LA BELLEZZA FERISCE

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LA BELLEZZA FERISCE
LA BELLEZZA FERISCE
Discorso al Teatro durante il Cortile d ei G ent ili a Berlino
Nel suo ormai celebre film del 198 7, Wim Wenders ha fatto volare nel cielo grigio di
Berlino un angelo, pronto a perdere le ali della sua immortalità per stare vicino a un’artista
di cir co, ripetendo la vicenda di un altr o ex-a ngelo, anch’egli sceso in questa città ch e è
un grande emblema di vitalità artistica e culturale, soprattutto teatrale. Infatti, come n on
ricordare in q uesta sede la figura di Ber to lt Brecht la cui opera conobbi nella mia città,
Milano, attraverso l e mirabili regie di Gior gio St rehler? È, quindi, con emozione che p arlo
in questo teatro, davanti a personalità di rilievo internazionale come quelle che tra p o co
ascolteremo.
Nella religione ebraico-crist iana la m etafora estetica o ludica è divenuta un a
via analogica per rappresentare Dio st esso . È quella che già nel Medio Evo era chiama ta
la via pulchrit udini s , ossia l’analogia della b ellezza per cui – come si legge nel lib ro
biblico della Sapi enza – «dalla grande zza e b ellezza delle creature per analogia (analó gôs )
si contempla i l loro Artefice» (13,5) . I n un a ltro testo scritturistico la Sapienza divina
creatrice è rappresent ata come una fanciu lla che «gioca [o danza] in ogni istante, gio ca [o
danza] sul globo terrestre ponendo la su a f elicità tra i figli dell’uomo» (Proverbi 8,30-31).
Così come esi ste l’homo ludens, cio è la per sona umana che libera le sue potenzia lità
creative, ar tistiche, culturali e spor tive, att ra verso le sue opere estetiche e atletich e
condotte nella gratuità, libertà e crea tivit à, così Dio crea l’universo e, come suggerisce il
libro della Genesi nel la sua pagina d’aper tura , si ferma stupito a contemplare la sua ope ra:
«Dio vide che era cosa bella/buona». L’aggett ivo ebraico tôb ha, infatti, un’accezione sia
estetica sia e ti ca: è espressione del “bello” m a anche del “buono” e dell’“utile”.
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In que sta luce f ede e arte son o sor elle perché di loro natura – come diceva Pa u l
Klee per l’arte – «non rappresentano il visib ile ma l’Invisibile che è nel visibile». Hen ry
Mill er, lo “scandaloso” autore del Trop ico del cancro, in suo saggio, La sapienza del cuo re,
afferm ava che, come la religione, l’art e « no n insegna nulla, tranne che a mostrare il sen so
della vita». E non è certamente poco. La ste ssa liturgia ha una dimensione “drammatica ”,
come è evide nte nel la sua ritualità, ne lla scenografia del tempio, nell’apparato de g li
oggetti, delle vesti, degli atti. Essa è conte mporaneamente numen e lumen , cioè miste ro,
trascendenza , sacro; ma è anche luce, visibilità, spettacolo, coinvolgimento dei sensi.
Si com prende, perci ò, perché nel “ secolo d’oro” della letteratura spagnola le
rappresentazioni di un Calderon de la Bar ca o di un Lope de Vega venissero classifica te
nel gener e degli Auto sacramental, con ch iaro rimando al sacramento liturgico. Un
altro celebr e personaggio di quell’e po ca st orica, Francisco de Quevedo, allarg a va
teologicamente il simbolismo teatrale: «La vit a umana è una commedia, il mondo un tea tro,
gli uomini sono gli at tori, Dio è l’autore. A lu i t occa distribuire le parti, agli uomini recita rle
bene».
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Come accade nell’esistenza e nella stessa esperienza di fede, due sono i
registri fondament ali del teatro: il dolor e e la gioia, il dramma e la commedia. Per usa re la
mitologia greca, Dioniso e Apollo proce do no in sieme sulla strada della vita, della musica ,
dell’arte, del teat ro. I n modo folgorant e Do stoevskij dichiarava che «la tragedia e la satira
[commedia] s ono sorell e e vanno di par i pa sso e tutte due insieme si chiamano verità ».
L’arte autentica cerca di esprimere quest a ver it à anche nel suo aspetto oscuro.
Infatti, nella prima delle sue Elegie duin esi Ra iner M. Rilke ricordava che «das Schöne ist
nichts als des Schreckli chen Anfang». E a lu i faceva eco Virginia Woolf nella sua ope ra
Una stanza tu tt a per sé (1929) quand o af f er m ava in modo lapidario che «la bellezza h a
due tagli, uno di gi oia, l’altro di angoscia e taglia in due il cuore». L’allora card. Jose p h
Ratzinger in un test o del 1992 andava o lt re a ffe rmando che «la bellezza ferisce, ma pro p rio
così richiama l’uomo al suo destino u lt imo ».
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La ferita si ri vela, allora, come un a f er itoia che – similmente a quanto accadeva
per i tagli del le t ele di Lucio Fontana – si aff accia sull’infinito e sull’eterno, sull’asso luto,
sul mister o, sul divi no, a prescindere dalla f ede o meno dell’artista. Purtroppo, a partire da l
secolo scor so, si è assistito a un divorzio tr a arte e fede. Da un lato, in ambito ecclesia le
si è spesso r icorsi al ri calco di moduli, d i stili e di generi di epoche precedenti, op pure
ci si è orientati all’adozione del più sem plice artigianato o, peggio, ci si è adattati a lla
bruttezza che imperversa nei nuovi quar tier i ur bani e nell’edilizia aggressiva innalza ndo
chiese simili a garage sacrali ove è par che gg iato Dio e vengono allineati i fedeli.
D’altro l ato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviand o
i temi r eligiosi , i simboli, le narrazioni, le f igure e tutto quel “grande codice” che
era stata la Bi bbia. Ha abbandonato com e pericolosa ogni proposta di un messag gio,
considerandolo un capestro ideologico, si è consacrata a esercizi stilistici sempre più
elaborati e provocatori, si è rinchiusa ne l cer chio dell’autoreferenzialità, si è affidata a u na
critica esoter ica incomprensibile ai p iù, e si è asservita alle mode e alle esigenze di un
mercato non di rado artificioso ed eccessivo.
Ora si sta regi strando un avvicin am ento . I l Pontificio Consiglio della Cultura da me
presieduto ha presentato, proprio que st’an no , un Padiglione della S. Sede alla Bienna le
d’Arte di Venezi a – che si è chiusa la scor sa domenica – con una trilogia tematica che
si lega alle pagi ne di apertura della Gen esi b iblica, affidandole alla libera rielaborazione
di tr e artisti dalle di verse esperienze anche p er sonali: l’italiano Studio Azzurro, il boemo
Josef Koudelka, l ’aust raliano Lawren ce Car r oll. I temi proposti sono stati la creazione , la
de-creazione, la ri -creazione.
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Persino cert e espressioni blasfeme o dissacranti che hanno recentemente avuto u n a
forte eco rivelano, i n ultima analisi, no n so lo l’impatto forte che i grandi simboli e i te mi
religiosi conse rvano anche in una società secolarizzata, ma manifestano forse la nostalg ia
di segni e immagi ni che hanno costitu it o una st raordinaria fonte d’arte e di cultura pe r d ue
mill enni. Come confessava Chagall, « pe r secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in
quell’alfabeto col orato che sono le S. Scr it ture .».
È per quest o che riserviamo una part ico lare attenzione al dialogo che ora seguirà .
E anche se discussa e non aliena da r ischi, a ccettiamo l’esaltazione della gratuità dell ’arte
presente in u na considerazione che ancor a Bertolt Brecht – la citazione in questa sede
è obbligatoria – f aceva nel suo Brevia rio di estetica teatrale : «Da che mondo è mo ndo ,
compito del t eatro, come di tutte le alt re ar ti, è ricreare la gente. Questo compito gli
conferisce sempre la sua speciale dignit à».
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La traduzione t edesca del discorso e la hom ep age del Cortile in Berlino si trovano qui.
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