre componenti o forme di liberazione (politiche,
economiche, sociali...) ma:
1) per testimoniare - in quanto cristiani
- la fondamentale necessità, la suprema
bellezza, la novità radicale e trascendente del messaggio di Cristo per una liberazione o salvezza integrale, totale,
dell’umanità, la quale deve includere e
mettere al primo posto i valori spirituali, i doni della gratuita salvezza che Dio
ci offre in Cristo invitandoci alla comunione di vita con Lui per mezzo della fede, l’orizzonte di una vita eterna che supera immensamente gli angusti confini
del mondo visibile e perituro in cui ora
per breve tempo siamo;
2) per portare avanti - in quanto saveriani - in collaborazione con altre forze
operanti per questo scopo, alle quali
competono altri campi e altre metodologie, il nostro specifico contributo alla
liberazione/salvezza dell’umanità, il
quale, per noi saveriani, è definito dal
fine unico ed esclusivo della nostra famiglia religiosa, ossia il “primo annuncio del Vangelo di Cristo a quanti ancora non lo conoscono”. Solo così - credo la rivista saveriana MO potrà svolgere il
suo servizio proprio, quello per cui fu
fondata, e coprire, anche, uno spazio
suo proprio, importante, vitale, nel
mondo della stampa cattolica in genere, e delle varie testate missionarie in
particolare, e svolgere quello che tu giustamente, nel tuo editoriale, definisci “il
primo servizio che possiamo rendere al
mondo!”.
FRANCO SOTTOCORNOLA, SX
Missionario in Giappone
UN INTERROGATIVO
SUGLI ABBONAMENTI
C
arissimi (del gruppo redazionale),
vorrei sollevarvi un interrogativo
sugli abbonamenti di MO. Mi è capitato
di discutere con un signore che conosco,
per tanti anni abbonato a MO. Quest’anno non aveva rinnovato, perché essendo
a conoscenza del cambio di gestione prima di farlo voleva vedere il numero di
gennaio. Si é molto meravigliato, tanto
perché il numero di gennaio non gli è
pervenuto, quanto perché nessuno si è
premurato di sollecitarlo ad abbonarsi.
Avendo chiesto il mio parere, mi sono
sentito parte in causa. Da parte mia non
ho potuto che meravigliarmi a mia volta e confermargli che nei miei numerosi
abbonamenti a riviste italiane ed estere
non mi era mai capitata una cosa del
genere… Con amicizia.
GABRIELE SMUSSI
Brescia
Ho sottoposto il caso all’amministrazione, che mi ha confermato circa la prassi di MO: la rivista viene inviata per
quattro mesi oltre la scadenza, gratuitamente.
Al quarto mese all’abbonato viene inviato un invito a rinnovare. Soltanto in
caso di non risposta l’amministrazione
interrompe l’invio. (m. m.)
Fabrizio Tosolini,
missionario
saveriano,
di Tricesimo (UD),
licenziato
in Sacra Scrittura
al Pontificio Istituto
Biblico di Roma,
dottore
in Teologia Biblica
presso la Facoltà
di Teologia
della Fu Jen Catholic
University
di Taipei (Taiwan)
con una tesi sulla
Lettera ai Romani,
insegna
Sacra Scrittura
a Taipei
FABRIZIO TOSOLINI
IL FONDAMENTO È SOLO CRISTO
CONOSCIAMO POCO DELLE PRIME
COMUNITÀ CRISTIANE
Q
uello che conosciamo della vita delle prime comunità cristiane è molto poco, limitato a
quell’essenziale che è utile ai cristiani di tutti i
tempi per conseguire la salvezza. Ad esempio, non
sappiamo molto dei rapporti tra le comunità e i loro capi, delle comunità tra loro, dei rapporti tra le
comunità e i loro fondatori, dei capi e dei fondatori tra loro.
Ad esempio, cosa si può dedurre da quanto Paolo
scrive in 1 Cor 9,1-6? Secondo questo testo, sulla base di due esperienze (l’aver visto Cristo risorto,
l’aver fondato la comunità di Corinto) egli si equipara ad alcuni che sono chiamati apostoli, i quali
viaggiano e fanno visita alle diverse Chiese, portando con sé delle donne che li servono, a spese del-
parola e missione
Paolo
e le sue
Chiese
le comunità che li ospitano. Insieme a questo gruppo di apostoli, e probabilmente anche come parte di
esso, Paolo cita i fratelli del Signore e Cefa (Pietro).
Che Pietro visitasse le Chiese risulta da At 9,32 e da
Gal 2,11. At 18,27 ci parla poi di Apollo che va a Corinto; Rm 16,7 di Andronico e Giunia, parenti di
Paolo, apostoli insigni e membri della Chiesa prima dello stesso Paolo. Per quanto riguarda Apollo,
mentre è a Efeso viene istruito nella fede da Aquila
e Priscilla, la coppia che aveva aiutato Paolo a Corinto (At 18,2-3), e che poi a Roma riceve i suoi saluti (Rm 16,3): potremmo considerarli appartenenti al gruppo degli apostoli?
In questo contesto si pone la domanda su quale fosse il rapporto che Paolo instaurava con le sue Chiese.
Anzi tutto, Paolo non chiama sue le comunità che
ha fondato o dove ha lavorato. Di fatto, mentre
chiama i discepoli “figli” e dice che essi sono
la sua gioia, la sua corona di gloria, non ritiene mai che una Chiesa sia sua. Riconosce certo, e vuole che si riconosca, la funzione speciale che egli ha avuto nella loro
nascita alla fede, ma sa che la
loro vita è Cristo, essi appartengono a lui, e nega
con forza che essi siano
suoi (1 Cor 1,10-16).
Nondimeno, la scelta di
annunciare Cristo solo là
dove non era ancora
giunto il suo nome,
“per non costruire
su un fondamen-
ISPIRAZIONE PREPASQUALE
Già al tempo di Gesù c’è un’incipiente organizzazione della comunità: l’esperienza di essere
mandati (apostoli) a predicare, risale al tempo prepasquale. Era un comando del Signore, ma
era anche un imitare e un continuare quanto lui faceva. Gesù è ospitato, insieme a coloro che
lo accompagnano (non dovevano essere pochi), in case di amici, siano essi discepoli o persone interessate al suo messaggio; ci sono delle benefattrici insigni, tra cui Giovanna, moglie
dell’amministratore di Erode; tra i Dodici c’è un economo incaricato anche della beneficenza. Ci si può chiedere se tale esperienza copia un modello già esistente. Sappiamo inoltre
dal Nuovo Testamento che gruppi giudaici presenti a Gerusalemme o in Palestina hanno dei
membri anche in altre regioni e città dell’impero romano: seguaci del Battista ad Efeso (At
19,3), gruppi di sacerdoti nella provincia di Asia (At 19,14; 21,27), Giudei di Cirene, della Cilicia,
di Alessandria (At 6,9). E’ quindi possibile che anche le prime comunità avessero non solo un’organizzazione interna (cf. Fil 1,1), comprendente servizi di assistenza (At 9,39-41; 1 Tim 5,1-16),
ma anche delle funzioni di collegamento tra loro, atte a mantenere e accrescere la loro unità.
Missione Oggi | magio 2009
5
parola e missione
to altrui” (Rm 15,20) richiede spiegazione.
Sappiamo che, dopo un inizio in cui probabilmente evangelizza da solo, Paolo collabora con Barnaba, sotto l’egida della Chiesa di
Antiochia, nel primo viaggio missionario in
Asia Minore. Perché in seguito decide di continuare di nuovo da solo, o con altri, ma sotto la sua responsabilità (At 15,40; 16:3)?
Sono possibili alcune congetture, che si legano alla sua visione del Vangelo, e anche
all’importanza che egli attribuisce al “porre
fratello debole turbandone la coscienza,
Paolo dice che è bene rinunciare al proprio
diritto per il vantaggio del fratello, perché
per lui Cristo ha rinunciato perfino alla propria vita (1 Cor 8,11; Rm 14,15).
CHIESE COME ASTRI NEL MONDO
Ci deve essere stata in Paolo una
coscienza speciale dell’importanza
della qualità dei rapporti sui quali si
snoda il cammino di accesso alla
fede, tale da suggerirgli di
affrontare la sfida dell’annuncio
soltanto quando era abbastanza
sicuro di poter offrire un certo tipo
di esperienza relazionale
le fondamenta sapientemente”, come dice
in 1 Cor 3,10, precisando che il fondamento
è solo Cristo. Nello stesso tempo ci deve essere stata in Paolo una coscienza speciale
dell’importanza della qualità dei rapporti
sui quali si snoda il cammino di accesso alla fede, tale da suggerirgli di affrontare la
sfida dell’annuncio soltanto quando era abbastanza sicuro di poter offrire un certo tipo di esperienza relazionale, quindi solo con
dei collaboratori che avessero il suo stesso
cuore (Fil 2,20-21).
IL CONTENUTO DEL VANGELO
Per quanto riguarda il contenuto del Vangelo, sembra di poter dire che Paolo vuole un
annuncio che evidenzi l’immediatezza della mediazione del Cristo. Ciò che salva è l’atto della sua donazione. In questo contesto
ogni altra legge o miracolo o sapienza (1
Cor 1,22-24) diventano secondari, e perfino
possono ostacolare la semplice e limpida
adesione di fede che Paolo sente e sa necessaria alla salvezza.
Questo si rispecchia storicamente nelle forme di vita che propone ai cristiani che lo seguono, forme il cui archetipo sembra già
presente nella comunità di Antiochia.
In primo luogo, le comunità vivono nella
6
Missione Oggi | maggio 2009
consolazione dello Spirito e nell’abbondanza dei suoi doni, che probabilmente Paolo
ha insegnato a riconoscere, a condividere e
valorizzare. La lista di 1 Cor 12,28-30 deve
aver un riscontro nell’esperienza della Chiesa di Corinto. In questo clima spirituale i
credenti toccano con mano la vita del Risorto, la loro appartenenza a lui, l’essere insieme parte del suo corpo mistico. Questa atmosfera deve essere stata la forza capace di
attrarre molti alla fede.
In secondo luogo, Paolo propone la libertà e
il rispetto per i modi in cui spontaneamente (il che significa anche: secondo la propria
tradizione) ciascuno vive al servizio del Signore. Egli non omologa tutti sotto le stesse
forme di vita, ma invita continuamente a
scegliere “ciò che è degno e vi tiene uniti al
Signore, senza distrazioni” (1 Cor 7,35, CEI
1971). Su due punti Paolo è molto chiaro. Il
primo è la necessità di condurre una vita
santa, secondo la tradizione biblica: “Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né
avari, né ubriaconi, né maldicenti né rapaci erediteranno il regno di Dio” (1 Cor 6,10,
CEI 1971). Il secondo deriva dalla reciproca
appartenenza, mediata da Cristo, vissuta
all’interno della Chiesa. Per cui, se un comportamento, in sé possibile, dà scandalo al
È facile vedere come queste comunità splendano come astri nel mondo (Fil 2,15), e abbiano una grande forza di attrazione. Per questo
Paolo non vuole costruire su fondamento altrui. Anche perché è cosciente che agli inizi
dell’esperienza cristiana, come nel tempo
dell’infanzia, è facile ricevere ferite le cui
conseguenze si portano poi per tutta la vita.
Questa consapevolezza lo rende cauto nell’entrare nel mondo spirituale di una comunità di cui non conosce la storia, quale quella
dei Romani (cf. Rm 6,17; 16,17-20); e lo fa reagire quando qualcuno distoglie i pensieri dei
suoi cristiani dalla loro semplicità e purezza
nei riguardi di Cristo (2 Cor 11,3). Egli è anche
sensibile a come viene
considerato dai suoi cristiani: non per un qualPER SAPERNE DI PIÙ
che senso di autorità e di
orgoglio personale, ma
perché sa che dimenticare
la qualità dell’esperienza
vissuta (2 Cor 12,11) significa allontanarsi dalla
concretezza della fede e
cominciare a perdersi nel
labirinto di inconcludenti
dialettiche dottrinali (cf. 1
Cor 4,6-15).
Quanto ai rapporti all’interno del gruppo dei colPer un approfondimento:
laboratori di Paolo, posBruno Maggioni,
Il Dio di Paolo.
siamo supporre che fosIl vangelo della grazia
sero molto profondi, e il
e della libertà,
gruppo rappresentasse
Paoline, Milano 2008
(seconda edizione).
una sorta di bozzetto di
presso:
quanto l’apostolo [email protected]
ma. Diversamente non si
spiegherebbe l’importanza attribuita al tema dell’imitazione: egli
chiede ai cristiani di imitarlo, come lui imita Cristo, e propone i suoi collaboratori come visibilità del suo tenore di vita (1 Cor
4,17; 11,1; 2 Cor 7,13; 12,17-18; Fil 2, 20-21;
4,9). L’esperienza di Chiesa passa attraverso
la percezione reale, vissuta nella concretezza delle relazioni interpersonali, della presenza del Risorto.
FABRIZIO TOSOLINI
STEFANO VECCHIA
L
a grande macchina elettorale indiana è arrivata
finalmente al primo traguardo, quello dell’apertura delle urne, il 16 aprile, dopo una campagna dura e convulsa come può avvenire solo in
un paese di dimensioni continentali, diviso in 35
Stati e Territori e frazionato in centinaia di etnie,
lingue, fedi; di interessi e velleità non sempre in
armonia come la Costituzione e la tradizione
vorrebbero. Obiettivo del voto, la formazione
della nuova Lok Sabha (“Camera del Popolo”, la
nostra Camera dei Deputati), di 545 membri, la
vera fucina della democrazia indiana. A dominare sui temi della campagna, è il futuro stesso della democrazia, mentre il paese si smarrisce tra
particolarismi, interessi, corruzione, dimenticando i suoi ideali di sviluppo condiviso, nonviolenza e convivenza. Temi essenziali, questi ultimi,
nei programmi dei partiti laicisti e progressisti,
insieme a quelli dell’economia.
Mai come in occasione delle elezioni l’India
ricompatta le sue divisioni per accentuare il
ruolo della politica e mai come in tempi recenti
le divisioni si sono approfondite. Dal Kashmir
all’Orissa, dal Gujarat all’Assam, l’immenso
il fatto e il commento
MO
MO
MO
L’India
alle urne
TRE MESI DI VOTAZIONI, 35 STATI E TERRITORI, OLTRE
800 MILA SEGGI, OLTRE MILLE I PARTITI POLITICI
REGISTRATI: BASTEREBBERO QUESTE CIFRE A DARE UN’IDEA
DELL’INCREDIBILE COMPLESSITÀ DELLA MACCHINA
ELETTORALE INDIANA CHE SI È MESSA IN MOTO PER
DESIGNARE I COMPONENTI DELLA
“CAMERA DEL POPOLO”,
IL PRINCIPALE ORGANO DELLA “DEMOCRAZIA PIÙ GRANDE
DEL MONDO”.
I PROBLEMI CHE CARATTERIZZANO LE
ELEZIONI SONO ALTRETTANTO ENORMI: VIOLENZE,
SETTARISMI, CORRUZIONE, STRUMENTALIZZAZIONE DELLE
RELIGIONI: UN MISCUGLIO PERICOLOSO CHE VEDE
CONTRAPPOSTI UNO SCHIERAMENTO LAICISTA E UNA
COMPAGINE NAZIONALISTA
paese è attraversato da profonde ingiustizie e da
attività terroristiche, dal separatismo etnico e
dalla violenza a sfondo religioso. Cinismo e
corruzione minano le istituzioni e la società,
mentre la crisi globale erode la fiducia nelle
prospettive di sviluppo.
La vita politica del paese è stata polarizzata
per cinque anni (l’intervallo di tempo tra
Campagna
elettorale in India,
aprile 2009.
Missione Oggi | maggio 2009
7
il fatto e il commento
MO
714 milioni di aventi diritto di voto esprimono la
loro preferenza in 828.804 seggi elettorali con
l’ausilio di 1.368.430 apparecchiature automatiche; decine di migliaia di candidati proposti da 7
partiti a livello nazionale e 36 a livello locale: nei
numeri, una democrazia senza compromessi e
senza confronti, quella indiana. Contemporaneamente al voto per il rinnovo della Lok Sabha,
la Camera bassa del Parlamento, si vota negli
Stati o nei distretti degli Stati non ancora interessati dalla fitta serie di scadenze elettorali iniziata lo scorso autunno. La consultazione elettorale per la Lok Sabha avviene in questa occasione in cinque diverse giornate (16, 23 e 30 aprile;
7 e 13 maggio), anche il voto negli Stati e Territori è variabile e prevede fino a cinque fasi. Il
Partiti maggiori e coalizioni si trovano tutti di
fronte alla crescente frammentazione della vita
politica. Il moltiplicarsi dei partiti e dei
movimenti, un pregio della democrazia
partecipativa, nel contesto indiano è sovente
preludio all’ingovernabilità.
Sono oltre mille i partiti politici registrati in India.
Di questi, solo una trentina hanno dimensioni e
velleità per influire sulla politica nazionale a
fianco di sette partiti panindiani
Campagna
elettorale in India,
aprile 2009.
8
Una gigantesca
macchina elettorale
Missione Oggi | maggio 2009
un’elezione l’altra) tra uno schieramento laicista guidato dal Partito del Congresso, portabandiera (per la verità un po’ in affanno) degli ideali della lotta d’indipendenza, di nonviolenza e
di sviluppo condiviso per decenni fatti propri
dalla dinastia Gandhi-Nehru oggi sotto la presidenza di Sonia Gandhi, e tra una compagine nazionalista con al centro il Bharatiya Janata
Party (Bjp, “Partito del popolo indiano”) in cui
maturano – insieme a istanze di conservazione
di identità e valori – anche aspetti discriminatori e xenofobi dell’induismo.
LA FRAMMENTAZIONE DELLA VITA
POLITICA
Partiti maggiori e coalizioni si trovano tutti
di fronte alla crescente frammentazione della
vita politica. Il moltiplicarsi dei partiti e dei
movimenti, un pregio della democrazia partecipativa, nel contesto indiano è sovente preludio
all’ingovernabilità. Sono oltre mille i partiti politici registrati in India. Di questi, solo una trentina hanno dimensioni e velleità per influire sulla politica nazionale a fianco di sette partiti panindiani. Ci sono Stati nella “più grande democrazia del mondo” governati da partiti che hanno raccolto solo il 15% dei voti. Tutto questo
rende difficile governare da soli, problematiche
le alleanze, quasi impossibile la governabilità
sul lungo periodo.
Il Congresso ha una vocazione unitaria e laicista, ma è un partito elefantiaco, infiltrato dalla corruzione e dai personalismi. A livello centrale, nell’ultimo quinquennio si è posto alla
guida dell’Alleanza progressista unita (218 seggi nella Camera uscente, di cui 145 del partito
della Gandhi), affiancata dal Fronte delle sinistre (59 seggi). Quest’ultimo ha abbandonato la
maggioranza nel 2008, alla firma dell’accordo
sulla condivisione di tecnologia nucleare a sco-
ma di tutela legale di numerosi gruppi della
popolazione. Tutela non riconosciuta a fedi
minoritarie che non siano uscite in passato
dall’alveo dell’induismo, come buddhisti e
sikh, e che solo di recente i cristiani hanno
iniziato a reclamare, pur se in modo non uni-
po pacifico tra India e Stati Uniti, pur continuando a sostenerla dall’esterno.
L’opposizione dell’Alleanza democratica nazionale (181 seggi) ha al centro il Bjp e i suoi
138 parlamentari. Quest’ultimo, in particolare,
ha dovuto imparare a proprie spese che una proposta efficace non può basarsi esclusivamente
sul nazionalismo a sfondo religioso, rigettato come strumento politico persino dai possibili alleati. Mai come in queste elezioni, il Bjp ha puntato
la propria proposta sui temi dello sviluppo e dell’economia, ed è chiaro il suo tentativo di racco-
il fatto e il commento
MO
conteggio inizierà ovunque il 16 maggio. Per
la Lok Sabha sono eleggibili i cittadini che
abbiano compiuto almeno 25 anni, mentre
l’età minima del voto è di 18 anni.
La Costituzione prevede che i membri della
Lok Sabha possano arrivare a un massimo di
552, di cui 530 eletti nei vari Stati e 20 nei Territori dell’Unione Indiana (questo il nome ufficiale dell’India), 2 indicati direttamente dal
Presidente della Repubblica. La Camera uscente ha 545 membri: 530 eletti negli Stati, 13 nei
Territori e due rappresentanti della comunità
anglo-indiana di nomina presidenziale.
Una caratteristica della Camera bassa del
Parlamento è che un numero di seggi è riservato alle comunità riconosciute come storicamente discriminate. Attualmente sono 84
le Caste registrate e 45 le Tribù registrate.
Uno dei paradossi di questo paese, la cui Costituzione chiude la porta a ogni discriminazione per nascita, censo, fede e genere, ma
che nella prassi prevede un complesso siste-
voco. Il rischio, infatti, è di una ulteriore ghettizzazione, seppure sotto tutela ufficiale. Il
prossimo governo – ha ricordato il cardinale
Vithayathil, presidente della Conferenza episcopale dell’India – “dovrebbe immediatamente porre rimedio” alla condizione dei poveri e degli emarginati che devono “essere assimilati nel complesso della società”.
Perché si concretizzi questa aspirazione, come pure in generale una maggiore tutela e il
pieno riconoscimento dell’identità “indiana”
dei cristiani (il 2% dei cittadini), occorre una
loro maggiore partecipazione alla politica.
Un’esigenza avanzata apertamente dai laici
e sempre meno ostacolata dalla gerarchia.
“Le minoranze religiose sono sempre state
viste come banche di voti e noi vogliamo
cambiare questo stato di cose” è la posizione
del laicato cattolico, non più indirizzato a
firmare un assegno in bianco per il Congresso, abituale calamita del voto cristiano a livello nazionale. (s.v.)
gliere voti delle minoranze religiose – musulmani, cristiani e buddhisti – puntando sull’”indianità”, ovvero sull’orgoglio nazionale, più che sul
pericoloso slogan dell’ “induità” (Hinduttva),
ovvero dell’identità indù imposta su tutti.
RISCHIO INGOVERNABILITÀ
MO
Per gli osservatori, il rischio che né il Congresso, né il Bjp arrivino alla maggioranza assoluta è quasi scontata e con esso la prospettiva
dell’ingovernabilità, salvo gli abituali giochi
post-elettorali e uno spregiudicato incrociarsi
delle alleanze. Con uno spunto d’interesse in
più… La “Terza Forza”, che si presenta come
outsider, è una coalizione ostile alla politica
tradizionale e ancor più verso i tradizionali
schieramenti; una compagine pronta a raccogliere i consensi di coloro che non si sentono
rappresentati dai maggiori schieramenti.
Nell’incontro di presentazione ufficiale, il
suo ideatore Dewe Gowda, ha definito l’iniziativa un’“occasione storica per unire tutti i partiti
democratici, laicisti e della sinistra nel paese”.
A capo si è posta, con il peso della sua singolare
esperienza, della sua popolarità e soprattutto dei
120 milioni di elettori dell’Uttar Pradesh di cui è
Stefano Vecchia,
giornalista
professionista, da
alcuni anni risiede in
Asia, con base a
Bangkok, da dove
svolge l’attività di
corrispondente per
quotidiani nazionali,
agenzie e periodici di
attualità.
Nel dicembre 2008 ha
visitato le zone
dell’India in cui i
cristiani sono vittime
di aggressioni e
violenze
Missione Oggi | maggio 2009
9
il fatto e il commento
primo ministro, la “regina degli intoccabili”,
Mayawati Naina Kumari. Il suo è stato un autaut, in stile con la sua personalità: o capolista
nella carica di premier, oppure la rinuncia a vincere la fiducia dei fuoricasta e di buona parte degli emarginati. Per quanti sono disposti a darle il
voto, essa rappresenta la speranza di riscatto per
decine di milioni di emarginati. Autoritaria, con
pochi scrupoli e con molti detrattori (che non
mancano di ricordare i suoi rapporti conflittuali
MO
Sono in molti a
credere che mai
come in questa
tornata
elettorale, l’India
stia mettendo in
gioco i suoi
valori spirituali e
la sua grandezza
morale
Sonia Gandhi,
presidente del
“Partito del Congresso”.
10
Missione Oggi | maggio 2009
con il fisco), tra iniziative populiste e atteggiamenti messianici, la Mayawati ha convinto i dalit e non solo loro (anche buona parte dell’elettorato cristiano nel suo Stato) che sarà lei il premier della svolta nazionale. Più difficile sarà
convincere eventuali alleati a credere in lei.
I VALORI IN GIOCO E IL RUOLO
DELLA CHIESA
E a proposito di credenze… Sono in molti a
credere che mai come in questa tornata elettorale, l’India stia mettendo in gioco i suoi valori spirituali e la sua grandezza morale. Arrivata alla fine di una campagna elettorale in cui violenze di
ogni genere hanno affiancato e spesso sostituito
comizi e raduni, il voto dirà anche quanto gli indiani credano ancora nell’integrazione delle genti e delle fedi in un’unica grande nazione.
L’Orissa, da quarant’anni al centro dell’esperimento di “pulizia religiosa” attuato dall’induismo radicale associato a potentati economici e interessi politici, ha vissuto un anno
drammatico e i suoi cristiani sono stati oggetto
di vera e propria persecuzione, che nel periodo
di maggior tensione, lo scorso anno, ha registrato 70 morti, centinaia di feriti e 50 mila profughi, in particolare tra la popolazione tribale
del distretto di Kandhamal.
Tra i primi ad aderire alla nuova formazione
denominata “Terza Forza”, è stato il Bjd (Biju
Janata Dal) guidato dal primo ministro dell’Orissa, Naveen Patnaik. Il partito, al governo
nello Stato, era appena uscito dall’alleanza difficile con il Baharatiya Janata Party, denunciando proprio le violenze anticristiane avvenute tra il dicembre 2007 e il settembre 2008.
Alla vigilia della prima tornata elettorale del
16 aprile, a sette mesi dalle violenze, 3.200 cattolici erano ancora nei campi profughi e a molti che avevano perso il documento elettorale
nelle violenze non ne erano stati forniti di nuovi. In molti villaggi il boicottaggio contro i cattolici tribali rimaneva forte, al punto da impedirne il ritorno e l’esercizio regolare del voto.
“18 mila abitanti del Kandhamal vivono ancora
a Bhubaneshwar, Cuttack e Berhampur. La
Commissione elettorale può facilmente giudicare come sia possibile una libera e corretta
consultazione elettorale nel distretto. Può altresì considerare le concrete possibilità di rientro
degli elettori in occasione del voto, oppure
provvedere affinché coloro che vivono in altre
parti dell’Orissa o dell’India votino per corrispondenza”, ricordava ancora nell’imminenza
del voto mons. Raphael Cheenath, arcivescovo
di Cuttack-Bhubaneshwar. “Se non sarà data
una risposta ragionevole a queste domande, il
voto del Kandhamal sarà soltanto una finzione
di democrazia”, ha aggiunto l’arcivescovo.
Anche in questa occasione, la Chiesa non ha
lasciato cadere un’opportunità importante per
far sentire la propria voce e per chiedere ai cattolici un diverso impegno. “Sono momenti critici per il paese e la Chiesa, pur non sostenendo
partiti politici, ha l’obbligo morale di assicurarsi che il nostro popolo voti per chi garantirà la
sovranità democratica e le credenziali laiche
della nostra amata patria”, ha ricordato il cardinale Varkey Vithayathil, presidente della Conferenza episcopale indiana in un suo messaggio
in vista delle elezioni.
STEFANO VECCHIA
Luci e ombre
della rivoluzione
bolivariana
Interviste sul futuro
MO
Intervista a Edgardo Lander
A CURA DI MAURO CASTAGNARO
Edgardo Lander è docente
al Dipartimento di Studi
latinoamericani della Scuola di
sociologia dell’Università
Centrale del Venezuela e
membro del Consiglio
latinoamericano delle scienze
sociali (Clacso)
T
ra dicembre del 2007 e febbraio del 2009 i
venezuelani hanno prima respinto col
51% la riforma costituzionale proposta
dall’esecutivo, poi confermato la maggioranza di governo nelle amministrative del novembre 2008 e infine approvato col 54%
l’emendamento costituzionale che consente
al capo dello Stato Hugo Chavez di ricandidarsi alla presidenza della Repubblica senza
limiti nel numero dei mandati. Qual è il significato politico di queste consultazioni?
Il risultato del referendum del 2007 sorprese
l’opposizione, che non sperava di vincere né si
aspettava che Chavez riconoscesse la sconfitta.
Nel chavismo si aprì un vivace dibattito sull’inefficienza delle politiche statali e sulla corruzione,
che però si spense nel giro di due-tre mesi, di
fronte all’incombere delle elezioni amministrative. Nel frattempo si è consolidato un nuovo
orientamento dell’opposizione, molto eterogeneo, comprendendo settori di estrema destra, liberali e socialdemocratici. Fino al 2006 era stata
l’ala golpista a egemonizzare l’opposizione, che
puntava a rovesciare il governo con ogni mezzo:
il colpo di Stato (2002), il blocco dell’industria
petrolifera (2002-2003), il boicottaggio delle elezioni parlamentari (2005). In vista delle presidenziali del 2006, però, i settori più reazionari avevano perso peso e l’opposizione aveva presentato un candidato, Manuel Rosales, raccogliendo il
37% dei voti. Alle ultime amministrative ha orgaMissione Oggi | maggio 2009
11
interviste sul futuro
Bisogna
ricordare che
solo la
straordinaria
mobilitazione
dei settori
popolari aveva
permesso
al governo
di sopravvivere
ai tentativi
eversivi
del 2002-2003
nizzato un fronte unitario, riuscendo a conquistare i tre Stati più popolosi (Zulia, Miranda, Carabobo), nonché il municipio di Caracas. In molti
posti ciò è dovuto al malcontento popolare, anche
nelle file del chavismo, perché la gestione di alcuni sindaci e governatori era stata molto scadente. Ciò ha prodotto una ridefinizione del conflitto politico, che era stato costruito sulla polarizzazione governo-opposizione ovvero difesa-cacciata del presidente: ora l’opposizione ha capito
che sul terreno dello scontro permanente Chavez
vince, quindi ha cominciato a creare organizzazioni, elaborare programmi, in funzione delle
presidenziali del 2012, cercando di ampliare la
propria base, rafforzare la propria unità e dimostrare che ha capacità di governo risolvendo a livello locale i problemi della sicurezza o della
raccolta dei rifiuti, in cui l’esecutivo risulta del
tutto inefficace. Inoltre nel campo chavista la
gente comincia a distinguere, per cui vota a favore di Chavez, ma contro un candidato sindaco
sgradito o si astiene.
In questo contesto che ruolo ha la questione della rieleggibilità di Chavez?
Chavez e il chavismo sono coscienti della
propria vulnerabilità politico-elettorale, anche
perché la crisi economica globale avrà un impatto sulla capacità di spesa pubblica del governo,
tenendo conto che nel 2008 il 93% del valore
delle esportazioni derivava dal petrolio e che le
riserve valutarie accumulate permettono di compensare il calo del prezzo internazionale del
greggio solo per il 2009. Bisogna ricordare che
solo la straordinaria mobilitazione dei settori popolari aveva permesso al governo di sopravvive-
MO
re ai tentativi eversivi del 2002-2003, dopo i
quali l’esecutivo ha sviluppato una politica sociale estremamente attiva attraverso le “missioni”, come Barrio Adentro, che con l’ausilio di
18mila medici cubani ha garantito a milioni di
poveri un medico disponibile 24 ore su 24 e l’accesso gratuito alle medicine. Le “missioni” hanno innescato un processo di trasformazione nell’educazione, sanità, creazione di posti di lavoro,
promozione di cooperative, che ha garantito alla
“rivoluzione bolivariana” l’appoggio della maggioranza della popolazione. Tanto il governo
quanto l’opposizione sono convinti che il miglior
candidato per il chavismo nel 2012 sia Chavez.
Da qui la scelta della maggioranza di eliminare i
vincoli alla sua ricandidatura. Anch’io credo che
non ci sia attualmente un leader alternativo a
Chavez e un ritorno della destra al governo in
Venezuela avrebbe conseguenze negative non
solo per il paese, ma per tutta l’America latina.
Ma questo non pone problemi a un processo di trasformazione che si vuole democratico?
C’è in effetti una contraddizione alla lunga
insostenibile tra un discorso e una pratica che
enfatizzano la partecipazione democratica, soprattutto di base, attraverso Consigli comunali,
Comitati di salute, Comitati di terra, e il fatto
che le decisioni si concentrino soprattutto nelle
mani del Presidente. La possibilità per la gente
di incidere nelle scelte di politica nazionale esige meccanismi che non esistono. Anche la creazione del Partito socialista unito del Venezuela
(Psuv) per raggruppare i sostenitori del chavismo non è servita in questo senso, non solo perché esso comprende marxisti-leninisti ortodossi, correnti tecnocratiche, settori militari nazionalisti e una “boliborghesia” corrotta, ma perché continua a essere una cinghia di trasmissione delle decisioni che arrivano dall’alto.
Inoltre la dipendenza da una singola persona
rende la rivoluzione bolivariana assai vulnerabile e più esposta a derive populiste. Chavez è riuscito a dare direzione e unità al malcontento popolare, avviando un processo di politicizzazione
impensabile pochi anni fa. Se però non si producono forme di istituzionalizzazione, non si creano meccanismi collettivi di presa di decisioni,
non emergono nuovi dirigenti e una figura così
potente potrebbe finire per frenare i processi di
allargamento della partecipazione. Quando una
leadership si prolunga, finisce per rendersi autonoma dalla società. Se la “rivoluzione boliva-
MO
Se la “rivoluzione bolivariana”
non progredisce nella democrazia
e nell’inclusione, rischia di perdere
la possibilità di costruire
un’altra società
con la forza una riorganizzazione della società,
quella venezuelana è un processo di trasformazione che avviene per via elettorale e costituzionale, per cui richiede un consenso elettorale
maggioritario. D’altro canto, simile è la concezione della relazione tra l’ambito pubblico-statale e quello politico-partitico: siccome si ritiene che queste siano separazioni liberali e non si
è riflettuto sul piano teorico su una possibile
forma diversa di organizzazione dello Stato, la
distinzione tra i due ambiti tende spesso a rarefarsi. Così si dice che la compagnia Petroleos
de Venezuela S.A. (Pdvsa) risponde al chavismo, però non solo nel senso che la politica petrolifera è definita dal governo, ma le sue risorse sono dello Stato o del Psuv in forma relativamente indifferenziata. Oppure i Consigli comunali sono proposti come base dell’organizzazione della nuova società, in cui le comunità si riu-
niscono e affrontano i problemi legati alla gestione dell’acqua, dell’assistenza sanitaria, ma
se sono trasformati in organismi chavisti, resta
fuori quasi la metà della popolazione. Pure tra
organizzazione sociale e partito i confini non
esistono o sono poco chiari. Stato-partitoorganizzazione sociale finiscono per essere una
serie di ingranaggi senza autonomia reciproca,
per cui sono forti i processi di cooptazione e
controllo, anche perché buona parte dei movimenti popolari dipende da risorse pubbliche.
Quello che manca è una riflessione sull’egemonia, perché un progetto di paese non esige solo l’inclusione di chi è sempre stato escluso, ma
deve offrire una prospettiva a tutti i cittadini,
compreso quel 40% che vota per l’opposizione e
non è riducibile all’alta borghesia: almeno il 1520% è costituito da settori popolari, c’è la maggior parte del ceto medio, un gruppo di intellettuali, tutti gli imprenditori privati, una quota di
studenti universitari. Un processo di trasformazione intacca interessi e cambia le relazioni di
potere, perché nel passaggio da una straordinaria
disuguaglianza a una maggiore equità si devono
perdere privilegi, che nessuno cede volontariamente. Tuttavia il chavismo usa un discorso molto settario e conflittuale, per cui, per esempio, gli
imprenditori, che pure in questi anni hanno guadagnato moltissimo, vivono costantemente
nell’attesa di essere cacciati, perciò non investono, non fanno programmi per il futuro.
Come entra in questo progetto di cambiamento la questione ambientale?
Dopo la fine dell’esperienza sovietica, un
“socialismo del XXI secolo” deve essere profondamente e radicalmente democratico nonché assumere come priorità storica immediata il
tema della vita nella sua integralità (il riscaldamento globale, la difesa dell’acqua, ecc.). Qui
la “rivoluzione bolivariana” vive una contraddizione di fondo: riconosce l’urgenza di un modello di civiltà che non sia in guerra permanente contro la natura (e che quello basato sul consumo petrolifero minaccia a breve termine la
possibilità della vita sul pianeta), ma fonda le
politiche sociali e i progetti d’integrazione col
resto del continente sulle entrate provenienti
dal greggio. Ovviamente non si può cambiare
da un giorno all’altro, ma riproporre l’idea del
“Venezuela, potenza energetica mondiale” e investire nello sfruttamento dei giacimenti della
fascia dell’Orinoco consolida un modello che si
critica.
A CURA DI MAURO CASTAGNARO
interviste sul futuro
riana” non progredisce nella democrazia e nell’inclusione, rischia di perdere la possibilità di
costruire un’altra società, il che avrebbe un elevatissimo costo politico per le prospettive di trasformazione sociale in tutto il continente.
Come si pone il rapporto tra Stato, partito e movimenti sociali?
A differenza della rivoluzione cubana, che
ha conquistato l’apparato dello Stato e imposto
Quello che
manca è una
riflessione
sull’egemonia,
perché un
progetto di
paese non esige
solo l’inclusione
di chi è sempre
stato escluso,
ma deve offrire
una prospettiva
a tutti i cittadini,
compreso quel
40% che vota
per l’opposizione
e non è
riducibile all’alta
borghesia:
almeno il 1520% è costituito
da settori
popolari
Il presidente
del Venezuela
Hugo Chavez.
Missione Oggi | maggio 2009
13
campagne mo
MO
Pressione
alle Banche armate
L
a Campagna di pressione alle “banche armate” (promossa dalle riviste
Missione Oggi, Mosaico di pace e Nigrizia,) – pur apprezzando la pubblicazione anche quest’anno del Rapporto del
Presidente del Consiglio sui lineamenti
di Politica del Governo sull’esportazione
e il transito di materiale d’armamento
e la sua accessibilità attraverso la pubblicazione sul sito della presidenza del
consiglio (www.governo.it/Presidenza/
UCPMA/rapporto_2008.html) – è fortemente preoccupata per il consistente incremento delle autorizzazioni alle
esportazioni di armamenti, che nel
2008 hanno raggiunto la cifra record di
oltre 3 miliardi di euro, con un crescita
di quasi il 29% rispetto al 2007. Senza
dire che il valore delle autorizzazioni
delle transazioni bancarie ha superato i
4 miliardi di euro. «In particolar modo –
denunciano padre Alex Zanotelli, padre
Mario Menin e padre Franco Moretti, direttori delle riviste Mosaico di Pace, Missione Oggi e Nigrizia – ci preoccupano, e crediamo che non possano essere lasciate senza spiegazioni, le
autorizzazioni verso paesi in conflitto
(tra cui Israele), in zone di forte tensione
(Medio Oriente, Africa e Asia), dove le organizzazioni internazionali segnalano
“gravi violazioni dei diritti umani”, e,
più in generale, verso i paesi del sud del
mondo, a cui, nell’insieme, lo scorso anno è stato destinato più del 30% del14
Missione Oggi | maggio 2009
l’esportazione militare italiana, pari a
quasi 928 milioni di euro».
La campagna, inoltre, nel valutare la volontà espressa dalla presidenza del Consiglio di «incrementare ulteriormente la
trasparenza sulle attività», non ritiene
giustificata la mancanza nel Rapporto
della tabella riassuntiva del “Valore degli importi autorizzati” agli istituti di
credito che forniscono servizi d’appoggio al commercio di armi. «Una tabella
che – sottolineano i direttori – non dovrebbe mancare dalla più ampia Relazione che la presidenza del consiglio ha
consegnato al parlamento: una tabella
la cui pubblicazione, contestualmente al
Rapporto, avrebbe indicato una chiara
volontà di trasparenza su tutti i settori
dell’esportazione di armamenti».
«Ricordiamo – prosegue la nota dei tre
direttori – che nel giugno 2008 la nostra Campagna, con una lettera ufficiale alla presidenza del Consiglio e
alle amministrazioni competenti, ha segnalato la mancanza nell’allegato alla
Relazione del ministro dell’economia e
delle finanze (dipartimento del tesoro)
del “Riepilogo in dettaglio suddiviso per
Istituti di Credito”: un documento voluminoso che il suddetto ministero ha sostituito – senza alcuna spiegazione –
con un “Riepilogo in dettaglio suddiviso
per Aziende” (Documento E), che, di fatto,
ha sottratto al controllo parlamentare e della società civile informazioni di
decisiva rilevanza circa l’operato in materia degli istituti di credito. Stiamo ancora aspettando risposta a quella lettera inviata alla presidenza del Consiglio
e alle amministrazioni competenti».
«Vogliamo, perciò, credere che la volontà espressa dalla presidenza del Consiglio nell’attuale Rapporto di porre “ogni
sforzo per continuare il dialogo con i
rappresentanti delle organizzazioni
non governative interessate al controllo
delle esportazioni e dei trasferimenti
dei materiali d’armamento, con la finalità di favorire una più puntuale e trasparente informazione nei temi d’interesse”, intenda comprendere anche un
confronto approfondito sui temi delle informazioni che riguardano le
operazioni bancarie. Operazioni che
sono l’unico modo per garantire un riscontro ufficiale e preciso agli istituti di
credito che hanno messo in atto politiche restrittive in materia, e consentono
alla società civile di valutare l’operato
delle banche con il rigore e l’attenzione
che sono indispensabili».
«Ci associamo, pertanto, alla richiesta della Rete Italiana Disarmo – di
cui la nostra campagna è parte – nel
chiedere un incontro urgente con la presidenza del consiglio e le amministrazioni competenti per poter valutare nel
merito l’attuale Rapporto e, più in generale, la politica del governo sull’esportazione materiale d’armamento, e chiediamo fin d’ora che il parlamento analizzi l’attuale Rapporto e la Relazione
che gli è stata inviata anche con un dibattito finale in aula che preveda una
votazione esplicita su un tema così delicato come quello dell’esportazione militare italiana».
Missione Oggi,
Mosaico di pace e Nigrizia
La linea editoriale della RTN è impostata su
quattro punti principali:
T Informare la popolazione e la comunità di
tutta la regione sulla situazione locale,
nazionale ed internazionale. Fornire
un’informazione che crea un legame tra le
differenti comunità presenti sul territorio.
T Formare gli ascoltatori attraverso dei
programmi a carattere pedagogico.
T La promozione integrale dell’uomo attraverso
delle emissioni su salute, agricoltura, ambiente,
giustizia e pace, diritti dell’uomo, promozione
della donna, ecc.
T Promozione della cultura locale e nazionale
attraverso la musica folk, gli artisti locali e i
racconti (favole in 3 lingue) o i dibattiti nelle
varie lingue.
Ciad
una radio
per chi non ha parola
MARCO BERTONI
R
STORIA ED OBIETTIVI
adio Terre Nouvelle (RTN) è la radio della
diocesi di Pala (Ciad) che ha iniziato ad
emettere a Bongor sui 98.4 FM nell’anno 2000 e
poi ha aggiunto un ripetitore a Pala nel 2003.
Trasmette in 9 lingue (Francese, Arabo locale,
Masa, Musey, Tupuri, Mundang, Zimé, Ngambay, Fufuldé). Questa è una scelta che, nonostante le difficoltà, ci permette di parlare a tutta la popolazione della regione nella loro lingua e quindi di avere una comunicazione più diretta. Come
obiettivo, che è anche lo slogan, la RTN ha “La
comunicazione a servizio dello sviluppo”, e più
precisamente una radio a servizio dell’uomo e di
ogni uomo. Una radio che cerca lo sviluppo integrale di ogni uomo e che tiene conto degli strati
più deboli dando spazio alle donne e ai giovani.
Normalmente trasmettiamo 2h e 30m al mattino (dalle 6 alle 8:30) e 5 ore la sera (dalle 16
alle 21). I programmi prevedono al mattino una
griglia di informazione (giornale in francese) e
spazio “sanità” che nel corso della settimana sono riprodotti nelle varie lingue. Al pomeriggio i
programmi sono più variati ma il filo conduttore è l’animazione portata avanti con un programma sull’ambiente e lo sviluppo, uno sui diritti, le leggi o altri temi di educazione civica.
RADIO ED EVANGELIZZAZIONE
La radio, pur essendo della diocesi, si rivolge a tutti e quindi il primo approccio è il dialogo e l’attenzione a tutti gli ascoltatori.
La RTN vorrebbe essere una presenza cristiana reperibile ed effettiva tra i vari media, ma
con uno spirito libero che rivolge il suo messaggio al maggior numero possibile di ascoltatori.
Senza essere una radio religiosa, i giornalisti
analizzano alcuni avvenimenti alla luce della fede e, anche se la priorità è data ai cattolici, non
si dimenticano le feste musulmane. Più complesso è il rapporto con la religione tradizionale
comunicazione e sviluppo
A. CAUSIN
LA LINEA EDITORIALE
DELLA RTN
La radio, pur
essendo della
diocesi, si
rivolge a tutti e
quindi il primo
approccio è il
dialogo e
l’attenzione a
tutti gli
ascoltatori
Uno speaker
della RTN.
Missione Oggi | maggio 2009
15
comunicazione e sviluppo
A. CAUSIN
Lo spazio
religioso copre
il 4% delle
emissioni e
comprende il
Vangelo del
mattino ed
un’emissione
“Vangelo e
società” la
domenica. Si
sta facendo uno
sforzo per avere
un maggiore
legame
con le comunità
di base
e alle diverse sensibilità religiose. Lo spazio religioso copre il 4% delle emissioni e comprende
il Vangelo del mattino ed un’emissione “Vangelo e società” la domenica. Si sta facendo uno
sforzo per avere un maggiore legame con le comunità di base che potrebbero aiutare la radio
sia nelle trasmissioni sia nella proposizione di
temi da trattare, dando spazio ai loro problemi o
alla formazione partendo dai loro bisogni e dalla vita concreta.
RADIO E “NEW MEDIA”
Andrea Causin (al centro),
consigliere regionale
del Veneto,
in visita a Bongor nel Ciad;
Padre Marco Bertoni,
saveriano,
direttore della RTN.
16
Missione Oggi | maggio 2009
Il Ciad, come quasi tutti i paesi del Sud, conosce uno sviluppo della telefonia mobile che
offre anche servizi Internet. Per la radio è un
buon servizio, ma, come per tutta la popolazione, è pagato a caro prezzo e crea dipendenza. Il
telefono è diventato uno status symbol e tanta
gente si procura un telefono pur di “apparire”,
rinunciando spesso al mangiare. Le ricariche
normali sono di 500 franchi Cfa (meno di un euro). Internet è utilizzato da pochissima gente ed
anche noi abbiamo problemi di connessione, per
cui preferiamo prendere tante notizie dalla televisione satellitare o attraverso la radio World
Space. In questo campo il Ciad, che non aveva
una televisione nazionale, quest’anno è riuscito
A. CAUSIN
che non possiede grandi culti né santuari e le cui
feste sono cicliche e lunari. Purtroppo in questo
senso oggi vi è la tendenza alla folclorizzazione
e si moltiplicano i festival o i revival (stile ritorno alle radici e alla tradizione) che cerchiamo di
“coprire” mediaticamente portando uno sguardo
rivolto al futuro e adattando i valori tradizionali
ai tempi attuali. L’evangelizzazione passa attraverso una sensibilità che il giornalista fa trasparire come tela di fondo e come apertura all’altro
OBIETTIVI DELLA RTN
Lo scopo di ogni programma e di tutta l’animazione
mira a:
T Responsabilizzare la popolazione per trovare assieme
delle soluzioni ai problemi causati dalla povertà e dal
sottosviluppo;
T Cercare di risolvere i conflitti intercomunitari e promuovere una buona coabitazione; dibattere dei problemi sociali come l’Aids o l’alcolismo, ecc.
T Offrire uno spazio per un divertimento sano e soddisfacente.
T Essere una radio al servizio di quelli che, nella società, non hanno mai la parola.
T Una delle caratteristiche della radio è la “prossimità”,
il fatto di essere vicina alla gente ed ai suoi problemi, cercando di raggiungerla parlando il suo linguaggio.
ad ottenere uno spazio su un satellite arabo per
trasmettere alcuni programmi giornalieri.
LE SFIDE DELLA COMUNICAZIONE
Le sfide della comunicazione, in una regione multietnica e multiculturale, sono di arrivare
a tutti gli ascoltatori parlando la loro lingua e
utilizzando il loro linguaggio per essere al centro di tutti i cambiamenti ed aiutare ad un vero
sviluppo dell’uomo e della società.
In un paese marcato dalla guerra e dai conflitti, la radio vuole essere la voce che porta la
pace, la gioia e la speranza. La comunicazione
è soprattutto dare buone notizie ed aiutare la
crescita del paese per il bene di tutti senza nessuna distinzione. Una delle sfide maggiori è la
lotta contro le ingiustizie ed informare sui propri diritti e doveri, sia come uomo sia come cittadino. In questo senso il sogno è di dare voce
a chi non ha voce, ai deboli e a tutti quelli che
subiscono ingiustizia o non sono rispettati nei
loro diritti per costruire una società dove regni
la pace.
MARCO BERTONI
dossier
Film
e missione
tra memoria
e futuro
Se il cinema è la “settima arte”, come
a cura di FEDERICO TAGLIAFERRI e FIORENZO RAFFAINI
ormai anche i più restii sono disposti ad
ammettere, allora non c’è da stupirsi se
a pochi anni dalla sua nascita esso abbia intrecciato la sua storia con i temi religiosi e, in particolare, con quelli missionari. Come in altri campi più tradizionali (letteratura, pittura, scultura, architettura), lo spirito religioso ha bisogno dell’arte per esprimersi e per portare il suo messaggio. Ecco dunque la nascita del cinema “missionario”, un piccolo ma ricco filone produttivo che ha interessato sia film, sia documentari.
Alcuni istituti missionari hanno abbracciato presto la nuova arte, tra questi i saveriani sono stati dei precursori, impegnandovi alcuni dei migliori ingegni a disposizione. Avviare oggi una riflessione sul ruolo prezioso che ancora possono svolgere film e pellicole (con la loro incredibile modernizzazione tecnologica) è forse inevitabile, in una società, come quella contemporanea, che si basa sull’immagine a tutti i livelli e proprio per questo è sazia, disincantata e smaliziata. Ma, forse, ancor più s’impone la domanda su quali temi, personaggi ed esperienze basarsi nell’offrire allo spettatore una storia che sia raccontata in maniera professionale e di livello qualitativo elevato. Riusciranno i missionari a “bucare” schermi e video e a far giungere ancora il loro messaggio? C’è da augurarselo: sarebbe davvero un peccato se il fascino
delle vecchie pellicole dovesse svanire definitivamente, archiviate negli schedari della storia del cinema, senza essere rimpiazzate da nuove, dinamiche, coraggiose opere al servizio del messaggio evangelico.
Missione Oggi | maggio 2009
17
dossier
Storia
del cinema
missionario
LA FIGURA DEL MISSIONARIO È STATA TRATTEGGIATA IN DIVERSI FILM, DOVE
RICORRONO ALCUNI CLICHÉ CHE A VOLTE NE RENDONO UN’IMMAGINE STEREOTIPATA. LINO FERRACIN, ESPERTO DI CINEMA E AUTORE DI MOLTE PUBBLICAZIONI, DA ANNI CURA LE PRESENTAZIONI DI FILM AD ALTO VALORE INTERCULTURALE SULLE PAGINE DI “CEM MONDIALITÀ”. IN QUESTA PANORAMICA CI OFFRE UN’INTERESSANTE ANALISI DEI TEMI AFFRONTATI E UNA SCEL-
che eroe!
TA CRITICA DELLE PRINCIPALI PELLICOLE CHE HANNO PER PROTAGONISTI IL
MISSIONARIO E LA MISSIONE.
Il missionario
LINO FERRACIN
D
Padri Saveriani
dietro la macchina
da presa a Loyang
(Cina, anni ’30).
18
Missione Oggi | maggio 2009
iversamente da quanto istintivamente valutavo, non sono molti i film, prodotti per il
grande pubblico, che nella storia del cinema sono stati dedicati alla figura di un missionario.
Intendo quello che parte dall’Occidente cristiano e civilizzato per portare a popoli lontani la
parola del Signore, non ci interessano cioè tutte
quelle altre storie ambientate in periferie malfamate, in carceri violenti, in agnostici salotti borghesi o in fabbriche senza Dio; non si parla di
sacerdoti o pastori in missione qui ma di missionari al lavoro là. Una quindicina? Pochi pare, perché un film, che abbia come protagonista
un missionario o che ricostruisca una vicenda
legata alla presenza di missionari in terre lontane, è facile e allettante, infatti le qualità e la storia di chi parte per annunciare Cristo sono naturalmente cinematografiche e l’idea romantica
che il pubblico ha del missionario ben si adatta
alla più classica delle sceneggiature.
LA FIGURA DEL MISSIONARIO-EROE
Al centro di un buon film di massa deve esserci un eroe in una situazione difficile e il missionario è un personaggio che può avere tutte le
no in discussione il loro potere, ma per la sua
gente, i più deboli, i più poveri, i rifiutati. Le
sue armi sono la fede, la tenacia, la capacità di
ascolto, la forza delle sue scelte.
L’ambiente dove il missionario opera è, naturalmente, esotico e bellissimo, se al contrario
è difficile, povero o al limite dell’inumano, comunque ha la forza di attrazione del lontano e
del diverso. Offrendo, inoltre, le vicende della
diffusione del cristianesimo, spesso legate ad
avvenimenti storici decisivi per i popoli e le nazioni che per prime accolsero i missionari, la
possibilità di inserire le vicende missionarie
nella Storia e di poterle in qualche modo adattare o piegare a motivazioni ideologiche, non importa se lontane dal messaggio evangelico, facilita la programmazione di pellicole per il grande pubblico. Insomma, gli ingredienti ci sono
tutti per un bel film di avventura con buone
possibilità di cassetta.
IL RISCHIO DELLO STEREOTIPO
suo fare, del suo partire, del suo rischiare. Alle
spalle lascia storie di affetti e sentimenti: genitori e parenti lontani, a volte amori giovanili; con
sé porta amore per gli altri, odio per lo sfruttamento e la schiavitù materiale o morale. È per
definizione dalla parte del bene; Dio è con lui e
anche la sconfitta è vittoria nel Regno dei Cieli.
La vicenda di un’esperienza missionaria è
già quasi scritta: vi è una partenza, variamente
motivabile, vi è un viaggio di avvicinamento, a
volte difficile e pericoloso, vi è un incontro con
l’altro, a cui seguono difficoltà di comprensione e accettazione, affrontate con l’arma della
bontà e del sacrificio. C’è poi l’accoglienza e la
fondazione di una nuova piccola società positiva e aperta al futuro, che saprà affrontare i problemi che verranno perché la speranza è molto
più di un sogno. Se invece vi è sconfitta, affrontata con coraggio ed eroismo fino al martirio,
questa non dipende dal nostro eroe ma è opera
dell’“altro”, selvaggio violento, nemico della
fede, o potente egoista.
Sul piano degli ideali il nostro eroe non è
partito per i potenti, che generalmente lo vedono con diffidenza e lo rifiutano appena si accorgono che il suo fare e il suo stile di vita metto-
Il rischio, dopo quanto detto sopra, è che il
fatto missionario, l’essenza di quella storia che
l’ha fondato e lo sostiene, rimanga di pura superficie o talmente stereotipata da risultare accessoria.
Ne vogliamo una prova? Riguardiamo Abuna Messias di Alessandrini, vincitore della
Coppa Mussolini come Miglior Film alla Mostra di Venezia del 1939. Il film, anche se voluto da don Alberione con la collaborazione dei
Cappuccini del Piemonte, relega in secondo
piano la figura del Cardinal Massaia, le cui vicende sembrano essere solo occasione per la
propaganda e il sostegno, con motivazioni di
civiltà anche religiosa, di una politica di espansione coloniale. Tema centrale del film non è
tanto l’opera del missionario Massaia quanto
l’invidia per la sua opera e i giochi di potere attorno alla sua missione: la nazione etiopica è
presentata sotto cattiva luce, essendo infatti
governata da uomini interessati solo al potere e
a prevalere sugli altri, anche il capo della Chiesa copta è connotato in modo fortemente negativo. Che il film mostri qualcosa di diverso rispetto al soggetto suggerito dal titolo è colto
subito dall’inviato del Corriere della Sera a Venezia. Leggiamo infatti nel numero del 1° settembre 1939: “Peccato che sia andata sacrificata la figura del padre Massaia, le sue vicende,
le sue lotte, la sua vita intima, la vita delle co-
dossier
caratteristiche di un eroe. Ha una fede per cui è
disposto a morire, non ha paura di lasciare agiatezze e sicurezze per buttarsi verso l’ignoto; è
solitamente solo a guardare dalla tolda di una
nave il mare immenso o a cercare dall’alto di un
dirupo tracce lontane di anime da convertire; è
“uno” in mezzo a molti, lontano dalla patria e
dai suoi cari, disarmato in mezzo a nemici spesso fanatici. Di lui conosciamo le motivazioni del
Sul piano degli
ideali il nostro
eroe non è
partito per i
potenti, che
generalmente
lo vedono con
diffidenza e lo
rifiutano
appena si
accorgono che
il suo fare e il
suo stile di vita
mettono in
discussione il
loro potere, ma
per la sua
gente,
i più deboli,
i più poveri,
i rifiutati
Padre Alessandro
Maria Chiarel
e la sua
macchina fotografica.
Missione Oggi | maggio 2009
19
dossier
Proprio
rivedendo i
film del nostro
elenco ci
possiamo
accorgere di
come negli
anni è
cambiato
l’immaginario
sul
missionario,
sulla sua vita,
sul suo operare
e sul suo porsi
in relazione
con l’altro
Cinepresa Bolex Paillard
H16 reflex, 16mm a molla,
utilizzata da p. Carlesso
come macchina di riserva.
Nella pagina successiva,
dall’alto in basso,
don Giacomo Alberione,
p. V.C. Vanzin.
20
Missione Oggi | maggio 2009
munità che aveva suscitato con la sua parola,
dei compagni che egli aveva guidato con il suo
esempio; tal che, alla fine, tutta la sua vita di
trent’anni di apostolato pare ridursi per lo spettatore alla consacrazione di un solo prete, alla
fondazione di una sola missione e alla guarigione di qualche caso di vaiolo”.
Ma il film di Alessandrini non è l’unico nel
quale cogliamo una presenza condizionante
della propaganda, pensiamo ad esempio ai film
degli anni 50/60 ambientati in Cina oppure a
Mission, dove si respira una forte contestazione nei riguardi di una Chiesa istituzionale
schierata dalla parte dei potenti e, di contro, un
deciso schierarsi (militarmente anche) dalla
parte degli ultimi, posizione mutuata dalle teologie della liberazione. È naturale che sia così,
perché i film respirano l’aria del loro tempo,
sono in parte specchio del loro pubblico e sempre hanno uno sguardo ideologicamente condizionato sulla realtà che ricostruiscono e sull’uomo che rappresentano.
Proprio rivedendo i film del nostro elenco ci
possiamo accorgere di come negli anni è cambiato l’immaginario sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare e sul suo porsi in relazione
con l’altro. Riflettiamo anche solo sul diverso
sguardo e spazio che è dato a
quelli che sono oggetto della
missione, “i selvaggi” sono
passati da comparse indistinte o
stereotipate dei primi film a
comprimari portatori di una identità, orgoglio e appartenenza culturale e di conseguenza da un atteggiamento del missionario di tutto buono/tutto cattivo ad un mettersi prima di tutto in ascolto e in discussione. Certamente è anche cambiato lo
sguardo sulle esperienze passate e
sulle giustificazioni ideologiche, dal
“Dio-lo-vuole” a riflessioni più attente e amare in merito al connubio,
inevitabile forse, tra fede e cultura e a
quello, obbligatoriamente evitabile,
tra crocifisso e spada.
D’altra parte ogni spettatore guarda
e vive con sensibilità e reazioni diverse le
immagini dello schermo e ha le sue graduatorie e i suoi preferiti. Dalla prima volta ho
sempre amato Le chiavi del Paradiso e ancora adesso è sempre il mio preferito, anche doLINO FERRACIN
po la visione di Mission.
Origini
e vicende
della
produzione
saveriana
el 1924 il missionario saveriano p. Lorenzo Fontana, con il caldo incoraggiamento di mons. Guido Maria Conforti, fondatore dei Missionari Saveriani, girava Il Nido
degli Aquilotti, il primo film missionario in
assoluto realizzato in Italia. Il film narrava
la storia di una vocazione e riscosse un ampio successo.
P. Fontana si ripeté nel 1928 con Fiamme, un
drammatico episodio di vita missionaria tra
i pellerossa. In seguito arrivò Africa Nostra
(1931): la trama si ispirava alla vita di Charles de Foucauld, le riprese furono realizzate
in Africa settentrionale.
Figura di rilievo nel gruppo dei registi saveriani di quel tempo fu p. Mario Frassinetti
che aveva doti non comuni di regista, soggettista e operatore.
Dopo questi primi tentativi andati a buon fine, l’Istituto Saveriano pensò di ricorrere alla
collaborazione di specialisti. Nacque Abuna
Messias, su soggetto dei pp. Vittorino C. Vanzin e Luigi Bernardi e la regia di Goffredo
Alessandrini. Il film, sovvenzionato e distribuito dalla Sampaolo Film, fu premiato con
la Coppa Mussolini (diventata dopo la guerra
il Leone d’oro) alla mostra cinematografica
di Venezia nel 1939. Incentrato sulla figura
del card. Guglielmo Massaia, di cui metteva
in evidenza i caratteri missionari, il film entusiasmò soprattutto il pubblico dei giovani
per i suoi spunti avventurosi ed umani.
La guerra interruppe ma non fiaccò i progetti cinematografici dei Saveriani. Nel 1950 p.
Frassinetti realizzò Il grande alveare. Il tema
era, ancora una volta, la storia di una vocazione missionaria. Si ispirava alla figura di
p. Giovanni Botton, ucciso dai giapponesi in
Cina nel 1944. Sereno e vivace affresco dello
stile saveriano, il film offre una galleria di
personaggi simpaticamente entusiasti, colmi di un gran desiderio di donarsi in un’aper-
dossier
N
tura mentale e di cuore che riproduceva il ritratto del missionario voluto dal fondatore.
La produzione cinematografica saveriana fu
affiancata da un’intensa attività di propaganda sulla stampa per la creazione di una
cinematografia missionaria di vasto respiro
e d’interesse nazionale: alcuni articoli dei
pp. Vanzin e Bernardi apparirono su L’Osservatore Romano, Primi Piani, Missioni Illustrate, e La Rivista del Cinematografo. P. Bernardi ricoprì in seguito il ruolo di primo direttore del Sottosegretariato internazionale
Cinema e Missioni.
Gli anni ‘50 videro l’affermazione in Italia
della grande cinematografia internazionale
e di quella statunitense in particolare: per la
produzione missionaria, vivace ma povera
di mezzi, fu impossibile reggere il confronto.
I Saveriani si dedicarono alla realizzazione di
documentari, di mediometraggi e del doppiaggio di alcuni film che rispondevano alle
finalità dell’animazione missionaria. Le
campane di Nagasaki (1952), Una lettera per
Tetsuò (1956), Maria del villaggio delle formiche (1963) e Hokkaido (1969) furono i film
scelti per la versione italiana. È di particolare rilievo che i registi di queste opere non fossero cristiani.
Nel 1924 il missionario saveriano p. Lorenzo Fontana,
con il caldo incoraggiamento di mons. Guido Maria
Conforti, fondatore dei Missionari Saveriani,
girava “Il Nido degli Aquilotti”, il primo
film missionario in assoluto realizzato in Italia.
Il film narrava la storia di una vocazione e riscosse
un ampio successo.
Missione Oggi | maggio 2009
21
dossier
Dodici pellicole
a cinque stelle
Abuna Messias. Vendetta africana
Regia: Goffredo Alessandrini, Italia, 1939. 96 min.
Nell’Etiopia della metà Ottocento il Cardinal
Massaia, chiamato dagli etiopi Abuna Messias,
fonda una missione con l’appoggio interessato
del ras Menelik, in lotta per il potere contro il
Negus Joannes. Il capo della chiesa copta,
l’Abuna Atanasio, fortemente contrario all’opera del Massaia, grazie al suo potere religioso
sulle masse costringe il Negus a espellere
l’Abuna Messias. Il Massaia lascia così la terra
etiopica: ha perduto il confratello ma ha consacrato un giovane sacerdote, speranza di un futuro migliore.
Le chiavi del Paradiso
(The Keys of the Kingdom)
Regia: John M. Stahl, USA, 1944. 137min.
Foto dal set del film
“Abuna Messias”
di Goffredo Alessandrini,
su soggetto dei saveriani
p. Vittorino C. Vanzin
e p. Luigi Bernardi.
22
Missione Oggi | maggio 2009
Francis Chisholm è un sacerdote serenamente
libero nell’affrontare i problemi dei suoi parrocchiani, ma non piace ai suoi superiori che lo
convincono a partire per la missione in Cina.
Qui saprà, anche nei momenti difficili della
guerra, allacciare relazioni positive con il potere
locale, con i missionari di altre confessioni, con
la madre superiora del piccolo convento, con la
gente più umile. Il suo diario, bilancio di una vita, aiuterà il suo vescovo a guardare in modo
nuovo nel proprio cuore e in quello dei fedeli.
La locanda della sesta felicità
(The Inn of the Sixth Happiness)
Regia: Mark Robson, USA, 1958. 158min.
Gladys Aylward, giovane inglese, è fortemente
decisa a partire come missionaria per la Cina e,
nonostante la sua congregazione non l’aiuti, dopo un lungo periodo di attesa vi riesce. In missione si industria in ogni modo per annunciare la
Parola e per aiutare tutti, anche se l’essere donna non le facilita il lavoro, ma con gli anni la sua
dedizione e determinazione ottiene rispetto e le
conversioni arrivano. L’invasione giapponese la
obbliga però a lasciare tutto e portare in salvo
centinaia di bimbi con una lunga marcia.
Molokai, l’isola maledetta
Regia: Luis Lucia. Spagna, 1959. 91min.
Padre Damiano de Veuster accetta di stabilirsi
nell’isola di Molokai, nell’arcipelago delle Hawaii, per aiutare i lebbrosi che vi sono prigionieri e vivono in situazioni tragiche, abbandonati da tutti e soggetti ai soprusi dei più violenti. Il religioso, con un gruppo di ammalati, si
prodiga per alleviare le sofferenze di tutti. Colpito anch’egli dalla lebbra si rifiuta di lasciare
l’isola e vi muore in fama di santità.
Hawaii
Regia: George Roy Hill. USA, 1966. 130min.
Nel 1820 padre Abner, pastore calvinista, arriva
su un’isola dell’arcipelago hawaiano per aprire
una missione. Nei suoi confronti da parte degli
indigeni e da parte dei marinai delle navi di passaggio, abituati ad ogni tipo di libertà con gli
abitanti delle isole, vi è una forte ostilità a causa del suo rigore morale che lo porta al rifiuto
Mission
Regia: Roland Joffè, Gran Bretagna 1986. 124min.
Dalla metà del XVII secolo nelle terre di confine tra Argentina, Paraguay e Brasile prosperano
con il lavoro agricolo e artigianale le riduzioni,
comunità di indios fondate dai padri gesuiti.
Queste realtà sono però di ostacolo agli interessi economici e schiavistici dei governi spagnolo e portoghese, che ne richiedono la soppressione. Nel 1750 il Papa dà incarico di dirimere
la questione al cardinale Altamirano, il quale,
prima di cedere ai due governi, visita la missione di padre Rodrigo e di padre Gabriel, restandone affascinato. Alla notizia dell’arrivo di soldati per sottometterli, padre Gabriel decide di
resistere con la preghiera, padre Rodrigo di difendere il villaggio con le armi. È una strage. Al
cardinale non restano che i dubbi, l’amarezza e
la coscienza di una sconfitta.
Giocando nei campi del Signore
(At Play in the Fields of the Lord)
Regia: Hector Babenco, USA, 1991. 186min.
In un villaggio sperduto dell’Amazzonia atterrano due avventurieri e vengono coinvolti dal
poliziotto locale per cacciare dal loro ricco territorio la tribù degli indios Niaruna, che vive
isolata nella foresta. Uno dei due, Lewin Moon,
americano di origini cheyenne, affascinato da
quella vita primitiva, decide di calarsi col para-
P. Mario Francesco Frassinetti
dossier
della cultura locale e al tentativo di imporre
nuove rigide regole di comportamento. Con gli
anni la situazione sembra migliorare, ma Abner
viene rimosso per l’età, ciò appare come una
sconfitta, ma la richiesta di aiuto di un giovane
dà nuove speranze.
Regista dei primi film missionari, missionario in Cina
Nato a Faenza (Ra) nel 1901, entrò tra i Saveriani a Parma nel 1923, fu ordinato
sacerdote da mons. Conforti nel 1928. Collaborò alla realizzazione del film Il Nido degli Aquilotti (1924); realizzò Fiamme (1928), Africa Nostra (1931) ed Il Grande Alveare (1950). Fu missionario in Cina, nella Diocesi di Loyang, dal 1931 al
1946; morì a Roma nel 1952. P. De Martino ne tratteggiò l’impegno e l’opera sul
mensile saveriano Fede e Civiltà (l’attuale Missione Oggi) con un articolo intitolato Portò sullo schermo il mondo missionario.
È morto il p. Mario Frassinetti: portò a termine quattro film missionari,
stava curando il doppiaggio del film giapponese Le Campane di Nagasaki e preparando un nuovo soggetto, La Madre. La notizia della sua morte
provoca uno schianto, una frana nel nostro cuore e nel nostro lavoro.
Venne nell’Istituto Saveriano dall’Università di Bologna, dove studiava
legge. Un suo fratello, p. Enrico, l’aveva preceduto; egli venne a Parma a
vedere e ci restò: era un bel giovane, solido, elegante, con un eloquio facile ed avvincente. Due attività lo interessarono subito: la cinematografia e la stampa missionaria. Per la cinematografia aveva trovato nell’Istituto Saveriano la prima idea, l’embrione di questa attività che stava concretandosi nel primo film, Il Nido degli Aquilotti. Egli se ne innamorò e completò il lavoro. Poi ne cominciò un altro e lo condusse a termine, lavorando con entusiasmo: Fiamme. È un film realizzato con pochi mezzi e senza artisti, precedendo con felice intuito gli insegnamenti
della scuola realistica italiana in materia di cinematografia. Con queste esperienze tentò un
lavoro più ambizioso, Africa Nostra, che girò in
Africa e che ebbe giudizi assai lusinghieri. La
seconda attività fu la stampa. Al periodico Fede
e Civiltà, che diresse per parecchi anni, diede
un’impronta seria ed elegante. Dotato di indole
oratoria, nelle conferenze e nelle prediche trascinava il pubblico dove voleva: avvinceva e
convinceva.
Durante il tempo che fu in Cina si trovò in situazioni socio-politiche difficili e tragiche; per
evitare che l’Ospedale della Missione fosse confiscato e quindi distrutto
dal Governo (perché appartenente a sudditi dell’Italia, in guerra contro
la Cina), d’intesa con i Confratelli, trovò lo stratagemma nel giro di pochi giorni di passarlo in proprietà ad un generale d’armata suo amico. Il
Governo, aggirato, desistette. Quando l’esercito giapponese avanzò e occupò tutto il territorio della Missione, p. M. Frassinetti, cercato dai giapponesi, dovette ritirarsi a Ciung-king; terminata la guerra fu invitato in
America, dal Governo degli U.S.A. come esperto organizzatore di aiuti in
favore della Cina. Vi rimase poco.
Nel 1946 rientrò in Italia per cure e, sottoposto all’operazione per ulcera,
si riebbe in modo sorprendente. Ancora convalescente ritornò ad occuparsi di cinematografia e realizzò Il Grande Alveare, che fu accettato con
favore dal pubblico e che egli invece chiamava “un tentativo”.
Il messaggio più bello ci viene dal suo carattere: gioiva come un bambino man mano che scopriva i segreti di Dio ed i misteri della Grazia; gli
parevano sue scoperte e nelle confidenze fraterne ne parlava con calore,
da commuovere a sentirlo.
Da “Fede e Civiltà” (1952), pp.75-76.
Missione Oggi | maggio 2009
23
dossier
cadute sul villaggio e di diventare membro della tribù per meglio aiutarli. Con la tribù entrano
in contatto anche due predicatori evangelici:
uno è saldo nelle proprie certezze, l’altro più timoroso e più attento a non offendere le diversità. I tre tentativi di salvare quel mondo sperduto sembrano all’inizio un gioco, ma si trasformano inesorabilmente in tragedia e genocidio.
Manto nero (Black Robe)
Regia: Bruce Beresdorf, Canada, 1991. 110min.
Quebec, Canada, 1634. Il Padre gesuita Laforgue, accompagnato da un giovane seminarista e
dal capo Chonina con alcuni guerrieri, deve risalire un fiume per raggiungere una missione da
anni insediata presso una tribù urone. Padre Laforgue è soprannominato “Manto nero” a sottolinearne il rigore morale, la fede profonda e la
spinta missionaria. Durante il viaggio, che si rivela insidioso per la durezza dell’ambiente e la
violenza delle tribù incontrate, sono attaccati,
massacrati e dispersi; il solo Laforgue arriva alla missione dove infuria la febbre. Il battesimo
chiesto e donato sembra aprire al futuro, ma la
Storia ricorda la tragica fine di quel tentativo.
Molokai: the Story of Father Damien
Regia: Paul Cox, Belgio, 1999.
Nel film si ripercorre, con un occhio più attento
alla sensibilità di oggi, la vicenda di Padre Damiano de Veuster, beatificato nel 1995 da Giovanni Paolo II.
Muzungu
Regia: Massimo Martelli. Italia, 1999. 100min
Dodò sembra riuscirci, ma il vescovo ha visto e
capito tutto. Il giorno della partenza Dodò decide
di fermarsi nella missione. Un film leggero, ma
con sorridenti buoni spunti di riflessione.
Parola e utopia (Palavra e utopia)
Regia: Manoel de Oliveira. Portogallo / Francia / Brasile/Spagna, 2000. 133min.
Portogallo, 1663. Padre Antonio Vieira, gesuita, è convocato dal Tribunale dell’Inquisizione
per difendersi dalle denunce sulla sua predicazione durante gli anni di missione in Brasile.
Condannato a non poter più predicare si trasferisce a Roma, ma il cuore lo riporta in Brasile
dove muore. Padre Vieira, difensore degli indios e nemico della schiavitù, è stato uno dei
più grandi predicatori del Settecento.
La punta della lancia (End of the Spear)
Regia: Jim Hanon. USA, 2005. 107min.
Nella foresta dell’Ecuador vivono tribù di indios che per la loro violenza rischiano l’estinzione. Nel 1953 quattro missionari evangelici
americani riescono ad entrare in contatto con un
piccolo gruppo. La diffidenza degli indigeni è
forte, l’abitudine alla violenza radicata, il ricordo di altri tragici incontri con i bianchi ancor viva, così il minimo errore diventa una strage.
Anni dopo, il figlio di uno dei martirizzati giunge sullo stesso lembo di terra in visita ad alcuni
missionari amici, invitato dagli indios a fermarsi con loro tenta di resistere, ma la confessione/verità sulla morte di suo padre lo porta a
nuove scelte (l.f.).
Dodò, Freddy e Soraya atterrano con l’aereo in
panne vicino ad una missione in Kenya dove sono soccorsi dall’anziano padre Luca e costretti,
per l’assenza di trasporti, a rimanervi. Mentre
Freddy e Soraya passano in fretta dal fascino dell’avventura alla noia, Dodò si lascia coinvolgere
dalla nuova vita, fino ad accettare di sostituire
l’anziano missionario ammalato, proprio quando
il nuovo vescovo viene in visita alla missione.
Cinepresa Arriflex 16 SR,
con la quale
p. Agostino Carlesso
ha girato quasi tutti
i suoi numerosi
documentari.
24
Missione Oggi | maggio 2009
Nell’elenco i film sono dodici ma possiamo ancora ricordare
Il diavolo alle 4 (The Devil at 4 o’Clock) di Mervyn LeRoy del 1961 o
ancora La mano sinistra di Dio (The Left Hand of God) di Edward Dmytryk del 1955 e sappiamo di certo di avere dimenticato qualche opera o
di avere letto male il contenuto di altre.
dossier
L’uomo che cerca parole
Regia: Gigi Dall’Aglio. Italia, 2008. 93min.
P
er avere un’idea della trama del film è sufficiente riportare i titoletti che accompagnano le nove parti più i due intermezzi di cui è composta l’opera. Sono situazioni
e cose tutte molto serie, ma raccontate con leggerezza, sorriso e ironia come se non lo
fossero. 1. Dove si descrive un sardo e la sua casa nella savana africana. Niente più. 2.
Dove si vede il sardo che va al mercato alla ricerca di parole. 3. Dove si attiva un collegamento radio con Mauro di Oristano. 4. Dove si parla di un viaggio, di porri, di una
scatolina e di insetti stercorari. 1° Intermezzo [Domande sul passato, sul secchiello per il superfluo, sulla vocazione...]. 5. Dove si parla di motociclette,
flauti e Gesù Cristo. 6. Dove si racconta di una trasferta con i giovani del villaggio. E di altre cose. 7. Dove si racconta della ricerca di un’anima,
perché una persona senz’anima non è una persona. 2°
Intermezzo [Lettera di lavoro di un’amica]. 8. Dove si
parla di cibo, registrazioni e pastori. 9. Dove si racconta di un granaio davvero speciale. Fine.
Un uomo che cerca parole e lo fa in modo serio, con
attenzione, badando ai particolari (perché le parole
sono particolari) e ogni tanto cerca di forzare la
materialità delle cose per far sì che le parole siano
obbligate a dirsi, come quando mette un secchiello in mezzo allo spiazzo del villaggio per vedere di
che cosa si riempie, perché il suo problema è come si
dice superfluo in lingua Masa, nella quale la parola sembra non esistere. Ma siccome certamente esistono cose superflue, basta scovarle e si arriva al concetto. La parola non l’abbiamo trovata, il secchiello è rimasto vuoto, abbiamo scoperto che
il superfluo è nel nostro cervello e che il secchiello adesso qualcuno lo usa per farci fermentare la birra.
E in modo serio fa cento altre cose, come il missionario, ma se
glielo dici fa spallucce come a non crederci e a convincere noi
di non crederci. Che ventata di aria fresca, di sereno impegno,
di vita vissuta e gustata in questi quasi cento minuti dedicati a
La parola non
l’abbiamo
trovata, il
secchiello è
rimasto vuoto,
abbiamo
scoperto che
il superfluo
è nel nostro
cervello e che
il secchiello
adesso qualcuno
lo usa per farci
fermentare
la birra
Missione Oggi | maggio 2009
25
dossier
presentarci Antonino Melis, il ricercatore di parole, il primo ad aver messo per iscritto una lingua fino a quel momento solo orale, approntando così uno strumento fondamentale per difenderla, per metterla al sicuro, per poterla tirare
fuori nei momenti di carestia, un dizionario come il granaio che alla fine si costruisce e su cui
conta un villaggio intero per i momenti duri.
Inizio del film: l’obiettivo scorre sulla parete dove sta il crocifisso, poi scende su alcune maschere tradizionali del Ciad e della Sardegna, poi passa sul dizionario di francese e sul dizionario italiano-sardo e su una carta delle lingue tribali del
La fotografia
di Pier Paolo
Pessini ha
momenti
umanissimi e il
commento
musicale a
tratti porta
dentro un coro
sardo che canta
una liturgia
latina in stile
tradizionale
Scene dal film “L’uomo
che cerca parole”.
A destra:
il saveriano padre
Antonino Melis,
protagonista del film.
26
Missione Oggi | maggio 2009
Ciad. Poi la foto di gruppo dei compagni di corso, una zumata sul volto di padre Antonino Melis in primo piano mentre dorme, prime tracce di
bianco sulla barba, i capelli radi, maschera tra le
maschere. Una zanzariera che si muove al girare
di un ventilatore. C’è il disordine ordinato di un
single con la testa in cento cose.
È una presentazione per immagini e non è necessaria spiegarla se non per quel crocifisso
senza braccia e senza gambe, un Cristo che ancor più degli altri ha bisogno di braccia per accogliere e di gambe per andare incontro. Un
Cristo diversamente abile, inutile e quasi irriconoscibile se Antonino non ci mettesse le sue
braccia e le sue gambe. Dopo il caffè padre Melis sceglie le ciabatte giuste e si avvia verso il
mercato in cerca di parole. E noi seguiamo
quell’uomo che accompagna altri uomini lungo
la strada per il mercato: è come un’indicazione
di metodologia missionaria e cristiana.
PADRE ANTONINO MELIS
Autopresentazione di padre Melis, di fronte alla
luna: e se avessi fatto il biologo, punto e basta?
Adesso avrei fatto due figli, due femmine come
tradizione di famiglia; i Melis fanno più femmi-
LO SCENEGGIATORE
Mario Ghiretti Nasce nel 1946 a Parma. Nel 1970
si laurea in Economia. Dal 1964 è attore del
Teatro Universitario di Parma, di cui diventa
direttore nel 1969. Produce video per eventi
commissionati da enti pubblici e da aziende
private. Nel 1996 e nel 2008 progetta due grandi
mostre itineranti dedicate al continente africano.
IL REGISTA
Gigi Dall’Aglio nasce a Parma nel 1943. Inizia la
sua lunga carriera come attore e regista al
Centro Universitario Teatrale, del quale è
direttore dal 1969 al 1971. È tra i fondatori della
Compagnia del Collettivo. Regista e autore si è
cimentato anche in opere musicali, conducendo
nel 1995 un interessante progetto a tre con
Mario Martone e Giorgio Barberio Corsetti:
L’historie du soldat.
ne che maschi. Io sono il primo Melis che non fa
figli, che fa il prete; il primo Melis che parla
africano; il primo Melis che scrive un libro: Tradizioni orali Masa nella savana del Ciad; sono
il primo che scrive un vocabolario masa-francese; il primo che sta cercando il superfluo. Sono
un prete che ha cento fedeli per parrocchia, che
sono un po’ cristiani e un po’ qualcos’altro; che
ha cento casini uno per fedele.
La fotografia di Pier Paolo Pessini ha momenti
umanissimi e il commento musicale a tratti porta dentro un coro sardo che canta una liturgia latina in stile tradizionale.
Ma non è un idillio, anche se la chiacchierata di
Antonino con la luna, seduto sul tetto di lamiera della missione, può sembrarlo, perché c’è
Bernadette che sta male, ha l’Aids e domani
Antonino andrà a trovarla e lui, uomo delle parole, non è sicuro di saper trovare quelle giuste
da dirle... è vero che il crocifisso sulla parete
della stanza di sotto è senza braccia e gambe,
ma il cuore... ce l’ha tutto. (l.f.)
dossier
Intervista a
Padre Fiorenzo Raffaini
direttore di Videomission
Tra
Oltremare
e
film
Videomission
A CURA DI FEDERICO TAGLIAFERRI
N
egli ultimi anni la Chiesa ha fatto un notevole sforzo per adeguare il suo messaggio ai moderni mezzi di comunicazione di
massa, in particolare nel campo degli audiovisivi e dei “new media”. A che punto siamo?
È passata molta acqua sotto i ponti da quando Papa Gregorio XVI con la Mirari vos, il 15
agosto 1832, condannò la libertà di stampa, seguito in questo anche da Pio X nel 1906, con la
Pieni l’animo. Solo più tardi Pio XII intuì la
grande potenzialità del cinema, distinguendo
tra mezzi e contenuti. Fu infine il Concilio Vaticano II ad affermare la libertà di stampa e d’informazione: “Appartiene dunque alla società
umana il diritto all’informazione su quanto, secondo le rispettive condizioni, convenga alle
persone, sia singole sia associate” (Inter mirifica, 4 dicembre 1963).
Credo che la distinzione tra mezzo e contenuto sia necessaria ancora oggi. Ogni mezzo in
sé è neutro, si tratta di vedere come lo si vuole
usare, dei contenuti che si vuole veicolare e delle finalità per raggiungere le quali si vuole veicolare tali contenuti. Se parlando di Chiesa s’intende la Santa Sede, ci sono state aperture notevoli sull’uso dei nuovi mezzi di comunicazione.
Si è cercato di “strizzare l’occhio” ai giovani, di
essere un poco cool, sostenendo ad esempio che
il fenomeno di Facebook, “in fondo incarna
un’utopia: quella di stare sempre vicini alle persone a cui teniamo in un modo o nell’altro, e di
conoscerne altre che siano compatibili con
noi...”. La Conferenza episcopale italiana, invece, è più prudente: “Oggi, nell’era del così detto
Web 2.0, la Chiesa è consapevole delle potenzialità, ma anche dei rischi di Internet”.
Davanti al proprio computer, ciascuno rimane apparentemente in contatto col mondo, ma
in realtà questo mondo rimane distante, non
coinvolgente, asettico, e non “compromette” il
Padre Fiorenzo Raffaini
in Colombia
nel Parco del caffè (2001).
Missione Oggi | maggio 2009
27
dossier
I documentari
missionari,
anche senza i
mezzi e la
tecnologia
dei grandi
“network”,
possono
portare ad un
vasto pubblico
una visione
del mondo
(in particolare
del Sud del
mondo) libera
da condizionamenti politici
ed economici
Padre Aldo Rottini,
iniziatore nel 1987
di “Videomission”.
28
Missione Oggi | maggio 2009
fruitore dei new media e questi a sua volta non
si misura con la realtà in un rapporto incarnato.
Quale spazio trova l’annuncio missionario in questi sviluppi?
Limitandosi alla breve storia dei Missionari
Saveriani, tra la fine dell’’800 e gli inizi del
’900 il fondatore Guido Maria Conforti vide
nelle immagini e nelle pellicole un potente
mezzo far vivere la realtà missionaria alla gente comune, facendo conoscere luoghi e personaggi della missione, suscitando interesse, affetto ed entusiasmo. Oggi i reportage sulle realtà del Sud del mondo sono debitori dei documentari missionari. Non solo in molti casi registi e produttori si appoggiano alle strutture missionarie, ma si servono dell’esperienza e della
conoscenza della storia e del territorio da parte
dei missionari per realizzare il loro lavoro. Non
sempre le loro intenzioni sono limpide: si cerca
una storia, un personaggio che possa colpire la
sensibilità della gente e poi si fa “passare” tutto
quello che si vuole. I
reportage della Rai
sulla guerra del Congo,
ad esempio, hanno mostrato di non aver capito le vere ragioni di
quella guerra. Al contrario, la documentaristica missionaria, anche senza i mezzi e la
tecnologia dei grandi
network, può portare
ad un vasto pubblico
una visione del mondo
(in particolare del Sud del mondo) libera da
condizionamenti politici ed economici.
Quali sono gli istituti o le organizzazioni
che più si sono impegnati in questo settore?
Si dedicavano alla documentaristica missionaria soprattutto i Comboniani, il Pime, la Consolata, i Saveriani, per quanto riguarda gli istituti esclusivamente missionari. Certo esistono
ancora i Salesiani, la NovaT dei Cappuccini, i
Paolini e le Paoline che producono audiovisivi.
Ma, per usare un’espressione della “formula
uno”, di scuderie che producono tutto in casa ne
sono rimaste pochissime. Le ragioni? Molte: i
costi, la concorrenza con prodotti all’apparenza
similari, la difficoltà di raggiungere il grande
pubblico, un certo disinteresse del clero diocesano. I gruppi missionari, super impegnati, non
riescono ad organizzarsi anche nell’annuncio
ad gentes. Su di essi si riversa una valanga di
messaggi e di immagini che vanno dalla filantropia all’ecologia passando per il pacifismo, il
mercato equo e solidale la democrazia, i diritti
dell’uomo, il debito estero dei paesi del Sud del
mondo, ecc. La nostra voce diventa poco udibile, poco interessante perché ormai ciò che veicolavamo, come giustizia, solidarietà, democrazia, libertà, tanti altri lo fanno, con mezzi più
importanti.
E allora? Quale strada percorrere?
C’è una scarsa conoscenza e considerazione
del mezzo audiovisivo. Nonostante l’era di Internet e della velocità, l’immagine nel mondo
religioso è ancora vista come l’ancella della
carta stampata. È percepita come una cosa bella, ma superflua, perché ciò che conta è “altro”.
Manca una strategia che abbia come obiettivo
l’educazione all’audiovisivo di coloro che vivono in prima linea l’animazione missionaria.
È dunque necessario capire il linguaggio di
questi mezzi per renderli flessibili nell’annunciare il Vangelo.
Quali sono i temi trattati e quali si potrebbe ancora toccare?
Agli inizi del cinema missionario, il tema
era la vita del missionario. A volte ciò si traduceva in veri e propri film, ma dagli anni ’50 in
poi del secolo scorso l’avvento del colore e del
cinema statunitense ci ha costretti a ripiegare
sul documentario, più agile e meno costoso.
Negli ultimi vent’anni anche questa strada è diventata difficile, perché molti hanno iniziato a
produrre documentari sullo stile dei nostri. Oggi differenziarsi è più difficile ed entusiasmare
la gente è un’impresa ardua. Pur rivolgendoci a
tutti, chi si interessa è una sempre più una sparuta minoranza. I temi trattati sono legati all’annuncio del Vangelo, e di conseguenza ai temi
della giustizia sociale, della pace, dello sviluppo, del debito estero dei paesi del Sud del mondo, del rispetto degli altri.
Che cos’è “Videomission” e come definirebbe il suo lavoro?
Videomission s’inserisce nel lungo cammino saveriano nel mondo dell’immagine. Il fondatore ha sempre voluto che i missionari riportassero degli oggetti dai luoghi di missione per
creare un museo perché la gente potesse avvici-
dossier
Internet
“straordinario
potenziale”
Nel suo Messaggio per la 43a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, Benedetto
XVI considera come internet stia determinando cambiamenti fondamentali nei modelli di
comunicazione e nei rapporti umani, specialmente tra i giovani, la “generazione digitale”,
che - scrive il Pontefice - sa approfittare dello
“straordinario potenziale delle nuove tecnologie”, da lui definite “un vero dono per l’umanità”. La Rete è una rivoluzione antica: replica forme di trasmissione del sapere e di vivere
civile, ostenta nostalgie, dà forma a desideri
antichi. In particolare il desiderio di comunicazione e amicizia “è radicato nella nostra
stessa natura di esseri umani” e risponde alla
chiamata di Dio “che vuol fare dell’umanità
un’unica famiglia”. Quando la Rete, chiamata
a connettere, finisce invece per isolare, allora
tradisce se stessa.
narsi a culture diverse. Foto e film completavano questa strategia di animazione agli ideali
missionari.
Oggi non stupisce che dei missionari s’impegnino in settori che non sono considerati
“classici” della pastorale, anzi stupirebbe forse
il contrario. Ma non è stato sempre così. La
stampa, la radio, il cinema e la televisione hanno spesso suscitato diffidenza, se non ostilità,
nelle gerarchie ecclesiastiche, soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo. Ma grazie al
contributo particolare di personaggi come don
Giacomo Alberione, anche nel mondo, inizialmente diffidente, di chi aveva la responsabilità
di guidare il popolo di Dio, si è fatta strada la
certezza che la positività o negatività degli strumenti di comunicazione non stava nel mezzo in
sé, ma nel suo uso. Queste invenzioni sono un
“dono” che Dio ha messo alla portata dell’uomo per la ricerca e la diffusione del bene (Pio
XII, Miranda prorsus, 8 settembre 1957).
Videomission è nata nel 1987 per iniziativa
di p. Aldo Rottini, che aveva intuito le nuove
potenzialità espressive del mezzo magnetico
(telecamere e videoregistratori in sostituzione
della pellicola) per le riprese. Allo stesso tempo
continuava comunque anche il filone video su
pellicola iniziato da p. Agostino Carlesso, che a
sua volta continuava l’opera dei padri Bonari,
Frassinetti e Serra. Scomparso p. Carlesso, ho
ricevuto io l’incarico di recuperare il materiale
filmico precedente. Ora continuo l’opera di approccio al mondo missionario non solo dal punto di vista religioso, ma anche umano e sociale.
Quali sono le ultime produzioni di “Videomission”? Che soggetti presentano e a chi
sono destinate?
Abbiamo ultimato un video su Annalena Tonelli, uno su Guido Maria Conforti, fondatore
dei Missionari Saveriani, un altro su p. Piero
Uccelli, un altro ancora sui Martiri Giapponesi.
Abbiamo inoltre completato un video sulla parrocchia missionaria, inserendovi storie dal Congo, dal Bangladesh e dal Brasile, mentre un altro
lavoro è dedicato ai martiri saveriani del Burundi, del Congo e del Bangledesh (quest’ultimo in
fase di ultimazione).
FEDERICO TAGLIAFERRI
Oggi non
stupisce che
dei missionari
s’impegnino in
settori che non
sono
considerati
“classici” della
pastorale, anzi
stupirebbe
forse il
contrario.
Ma non è stato
sempre così
Padre Fiorenzo Raffaini,
con il fratello p. Leonardo,
missionario saveriano,
sullo sfondo di Bogotà.
Missione Oggi | maggio 2009
29
dossier
Film&
mission
Intervista a
Maria Grazia Piredda
MARIA FRANCESCA PIREDDA È LAUREATA IN
STORIA E CRITICA DEL CINEMA ALL’UNIVERSITÀ
CATTOLICA DI MILANO CON UNA TESI SUL CINEMA COLONIALE ITALIANO. ATTUALMENTE È AS-
SEGNISTA DI RICERCA NELLA SEZIONE CINEMA
DIPARTIMENTO MUSICA E SPETTACOLO
DELL’UNIVERSITÀ DI BOLOGNA. LE ABBIAMO
DEL
RIVOLTO ALCUNE DOMANDE SUL RAPPORTO TRA
CINEMA E MISSIONE.
PER SAPERNE DI PIÙ
Maria Grazia Piredda,
Film & Mission.
Per una storia
del cinema missionario.
EdS, Roma 2005.
presso:
[email protected]
30
Missione Oggi | maggio 2009
L
ei ha pubblicato di recente “Film & Mission. Per una storia del cinema missionario” (EdS, Roma 2005). Quale rapporto esiste tra evangelizzazione e comunicazione? Si
può comunicare la missione con il cinema?
È abbastanza facile immaginare come la
questione dell’evangelizzazione si accompagni
da sempre al problema della corretta forma comunicazionale da adottare. L’attività missionaria, alla quale è stata in gran parte demandato il
compito di diffondere la religione cristiana nel
mondo, si è dovuta confrontare nei secoli con
problemi concreti quali la difficoltà di avvicinare popolazioni aventi lingua, usi e culture differenti da quelli dei religiosi, nonché con l’esigenza di informare i fedeli in Europa sull’attività dei missionari oltreoceano. Una delle soluzioni frequentemente adottate è stata quella di
affidarsi alle immagini (dipinti, cartoline, foto-
grafie ecc.), per la facilità e piacevolezza di apprendimento che queste garantirebbero e per il
fascino in grado di esercitare su un pubblico
eterogeneo. Le immagini, dunque, hanno costituito spesso il primo canale comunicativo tra i
missionari e le popolazioni oggetto dell’attività
di evangelizzazione e insieme la “prova” dell’operato dei missionari.
Le immagini cinematografiche si inseriscono, appunto, all’interno del rapporto secolare
che la Chiesa intesse con le arti rappresentative:
esse affascinano, informano, educano. I missionari lo capirono molto presto e se ne servirono
sin dai primi anni del XX secolo. Tuttavia, il cinema non comunica necessariamente la realtà
della missione, piuttosto la mette in forma. Un
documentario girato negli anni Trenta, per
esempio, è inevitabilmente figlio della cultura
imperialista dell’Italia del fascismo. Questo non
diminuisce l’importanza delle immagini cinematografiche rispetto alla possibilità che queste
possiedono di comunicare la missione; anzi, ci
dicono qualcosa non solo sull’oggetto rappresentato (appunto, la missione), ma anche su chi
lo ha rappresentato (i missionari e, ritornando al
mio esempio, il rapporto con il colonialismo).
Che cos’è il “cinema missionario”. Quali
sono le sue chiavi di lettura?
Con l’espressione “cinema missionario” ho
voluto indicare tutte le pellicole cinematografiche che prevedono il coinvolgimento dei missionari in fase di realizzazione e di distribuzione.
Dunque, sia le opere girate espressamente dai religiosi, sia quelle commissionate da questi a professionisti, i lavori firmati dai missionari in fase
di ideazione e quelli distribuiti con marchi legati
agli Istituti. All’interno di questo gruppo, inoltre,
dossier
è possibile riconoscere sia film di finzione (racconti che tematizzano la vita in missione) sia documentari, questi ultimi ulteriormente distinguibili per i contenuti che spaziano dalla predilezione per la dimensione naturalistica e etnografica
dei popoli indigeni all’attività missionaria, dall’informazione giornalistica alla didattica. Si
tratta, dunque, di un corpus di opere molto vario
e consistente, che si muove nei punti di intersezione di settori differenti – l’industria cinematografica e l’amatoriale, la propaganda missionaria, l’inchiesta giornalistica, l’antropologia ecc.,
dei quali bisogna tener conto per tentare un’analisi profonda del materiale filmico.
Quali sono i percorsi del cinema missionario fino ai nostri giorni?
I missionari iniziano ad utilizzare le immagini del cinematografo dai primi anni del XX secolo, servendosi soprattutto dei film che danno
rappresentazione della Passione di Cristo e i documentari di tipo naturalistico realizzati da importanti case di produzione. A partire dagli anni
Dieci del secolo scorso, tuttavia, anche i missionari si mettono dietro la macchina da presa con
l’intento di informare sulla propria attività e sulle realtà incontrate nel corso dei proprio viaggi.
In base ai dati che finora sono emersi dagli
studi sull’argomento, il primo lavoro prodotto
da missionari italiani è un documentario piuttosto lungo, circa sei ore, girato in Eritrea nel 1922
dai missionari Cappuccini, che dà rappresenta-
P. Agostino Carlesso
e la “Oltremare Film”
Dopo l’ordinazione sacerdotale (1953), p. Carlesso fu destinato a Parma col compito di seguire la cinematografia. Una destinazione indovinata, vista la mole di lavoro che portò a termine. P. Carlesso frequentò il CIAC (Centro Italiano Addestramento Cinematografico) per
i corsi di regia e di direttore della fotografia. Fu incaricato da p. Vanzin di organizzare la settimana INCOM, basandosi su una serie di documentari girati in Indonesia, Giappone, Sierra Leone e Bangladesh
da alcuni confratelli muniti di cinepresa, di un manuale pratico e soprattutto di tanta passione ed entusiasmo. L’iniziativa si fermò al decimo documentario per mancanza di tempo da parte dei cineamatori e da difficoltà logistiche, nonché per mancanza di fondi.
Nel 1959 fu mandato a Roma dove restò fino a pochi giorni dalla morte, avvenuta nel 1996.
Nel 1967 fece il suo primo viaggio da regista-cineoperatore in Sierra
Leone. In seguito ne intraprese altri 14. Trascorse 41 anni dietro una
cinepresa o davanti ad una moviola con l’intento di comunicare con
suoni ed immagini la vita dei missionari e della loro gente. Dai suoi
lavori emergeva viva anche l’atmosfera culturale nella quale i protagonisti si muovevano.
P. Agostino sentiva che le richieste erano al limite delle possibilità
culturali dell’Istituto e allora si arrangiava partecipando a concorsi,
chiedendo aiuti “per finire il lavoro”.
La sua produzione fu enorme, girò 60 documentari e scattò decine di
migliaia di diapositive. Le sue opere non furono di denuncia politica
o religiosa, ma si concentravano sulla gente e sulle sue reazioni di
fronte alle avversità della vita, ai disagi del clima e delle situazioni
politiche. Non si interessò mai di politica internazionale. La sua scelta fu quella di cogliere il missionario nel suo farsi prossimo. Lo mostrò nel dare risposte concrete per alleviare la sofferenza della gente
senza però ricorrere alla violenza, ai movimenti di massa, alla guerriglia o alle rivoluzioni, se non quella del cuore. Piccole storie quotidiane di lavoro, di fatica, di difficoltà, dove ciò che conta per il regista
è la figura di questo “eroe” umile che è il missionario, amato dai
bambini e dai poveri. Un “eroe”, a volte solitario, che lascia i posti di
prestigio alle realtà ecclesiali locali per lavorare nelle periferie, nelle
contrade sperdute delle foreste equatoriali, mai sprecato, mai inutile
perché porta con sé la Buona Novella da annunciare ai poveri che appunto abitano la periferia di questo mondo.
Le sue opere avevano fondamentalmente lo scopo di rappresentare
un sussidio per l’animazione vocazionale e missionaria. Esse evidenziano il fascino delle tradizioni orientali, dai colori alle danze ai costumi, che formano una cornice affascinante in cui si svolge il lavoro del missionario. Appare così evidente l’intento di suscitare interesse, risvegliare vocazioni dimenticate da qualche parte nel cuore dei
giovani.
Missione Oggi | maggio 2009
31
dossier
32
Missione Oggi | maggio 2009
nema potrebbe essere assunto come esempio
del percorso di tutto il cinema missionario italiano lungo il XX secolo: da amatori a professionisti del settore. Oltre, poi, che registi e produttori, tra i Saveriani si possono annoverare alcune delle figure che più hanno animato e approfondito la discussione in merito al rapporto
tra cinema e attività missionaria: a titolo di
esempio ricordo i nomi dei padri Vittorino C.
Vanzin e Francesco De Zen, di cui è possibile
ancora oggi constatare la passione degli interventi espressi in varie occasioni.
Il caso certamente più emblematico del cinema missionario saveriano è dato da un film
realizzato nel 1929 e dal titolo Fiamme, regia di
padre Mario Frassinetti. Numerose le particolarità di questo prodotto, a partire dalla scelta di
girare un’opera di finzione e non un documentario come era stato abituale fino ad allora. La
vicenda raccontata, inoltre, costruisce uno
schema narrativo imitato da molte opere successive: la figura del missionario – in opposizione a quella dello stregone – si pone quale difensore degli indigeni messi in pericolo dalla
loro stessa ignoranza, fino al compiersi della
conversione alla religione cristiana. In più
Fiamme decide di ambientare la vicenda in
America, mettendo in scena uno scontro tra indiani e rangers, cioè adatta alcune caratteristiche del genere cinematografico western ai valori e alle esigenze dell’attività missionaria. Questo dimostra non solo un’apertura e un apprezzamento per il linguaggio cinematografico che
sono assolutamente atipici per il periodo, ma
anche una profonda conoscenza dell’immaginario popolare, amante delle storie avventurose
ed esotiche. Il film viene realizzato in brevissimo tempo, da dilettanti, che così trascorrono le
vacanze estive sugli Appennini intorno a Parma, tra inseguimenti a cavallo e benedizioni
della macchina da presa; dunque non possiede
velleità artistiche e tuttavia ancora oggi stupisce per l’originalità di concezione e di realizzazione. Il valore di Fiamme, inoltre, è dato dal
fatto che resta a tutt’oggi il primo film missionario di cui possediamo le immagini, il cui apprezzamento, insomma, non si costruisce unicamente tramite fonti indirette (per esempio, la
stampa del periodo). Con queste premesse, sembra quasi naturale che i Saveriani abbiano continuato nella produzione cinematografica, aggiornando ovviamente tecniche e linguaggi fino ai
nostri giorni (a cura di m.m.).
MISSIONE OGGI - N. 5/2009 - CSAM - VIA PIAMARTA 9 - 25121 BRESCIA - [email protected]
I Missionari
Saveriani di
Parma hanno
dimostrato
un’attenzione
duratura nel
tempo per il
cinematografo.
È sufficiente
dire che il
primo lavoro da
essi realizzato
risale al 1924
zione della colonia italiana e della missione cappuccina in loco. È necessario sottolineare come
i religiosi non avessero una preparazione professionale, dunque i lavori di questo periodo risentono di un certo dilettantismo (riprese incerte,
pellicole e macchinari di fortuna, scarsa originalità rispetto agli argomenti trattati), ma nonostante questo è encomiabile la sensibilità fotografica, il desiderio di sperimentazione, la fiducia riposta nelle capacità comunicative del cinematografo, cosa insolita visto il contemporaneo
scetticismo espresso dalla Chiesa di Roma.
La fase per così dire “pionieristica” ha termine con la seconda guerra mondiale: dalla fine degli anni Quaranta si assiste alla proliferazione di
iniziative (come festival e concorsi), di case di
produzione promosse dagli Istituti missionari, di
dibattiti ospitati all’interno delle riviste missionarie circa il corretto utilizzo del cinema nell’attività evangelica. L’insieme di questi fenomeni sta a
testimoniare come il cinematografo avesse ormai
conquistato un posto importante nell’attività missionaria; sempre come ausilio della parola, ma
non necessariamente in forma dilettantistica.
Questi dati si confermano nei decenni successivi, caratterizzati da un incremento esponenziale della produzione audiovisiva. Tuttavia, mentre alcuni missionari continuarono ad
impegnarsi in prima persona nella realizzazione
di film e documentari, la maggior parte degli
Istituti preferì dare vita a realtà produttive gestite da laici, professionisti del settore. L’avvento della tecnologia digitale e l’ampliarsi del
mercato dell’audiovisivo a partire dagli anni
Ottanta, infatti, hanno portato alla nascita di numerose case di produzione nel mondo, mentre
la concorrenza della televisione e di Internet ha
avuto come conseguenza l’utilizzo del cinema
quale strumento di approfondimento e informazione, piuttosto che didattico o di cronaca.
Quale parte hanno avuto i Missionari Saveriani nella storia del cinema missionario?
Può indicare un caso significativo?
I Missionari Saveriani di Parma hanno dimostrato un’attenzione duratura nel tempo per
il cinematografo. È sufficiente dire che il primo
lavoro da essi realizzato risale al 1924 (Il nido
degli aquilotti, un film purtroppo perduto, ma
che doveva servire a suscitare nuove vocazioni
tra i suoi spettatori) e ancora è operativa Videomission, nata nel 1987 per iniziativa di padre
Ottorino Maule, con sede a Brescia. In qualche
modo, insomma, il rapporto tra Saveriani e ci-
Tra i grandi mutamenti e, perché no, turbamenti,
che hanno accompagnato il rinnovamento della
Chiesa chiesto dal Concilio, occorre senz’altro annoverare anche una crisi di identità dei presbiteri o
sacerdoti. Questa è stata condizionata certamente
dalle concomitanti grandi trasformazioni avvenute nella società e ripercossesi nella stessa Chiesa
durante la “rivoluzione culturale” che ebbe il suo
apice negli eventi del ‘68. Ma, in un certo senso, essa è stata anche indirettamente provocata dal
Concilio Vaticano II che, chiedendo ai ministri tutti della Chiesa cambiamenti non piccoli nel modo
di auto-comprendersi, ha contribuito a questa “crisi di identità” dalla quale solo ora, sembra, ci si
stia lentamente riprendendo. Prove dolorose di
questa crisi sono state, tra l’altro, le molte defezioni, la diminuzione nel numero di candidati al sacerdozio (sebbene anche qui le cause siano molteplici), oltre ad una inusitata difficoltà a perseverare nel mandato ricevuto e nell’impegno assunto.
ROVESCIAMENTO DI PROSPETTIVA
Mentre il Concilio di Trento, a motivo della sua finalità propria e dei compiti concreti e urgenti con
cui doveva confrontarsi, partiva dalla riaffermazione della verità di fede del sacrificio eucaristico
per ribadire ed esprimere la identità del “sacerdote” (come il “presbitero” era definito in senso reAFP
Tensione
missionaria
e identità
sacerdotale
concilio e missione
MO
P. Franco Sottocornola,
missionario saveriano,
di Bergamo,
è fondatore
e direttore del Centro
di spiritualità
e dialogo
interreligioso
Shinmeizan
a Tamana-gun
(Kumamoto,
Giappone), nonché
consultore
del Pontificio
Consiglio
per il dialogo
interreligioso
CRISI DI IDENTITÀ
FRANCO SOTTOCORNOLA
V
olendo riflettere sul mistero della Chiesa, la sua
natura e struttura, la sua ragion d’essere profonda, il Concilio Vaticano II si è occupato in modo
specifico e dettagliato dei ministeri che sono elemento essenziale della sua identità. Tra i 16 documenti discussi, approvati e offerti come autorevole
insegnamento e guida per la vita della Chiesa, troviamo infatti un decreto sull’ufficio pastorale dei
vescovi, e ben due decreti che riguardano i presbiteri: uno sulla loro formazione e l’altro sul loro ministero e la loro forma di vita. Vorremmo qui soffermarci sulle indicazioni che il Concilio ha dato
per comprendere il servizio ministeriale e per viverlo fruttuosamente all’interno del grande mistero che è la Chiesa, corpo di Cristo, sua presenza viva nella storia del mondo e strumento della sua
azione di salvezza.
strittivo), e, inoltre, trattava del ministero nella
Chiesa a partire appunto dai sacerdoti, il Vaticano
II, con una intenzione più ampia e generale, nella
Costituzione sulla Chiesa (“Lumen gentium”) colloca il discorso sui ministeri all’interno del più vasto
discorso sulla Chiesa tutta, partendo dal ministero
dei vescovi, successori degli Apostoli, e all’interno
di questo ministero coglie e delinea l’identità del
presbitero. Di conseguenza, l’identità del presbitero
Missione Oggi | maggio 2009
33
concilio e missione
Per un superamento felice della crisi di identità del ministero presbiterale, è necessario che quanti vi sono chiamati assumano con consapevolezza e con entusiasmo i tratti di questa identità come delineati dal
Concilio, trasformandoli in forma di vita e facendone il proprio orizzonte spirituale. Si può ben capire che questo cambio di prospettiva
possa salutarmene mettere in crisi molti sacerdoti, ma anche aiutarli
a superare questa crisi con una chiara e gioiosa consapevolezza della
propria vera identità. Essa li unisce intimamente a Cristo, in modo
nuovo e speciale; ma ciò avviene nella Chiesa, attraverso una concreta e vissuta comunione di missione con il vescovo e con la comunità
dei fedeli, e nella prospettiva della salvezza di tutta l’umanità. E’ questa la prospettiva che domina anche la conclusione del decreto conciliare sui presbiteri (Cf. n. 22).
Papa Benedetto XVI, in occasione del 150mo anniversario della morte
del santo curato d’Ars, Jean Marie Vianney, ha recentemente proclamato un “anno sacerdotale”, che inizierà il 19 giugno 2009, solennità
del “Cuore”, ossia del mistero di amore misericordioso, di Cristo. La
massima “estensione” della missione del presbitero non può non essere radicata e sostenuta dalla massima “intensità” della sua percezione e appropriazione in una identificazione mistica con questo
“Cuore”, questo amore, di Cristo, fonte e luogo di vita e di salvezza per
il mondo intero.
viene vista nel suo insieme, come collaboratore del vescovo in tutto il suo servizio alla
Chiesa e al mondo, servizio definito tradizionalmente dal triplice ambito, del governo o guida pastorale, della predicazione della parola di Dio, e della celebrazione dei segni sacramentali della presenza e dell’azione salvifica di Cristo nella sua Chiesa.
IL DECRETO SUI PRESBITERI
Non potendo qui analizzare in dettaglio tutto il ricco testo del decreto “Presbyterorum
ordinis”, ci soffermiamo sulla impostazione
generale del discorso sui presbiteri e sulla
precisa e chiara affermazione della loro
missione universale come elemento costitutivo della loro identità.
Il decreto, sulla scia della “Lumen gentium”,
inizia descrivendo il ministero presbiterale
come partecipazione al ministero dei vescovi, e definendo questi come continuatori del
ministero apostolico nella Chiesa. Ne consegue una concezione del ministero presbiterale ricca e feconda, radicata nel ministero
degli Apostoli, ampia, universale, aperta
sul mondo intero. Con una felice citazione
di un bellissimo e denso testo paolino, il
34
MO
Superamento della crisi
Missione Oggi | maggio 2009
Concilio afferma: “Dato che i Presbiteri hanno una loro partecipazione nella funzione
degli Apostoli, ad essi è concessa da Dio la
grazia per poter essere ministri di Cristo Gesù fra le genti mediante il sacro ministero
del Vangelo, affinché l’oblazione delle genti
sia accettabile, santificata nello Spirito Santo (cfr. Rom. 15, 16 gr.)... Effettivamente, il
loro servizio, che comincia con l’annuncio
del Vangelo, deriva la propria forza e la propria efficacia dal Sacrificio di Cristo, e ha
come scopo che ‘tutta la città redenta, cioè
la riunione e società dei santi, offra a Dio un
sacrificio universale per mezzo del Gran Sacerdote, il quale ha offerto se stesso per noi
con la sua Passione, per farci diventare corpo di così eccelso Capo’ (Agostino, De Civ.Dei
10,6). Pertanto, il fine cui tendono i Presbiteri con il loro ministero e la loro vita è la gloria di Dio Padre in Cristo. E tale gloria si dà
quando gli uomini accolgono con consapevolezza, con libertà, e con gratitudine,
l’opera di Dio realizzata in Cristo e la manifestano in tutta la loro vita” (n. 2). Il termine “uomini” (homines) qui sarebbe meglio
tradotto, in italiano, con “l’umanità tutta”!
Il n. 10, con cui inizia il cap. III, riafferma
esplicitamente questa prospettiva universa-
le del ministero presbiterale: “Il dono spirituale che i Presbiteri hanno ricevuto nell’Ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e
universale missione di salvezza, ‘fino agli
ultimi confini della terra’ (Atti, 1,8), dato che
qualunque ministero sacerdotale partecipa
della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli Apostoli. Infatti
il sacerdozio di Cristo, di cui i Presbiteri sono
resi realmente partecipi, si dirige a tutti i popoli e a tutti i tempi, né può subire limite alcuno di stirpe, nazione o età...”.
LA PREGHIERA DI ORDINAZIONE
Queste indicazioni conciliari sono state accolte e come condensate nella più importante delle modifiche introdotte dalla riforma liturgica post-conciliare nel rito di
ordinazione dei presbiteri, nella stessa preghiera di ordinazione pronunciata dal vescovo, che si conclude con una visione
grandiosa, missionaria, universale, del loro ministero:
“Siano degni cooperatori dell’ordine episcopale, perché la parola del Vangelo mediante
la loro predicazione, con la grazia dello Spirito Santo, fruttifichi nel cuore degli uomini, e raggiunga i confini della terra [...] Siano uniti a noi, o Signore, nell’implorare la
tua misericordia per il popolo a loro affidato e per il mondo intero. Così la moltitudine
delle genti, riunita a Cristo, diventi il tuo
unico popolo, che avrà il compimento nel
tuo regno”.
FRANCO SOTTOCORNOLA
DI ESSERE PASSATI DALLA FASE
DELLA “PRIMA CONOSCENZA” A
QUELLA DELLA “FIDUCIA”, ALMENO
CON LA MAGGIOR PARTE DELLE
REALTÀ MUSULMANE PRESENTI
NELLA DIOCESI AMBROSIANA.
ORA
LE RELAZIONI SONO PIÙ FACILI, CI
SI CONOSCE MEGLIO, CI SI FIDA GLI
UNI DEGLI ALTRI, I RAPPORTI SONO
PIÙ SCIOLTI, NON SI TEME DI
Milano
Una Chiesa in dialogo
AFFRONTARE LE DIFFERENZE E LE
DIVERGENZE
verso il convegno
AP PHOTO/CORRADO GIAMBALVO
GRAZIE AL PAZIENTE IMPEGNO DI
QUESTI ANNI, ORA POSSIAMO DIRE
GIAMPIERO ALBERTI
H
o già descritto, in “Missione Oggi” del mese
di ottobre 2007, la pastorale per il dialogo
interreligioso della Chiesa di Milano. Racconterò ora degli sviluppi del nostro lavoro, anche
a livello di Forum delle Religioni, che avevo
solo citato nel precedente articolo.
DALLA “CONOSCENZA” ALLA “FIDUCIA”,
UN PASSO AVANTI
Grazie al paziente impegno di questi anni,
ora possiamo dire di essere passati dalla fase
della “prima conoscenza” a quella della “fiducia”, almeno con la maggior parte delle realtà
musulmane presenti nella diocesi ambrosiana.
Ora le relazioni sono più facili, ci si conosce
meglio, ci si fida gli uni degli altri, i rapporti sono più sciolti, non si teme di affrontare le differenze e le divergenze.
Questa reciproca fiducia permette e richiede
un lavoro più approfondito ai vari livelli. Si cerca cioè di capire sempre meglio, al di là dei ter-
mini che possono sembrare uguali nelle due religioni, ciò che ogni religione intende, professa
e vive realmente. Ad esempio ci si confronta su
cosa musulmani e cristiani rispettivamente intendono quando si parla di Dio, di Gesù Cristo,
di libertà religiosa, di democrazia di laicità e simili. Questa ricerca di chiarezza avviene da
sempre, altrimenti non ci sarebbe mai stato incontro, dialogo. Ora, instaurata la fiducia, si
può lavorare sempre più in profondità e soprattutto con maggiore libertà.
E non è poco, se si tiene presente la confusione che spesso ancora si riscontra a proposito
dei valori accennati, anche nei media. Il significato dato ai termini, la comunicazione, intesa
come vera comprensione del pensiero, generano ancora confusione che ostacola il dialogo
creando incomprensione e favorendo superficialità e sincretismo. Anche lo sforzo formativo
è volto a rendere capaci di chiarezza e approfondimento, nella massima reciproca libertà.
Così che ogni operatore pastorale o semplice
Giampiero Alberti,
sacerdote di Milano,
specializzato in
Islamistica presso il
PISAI (Pontificio
istituto studi arabi e
islamistica) di Roma,
esperto di islam
dell’Ufficio
ecumenismo e dialogo
dell’arcidiocesi
ambrosiana, membro
del CADR (Centro
ambrosiano di
documentazione sulle
Religioni) e del
Comitato scientifico
della rivista“Ad
Gentes” dell’EMI
di Bologna
Missione Oggi | maggio 2009
35
verso il convegno
fedele possa essere abilitato ad aprirsi ad un vero dialogo nell’ambito in cui svolge il suo impegno o semplicemente là dove si trova a vivere, testimoniando la sua fede.
IL “FORUM DELLE RELIGIONI” DI MILANO
Sulla scia di altre iniziative simili, sia pure
con genesi e fisionomie diverse, già presenti in
altre città italiane, gli operatori pastorali del settore hanno sentito il desiderio e la necessità di
un Forum delle Religioni anche per Milano.
Così, dopo anni di contatti, incontri, riunioni,
preghiera e collaborazione si è giunti il 21 marzo 2006 alla firma dello Statuto del Forum delle Religioni a Milano. L’avvenimento che ha
segnato l’inizio della storia del Forum delle Re-
La costituzione del Forum delle Religioni
a Milano intende offrire alla città
la presenza e il servizio di un organismo
interreligioso, in cui le religioni siano
rappresentate attraverso l’adesione non
di singole persone, ma delle stesse
organizzazioni e comunità religiose
formalmente costituite
ligioni a Milano risale però al 25 ottobre 2000,
quando per l’annuale appuntamento, organizzato anche a Milano per rivivere l’indimenticabile incontro interreligioso del 1986 ad Assisi,
l’arcidiocesi milanese rivolse ad ogni comunità ed organizzazione religiosa presente in città e
alle altre confessioni cristiane, l’invito di potersi ritrovare tutti allo stesso titolo e intorno allo
stesso tavolo, allo scopo di pensare e programmare, promuovere e realizzare un’iniziativa a
livello cittadino, che fosse “interreligiosa” fin
dal suo inizio e dalla sua impostazione.
In piena e paritetica collaborazione venne
elaborato un programma di incontro pubblico
(con interventi su L’accoglienza dell’altro via
alla pace di D. Teundrup, R. Sirat, M. Bashir alBani, C.M. Martini, in rappresentanza di buddhisti, ebrei, musulmani e cristiani) e fu redatto un
Appello alla città, che sulla civica piazza di S.
Angelo venne solennemente firmato da diversi
leader religiosi di Milano e consegnato al Sindaco. Il positivo risultato dell’evento e la fecondi36
Missione Oggi | maggio 2009
LO STATUTO IN SINTESI
Le Comunità religiose e le Organizzazioni
religiose presenti a Milano di tradizione
buddhista, cristiana, ebraica e musulmana, che sottoscrivono il presente documento si costituiscono in Forum delle Religioni a Milano (FRM).
SCOPI
1. Approfondire la mutua relazione e
progredire nella reciproca accoglienza, nella conoscenza dei fondamenti
teorici e delle prassi di ciascuna comunità.
2. Promuovere la cultura del dialogo,
della solidarietà e della pace.
3. Favorire il confronto sulle tematiche
di comune interesse in rapporto all’interazione con la società civile.
4. Esprimere un punto di riferimento significativo delle tradizioni religiose presso
gli enti locali e le istituzioni civili.
5. Promuovere la tutela della libertà di
culto, di religione e di fede e impegnarsi contro ogni forma di discriminazione religiosa.
ADERENTI
La partecipazione al FRM avviene in
rappresentanza delle singole Organizzazioni e Comunità religiose e non a titolo
personale.
tà del metodo sperimentato hanno confermato la
volontà di continuare sulla strada intrapresa: già
il giorno successivo fu offerta ai leader religiosi
di Milano una qualificata presentazione di
World Conference on Religion and Peace, cui si
è ispirato il successivo cammino. Infatti, soprattutto nel periodo 2001-2004, si è privilegiato il
processo di costituzione di una sezione milanese di Religions for Peace. Con essa è stato possibile promuovere alcune iniziative qualificate
nella loro dimensione interreligiosa. In questa
ottica si possono menzionare alcune veglie interreligiose di preghiera, a cominciare da quella
intitolata Religioni a Milano per la Pace e organizzata l’11 ottobre 2001, un mese dopo gli attentati terroristici negli Usa. Gli stessi annuali
incontri del 27 ottobre e diverse altre iniziative
verso il convegno
AP PHOTO/CORRADO GIAMBALVO
si sono avvalse della collaborazione interreligiosa dapprima di Religions for Peace e poi del
gruppo di lavoro impegnato nella costituzione
del Forum delle Religioni a Milano.
Infatti dal giugno 2004 si è dato l’avvio al
processo di costituzione del Forum con lo scopo
di integrare le funzioni della sezione milanese di
Religions for Peace, alla quale i soci, anche se
qualificati rappresentanti delle proprie religioni,
aderiscono solo a titolo personale. Con la costituzione del Forum delle Religioni a Milano si
intende invece offrire alla città la presenza e il
servizio di un organismo interreligioso, in cui le
religioni siano rappresentate attraverso l’adesione non di singole persone, ma delle stesse organizzazioni e comunità religiose formalmente costituite. Per questo lo statuto, inteso come carta
d’intenti, viene sottoscritto da ogni firmatario a
nome del singolo soggetto di cui è responsabile
o che lo ha deputato a rappresentarlo.
Hanno aderito: la Comunità ebraica, alcune
Associazioni buddhiste, Cristiani cattolici, alcune Associazione cattoliche, Avventisti, Evangelici, Protestanti, alcune Comunità musulmane.
La cerimonia della firma è stata ricca di simboli, il più significativo il gesto dell’acqua: all’inizio il rappresentante di ogni area religiosa ha
versato dell’acqua in un recipiente, quindi le acque si sono mescolate, al termine, ognuno ha ripreso l’acqua così mescolata da portare come
segno nella propria comunità. Ogni anno si ricorda la data della firma dello Statuto in una ce-
rimonia pubblica e si cambiano i simboli. Dall’acqua si è passati all’ulivo (ai presenti è stato
dato un ulivo-bonsai) e poi all’aria (è stato distribuito un flauto), quest’anno saranno i frutti. I
simboli sono eloquenti, non richiedono spiegazioni e sono adatti per ogni area religiosa.
Ogni anno il 27 ottobre, presso il Convento di
Sant’Angelo dei Frati Francescani in Milano, il
Forum, e relativi fedeli sempre più numerosi, si
ritrova per ricordare e rivivere lo spirito del famoso Incontro Interreligioso di Assisi, e ogni anno si sviluppa un tema, che viene presentato, e
per il quale si prega. È evidente l’importanza che
in una grande città come Milano gli esponenti
delle varie Religioni presenti in città e dintorni
abbiano aderito a questo organismo così specifico e davvero interreligioso, che è diventato un significativo referente anche per la società civile.
Ad esempio, abbiamo iniziato, insieme, a metterci a disposizione di scuole e enti che desiderano conoscere meglio le religioni presenti sul nostro territorio. Abbiamo altresì risposto alla richiesta del Sindaco di Milano accettando di collaborare al progetto di un incontro internazionale per celebrare nel 2013 i 1700 anni del Rescritto di Licinio e Costantino (Milano 313 d.C.).
Inoltre i fedeli delle singole aree religiose
vengono “formati” a vivere gli scopi del Forum
nella vita quotidiana, nelle loro relazioni familiari e sociali. È il dialogo dei “piccoli passi”,
della gente comune che forma il tessuto della
società e che realizza la Pace. GIAMPIERO ALBERTI
Ogni anno si
ricorda la data
della firma dello
Statuto in una
cerimonia
pubblica e si
cambiano i
simboli.
Quest’anno
saranno i frutti.
I simboli sono
eloquenti, non
richiedono
spiegazioni e
sono adatti per
ogni area
religiosa
Missione Oggi | maggio 2009
37
verso il convegno
MO
Il dialogo
interreligioso
a Taiwan
PAULIN BATAIRWA
IL MIRACOLO RELIGIOSO DI TAIWAN
Paulin Batairwa
Kubuya, missionario
saveriano della R.D.
Congo, ordinato
sacerdote nel 2000, è
stato destinato alla
Delegazione Cinese
dei saveriani a Taipei
(Taiwan), dove sta
concludendo il
dottorato in
Interreligious dialogue
presso la Fu Jen
University. L’articolo
che qui pubblichiamo
era già apparso su
“Quaderni del Centro
Studi Asiatico” 3/2008
38
Missione Oggi | maggio 2009
L
a pacifica convivenza delle religioni è uno
dei miracoli di Taiwan. La società taiwanese
è molto religiosa, ci sono templi dappertutto e
le attività e le celebrazioni religiose si svolgono
durante tutto l’anno. Può accadere che membri
della stessa famiglia venerino divinità differenti, ma ciò non sembra essere fonte di contrasti
né di conflitti sociali. Nell’isola vi è un proliferare di templi piccoli e grandi, nei villaggi, sulle montagne, in città. A Taiwan sono 26 le confessioni religiose ufficialmente registrate, la
maggior parte dei gruppi buddhisti più influenti sono registrati come “fondazioni”. La legge
sulle registrazioni è molto severa, ma il governo non interferisce nell’amministrazione interna di queste istituzioni. Naturalmente, vi è
un’interazione di potere tra i partiti politici e
queste importanti istituzioni religiose. Da un lato, gli uomini politici cercano il patrocinio di
autorevoli maestri spirituali, dall’altro, le organizzazioni religiose possono disporre di migliori informazioni su come ricevere fondi dal governo. Inoltre, nel contesto di emarginazione
politica in cui si trova Taiwan a livello internazionale, alcuni uomini politici hanno messo in
evidenza il sostegno ricevuto dalle organizzazioni religiose nel dar voce alla propria causa. È
per questo motivo che Taiwan presta particolare attenzione alle attività religiose internazionali: ciascuna di esse offre l’opportunità di farsi
notare e di reclamare con forza quello “spazio”
che le viene negato in molte altre situazioni. Il
governo è sempre molto interessato.
IL DIALOGO INTERRELIGIOSO
NELLA CHIESA CATTOLICA DI TAIWAN
Nel 1943 il cardinal Yu Bing fondò a Chongqing (Cina) l’Associazione cinese dei credenti,
Per quanto riguarda il futuro del dialogo
interreligioso, ci sono motivi per ben sperare,
soprattutto nella diocesi di Taipei. Il nuovo
vescovo (nominato nel dicembre 2007) ha
posto il dialogo interreligioso tra le priorità del
suo impegno pastorale. Si tratta di vedere
come ciò potrà verificarsi. Anzi tutto, egli ha
incaricato un giovane prete locale di presiedere
la commissione che conduce incontri consultivi
finalizzati a chiarire gli obiettivi e le priorità
della commissione stessa. Uno dei compiti di
tale commissione diocesana è di chiarire e
selezionare le differenti necessità provenienti
dal dialogo ecumenico e dal dialogo
interreligioso. Inoltre, la commissione si
propone di coordinare le iniziative e le energie
sparse di vari gruppi e congregazioni religiose
che, per mancanza di coinvolgimento della
Chiesa locale, appaiono lontane dall’essere uno
sforzo cattolico per il dialogo interreligioso.
La ricerca è un campo interessante in cui il
dialogo interreligioso viene portato avanti, in
particolare da parte del Teologato Gesuita e
dell’Università Fu Jen. La proposta della
commissione diocesana per il dialogo
interreligioso è di tenere un convegno annuale
o semestrale con specialisti di queste due
istituzioni cattoliche. La collaborazione con
questo ambiente accademico contribuisce a
ricordare e a far emergere le questioni e le aree
che richiedono più dialogo.
verso il convegno
Il futuro
MO
MO
quale punto di partenza di un percorso di pace.
Si tratta della prima organizzazione interreligiosa sponsorizzata e promossa dalla Chiesa cattolica in Cina, molto tempo prima del Concilio
Vaticano II. Al momento della fondazione, il
cardinal Yu Bing accettava come membri dell’associazione soltanto i rappresentanti delle religioni mondiali. Ma una volta trasferitosi a Taiwan (dopo la proclamazione della Repubblica
Popolare Cinese, 1° ottobre 1949 – n.d.r.), allargò i criteri di ammissione per far spazio alle religioni locali. Alla sua morte, l’associazione era
diventata un organismo che comprendeva 18
delle confessioni religiose ufficialmente registrate a Taiwan. Lo spirito di questa associazione ha spronato e promosso l’impegno della
Chiesa cattolica nel campo del dialogo interreligioso. In seguito, la Chiesa fu naturalmente influenzata dalle direttive del Concilio; nel 1990
la Conferenza episcopale di Taiwan creò la propria Commissione per il dialogo interreligioso.
La Chiesa di Taiwan si muove a due velocità. Mentre in via di principio il dialogo interreligioso è definito una priorità, la Chiesa locale
non sempre riesce a trovare il personale e i
mezzi per promuoverlo. Un serio impegno in
questo campo nel clero e tra i laici locali è ostacolato dalle discussioni teologiche sul paradosso esistenziale tra la missione/proclamazione e
il dialogo interreligioso. I religiosi e i sacerdoti
nati a Taiwan nutrono dubbi sull’opportunità
del dialogo con quelle tradizioni religiose che,
una volta che essi si sono convertiti al cristianesimo, hanno allontanato dalla loro mente. Questa circostanza spiega il fatto che la maggior
parte degli obiettivi della Commissione sono
indirizzati verso i fedeli e i responsabili delle
comunità. Essa evidenzia inoltre le esitazioni in
cui si dibatte una Chiesa nascente, che si trova
nella necessità di tracciare i confini del mondo
religioso che un convertito si lascia alle spalle.
In effetti, il campo del dialogo interreligioso
sembra attrarre più i religiosi che il clero locale.
Un’altra difficoltà che il dialogo interreligioso incontra è l’unificazione in un solo ufficio diocesano, competente sia per il dialogo sia
per l’ecumenismo. La ragione principale data
per questa soluzione è la mancanza di personale. Il risultato è che le denominazioni protestanti, che sono a conoscenza di questa decisione, si
sentono umiliate. Questa è una difficile controversia, se si considera che, a parte l’Australia,
Taiwan era l’unico luogo al mondo dove la
La Chiesa di
Taiwan si muove
a due velocità.
Mentre in via di
principio il
dialogo
interreligioso è
definito una
priorità, la
Chiesa locale
non sempre
riesce a trovare
il personale
e i mezzi per
promuoverlo
Nella pagina precedente:
Taipei, manifestazione
contro la corruzione
politica;
a fianco, dall’alto in basso:
festa popolare a Taiwan;
monaci buddhisti
in metropolitana a Taipei.
PER SAPERNE DI PIÙ
presso:
[email protected]
Missione Oggi | maggio 2009
39
verso il convegno
MO
no in fondo la sua opera e trovare un sostituto
per il ruolo e la fiducia che p. Mathis aveva saputo guadagnarsi tra gli altri leader religiosi.
Egli ha bussato alle porte delle maggiori istituzioni religiose di Taiwan proponendo loro un
dialogo al quale si stanno ora aprendo, e perciò
esse si aspettano di più da una Chiesa alla ricerca di un’ispirazione carismatica.
I SAVERIANI
Nella
delegazione
saveriana lo
spirito del
dialogo
interreligioso è
vissuto in
maniera diversa,
a seconda degli
incarichi e delle
opportunità in
cui ciascuno vive
il proprio
contesto
Fedeli in preghiera
in un tempio buddhista
a Taipei.
40
Missione Oggi | maggio 2009
Chiesa cattolica era membro del Consiglio
Mondiale delle Chiese e della Società Biblica
Cristiana.
IL CONTRIBUTO DEI RELIGIOSI
AL DIALOGO INTERRELIGIOSO
La Chiesa Cattolica di Taiwan ha una lunga
storia di dialogo interreligioso, grazie al rispetto e all’amicizia tra i leader delle tradizioni religiose. L’amicizia e la comprensione reciproca
tra i leader religiosi deve essere contagiosa ed
espandersi ai fedeli delle rispettive tradizioni.
Uno dei principali protagonisti di tale filosofia
è stato il gesuita p. Albert Poulet Mathis, che ha
speso la vita visitando templi e personalità religiose. Egli è stato segretario esecutivo della
commissione per il dialogo interreligioso della
FABC (Federazione delle conferenze episcopali asiatiche), e ha avuto lo stesso incarico per la
Conferenza episcopale di Taiwan fino al suo
pensionamento. Durante questo periodo, egli ha
creato una rete di amicizia tra i diversi leader
religiosi di Taiwan. Il suo impegno è stato veramente notevole, e oggi è difficile apprezzare fi-
La delegazione cinese (dei saveriani –
n.d.r.) ha preso in considerazione la possibilità
di un coinvolgimento più profondo nel campo
del dialogo interreligioso, anche prima che ciò
fosse esplicitamente annunciato nella Ratio
Missionis Xaveriana (Guadalajara 2001). Nella
delegazione, lo spirito del dialogo interreligioso è vissuto in maniera diversa, a seconda degli
incarichi e delle opportunità in cui ciascuno vive il proprio contesto. Per coloro che vivono sul
continente (la Repubblica Popolare Cinese –
n.d.r.) è vissuto più nei termini della consapevolezza di una cultura caratterizzata dall’ateismo. In altre situazioni, l’assistenza ai malati e
ai disabili e la necessità di una fattiva collaborazione hanno consentito uno scambio ecumenico per coloro che sono impegnati nel sociale.
A Taipei, invece, il dialogo interreligioso è parte della vita comunitaria, specialmente perché il
dialogo ha richiesto che un membro della comunità (il sottoscritto) si qualificasse a questo
scopo. Fin dal mio arrivo a Taipei, ho cercato di
acquisire una formazione in tal senso, al momento seguo un corso di dottorato nel dipartimento di studi religiosi dell’Università Fu Jen.
Al completamento degli studi, il mio compito
sarà di animare la comunità saveriana in questo
campo. Uno degli impegni previsti dall’ultima
assemblea è la consapevolezza che la pluralità
dei mondi religiosi che ci circonda deve comparire nel linguaggio che adoperiamo con la
gente e nel nostro stile di vita. Desidero inoltre
ricordare che da tre anni è attivo un “gruppo di
riflessione” composto da cristiani interessati al
dialogo interreligioso, che si sforza di incentivarne lo spirito. Le riunioni comprendono meditazioni su passi biblici e riflessioni su documenti della Chiesa. Si discute inoltre di questioni religiose connesse agli avvenimenti della vita (nascita, matrimonio, morte), situazioni in
cui le credenze religiose possono diventare causa di divisioni.
PAULIN BATAIRWA
LA TENDENZA MISTICA, MANIFESTATASI
FIN DAGLI INIZI NELL’ISLAM, COME IN
ALTRE ESPERIENZE RELIGIOSE, PORTÒ MOLTI ASCETI A VESTIRSI DI PANNI DI RUVIDA LANA (SUF).
PROPRIO DA TALE PRATICA SAREBBE DERIVATA LA PAROLA “SUFI” (CHE INDICA IL MISTICO ESOTERICO), E PURE IL TERMINE TASAWWUF (SUFISMO), LA SAGGEZZA CHE SUGGERISCE L’ITINERARIO PER
ACCOSTARSI A DIO IN SPIRITO D’AMORE E TOTALE SOTTOMISSIONE.
einterreligioso
il dialogo
Il “Sufi Centre”
YUSUF DAUD
LA “MISSION” DEL CENTRO SUFI
“MYSKATUL ANWAR”
L
verso il convegno
L’ESPERIENZA DI UN MUSULMANO
a Giacarta
a mission del Centro Sufi Myskatul Anwar di
Giacarta è la promozione della consapevolezza dei valori comuni presenti nelle diverse tradizioni religiose: cristiane, musulmane e di altre
religioni. Il Centro forma persone in grado di
sviluppare una migliore comprensione tra le diverse tradizioni religiose e culturali. Inoltre, introduce allo studio e alla pratica dei diritti umani. In questo modo, le diverse tradizioni religiose sono più preparate ad affrontare incomprensioni, stereotipi e intolleranze all’interno delle
loro comunità, favorendo una genuina comprensione dell’altro, la convivenza e la collaborazione per una società più giusta e riconciliata. Di
fronte al drastico cambiamento del mondo,
ovunque sempre più multiculturale e multireligioso, è facile cadere nelle tentazioni della xenofobia, dell’intolleranza e dello scontro di ci-
viltà. Per questo il Sufi Centre si è impegnato,
fin dalla fondazione, nel 1992, nella promozione del dialogo interreligioso, a partire dal principio del pluralismo religioso, inteso come occasione di unità e fratellanza nella famiglia umana,
piuttosto che come causa di divisioni e guerre.
LA SPIRITUALITÀ, IL LUOGO PIÙ ADATTO
PER IL DIALOGO
La spiritualità è il luogo più adatto per il dialogo interreligioso. Nel corso degli ultimi anni
ci siamo vieppiù convinti che ciò che le altre religioni si aspettano dall’islam è una testimonianza pratica dell’amore che si incontra nel
Corano (qur’ àn). Non è per caso che la regola
d’oro “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” è comune a tutte le grandi
religioni. Essa ci richiede di “diventare una cosa sola con gli altri”, di “vivere l’altro”.
Yusuf Daud,
musulmano
indonesiano del Sufi
Centre Myskatul
Anwar Padepokan
Thaha, vive a Giacarta.
Ha frequentato
recentemente il PISAI
(Pontificio Istituto
Studi Arabi e
Islamistica) e
l’Università Gregoriana
di Roma, con una
borsa di studio offerta
dal Pontificio Consiglio
per il Dialogo
Interreligioso del
Vaticano
Traduzione dall’inglese
di Michela Bono
Missione Oggi | maggio 2009
41
verso il convegno
Non si tratta solo di gentilezza, apertura e
stima, ma anche di “svuotamento” di sé per diventare uno con gli altri, “entrare nella pelle
dell’altro” e capire più in profondità cosa significa per l’altro essere cristiano, musulmano, indù, buddhista, ecc. L’effetto è duplice: a) l’uscita dai limiti di una singola cultura; b) la conoscenza della religione e del linguaggio dell’altro che predispone all’ascolto.
Il Centro Myskatul Anwar Padepokan fu
fondato per aiutare le attività di insegnamento
Y. DUD
Gli insegnamenti del Centro sono universalistici.
Infatti, uno dei principali scopi dell’iniziazione è
“comprendere l’islam come verità universale”;
questo trova sostanza nell’accettazione non solo di
musulmani, ma anche di cristiani, indù, buddhisti e
persone di altre fedi per l’iniziazione
religioso. Il termine “Padepokan” suggerisce
un insegnamento tradizionale come quello dei
collegi “pondok” o “pesantren”, dove i giovani,
solitamente maschi, hanno un tutor spirituale
personale per l’apprendimento delle scienze
islamiche, inclusi gli insegnamenti esoterici
Sufi. In ogni modo, a Giacarta il “Padepokan”
non è residenziale, ma provvede ad un’ospitalità occasionale soprattutto per chi, dall’interno
viene in città e sente il bisogno di un cammino
spirituale personale.
IL METODO E GLI STRUMENTI
Yusuf Daud
in udienza
dal Papa a Roma.
42
Missione Oggi | maggio 2009
Myskatul Anwar ha lettori e mediatori. Il
metodo d’insegnamento prevede la discussione, la condivisione tra il mediatore e i partecipanti del medesimo livello, e sessioni di do-
mande e risposte immediatamente dopo la lezione. Chiaramente lo stile dell’insegnamento
vuole essere simile a quello che la maggior parte della clientela con istruzione superiore ha
sperimentato all’università, uno stile che afferma il loro desiderio di esercitare la loro stessa
saggezza e che, tuttavia, non esclude l’aiuto
spirituale di cui un neofita ha bisogno per affrontare le sorprese dell’ esperienza dopo l’iniziazione. Così il Centro ha acquisito una grande
autorevolezza soprattutto agli occhi di coloro
che immaginavano di avere a che fare con l’autoritarismo religioso del “vecchio stile” Sufi. Il
programma del Centro è costruito su una ferma
base religiosa, ma che attinge a nozioni dell’auto-aiuto e dell’apprendimento attraverso la propria esperienza, centrali nell’educazione moderna. Confronti sul Corano e le tradizioni (hadìth), discussione su libri e film, lo studio della
lettura del Corano e un intenso dialogo con altre tradizioni religiose, servono a promuovere
la ricerca accademica e l’educazione sul tema
interreligioso e sul dialogo interculturale, sulla
carità e sui lavori sociali.
Gli insegnamenti del Centro sono universalistici. Infatti, uno dei principali scopi dell’iniziazione è “comprendere l’islam come verità
universale”; questo trova sostanza nell’accettazione non solo di musulmani, ma anche di cristiani, indù, buddhisti e persone di altre fedi per
l’iniziazione. Le fonti per conoscere Dio in modo diretto non si riducono al Corano, ma si allargano alla Torah, al Nuovo Testamento, al Gita e al Tao-Te-Ching. E riferendosi a tutte le tradizioni religiose, il maestro sottolinea che il vero islam, la vera consegna di sé stessi a Dio, è
l’accettazione della Verità nella sua percezione
ultima, mistica. Quindi, l’obbedienza alle leggi
di una particolare religione, sia essa l’islam o
meno, non è sufficiente per la salvezza. Attraverso l’iniziazione “si deve morire prima della
morte”, lasciandosi dietro i limiti delle impressioni/conoscenze dedotte dalle formule verbali
delle verità religiose, e aprendosi a una percezione mistica oltre tutti i credi e le dottrine.
Oggi il centro sta prosperando e altri centri
funzionanti sotto la guida del fondatore del Myskatul Anwar, Bapak Rachmat, in Indonesia,
Singapore, Malesia, Australia, Nuova Zelanda.
Speriamo di essere cresciuti nella reciproca
comprensione delle nostre somiglianze come
popolo di Dio, così come delle differenze e unicità delle nostre tradizioni.
YUSUF DAUD
C
Cultura
ome comunità dedita all’annuncio è importante conoscere le caratteristiche della società a cui siamo mandati. Metterci in ascolto dei
nostri ascoltatori, ciò che propriamente si chiama dialogo. Vogliamo conoscere meglio i nostri
ascoltatori, nel nostro caso i giapponesi: come
un giapponese sente e conosce in quanto vive
esattamente in questa società e cultura. Prendiamo, perciò, come punto di riferimento il kimoci
in quanto struttura della conoscenza propria dei
giapponesi. Quando, al di là della splendida organizzazione, della gentilezza e della poesia
cerchiamo i valori che motivano il kimoci, restiamo spiazzati. In Giappone la morale c’è e
non c’è. Il bene e il male ci sono, ma è più importante stare assieme in buona armonia che
cercar di capire che cosa sono. Anche la morale, in altre parole, partecipa del pragmatismo
missione e inculturazione
MO
Ildelle
kimoci
sfumature
ANTONIO SOTTOCORNOLA
del kimoci; cambia e si adatta; “i nemici di ieri
sono gli amici di oggi”, dice il proverbio giapponese. Il kimoci stesso fa da morale e da valore. Se la morale è un modo per arrivare alla felicità, il kimoci promette questa felicità, e se per
ora è piccola e comporta sacrifici, il kimoci insegnerà ad accontentarsi.
UN’AMPIA FUNZIONE COMUNITARIA
E SOCIALE
Il kimoci sfuma i confini delle cose, e così,
grazie al fatto di non definire, attutisce gli urti, assorbe ciò che gli resiste, non esaspera le
differenze, e raccoglie tutto in un’armonia che
mantiene in equilibrio anche gli opposti; assomigliando in ciò a una specie di carità cristiana che omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet, e nutre virtù opposte. Fat-
Processione di sacerdoti
shintoisti
in abito cerimoniale.
Missione Oggi | maggio 2009
43
missione e inculturazione
to è che con questo modo sfumato, ma condiviso e radicato, il kimoci svolge una vasta funzione: psicologica, sociale, politica, estetica,
religiosa ed anche etica: così che per i giapponesi l’agire in conformità con ciò che noi chiamiamo la coscienza si sovrappone e si confonde praticamente all’agire in conformità con il
kimoci. In particolare, il kimoci ha dato ansa e
stimolo ad una cultura dell’intuizione, dell’allusione, del simbolo, del doppio senso, dell’ambiguità, del non so che, della sensazione,
in onore la bellezza e gli altri: onorando cioè gli
altri con semplici regole di buona educazione, il
kimoci coltiva a modo suo valori etici. A noi può
a volte sembrare solo esteriorità e mania di regolamenti, ma in realtà ciò a cui mira è l’armonia
dei rapporti all’interno del kimoci. Da queste piccolezze dipende la pace, la serenità e la forza della società e del kimoci individuale. Afferrare in
concreto questa moralità è possibile solo in proporzione del nostro partecipare di fatto alla vita
del kimoci: etichetta e regolamenti compresi.
MO
Per capire l’altro non bastano le
parole o le intenzioni: se ne
devono pesare le sfumature ed
entrare di intuito nel contesto
dell’altro. Un minimo gesto in
Giappone dice già tutta una
relazione sociale.
Tutto: gesti, parole, cose,
situazioni si trovano impastati
assieme nel kimoci, il cui sapore
decide alla fine la moralità
del tutto
Cattedrale
di Tokyo.
44
Missione Oggi | maggio 2009
del presentimento, del forse, dell’indefinito,
del contradittorio, dell’eco e del silenzio in cui
tutti però sanno quello che gli altri pensano. È
dentro questo sottile e delicato intrico di relazioni che vive e si manifesta la moralità: il bene e il male. La difficoltà stessa della lingua è
dovuta in gran parte al fatto che deve seguire
le curve e le sfumature del kimoci, il quale ha
piegato non solo le schiene ma anche grammatica e sintassi per onorare le relazioni sociali.
Non credo ci sia lingua al mondo capace di
mettere gli altri a proprio agio come i termini
e le circonlocuzioni onorifiche della lingua
giapponese, dove anche le cose materiali vengono nominate in modo da renderle dignitose
e onorate. Neglette dalle nuove generazioni,
queste forme di linguaggio onorifico vengono
oggi recuperate nei circoli culturali e nelle
scuole e fanno sempre parte della estetica di
questa società.
Questa gentilezza mira ad un’utilità, è cioè
calcolo, ma questo calcolo è esatto perché tiene
UNA MORALE DELLA SITUAZIONE
I giapponesi sono con noi stranieri molto
comprensivi: non vogliono cioè imporci pesi
che loro stessi faticano a portare. Non si meravigliano, ad esempio, che uno straniero ignori tante sfumature o parli come può, perché sanno che
ciò comporta appunto condividere vita, situazioni, costumi; ma se da una parte apprezzano
molto la nostra buona volontà, reagiscono però
vivacemente se si urta il kimoci. È rimasto famoso l’episodio del padre Furetto che aspettava
una sera a un semaforo di Sennan, e quando un
uomo gli ha chiesto la strada ha risposto innocentemente: shiranai (non lo so), prendendosi
un pugno in faccia. In quel momento shiranai
esprimeva infatti un esplicito e urtante rifiuto di
relazioni: “Va fuori dai piedi!”, diremmo in italiano. Questo però non lo insegnava la grammatica ma il kimoci. In questo caso un giapponese
si sarebbe dato da fare, e solo dopo aver mostrato che da parte sua aveva fatto il possibile, o co-
MO
Dal punto di vista di ciò che noi chiamiamo la coscienza, tutto ciò a noi pare e forse è segno di una società permissiva. Ma se noi vogliamo identificare la
coscienza morale del kimoci, è esattamente nel kimoci che dobbiamo cercarla: allorché questo o quel
comportamento metterà i vantaggi dell’individuo al
di sopra del gruppo, allora scatterà la sanzione: “Non
si deve! Mi metti nei guai! Non far più assolutamente una cosa del genere!”; che significa: non stai agli
impegni presi nel gruppo. La moralità si esprime cioè
non nella coscienza individuale a se stante, ma nelle
relazioni che essa ha con gli altri, e il cui nodo è
espresso dalla promessa fatta e ripetuta nel gruppo,
la cui anima e autorità è sempre il kimoci sociale. Capiamo da qui come il riconoscimento del lavoro fatto,
la lode, la critica fatti in pubblico siano per il giapponese assolutamente determinanti per il suo comportamento, perché lo collocano dentro o fuori della sua
stessa coscienza: fuori o dentro cioè dello stesso kimoci (identità, diremmo noi); mentre per un occidentale, ad esempio, lodi e critiche hanno il valore di opinioni e non costituiscono certo la sua coscienza mo-
me minimo dopo aver mostrato che era veramente dispiaciuto di non poter aiutare, avrebbe
detto non un freddo shiranai ma un qualcosa di
più gentile e meno urtante. Avrebbe insomma
pensato soprattutto al kimoci dell’altro.
Per capire l’altro non bastano le parole o le
intenzioni: se ne devono pesare le sfumature ed
entrare di intuito nel contesto dell’altro. Un minimo gesto in Giappone dice già tutta una relazione sociale.
Tutto: gesti, parole, cose, situazioni si trovano impastati assieme nel kimoci, il cui sapore
decide alla fine la moralità del tutto. Mazui significa sia sgradevole al gusto, sia mal fatto dal
punto di vista delle relazioni. E in questo saper
cogliere uniti in una sola percezione i vari
aspetti delle cose, gioca molto anche il senso di
concretezza proprio dei giapponesi. La moralità dell’atto, voglio dire, non discende tanto da
un precetto, né esce dalla coscienza, ma viene
percepita dall’insieme delle cose in quell’istante. Naturalmente la comunità fa da catalizzato-
missione e inculturazione
La dinamica
della coscienza
rale. Poichè “morale” qui si identifica con “sociale”,
la coscienza personale perde secondo noi di autorità
e probabilmente di responsabilità in senso morale.
Per i giapponesi tuttavia, questo abbandonare la coscienza privata a se stessa è in fondo anche onesto.
Dire infatti, da parte di un kimoci che tutto pervade
e decide: “Per quanto riguarda il tuo interno, ti abbandono a te stesso”, significa ammettere dei limiti e
porre dei confini tra sé e le singole persone, rispettando indirettamente il cuore o coscienza dell’individuo. Ovviamente il kimoci agisce anche qui per motivi pratici: la piramide dei doveri sociali, che mette
gli uni al di sopra degli altri, logora tanto che se un
superiore potesse far pressione anche sulle coscienze
il peso diverrebbe insopportabile.
Mentre onora la persona con l’etichetta, il kimoci sa
che ci sono in essa profondità che esso non può raggiungere: l’orgoglio, la vendetta, la crudeltà, l’odio,
la rivalità, ma anche l’amore del cuore umano lo sfidano sempre. Il valore della individualità che esso
tenta di sfumare nel tutto sociale, resta una minaccia: relegata nell’individuo e tenuta pragmaticamente a bada, ma sempre una minaccia. Ma appunto per ciò esso vale, perché tenta di salvare il salvabile: tenta di domare, almeno dall’esterno, quella furia che è l’egoismo. Per quanto si dia arie assolutiste,
la sua funzione è quella del pedagogo biblico: una
salvezza per il momento, in attesa di una salvezza
migliore.
re. È questa la coscienza morale: una morale di
ordine comunitario ed estetico, fatto cioè di
percezioni che tengono in armonia col gruppo;
e chi vive nel kimoci capisce. Noi diremmo:
una morale della situazione a briglia sciolta. E
tuttavia questo atteggiamento non è, come a noi
parrebbe, indifferenza morale.
Se mai per i giapponesi è rispetto della persona in quanto lascia a ognuno di decidere, distinguendo tra la situazione che uno vive individualmente e gli interessi del gruppo in generale. L’importante è che pur partendo diversi si
concluda assieme.
I TEMPI LUNGHI DI UN’ELABORAZIONE
DI GRUPPO
Camminare a passo con la morale del kimoci esige una vera immersione nella loro cultura.
Si tratta solo di abbandonare per un momento la
sicurezza che ci viene dalle idee chiare e distinte per affidarci al vago del kimoci, il quale nella
Monaco buddhista
che chiede la carità.
Missione Oggi | maggio 2009
45
missione e inculturazione
sua aleatorietà è in realtà più disponibile a un
atteggiamento di fede di quanto sembri.
Il meglio che possiamo fare è di stare con
loro, soprattutto là dove ancora vivono le antiche usanze, i riti, le feste, le tradizioni, ma anche in certi incontri quotidiani come il furo (bagno casalingo), soprattutto il sento (bagno pubblico), o negli onsen (acque termali), dove ci si
immerge assieme non tanto nell’acqua calda
quanto in un kimoci. Lì i giapponesi rinascono,
attingono motivi di vivere. In queste occasioni,
come il bagno è ristoro e spia della salute fisica,
pragmatico, non teoretico o sistematico; sfuma
e attutisce ma per tenere assieme gli opposti. È
vero che la sua libertà fluida e contraddittoria
accontenta tutti e tutto alla semplice condizione
di non “disturbare il prossimo”. Ma proprio in
quanto prassi, il kimoci è anche storia. In altre
parole, è consapevole dei propri limiti, sa che
deve arrangiarsi con i mezzi che ha e che non ha
sufficiente spazio sociale e culturale per esprimere i profondi drammi interiori della persona.
Esso tuttavia, pur presentandosi esternamente
come un tutto, quasi un assoluto che funge da
MO
MO
Il meglio che possiamo fare è di stare
con loro, soprattutto là dove ancora
vivono le antiche usanze, i riti, le
feste, le tradizioni, ma anche in certi
incontri quotidiani come il “furo”
(bagno casalingo), soprattutto
il “sento” (bagno pubblico), o negli
“onsen” (acque termali), dove ci si
immerge assieme non tanto nell’acqua
calda quanto in un “kimoci”.
Lì i giapponesi rinascono, attingono
motivi di vivere.
Il Torii, l’arco che delimita
lo spazio sacro.
Padre Antonio Sottocornola
e Padre Pier Giorgio Manni
(a destra),
superiore provinciale
dei saveriani in Giappone.
46
Missione Oggi | maggio 2009
così il kimoci fa da rivelatore e da lubrificante
delle complicazioni e degli attriti sociali.
A forza di sfumare, la morale del kimoci parrebbe aver diluito perfino la grande protagonista dell’esistenza che è la libertà delle persone e
quindi la responsabilità morale. Ma non è possibile che il kimoci escluda un estremo così decisivo del dramma umano. Il suo equilibrio è
morale e da religione (il Nihonkyoo, come lo
chiamavano quarant’anni fa), sarebbe pronto io
penso ad accogliere qualsiasi morale o religione purché si dimostrasse alla prova dei fatti utile al bene della società. È spiritualmente disponibile: soltanto non si cura di esprimersi sulle
problematiche a tavolino.
La mia impressione è che si tratti di mancanza di mezzi per esprimersi teologicamente,
più che di una mentalità che esplicitamente eviti di misurarsi con una responsabilità radicale
verso il bene e il male. Da qui l’incapacità di
confrontarsi in modo radicale con il problema
del male, e non solo del dolore.
Le reazioni del kimoci obbediscono a ritmi
di gruppo, dicevamo, in cui nessuno pare prendere l’iniziativa e dove nulla pare muoversi, ma
dove tuttavia, alla lunga, appare una decisione
unanime. Mentre sembra fluida e superficiale
l’opinione pubblica si cerca, si saggia e si organizza. La mancanza di riferimento a principi la
fa apparire insicura, e invece è solo in paziente
attesa che il convincimento comune arrivi a maturazione. Naturalmente si tratta di tempi lunghi; in ogni caso bisogna intuire i segni dei tempi, ossia del kimoci.
ANTONIO SOTTOCORNOLA
l’Italia delle religioni
Q
uesto lavoro si propone come un primo rapporto
sul pluralismo religioso in Italia, mentre è in atto
una profonda trasformazione del campo religioso, non
è più così monolitico, eppure sempre più presente nel
discorso pubblico. Plurale sia ad intra, in un mondo
cattolico sempre più diversamente “appartenente”, come ad extra, per la presenza di religioni altre “portate”
da popolazioni immigrate. E quando non sono religioni
diverse, diversi sono i modi di viverle.
Accanto ad una breve ricognizione sociologica, l’opera
avanza alcune piste d’interpretazione della realtà plurireligiosa italiana. Lo fa servendosi di esperti che scandagliano il tema da diversi punti di vista. Il risultato è
un “rapporto” sull’Italia delle religioni che indaga la realtà e le sue contraddizioni (prima parte: analisi), fa
memoria di figure che si sono spese e si spendono per la
“città del dialogo” (seconda parte: profili) come di eventi ed iniziative che concorrono a costruire, nonostante
Per richieste di libri e DVD:
[email protected] | Tel. 030.3772780
tutti i problemi, la storia civile e religiosa di questo paese (terza parte: documenti e dati).
Ora, se il pluralismo “di fatto” è un’evidenza inconfutabile, meno evidente è, invece, accogliere le indicazioni che la realtà multi religiosa offre. La prima è la pluralizzazione dei riferimenti religiosi che la “consistenza” storica della religione islamica pone al cittadino
italiano. L’islam, misurato sui dati statistici, è la seconda religione d’Italia (oltre che d’Europa). Abbiamo imparato ad essere plurali, anche dal punto di vista religioso, con l’islam. I buddhisti, invece, se mai si arriverà all’Intesa con lo Stato, sono coloro che insegnano al
cittadino italiano ad andare oltre il “confine” giudaicocristiano, mentre la presenza plurimillenaria, per
quanto numericamente piccola, della comunità ebraica chiede che l’educazione alla cittadinanza sia interreligiosa. Queste le indicazioni del pluralismo religioso.
È la stessa realtà che denuncia alcuni nodi. Accanto a
quello culturale-politico, ad oggi incapace di proporre
una legge sulla libertà religiosa che superi la legislazione del Ventennio, anche quello culturale-comunicativo
di un paese che si “percepisce” ancora come “cattolico”.
Al mondo dell’informazione “religiosa” è dedicato uno
dei lavori che compongono il rapporto e che conclude
con la severa osservazione di trovarsi di fronte ad un
“paese a bassa laicità”.
L’indagine continua segnalando pluralismi evidenti come quello rappresentato dall’immigrazione, dalle chiese evangeliche africane, dalla religiosità popolare come
dal nomadismo spirituale che chiede, quest’ultimo, di
“elaborare una approfondita teologia del pluralismo
religioso” (p. 154). Ma anche pluralismi “nascosti” come quello che sta dentro il meccanismo dell’otto per
mille, quello della galassia musulmana, che invece appare omogenea agli occhi dell’opinione pubblica, oppure quello dei blog religiosi o delle pratiche e percorsi di
insegnamento della religione a scuola. Tutti argomenti, questi, studiati all’interno di rispettivi articoli che
compongono il rapporto. Al quale non potevano mancare i riferimenti a persone e figure che, nel corso dell’anno passato, hanno partecipato, a vario titolo, ad un
“discorso pubblico” sulla religione contribuendo a “vedere” ed accogliere il pluralismo religioso. Che, come
documentato nella parte conclusiva del lavoro, è rintracciabile anche negli eventi e nei dati. Tra le mani, allora, un “documento” che indica un percorso: quello di
rompere il “muro di vetro” che fa vedere (il vetro) gli altri, ma con i quali non permette (il muro) di relazionarsi e mettersi in rapporto. Ma, questa la tesi degli autori, i muri, di qualsiasi materiale, non favoriscono la
maturazione della democrazia e non aiutano il cammino delle chiese e delle comunità umane e religiose.
Un progetto, quello del rapporto, che si propone con cadenza biennale e del quale si sentiva la necessità.
MARCO DAL CORSO
un libro al mese
Il muro di vetro
Paolo Naso
Brunetto Salvarani
Il muro di vetro
l’Italia delle religioni
primo rapporto 2009
EMI, Bologna 2009
pp. 220, Euro 13,00
Missione Oggi | maggio 2009
47