ESS 2/2013.indb - Riviste digitali - Università degli studi di Macerata

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ESS 2/2013.indb - Riviste digitali - Università degli studi di Macerata
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Pietro Boscolo, La fatica e il piacere di imparare. Psicologia della motivazione scolastica, Novara, De
Agostini, 2012, pp. 289
Il caso particolare della motivazione ad apprendere è così inserito in
contesto teorico ampio e chiaramente
definito.
Il lavoro inizia con una panoramica
storica delle teorie sulla motivazione a
partire da Atkinson, passando attraverso il cognitivismo, le diverse sfacettature del costruttivismo ed il progressivo risalto del ruolo attribuito al sociale
e al contesto culturale.
Il risultato è duplice: a) mette in
evidenza la progressiva articolazione del costrutto “motivazione”; b) dà
risalto agli elementi esplicitamente o
implicitamente comuni alle ricerche,
pur se ispirate da basi teoriche diverse. Le conoscenze attuali emergono,
così, non come una contrapposizione
fra scuole, ma come il risultato di un
confronto costruttivo.
Attualmente, «sotto il termine “motivazione” si raggruppa un notevole
numero di costrutti relativi a processi
diversi, tutti a pieno titolo attinenti alla
motivazione. Si tratta in alcuni casi di
costrutti nuovi, usati per spiegare comportamenti cognitivi e motivazionali
da sempre presenti negli esseri umani
ma concettualizzati per la prima volta in una determinata prospettiva: per
esempio, “attribuzione”, “obiettivi di
riuscita” (achievement goals), “autoefficacia” (self-efficacy), “autoregolazione”. In altri casi, termini presi dal
linguaggio comune sono stati sottoposti a verifica empirica e analizzati
nelle loro componenti di significato:
“interesse” è certamente il più noto di
questi» (p. 22).
I capitoli successivi trattano dettagliatamente delle ricerche sulle diverse componenti della motivazione
ad apprendere e, quindi, sui diversi
problemi connessi: sullo star bene a
scuola; sul rapporto fra bisogno di autonomia e regolazione esterna; sull’interesse; sulle emozioni nella classe;
sul senso di sé e identità. In ognuno di
questi contesti è dato risalto alle differenze che continuano ad esistere fra le
diverse scuole.
In appendice ad ogni capitolo sono
presentati alcuni esempi pratici che
chiariscono ulteriormente le singole
parti e informano sugli strumenti usati
nelle ricerche – in generale questionari.
Il lavoro si conclude con una riflessione su come costruire la motivazione
ad apprendere. Se, come risulta dalle
ricerche, la motivazione è un costrutto multifattoriale, l’attività educativa e
didattica è complessa e non può essere orientata da concezioni ingenue,
ancora molto diffuse. Queste sono
analizzate dall’Autore sia nella loro
rilevanza teorica sia nel loro rapporto
con le pratiche educative e, successivamente, confrontate con modalità
adeguate alla complessa dinamica del
problema.
Completa l’opera la presentazione
delle norme da rispettare nelle ricer-
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che sul tema, per non cadere nella
prassi di usare strumenti validati senza
conoscere le peculiarità dei contesti in
cui si intende applicarli.
Un lavoro accurato ma anche abbastanza agile, malgrado la complessità del tema trattato, che si presenta
interessante e utile non solo per ricercatori e studenti, ma anche per chi è
impegnato quotidianamente in famiglia e nella scuola.
Anna Arfelli Galli
José Antonio Ibáñez-Martin (ed.),
Educación, libertad y cuidado,
Madrid, DYKINSON, 2013, pp. 316
Il volume nasce in seguito al “VII
Congreso Internacional de Filosofía
de la Educación: Educación, libertad
y cuidado”, tenutosi a Madrid il 27-29
giugno 2012. Al suo interno vengono
presentati i contributi dei relatori principali che hanno orientato la riflessione su sei fronti tra loro interconnessi
attraverso approcci differenti che colgono la specificità di alcuni aspetti rilevanti riguardanti i concetti di educazione, libertà e cura.
La pubblicazione fa emergere il legame tra le questioni cardine affrontate nel Congresso sopra citato, attraversando contesti e luoghi di relazione e
restituendo una riflessione sull’azione
educativa e sull’etica della cura che
apre molteplici interrogativi e sfide, e
una pedagogia in grado di dialogare
con l’uomo e i suoi contesti vitali.
DIFFERENCES AND DISABILITIES
La prima parte del libro tematizza
un approccio al concetto di cura nella
riflessione etica attraverso la presentazione di alcuni orientamenti teorici
a riguardo, realizzandone la comparazione in rapporto all’esercizio della
cittadinanza. Di seguito, vengono trattate le tematiche della libertà e della
cura nell’educazione formale, soffermandosi, in particolar modo sulla libertà intellettuale e sulle relazioni che
si sviluppano tra insegnanti e alunni, al
fine di evidenziare l’importanza di coniugare le competenze tecniche con il
sapersi prendere cura delle interazioni. Si prosegue, poi, approfondendo il
concetto di università come comunità,
dando voce a contributi che mettono a
fuoco la necessità di definirne la specificità, ipotizzando il ripensamento
dell’ambiente universitario come luogo pubblico e quale spazio in cui sviluppare modelli di attenzione verso la
più ampia realtà sociale.
Si approfondisce, inoltre, il legame
tra libertà e cura all’interno della relazione educativa considerata come luogo in cui coniugare libertà e responsabilità e in cui sperimentare il rispetto
e la reciprocità. Ancora, si prosegue
nell’analisi dell’argomento all’interno
della dimensione familiare a partire
dai rapporti tra la persona, la famiglia
e la società, per ritrovare i fondamenti
della responsabilità e dell’educazione
familiare quale paradigma dell’aver
cura.
Dunque, nell’ultima parte del volume, l’interesse viene spostato sulle situazioni di particolare vulnerabilità in
cui la libertà e la cura si confrontano
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con i limiti e le possibilità dei soggetti
e dei contesti di vita.
Grazie al contributo di numerosi
autori del contesto pedagogico spagnolo e internazionale, questa pubblicazione interroga il lettore sull’etica
dell’aver cura e sulla libertà, attraversando diverse realtà in cui l’educazione prende forma e restituisce “possibilità” all’uomo e al suo divenire, in
stretta connessione con la costruzione
di ambienti di reciprocità e solidarietà.
Rosita Deluigi
Angela Giallongo, La donna serpente. Storie di un enigma dall’antichità al XXI secolo, Bari, Dedalo,
2012, pp. 304
Il corposo, suggestivo e intrigante
volume di Angela Giallongo indaga,
con lucidità ermeneutica e raffinata
sensibilità storico-pedagogica, la fenomenologia del mito della donna
serpente, la quale preserva al proprio
interno
quella
rappresentazione
dell’alterità come forza distruttiva e
annichilente – correlata all’opposizione maschile-femminile – che ha pervaso l’immaginario delle società occidentali sino a plasmare l’educazione
informale dell’età classica e medievale. L’itinerario saggiamente perseguito
verte sull’attualità della figura di
Medusa, una creatura mostruosa con
serpenti in luogo dei capelli e con occhi pietrificanti che richiamano, in
nuce, l’antica concezione greco-romana secondo cui uno sguardo irato o
invidioso può infettare, attraverso
l’aria, uomini e oggetti inanimati (malocchio). La Gorgone compare per la
prima volta nei versi di Omero (VIII
secolo a.C.); nella Teogonia di Esiodo
(VIII secolo a.C.), tuttavia, a Medusa si
affiancano due sorelle immortali:
Steno ed Euriale, che a ogni modo non
godranno, nei secoli, della stessa fama
della mortale Medusa. Quest’ultima
diviene, nella cultura greca, una sorta
di “spauracchio” per bambini insonni,
inappetenti o disubbidienti: la minaccia di invocare “la Gorgò”, spiega
l’Autrice, testimonia dell’orrore suscitato dalla creatura scapigliata e velenosa, la quale, narra Apollodoro nel II
secolo d.C., è pure decapitata dall’eroe
Perseo per mezzo di un ingegnoso
stratagemma. Perseo, infatti, coglie le
tre Gorgoni nel sonno, e, per evitare
di rimanere pietrificato dallo sguardo
di Medusa, guidato da Atena, mira
alla sua testa cogliendone l’immagine
riflessa in uno scudo di bronzo. L’eroe,
annota Giallongo, diviene ben presto
un modello di riferimento per i giovani ateniesi, testimoniando della necessità di sconfiggere la “mostruosità
femminile” al fine di mantenere l’ordine costituito, fondato su un’ideologia
di tipo patriarcale. Le ricerche etnoantropologiche legano l’irregolaritàinferiorità femminile percepita alla
presunta “impurità” del ciclo mestruale: i boscimani del Sud Africa, nel secolo appena trascorso, temono la paralisi dovuta allo sguardo di una fanciulla mestruata; in Libano, avverte
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ancora la Studiosa, i contadini del
Novecento credono nella facoltà, da
parte della donna con ciclo mensile,
di procurare sciagure: l’ombra femminile, nel rispetto della credenza, è in
grado di immobilizzare il movimento
sinuoso dei serpenti. Diversi popoli
primitivi, probabilmente, attribuivano
poteri magici allo sguardo della donna “impura”: le creazioni artistiche
più datate mostrano l’atavico legame
fra il culto dell’occhio e le dee della
morte e della rinascita; l’occhio, in
un’interpretazione psicoanalitica e
psicologico-sociale, simboleggia la
vulva, e contiene in sé la duplice valenza della generatività (la rinascita) e
della morte (il potere di fascinazione
tipico dello sguardo seduttivo).
Nell’arte minoica e micenea (1500
a.C.-1199 a.C.) il serpente si propone,
infatti, quale emblema di una dea, e
non di un dio. In quest’ottica, l’interpretazione classica del rettile quale
simbolo fallico viene meno a favore di
uno stretto legame dell’allegoria del
serpente con la capacità di “castrazione” del genere femminile: la vulva,
infatti, è paragonabile a una sorta di
“ghigliottina” che “taglia la testa” del
maschio, cui si contrappone, nei secoli, l’immagine di Perseo, che, a sua
volta, decapita Medusa per recuperare a sé le parti maschili compromesse
dal potere seduttivo (secum ducere),
“pietrificante” (o mostruoso) della
donna. La mostruosità-alterità femminile è data proprio dal ciclo mestruale, che conferisce a colei che ne è di
volta in volta “affetta” il potere di sprigionare un’occhiata mortale, “tossi-
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ca”, al pari del “veleno” contenuto
nelle mestruazioni. La lingua sporgente con la quale è spesso ritratta Medusa
potrebbe allora evocare l’associazione bocca-vulva: il flusso mensile che
“fuoriesce” dalla bocca, oppure una
sorta di “lama” pronta a “decapitare il
malcapitato”. È chiaro che l’unico
modo per esorcizzare la paura di evirazione (per conservare la presunta
superiorità maschile) fosse quella di
“far fuori” il principio femminile, o la
“diversità” tout court. Un mito, quello
di Medusa, che, nel VII secolo a.C.,
spiega Giallongo, si innesta nel conflitto fra Grecità e Alterità; ed evolutivamente fra culto dell’antico germanesimo e sterminio razziale. Lo sguardo immobilizzante di Medusa, dunque, si connette sempre più all’idea
della morte, perché è “impenetrabile”
– non lo si può guardare, non si può
“vedere” cosa ci sia realmente al di là
della freddezza della pietra –; ergo,
alla passivizzazione del pene (che rischia l’evirazione) e alla trasposizione
del genere femminile a categoria subumana, fredda (giacché “perde sangue”) e infetta (dal momento che lo
stesso Ippocrate, in passato, aveva sostenuto la corrispondenza impropria
fra ciclo mestruale ed evacuazione di
umori tossici, nocivi, paragonabili alle
feci). Di qui, Medusa è orripilante,
mostruosa, mentre Perseo è bello, virile, e “virtuoso” (non è un caso che,
anticamente, la virtus fosse una prerogativa del vir, quindi una facoltà preclusa al genere femminile e alla sua
irrazionalità-mostruosità). Nel Medioevo, il peccato originale commes-
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so per mano di Eva (la quale si lega in
modo definitivo al serpente al punto
da assumerne, evolutivamente e in talune opere pittoriche, le sembianze) si
trascina sino all’identificazione fra le
“acque cupe” (percepite come “veleno”) e il sangue mestruale. Il Basilisco,
nato dal sangue immondo colato dalla
testa di Medusa, è ritenuto capace,
nell’Alto Medioevo, di infettare le acque e di rendere i maschi, per questa
via, indiavolati e idrofobi. Per tutto il
periodo medievale, annota l’Autrice, i
testi morali e le pratiche educative si
adoperano per regolamentare lo
sguardo di donna (in modo da distoglierlo dalla “bellezza della mela”) e
per neutralizzarne il potere di fascinazione. Il ciclo mestruale, in questa
fase, è la riprova dell’imperfezione di
coloro che sono ritenute, dopo Eva,
ree di peccato. Ma il mito di Medusa
riceve uno “scossone” interpretativo
nella Genealogia deorum gentilium,
scritto fra il 1351 e il 1360 da Giovanni
Boccaccio. Questi dimostra come i
miti siano delle “finzioni”, e come il
loro racconto sia traspropriato in chiave mitica proprio per nascondere i significati latenti, e perciò più autentici,
di quanto tramandato. Citando gli autori classici, Boccaccio dimostra come
le tre Gorgoni fossero in realtà creature splendide, avvenenti, che “pietrificavano” gli uomini per la loro bellezza; e come i serpenti dorati di Medusa
fossero, invero, delle ricchezze (ornamenti in oro) che avevano attratto
Perseo sino a indurlo ad appropriarsene; la decapitazione, in siffatto frangente, era una metafora che alludeva
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al senso di svilimento patito da quanti
si sentissero defraudati dei loro averi.
Medusa, pertanto, diviene una divinità di rara bellezza, emblema della fascinazione prodotta dallo sguardo
femminile. Tra il 1450 e il 1750, nondimeno, la caccia alle streghe – donne
anziane e indigenti – si pone in continuità con il mito arcaico di Medusa: le
streghe sono infatti accusate di avere
occhi malevoli, e di preparare intrugli
magici e pozioni d’amore con il sangue mestruale. Ai giorni nostri, la visione duplice, ambivalente e contrapposta di Medusa persiste in personaggi
fittizi come Sadako Samara, protagonista di The Ring, con i capelli neri e
serpentini e l’occhio che uccide, o
come la seducente Catherine Tramell
di Basic Instinct (pellicola degli anni
’90), il cui potere femminile di seduzione (la vulva che compare nella famosa scena dell’accavallamento delle
gambe) minaccia gli amanti di castrazione simbolica (lo spaventoso pugnale che ella nasconde sotto il suo letto).
L’invito profetico, lungimirante e suggestivo di Angela Giallongo è di sovvertire non solo le categorie classiche
della cultura, ma anche, e in specie,
quelle immaginative, per rifondare in
termini realmente paritetici le relazioni di genere e il rapporto con l’alteritàla diversità-la differenza.
Michele Corsi
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Francesco Susi, Scuola, società,
politica, democrazia. Dalla riforma
Gentile ai Decreti delegati, Roma,
Armando, 2012, pp. 224
La storiografia scolastico-educativa
attuale ci offre una produzione piuttosto articolata, complessa e per molti
aspetti suggestiva. All’interno di questo scenario ricco di nuovi stimoli si
colloca il saggio di Francesco Susi che
offre al lettore una sintesi sulle vicende
della scuola italiana racchiuse nel periodo specifico compreso tra il fascismo e gli anni Settanta del Novecento,
ma che, tuttavia, non trascura di offrire
riferimenti anche al sessantennio che
precede la Riforma Gentile, termine
ad quem della riflessione condotta da
Francesco Susi, o agli anni che hanno
seguito i decreti delegati. La scelta di
indicare i provvedimenti introdotti nel
1974 come periodizzante trova la sua
giustificazione non solo nelle vicende politiche nazionali ma anche nella
chiusura di un ciclo storico a livello
internazionale contraddistinto dalla
“fine del dopoguerra”. È un saggio la
cui lettura potrebbe iniziare dalle conclusioni, rivelatrici del significato pedagogico ed etico sociale che soggiace a tutto il filo narrativo, ossia quello
di offrire alla cultura contemporanea
una chiave interpretativa dello sviluppo recente della scuola, componente
importante della storia sociale italiana, come una indispensabile risorsa
per affrontare la complessità del tempo presente contrassegnato da una revisione profonda dei paradigmi scientifici e da una crisi significativa della
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cultura storica. In questo scenario i
poli della riflessione condotta da Susi
sono costantemente quelli richiamati
nel titolo. Lo sviluppo delle istituzioni
scolastiche, infatti, viene fatto interagire con quello della società, del processo di democratizzazione delle strutture politiche e sociali. La ricostruzione
condotta da Susi per diversi aspetti si
colloca nel quadro di una tradizione
storiografica ormai consolidata orientata a ripercorrere alcuni dei passaggi
più significativi delle scelte di politica
scolastica che hanno contraddistinto
lo sviluppo del sistema scolastico nazionale. Susi si sofferma ad illustrare
le linee di indirizzo che animarono
il riordinamento operato dal ministro
Gentile, e non trascura gli interventi
fatti durante il ventennio dai successivi
ministri Fedele, Belluzzo e soprattutto
Bottai, per sottolineare la diffusione
fortemente squilibrata della scolarità
nelle diverse aree territoriali e nelle diverse classi sociali e le caratteristiche
di fondo della scuola negli anni del
fascismo, «caratteristiche di accentramento, di autoritarismo, di burocratismo, di deresponsabilizzazione, di
conformismo» le quali sarebbero state
portate in eredità nel primo decennio
repubblicano, insieme a «un chiuso
classismo che faceva degli studi il privilegio delle classi dominanti mentre
ai ceti subalterni riservava un’istruzione breve con contenuti tecnico-pratici
oppure la negava del tutto» (p. 78).
Ma Susi ricorda anche i riflessi
delle caratteristiche essenziali del modello d’istruzione sul funzionamento
interno delle istituzioni scolastiche:
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così, ad esempio, evidenzia il carattere gerarchico nel ruolo dei “presidi
duce” o nelle funzioni dei provveditori, degli ispettori e dei direttori didattici. All’interno di questo quadro
l’autore svolge interessanti riferimenti ad alcune significative esperienze
come quelle del maestro abruzzese
Postiglione o quelle del maestro Luigi
Fabbri, uno dei rarissimi casi di insegnanti che rifiutarono il giuramento di
fedeltà al regime. L’autore, dopo aver
richiamato la legislazione razziale, le
vicende della guerra civile spagnola e
l’aggravarsi delle condizioni di vita e
di lavoro di molti italiani come i fattori
che, a partire dal 1938, determinarono
il declino del regime fascista, illustra
alcune delle esperienze significative,
sia individuali sia associative che accompagnarono il processo di maturazione e formazione antifascista tanto
tra gli studenti quanto tra i docenti, e
le poche ma significative esperienze
condotte all’interno delle repubbliche
partigiane, come quella della Val d’Ossola, che ebbero la scuola come oggetto specifico di governo. Il quadro, poi,
è completato con l’illustrazione degli
altri fattori che contrassegnarono la vicenda scolastica italiana nel periodo
tra il 1943 ed il 1945: il peso dell’apparato amministrativo dello Stato che
agì come fattore di discontinuità, più
che di rottura, con gli anni precedenti;
l’opera e i limiti della commissione alleata diretta dal colonnello e pedagogista americano Washburne; l’impreparazione e la condizione di passività
della maggior parte degli insegnanti;
l’intervento attivo in materia scola-
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stica della Chiesa. Tutti elementi che
condizionarono i compiti dei nuovi
ministri della Pubblica Istruzione dei
primi governi succedutisi alla caduta
del fascismo, insieme al grande problema della ricostruzione materiale
della scuola.
Tali fattori, peraltro, condizionarono anche il periodo compreso tra
il 1945 ed il 1948 segnato dalla collaborazione di governo dei partiti antifascisti e resero ancora più deboli i
propositi di rinnovamento della scuola di matrice resistenziale; le ipotesi
di revisione dell’impianto strutturale
(orientato verso il decentramento e
l’autogoverno), dell’articolazione dei
suoi canali, dei contenuti dell’insegnamento nel quadro di un contesto
in cui si puntava verso «l’aspirazione
ad un rinnovamento che fosse insieme
istituzionale, morale (di comportamenti, di atteggiamenti, di dedizione
al bene pubblico) e strutturale […]»
(p. 109) impattarono con le oggettive
condizioni di arretratezza economicosociale, che continuavano ad essere alla base della scarsa domanda di
maggiore cultura ed istruzione; con la
sostanziale accettazione dell’impianto
scolastico tradizionale all’interno delle
culture politico-scolastiche dei partiti
di massa; con il prevalere della cultura
pedagogica di matrice gentiliana tra i
docenti e il personale direttivo delle
scuole. In questo scenario si assistette alla progressiva affermazione della
linea centralistica ministeriale e della
contrapposizione tra scuola statale e
scuola privata confessionale. Tali presupposti impedirono di dare sviluppo
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al frutto più maturo e alto della collaborazione fra i partiti antifascisti, quello sancito dagli articoli 33 e 34 della
nuova Costituzione repubblicana.
Nel prendere in esame gli anni della ricostruzione segnati dallo scontro
ideologico e dalla rottura dell’unità
antifascista, Susi si sofferma sulle scelte e gli indirizzi adottati dal ceto politico di governo e, in particolare, su
quelli del ministro Gonella, riconducibili, secondo l’autore, al più ampio
disegno moderato e confessionale dei
primi governi centristi. Lungo questo
versante, l’analisi dell’autore mette
a fuoco la rilevanza degli aspetti del
contesto internazionale ed economico nazionale che favorirono l’affermazione, a suo avviso, del disegno di
restaurazione proprio dell’esperienza
del centrismo degasperiano che, per
l’autore, si connotò da una parte per
la preoccupazione di garantire la ripresa economica in senso liberista,
e dall’altra per il contenimento della
reazione dialettica delle spinte maturate nel quadro dei nuovi principi
costituzionali, del protagonismo delle classi lavoratrici accelerato dalla
Liberazione, dell’azione svolta dalle
forze sindacali e dai partiti democratici. Il giudizio di Susi sulla politica
scolastica seguita in questo periodo è
altrettanto netto («Non vi fu dunque
nulla di fortemente innovativo nella direzione della politica scolastica,
niente che costituisse una vera rottura
qualitativa con il passato»). All’interno
di queste coordinate interpretative,
che forse meritavano una spiegazione
più articolata, l’autore si sofferma a
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descrivere la matrice antifascista delle
innovazioni dal punto di vista educativo e pedagogico maturate all’interno di alcuni gruppi di intellettuali e
di insegnanti, illustra la ripresa delle
attività delle organizzazioni sindacali
degli insegnanti e la loro evoluzione, e
soppesa la progressiva frantumazione
delle forze sindacali; descrive la contrapposizione tra laici e cattolici che,
a suo avviso, fu alla base degli orientamenti assunti dal ministro Gonella,
caratterizzati anche dalla volontà di
razionare l’istruzione popolare ai ceti
popolari. L’impressione è che alcuni
passaggi della ricostruzione riflettano
i limiti interpretativi sulle vicende politico-scolastiche già evidenziati dagli
studi elaborati tra la seconda metà degli anni ‘70 e i primi anni ‘80; ricerche
che ancora non disponevano di fonti
inedite alle quali attingere e nelle quali prevaleva una sorta di pregiudizio
ideologico nei riguardi delle scelte del
ceto politico dirigente della DC e dei
suoi alleati di governo. La sensazione è che le riflessioni di Susi abbiano
recepito, solo parzialmente, i risultati
più significativi della produzione storiografica degli anni Novanta, la quale
ha fornito una rilettura più complessa
degli anni del centrismo degasperiano; ha riequilibrato il giudizio un po’
troppo sbrigativo sul contributo di alcuni costituenti cattolici a partire da
Aldo Moro; e ha meglio articolato le
posizioni all’interno del cattolicesimo
sia nelle sue espressioni politiche sia
in quelle più strettamente ecclesiastiche, richiamando anche le diverse
matrici religiose dei gruppi dirigenti
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cattolici che, con approcci diversi, si
misurarono con i compiti imposti dal
nuovo contesto democratico repubblicano. Uno scenario nel quale lo spazio dedicato alle questioni della libertà d’insegnamento, certamente ampio,
più che il sintomo di una ripresa della
scelta moderata e di preoccupazioni
di tipo confessionale, fu in realtà un
problema iscritto nelle cose, e in cui
non furono assenti propositi di rinnovamento dell’ordinamento scolastico
negli orientamenti ministeriali governati dalle componenti del cattolicesimo democratico, attestati dalla gestione della inchiesta sulle condizioni
della scuola e dal progetto di riforma
della scuola media. Ma la sintesi di
Susi, peraltro, sembra tener conto solo
parzialmente anche degli studi più recenti sul ruolo e il contributo del ceto
politico dirigente del PCI, i quali hanno messo in evidenza i limiti e le oggettive difficoltà nella maturazione di
una cultura politica consapevole della
complessità del processo democratico
e del bisogno di rinnovamento della
scuola.
Successivamente, il saggio ricorda
invece alcuni dei momenti più significativi che accompagnarono la ripresa del dibattito sulle politiche per
l’istruzione negli anni della grande
trasformazione italiana, e che incisero
sulla domanda di cambiamento delle
strutture scolastiche. L’autore tra i passaggi già individuati dalla storiografia
segnala, in particolare, quelli relativi
alla ripresa delle agitazioni sindacali
degli insegnanti e alla ricomposizione
di un fronte sindacale unico (il FUS) e,
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soprattutto, quello relativo alla ripresa
del confronto all’interno dei settori più
vivaci del panorama culturale nazionale: tra di essi menziona la particolare rilevanza assegnata al gruppo degli
“Amici del mondo” che offrì, attraverso
lo svolgimento di importanti congressi, utili motivi di dibattito alle componenti più attente e sensibili al bisogno
di riforme per la scuola, presenti all’interno delle forze politiche cattoliche,
comuniste e socialiste. L’esigenza di
programmare una adeguata espansione delle strutture e del personale insegnante per far fronte alla domanda
di una maggiore democratizzazione
degli accessi all’istruzione di massa
non solo fu al centro delle riflessioni
condotte da personalità laiche e comuniste come Borghi, Bertoni Jovine o
Alicata, espresse dalle pagine di nuove iniziative editoriali come il periodico «La Riforma della Scuola» nonché
di esponenti cattolici come Pedrazzi o
Gozzer, o delle considerazioni svolte
dai ceti imprenditoriali e da centri di
ricerca come lo SVIMEZ, preoccupati
di riannodare il legame tra scuola, formazione al mercato del lavoro e sviluppo economico; ma costituì anche
l’oggetto di scelte politiche innovative
di governo a partire dal piano decennale per lo sviluppo della scuola durante il secondo ministero Fanfani che
segnò, come è noto, l’innesto della
nuova cultura della programmazione
nelle politiche scolastiche.
I mutamenti del clima internazionale – segnato dal disgelo e dal processo di decolonizzazione – che con
l’importante passaggio storico del
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Concilio Vaticano II, contribuirono ad
attutire la tradizionale contrapposizione tra laici e cattolici; i cambiamenti
degli equilibri politici nazionali – con
la nascita del centro-sinistra –; il miglioramento delle condizioni di vita
della popolazione – con una impressionante crescita dei redditi procapite –; l’andamento del mercato del lavoro, fanno da sfondo alla maturazione delle condizioni che favorirono il
rilancio della prospettiva riformatrice
destinata, in particolare, ad assicurare
l’istituzione della scuola media unica
che fu il risultato di una legge di compromesso volta a mediare interessi
contrastanti; nonché uno dei frutti più
significativi dell’azione del governo
che aprì le porte verso la nuova stagione politica caratterizzata dall’alleanza fra la DC e il PSI. L’autore si sofferma anche ad illustrare i mutamenti
che contrassegnarono altri due settori
dell’istruzione, quello professionale
e quello femminile, i quali andarono
configurandosi sempre più come percorsi meno qualificati senza contenuti formativi e senza rapporto con il
mercato del lavoro volti a confermare
il tradizionale ruolo subalterno delle
donne nella società italiana.
Susi riprende le tesi già suggerite
dalla recente produzione storiografica
(penso in particolare al volume di S.
Sani, La politica scolastica del centro
sinistra, Perugia, 2000) per confermare i limiti politici, ideologici ed economici che condizionarono le politiche
scolastiche elaborate durante la nuova
stagione politica di centrosinistra. Lo
studioso ci ricorda come il dibattito
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politico sui temi dell’istruzione assunse il significato di pretesto per far
emergere le contraddizioni interne
dello schieramento di centrosinistra:
esemplificativo il richiamo alle vicende che accompagnarono la caduta dei
due governi Moro proprio intorno alla
discussione dei provvedimenti relativi
al finanziamento delle scuole private
e alla istituzione della scuola materna statale. Susi ricorda le difficoltà
del ceto politico di offrire risposte
adeguate ai limiti e all’inadeguatezza
della scuola dell’obbligo di fronte alle
esigenze poste dalla scolarizzazione
di massa: limiti rappresentati dalla
persistenza di dati significativi sugli
abbandoni, sulle ripetenze, sull’evasione scolastica, che attestavano la
presenza di una scarsa efficienza del
sistema scolastico, ed offrirono l’opportunità di una maturazione a livello
collettivo di esigenze più rispondenti
alla necessità di garantire un sistema
scolastico di massa più equo e meno
segnato dalla permanenza e diffusione di presupposti e atteggiamenti
pedagogico-culturali di tipo selettivo
che trovavano larga diffusione ancora
tra il corpo insegnante. L’ estensione
delle opportunità educative per tutti fu
alla base dell’istituzione della scuola
materna statale, l’unica vera e propria
riforma coincidente con la stagione
politica del centrosinistra, che sancì
definitivamente il riconoscimento e
la nascita di servizi educativi rivolti
all’infanzia e all’età prescolare che
aveva avuto una prima affermazione con la Riforma Gentile (alla quale, però, Susi non fa riferimento). La
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ricostruzione nella sua parte finale,
poi, mette in luce gli ulteriori ambiti
dell’istruzione intorno ai quali emersero limiti invalicabili determinati dalla
conflittualità politica e che determinarono la rinuncia agli ambiziosi disegni
di riforma. In particolare Susi ricorda
i passaggi legati alla mancata riforma
dell’istruzione secondaria e quelli che
accompagnarono l’assenza di provvedimenti per una organica riforma
dell’istruzione universitaria; e questo
nonostante non siano mancati, come
ricorda lo Studioso, momenti e opportunità che hanno segnato una stagione
ricca di spunti e di dibattiti per contribuire al cambiamento tanto della
scuola secondaria quanto dell’università. Il saggio richiama, a tal proposito,
le molteplici indicazioni suggerite dalla Commissione istituita dal ministro
Gui al termine dei suoi lavori per la
riforma del comparto universitario; le
riflessioni condotte a seguito del convegno di Frascati svoltosi nel 1970; i
risultati della Commissione Biasini
nel 1971 o, ancora, il disegno di leg-
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ge presentato da Marino Raicich per
la riforma della scuola secondaria nel
1972. Susi sottolinea il peso del nuovo contesto segnato dalla crisi del modello di sviluppo con il restringimento
della base occupazionale e l’incapacità del mercato del lavoro di riassorbire manodopera qualificata; le spinte
emergenti dalla crescente domanda
di partecipazione e di democratizzazione dalla scuola alimentata anche
dalla contestazione studentesca; la
reazione del ceto insegnante e la loro
riorganizzazione sindacale; richieste
che trovarono da parte del ceto politico di governo non risposte organiche
di cambiamento, ma solo misure tampone. All’interno di questo processo
di cambiamento i decreti delegati del
1974 rappresentano il punto più significativo di questa tendenza aperturista
verso le domande di maggiore democratizzazione delle istituzioni scolastiche che ben presto avrebbe lasciato il
posto alla disillusione.
Alberto Barausse
EDUCATION SCIENCES & SOCIETY