Fascicolo Working papers 4 - Accademia di architettura

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Fascicolo Working papers 4 - Accademia di architettura
04. 2012
Laboratorio di Storia delle Alpi – LabiSAlp
Accademia di architettura – Università della Svizzera italiana
Largo Bernasconi 2
CH-6850 Mendrisio
www.arc.usi.ch/labisalp
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21.05.2012 14:26:27
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Laboratorio di Storia delle Alpi – LabiSAlp
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LabiSAlp, Accademia di architettura-USI
CH-6850 Mendrisio
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Indice
Giulia Beltrametti, Tra alpinismo e antifascismo: Piero Zanetti (1899-1972), un
esploratore del Novecento
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Stefania Bianchi, Donne che seguono i mariti
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Francesca Chiesi Ermotti, Impronte. Implicazioni nello spazio natio del casato mercantile
Pedrazzini di Campo Vallemaggia (XVIII-XIX s.)
23
Francesca Mariani Arcobello, I moti costituzionali del 1814 e gli Stoppani: conseguenze
di una crisi
39
Alessandro Moreschi, Linoleum Giubiasco. Territorialità e patrimonio industriale
53
Manolo Pellegrini, Vincenzo Dalberti e le élite svizzere al sud delle Alpi confrontate alla
crisi del regime della Mediazione
63
Mattia Pelli, Condizione migrante, lotte e sindacati nella Svizzera degli anni Settanta. Il
caso Monteforno attraverso le fonti orali. Prime conclusioni
73
Andrea Porrini, I primi passi del Club alpino svizzero a Sud delle Alpi (1871-1876)
81
Graziella Zannone Milan, Antonio Croci, Mendrisio 1823-1884. Architetto fra
tradizione e cultura cosmopolita
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Tra alpinismo e antifascismo:
Piero Zanetti (1899-1972), un esploratore del Novecento
Giulia Beltrametti
Le fonti e il contesto
La vicenda biografica di Piero Zanetti, alpinista piemontese, letterato, antifascista,
esploratore polare aiuta a ricostruire storicamente un tassello di quell’«immaginario alpino»
a cui la storia di molte regioni d’Europa, e tra esse l’Italia, è strettamente legata. Le Alpi
sono e sono state un luogo vivissimo di produzione culturale nonché politica. Il caso di
Zanetti mostra per esempio come, in un momento storico in cui pareva che alpinismo e
nazionalismo fossero concetti quasi appartenenti a una stessa famiglia semantica, fosse
possibile leggere le Alpi e l’andar per Alpi con occhi e parole radicalmente diversi, in cui
emergevano idee di sport, azione e avventura molto atipiche per gli anni in cui furono
formulate. Andrò dunque a toccare la questione più ampia del rapporto tra fascismo e
alpinismo negli anni Trenta 1. Metterò a confronto, nelle sue caratteristiche stilistiche e di
contenuto, la scrittura intima e privata della corrispondenza di Zanetti, con celebri brani e
discorsi della letteratura alpinistica «di regime», in cui linguaggio politico, retoriche nazionali
e lessico alpinistico si fondono. Zanetti, che dopo la sua partecipazione alla spedizione al
Polo del 1929 rifiutò di presenziare al ricevimento del Capo dello Stato Mussolini, nel 1935
fu anche fermato dalla polizia e incarcerato a Regina Coeli per i suoi legami con gli
ambienti antifascisti torinesi. Fra le sue carte si trovano lettere di Piero Gobetti (di cui
Zanetti fu amico e sodale al punto che quando Gobetti, nel 1926, partì per Parigi gli affidò
la direzione della rivista «Il Baretti» 2), Natalino Sapegno, Giustino Fortunato, Adriano
Olivetti, Lionello Venturi, Barbara Allason, Santino Caramella, Francesco Ruffini 3.
Inizio da due documenti, dalla materialità di due fonti molto diverse fra loro. Da qui provo
a dipanare i fili della biografia di quella che ritengo essere una personalità significativa di un
certo snodo del Novecento. Il primo documento è un quadro, dipinto da Carlo Levi nel
1929 e che ritrae Zanetti al suo ritorno dalla spedizione al polo. Il ritratto è del 1929 e si
Alessandro Pastore nel suo imprescindibile Alpinismo e storia d’Italia. Dall’Unità alla Resistenza, Bologna, 2003,
ha dimostrato come nell’evoluzione dell’alpinismo si ripecchino i miti, i valori, le istanze politiche di una
nazione.
2 Sulla necessità di chiudere la rivista nel dicembre 1928, per via delle crescenti pressioni del regime, cf. la
testimonianza dello stesso Zanetti, La fine del «Baretti», in AAVV, Dall’antifascismo alla Resistenza. Trent’anni di
storia italiana (1915-1945), Torino, 1961, pp. 134-36.
3 Il breve scambio epistolare con Gobetti testimonia una relazione tra i due molto franca e serrata: si discute
infatti dell’acquisto (da parte di Gobetti) di una libreria e degli aspetti pratici legati all’operazione. Le lettere di
Fortunato, Sapegno, Tullio Ascarelli riguardano questioni editoriali e sono tutte degli anni in cui Zanetti era
responsabile delle pubblicazioni del «Baretti». Le lettere di Adriano Olivetti, del 1932-1933, riguardano –
curiosamente – un prestito che Zanetti avrebbe fatto al giovane industriale, in un «momento difficile, in cui
sto per realizzare finalmente un programma al quale ho teso in un lavoro di quattro anni» e in cui «qualunque
interferenza personale nei rapporti con mio padre poteva avere importanza decisiva» (Olivetti a Zanetti, Ivrea,
4 febbraio 1932, Archivio di Stato di Torino, sezioni riunite (da ora in poi ASTO), Fondo Zanetti,
Corrispondenza varia, scatola 5, fasc. 13). I soldi furono poi puntualmente restituiti, come dimostra una ricevuta
dell’anno successivo, ma un ulteriore prestito fu chiesto da Olivetti l’anno successivo, a riprova della
confidenza instauratasi fra i due.
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intitola appunto L’esploratore 4. Zanetti aveva conosciuto Levi probabilmente attraverso
Piero Gobetti, di cui entrambi erano amici.
Il secondo documento data 1935 ed è il registro di entrata delle Carceri Nuove di Torino 5.
Tra i molti altri nomi compare anche quello di Piero Zanetti, purtroppo appena leggibile
nella parte inferiore del registro rovinata e mangiata dall’acqua. Era il 15 maggio 1935, il
giorno della grande retata degli antifascisti torinesi, in cui anche Zanetti fu coinvolto.
Dall’alpinismo di alto livello, dalla spedizione polare condotta in soccorso della controversa
spedizione di Umberto Nobile al Polo (controversa perché Nobile era inviso alle gerarchie
del regime, in particolare a Italo Balbo, ma in ogni caso sfruttata dalla stampa in senso
nazionalistico), alle patrie galere. È il percorso di quegli anni che mi interessa indagare,
come il frammento di una più ampia storia della cultura politica, nonché sociale, italiana fra
le due guerre all’ombra delle Alpi.
Nel 1930 veniva nominato presidente del CAI il podestà di Bologna e sottosegretario al
Ministero della Guerra Angelo Manaresi 6. Succedeva ad Augusto Turati, segretario del PNF
che ricopriva l’incarico dall’anno precedente con la funzione di guidare il CAI nel suo
passaggio all’inquadramento nel CONI. La presidenza Manaresi avrebbe dato al CAI di
quegli anni un’impronta marcatamente fascista. Nel 1934 alpinisti e sciatori avrebbero
sfilato a Roma, al Circo Massimo, nell’anniversario della marcia su Roma. Lo stesso anno
sarebbe stata istituita la Medaglia al valore atletico per gli alpinisti che avessero aperto vie
nuove di sesto grado (è lo stesso anno in cui lo Stelvio viene dichiarato parco nazionale).
Ecco come presentava Manaresi l’Annuario 1927-1931 del CAAI (Club Alpino Accademico
Italiano), le cui pubblicazioni riprendevano – per evidenti ragioni propagandistiche – dopo
cinque anni di silenzio:
«Un alpinista è caduto: cento ne sorgono, di nuovi, all’indomani; altri giovani coprono, di stelle
alpine e di rododendri in fiore, il corpo del camerata ucciso; lo compongono, il volto nell’alto,
con trepido amore, sul soffice prato; poi, su, ancora, all’assalto della roccia e della cima, a
commemorare il caduto nella più alta e difficile vittoria!
Questa, la sublime vicenda di un alpinismo che è fucina di caratteri d’acciaio e di volontà
formidabili e che trova, nella lotta, nel tormento, nel pericolo vissuto ogni ora, gioia e bellezza
di vita». 7
Carlo Levi, L’esploratore (Ritratto di Piero Zanetti), 1929, olio su tela, cm 80 x 65. Ringrazio la cortesia di Paola
Zanetti Casorati, figlia di Piero, che oltre ad aver avuto la lungimiranza di riordinare le carte del padre e di
cederle all’Archivio di Stato affinché fossero fruibili, ha avuto la pazienza di rispondere a tutte le mie
domande sulla sua famiglia e la gentilezza di mostrarmi il quadro in questione. Il ritratto, a dispetto del titolo,
vede Zanetti in giacca e cravatta, dall’aspetto poco sportivo, con le spalle strette, e la pelle eccessivamente
arrossata. Il quadro entrò a far parte della ricca collezione d’arte di Zanetti, che comprende numerose e
importanti opere pittoriche novecentesche. Un’analisi dell’opera è stata fatta da Maria Mimita Lamberti in
«L’esploratore» di Carlo Levi e altre tele nella collezione torinese di Piero Zanetti, intervento presentato presso
l’Accademia Nazionale di San Luca, a Roma, il 19 febbraio 2009 in occasione di una giornata di studio in
onore di Pia Vivarelli, dedicata all’Arte italiana del Novecento: dalla metafisica agli anni Sessanta, a cura di Nicoletta
Cardano. Lo studio di Mimita Lamberti contiene preziose informazioni sull’iter dell’opera, oltre che sulla sua
«lettura» da parte di una storica dell’arte.
5 ASTO, Casa circondariale di Torino, Ufficio matricola, Registro matricola, 1935, n. 5519. Lo stesso giorno furono
arrestate decine di rappresentanti dell’antifascismo piemontese, e il CLN locale fu decapitato. Fra gli altri
ricordo i nomi presenti nello stesso registro di entrata in carcere: Massimo Mila, Luigi Salvatorelli, Vittorio
Foa, Giulio Einaudi, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Michele Giua, Piero Martinetti.
6 Angelo Manaresi, avvocato, ufficiale della prima guerra mondiale, fu a lungo titolare di una seggio alla
Camera dei fasci. Dal 1929 al 1933 fu sottosegretario alla Guerra, ruolo che ricoprì contemporaneamente alla
presidenza del Cai. Podestà di Bologna dal 1933, si dimise anzitempo (nel 1935) per illeciti
nell’amministrazione comunale dovuti, così si disse, al vice podestà. In quegli anni Manaresi fu autore di Quel
mazzolin di fiori, Roma, 1931, Parole agli alpinisti, Roma, 1932, Sul ponte di Bassano, Roma, 1932, Aprite le porte,
Roma, 1° Reggimento alpini editore, 1933.
7 Annuario CAAI 1927-31. Il volume qui consultato è quello conservato nel Fondo Zanetti.
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Perfetto esempio di retorica di regime, il linguaggio di Manaresi è lo stesso utilizzato per
commemorare i martiri fascisti. L’elogio della bella morte, della morte sulla via della
vittoria, l’accenno di derivazione futuristica all’acciaio, il riferimento alla volontà e alla lotta:
tutti elementi fondanti del lessico di regime. Manaresi conclude la sua introduzione con un
appello ai giovani e un richiamo diretto a Mussolini:
«Sappiano, essi pure, i giovanissimi, risolutamente osare: la luce della vittoria e del dominio è,
come il Duce insegna, non sulla bambagia del godimento o sulla morbida facilità della
conquista, ma nella dura, sanguinosa, asprezza dell’impervio salire».
Molti studi sulla prima guerra mondiale hanno rilevato come il linguaggio politico – ma non
solo – degli anni Venti e Trenta abbia conosciuto una «militarizzazione» e una violenza
lessicale prima ignoti o non praticati. 8 Un gerarca marginale come Manaresi non fa
eccezione.
Sfogliando l’annuario del CAAI di quegli anni, così virulentemente introdotto, colpisce
invece la sobrietà della pubblicazione, che altro non è se non un elenco di salite alpinistiche
e spedizioni extra europee corredate da relazioni tecniche e da qualche severa fotografia
con l’indicazione della via di salita. E colpiscono anche i nomi degli alpinisti accademici
citati: a parte Zanetti (che vantava in quegli anni un curriculum di ascese di tutto rispetto 9)
compaiono i nomi di Gabriele Boccalatte, Ernesto Chabod, Ettore Castiglioni 10, Giusto
Gervasutti 11, Gianni Albertini (amico di Zanetti e organizzatore della spedizione polare del
1929 12), Ardito Desio, Paolo Kind. Singolarmente il nome di Emilio Comici 13, anch’egli tra
i padri dell’alpinismo italiano, nella copia dell’Annuario in possesso di Zanetti, risulta
cancellato dall’elenco dei soci ordinari con un tratto a matita. 14
Ci si riferisce in generale ai classici studi, ai quali si rimanda, di Paul Fussel (La Grande Guerra e la memoria
moderna, Bologna, 2000), Eric J. Leed (Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra
mondiale, Bologna, 1985), George L. Mosse (Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, 1990)
e, per quanto riguarda l’Italia, di Antonio Gibelli L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo
mentale, Torino, 1991.
9 Per un riepilogo delle prestigiose salite e imprese di Zanetti, cf. A. Biacardi, In memoria di Piero Zanetti, in
«Rivista mensile del Club Alpino Italiano», agosto 1972, p. 493.
10 Di Castiglioni si ricordano I giorni delle Mésules. Ricordi di un alpinista antifascista, Torino, 1993. Ettore
Castiglioni (1908-1944) è stato uno dei più grandi alpinisti tra le due guerre. Morì in montagna durante una
fuga dalla Svizzera verso l’Italia dove si era spinto forse in missione per conto del CLN.
11 Boccalatte e Gervasutti furono compagni di Zanetti nell’avventurosa spedizione andina del 1934, così come
Renato Chabod, fratello del più celebre Federico, anch’egli grande alpinista. Di Gervasutti si può vedere il suo
Scalate nelle Alpi, a cura di Pietro Crivellaro, Torino, 2005. Boccalatte (1907-1938), pianista diplomato,
compagno dell’alpinista Ninì Pietrasanta con la quale condividerà alcune tra le sue migliori ascensioni, morì
giovanissimo durante una salita sulla parete sud del Triolet. Come scrive Massimo Mila «non c’è posto nella
vita di uomo per due passioni così esigenti ed esclusive come sono l’arte e l’alpinismo, quando l’una e l’altro si
vogliano esercitare a fondo, senza compromessi né limitazioni». Cf. M. Mila, L’altra faccia della mia persona.
Storie di vette e alpinisti, Torino, 2010. E Mila ben sapeva di cosa parlava, essendo lui stesso appassionato di
musica e di montagna allo stesso tempo.
12 G. Albertini, Alla ricerca dei naufraghi dell’«Italia». Mille chilometri sulla banchisa, Milano, 1929. Le memorie di
Albertini si riferiscono alla spedizione Nobile del 1928, che aveva compreso l’esplorazione delle coste
settentrionali dello Spitzenbergen. Zanetti partecipò invece all’esplorazione dell’anno successivo nelle Terre di
Nordest, capitanata dallo stesso Albertini, la cui relazione si trova nell’Annuario del CAAI 1927-1931.
13 E. Comici, Alpinismo eroico, Torino, 1995.
14 Comici sarebbe morto nel 1940 a Selva di Val Gardena. Per il suo controverso rapporto con le istanze
dell’ideologia fascista si rimanda a Pastore, Alpinismo e storia d’Italia, cit. specialmente alla p. 173. All’interno
dell’ambiente del CAI l’atteggiamento di Comici suscitava pochi consensi: allineato sì al pensiero del regime, il
grande alpinista conservava però un’impostazione del tutto personale verso l’alpinismo che gli cagionò
l’esclusione dal CAAI, l’associazione di élite del CAI. Colpisce che Zanetti abbia voluto sottolineare il fatto
espungendone il nome dalla sua copia dell’Annuario.
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La spedizione al Polo del 1929
La spedizione polare del 1929 fu – come è immaginabile – un grande evento pubblico.
Come documenta Lorenzo Revojera nel suo libro sulla Sucai, la sezione universitaria del
CAI 15, l’incarico di guidarla fu affidato dallo stesso Mussolini a Gianni Albertini, che già
aveva partecipato l’anno precedente alla sfortunata avventura di Umberto Nobile come
esperto di sci e ambienti estremi. Nel 1929 partì dunque la seconda spedizione alla ricerca
dei dispersi, nella quale Albertini aveva coinvolto amici e compagni di cordata fidati, tra i
quali Zanetti. Il gruppo, a bordo della baleniera Heimen, ribattezzata da Albertini HeimenSucai, rimase nell’Artico sei mesi percorrendo infruttuosamente con sci e slitte settecento
chilometri sulla banchisa. Nelle ultime settimane, scrive sempre Revojera, i membri
dell’equipaggio erano talmente allo stremo che dovettero nutrirsi abbattendo i cani da slitta
che li accompagnavano. Un’esperienza durissima, e nessun risultato nella ricerca dei
dispersi del dirigibile Italia.
Il 28 aprile, alla sua partenza, la missione meritava un lungo articolo sulla prima pagina del
«Corriere», intitolato Una rimessa italiana alla ricerca degli sperduti dell’Artide. L’articolo,
lunghissimo e ricco di particolare tecnici, chiudeva con un fondo in corsivo di carattere
politico-morale, non firmato, che vale la pena riportare in parte:
«Ispirata da un sentimento di altissima umanità, preparata con discernimento, allestita in
silenzio, l’impresa di questo generoso manipolo alla cui testa è l’ingegner Gianni Albertini, va
accolta dal plauso riconoscente e dal voto augurale di tutti gli italiani.
[…] Ma il risalto dell’avvenimento non è soltanto nella santità degli scopi che l’impresa si
propone. Ai lettori non sarà sfuggito che essa è stata concepita da giovani, che è stata preparata
da giovani, che sarà condotta e portata a compimento da giovani. L’ingegner Gianni Albertini,
con la magnifica marcia di mille chilometri sul pack alla ricerca del gruppo Mariano, è un po’
un veterano dell’Artide nella considerazione popolare; ma è un giovane da poco uscito
dall’Università, e giovani sono i suoi camerati, tutti usciti col criterio del massimo rendimento
morale e fisico, e giovane altresì, nelle forze che raduna, nei programmi che persegue, nelle
energie che suscita, quella S.U.C.A.I. alla quale Roberto Maltini ha saputo gagliardamente
imprimere lo stile dei tempi nuovi.
Orbene; noi possiamo accordare a questi giovani tutta la nostra fiducia. È anche questo un
altro caratteristico segno dei tempi. Solo il fascismo, che fu anzitutto passione e movimento di
giovani, poteva assegnare a questi doveri e responsabilità nel vasto e complesso quadro della
vita nazionale. Qualche anno fa non si sarebbe potuto, non diciamo attuare, ma nemmeno
concepire un’impresa siffatta». 16
Al brano appena citato si può efficacemente contrapporre un passaggio di una lettera che
Zanetti, evidentemente impermeabile alla retorica di regime anche quando era coinvolto in
tali grandi imprese, e che peraltro durante la spedizione era stato incaricato di inviare le
relazioni ufficiali delle esplorazioni proprio al «Corriere», scrive ai genitori dalle Terre di
Nordest.
«Wahlemberg bay, 1 luglio 1929. Due mesi sono già passati dalla partenza e posso oramai
considerarmi a metà di questa mia avventurosa parentesi di vita. Ai primi di settembre saremo
certamente sulla via del ritorno. E conterò i giorni e le ore che mi separano da voi e dalla vita
L. Revojera, Studenti in cordata. Storia della Sucai 1905-1965, Torino, 2008. Cf. in particolare le pp. 62-65,
dedicate a Gianni Albertini, che fu, secondo Revojera, un «tipico esempio di come la propaganda fascista,
imbevuta di retorica e di ottuso nazionalismo, riuscì a illudere e legare ai propri folli progetti una serie di
giovani – fra cui appunto parecchi alpinisti – molto dotati sul piano sportivo, intellettuale e umano». Albertini
(1902-1978), grande amico di Zanetti e suo compagno di cordata, insieme con Sergio Matteoda – poi morto
nelle Ande –, nella grande stagione alpinistica del 1926, in cui aprirono diverse vie nuove sul Bianco, era
entrato nel Club alpino accademico a soli 22 anni. Univa alla passione per l’alpinismo quella per l’aviazione,
tanto da entrare in relazione con Italo Balbo e partecipare, durante la guerra, al bombardamento di Londra.
16 Articolo conservato in Fondo Zanetti, Spedizione al polo, scatola 7, fasc. 6.
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del mio lavoro. Perché due mesi di vagabondaggio per le contrade di Europa e per questi
remoti mari dell’Artide sono serviti se non altro a farmi sentire la nostalgia più acuta della
nostra casa tranquilla e serena […]. Di questo lavoro [di esplorazione] non è risultato molto
sulle relazioni che ho mandato al Corriere perché Albertini desiderava che avesse tutto il risalto
quello compiuto dalla pattuglia dell’Est, e d’altra parte sono stato lieto di secondarlo in questo
desiderio perché pavento accoglienze e manifestazioni troppo… entusiastiche al mio ritorno.
[…] Quello che conta è ciò che rimane in noi, è la soddisfazione della nostra coscienza. Io non
chiesi altro a questa spedizione che un’intima gioia, una messe di ricordi e di impressioni che
possano rendere più pieni i giorni che ho ancora da vivere; ho ottenuto fin troppo e sono
soddisfatto.
[...] Così ho deciso che non andrò a Roma da Mussolini e che rifiuterò tutti i pranzi e tutte le
onoranze». 17
Ad appena un terzo della sua avventura Zanetti aveva già deciso che non avrebbe condiviso
gli onori del governo, tanto la cerimonia gli pareva in contrasto con l’essenza della sua
esperienza. La decisione, tuttavia, aveva lasciato perplessi alcuni tra i famigliari. Un foglietto
di incerta attribuzione, presente fra le carte di Piero, testimonia la preoccupazione suscitata
da questo suo rifiuto. Probabilmente è la nonna materna a scrivere a qualche parente di un
altro partecipante alla spedizione, ma questo dopo il ritorno di Zanetti:
«Fortunatamente la spedizione Albertini è ritornata fra noi in buone condizioni di salute e se a
lumi spenti [sic] non è per questo meno meritevole d’encomio e di riconoscenza. Io ero […]
lieta che il mio Nipote Piero fosse ritornato entusiasta dei luoghi veduti e dei compagni avuti,
specialmente del capo a cui era legato da sincera amicizia. Tutto si svolgeva a buon fine. Avevo
letto sul Corriere che suo Nipote era stato ricevuto dal Duce […] Seppi […] che tutti i
componenti la spedizione si erano recati a Roma a rendere omaggio al capo del governo
com’era infatti logico e doveroso. Piero non era nella comitiva, che impressione avrà fatto a
Roma questa assenza?». 18
Alla nonna Piero aveva scritto lunghe, intime lettere dalla nave che lo conduceva e lo
riportava dell’Artide, perlopiù incentrate sull’eccezionalità dell’esperienza e sulla difficoltà di
reintegrarsi nella vita «normale». Da Trömso, all’andata:
«Ma voi non potete seguirmi in questo mio viaggio delizioso e avventuroso. I paesaggi sono
troppo fantastici perché voi riusciate a ricrearveli nella vostra mente, e neppure potete pensarci
quali ci avete sempre conosciuti perché non potete fermarci in una cornice a voi nota, e perché
siamo tutti troppo cambiati. Ieri sera, appena arrivati a Trömso, abbiamo festeggiato […] la
traversata del circolo polare artico. […] Ai miei compagni un poco euforici ho parlato di noi, di
quello che ci attende. E ho detto che noi siamo un manipolo di Figli del Re, quelli che con tale
nome nelle novelle delle Mille e una notte sono indicati gli uomini straordinari chiamati dal
destino a un compito diverso dagli altri. Cara nonna, noi siamo veramente fortunati e andiamo
incontro alle cose più grandi della vita. Ma penso quasi con terrore a quando passeremo di
nuovo per questi luoghi nel viaggio di ritorno, e la gioia di potervi riabbracciare non sarà
sufficiente a colmare la tristezza del distacco da questo mondo di sogno, e il fastidio di dover
riprendere quella che fu la nostra vita fino a ieri». 19
La vita nel «mondo di sogno», un altrove che è sentito come il «vero» esistere, è il leitmotiv di
molti scritti di alpinisti, da Giusto Gervasutti a Ettore Castiglioni. Zanetti e Castiglioni,
però, a differenza di altri, non riuscirono mai a estraniarsi del tutto dalla realtà nella quale
vivevano, traendone le severe conseguenze legate ai tempi in cui vissero. 20
Ivi, fasc. 3.
Fondo Zanetti, scatola 7, Lettere Albertini. Spedizione Polo, fasc. 3.
19 Ibid.
20 A noi fu dato in sorte questo tempo, 1938-1947 è il titolo di una mostra che si è tenuta presso l’Archivio di Stato
di Torino nel gennaio-marzo 2010, ideata da Alessandra Chiappano a partire dalle carte dell’archivio privato
di Luciana Nissim Momigliano e promossa dal Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della
Guerra, dei Diritti e della Libertà di Torino. La mostra era dedicata a quel gruppo di giovani amici torinesi,
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La spedizione nelle Ande (1934)
Una foto di gruppo, pubblicata nelle memorie di Giusto Gervasutti recentemente riedite 21,
mostra tutti i partecipanti alla spedizione nelle Ande durante il viaggio per mare: Piero
Ghiglione, Gabriele Boccalatte, Stefano Ceresa, Gustavo de Petro, Aldo Bonacossa, Luigi
Binaghi, Giusto Gervasutti, Piro Zaneti, Giorgio Brunner, Renato Chabod, Paolo Ceresa.
Alcuni di questi nomi non sono oggi più ricordati, altri lo sono perché hanno scritto la
storia dell’alpinismo italiano e internazionale, altri ancora perché sono stati protagonisti
delle vicende politiche italiane o perché hanno contribuito alla storia intellettuale del paese.
Fra le carte di Zanetti si trova una lettera di Gervasutti preliminare alla spedizione, datata
22/12/1933. Vale la pena riportarla integralmente, dal momento che concentra tutte le
preoccupazioni di un alpinista alla vigilia di un’impresa:
«Caro Piero, passando da Milano mi sono fermato come già sapevi da Bonacossa 22. Siamo
andati a vedere le tende Moretti, ma non hanno della roba molto pratica. Allora Bonacossa ha
pensato bene di andare a Monaco subito dopo l’Epifania. Vorrebbe però che ci andassi
anch’io, cosa che però non mi torna molto comodo [sic]. Vorresti per caso andarci tu? Là si
potrebbe vedere anche per le scarpe e forse anche i sacchi piumino. Hai parlato con
Ghiglione? 23 Aldo è molto preoccupato per la… formazione della cordata. A Milano mi avrà
detto 50 volte dove si potrebbe ficcare il «Champion»! Io ho cercato di tranquillizzarlo un po’
sul conto della sua fama di rompiscatole.
Un’altra cosa vorrei dirti, che non mi era venuta in mente a Torino. La «Stampa» avrebbe forse
avuto maggior piacere ad avere te come corrispondente, se non altro per la maggior garanzia
che tu potevi dare per il servizio. Quindi vorrei avvertirti che se la Stampa si pronunciasse in
questo senso tu non ti faccia degli scrupoli verso di me. In più Aldo con un giro di parole
abbastanza lungo mi ha fatto capire (o almeno ho creduto di capire) che forse anche il Corriere
darebbe qualche cosa per un servizio, ma che vorrebbe gli articoli a firma Bonacossa, però
Aldo non ha voglia di scriverli, e allora come si fa? ha concluso lui. Forse vorrebbe che
qualcuno lo aiutasse a scriverli? Ma di tutto ciò ne riparleremo meglio a Torino in gennaio. Con
molto auguri anche per i tuoi. Ti stringo affettuosamente la mano. Giusto». 24
E ancora un biglietto dattiloscritto di Bonacossa di un mese posteriore (26 gennaio 1934,
XII):
«Caro Piero, ti pregherei di portarmi a Napoli un distintivo dell’accademico di riserva. A che
posso pagare in marchi gli oggetti personali miei ordinati a Schuster a Monaco? – La mia tenda,
le mie corde, ramponi piccozze e scarpe, insomma il materiale pesante, va spedito assieme a
quello della spedizione oppure devo portarmelo a Napoli con la mia roba personale? Mi
parrebbe migliore il primo caso, onde io non passi con i miei effetti personali i 50 chili di
tolleranza. Vuoi dirmene subito qualcosa? Cordiali saluti Aldo».
studenti o appena laureati, che le leggi razziali del 1938 avevano costretto a riconoscersi come ebrei o amici di
ebrei: Primo Levi, Luciana Nissim, Emanuele Artom, Franco Momigliano, Vanda Maestro, Silvio Ortona,
Ada Della Torre, Giorgio Segre, Alberto Salmoni, Bianca Guidetti Serra, Franco Sacerdoti, Lino Jona,
Eugenio Gentili Tedeschi. La montagna era stata un legame forte anche per loro, e la generazione è quella di
Zanetti e degli uomini di cui si parla in questo scritto. Ma ciò che qui interessa è tenere a mente il solo titolo
dell’esposizione, che guida nella comprensione del rapporto tra gli uomini e il periodo storico che si trovano a
vivere. L’espressione in sorte questo tempo è di Silvio Ortona.
21 Gervasutti, Scalate nelle Alpi, cit. Gervasutti, detto «il Fortissimo» era nato a Cervignano del Friuli nel 1909 e
morirà sul Mont Blanc du Tacul il 16 settembre 1946, durante una corda doppia. Nel periodo fra le due
guerre fu uno degli scalatori di punta dell’alpinismo europeo.
22 Aldo Bonacossa, alpinista e sodale di Zanetti, in quegli anni presidente della sezione di Milano del CAI.
23 Piero Ghiglione, ingegnere, anch’egli alpinista torinese e accademico del CAI.
24 Fondo Zanetti, Spedizione Ande. Montagna, scatola 8, fasc. 6. A proposito delle corrispondenze giornalistiche,
nello stesso fascicolo si trova un telegramma del 5 febbraio 1934 indirizzato alla spedizione durante il suo
viaggio di andata per mare che recita: «A passeggero Zanetti motonave italiana Neptunia Coltano Radio
Combinato Gervasutti Popolo Italia dieci quindici articoli lire quattrocento più telegrammi notizie importanti.
Ferreri».
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Nel fondo Zanetti non sono presenti documenti relativi al finanziamento della spedizione –
possibilmente reperibili altrove 25 – se non un’eloquente lettera dell’agente di viaggio
Alessandro Perlo, datata gennaio 1935, e indirizzata al padre di Piero, Giuseppe, nella quale
Perlo lamenta in tono accorato i debiti lasciati dal figlio:
«Purtroppo colle 15.000 lire che si sono volatilizzate nella Crociera delle Ande, ed altri ingenti
crediti rimasti ancora gelati mi mettono nella dura necessità di rivolgermi nuovamente al Suo
buon cuore di padre, ed alla di Lei squisita sensibilità commerciale, per pregarLa di volermi far
avere, in un modo qualsiasi, il saldo del mio credito entro Lunedì corrente, dovendo in tal
giorno provvedere a pagamenti improrogabili.
Creda, Egregio Commendatore, che l’essere costretto a rivolgermi a Lei, non solo mi avvilisce,
ma mi procura una vivissima sofferenza morale, perché so di riaprire una dolorosa ferita nel
suo animo di padre generoso ed affezionato. Il fatto stesso ch’io abbia atteso circa 12 mesi,
malgrado le mie ristrettezze, è prova della sincerità delle mie affermazioni.
Io mi auguro che l’Avv. Piero si sia rimesso e che almeno da questo lato siano diminuite le Sue
preoccupazioni […]». 26
Nel fascicolo si conservano la ricevuta del puntuale pagamento di parte della quota dovuta
al sig. Perlo: «2° versamento conto avv. Piero Zanetti crociera alle Ande. Lire duemila».
Gervasutti, nelle sue memorie, registra i particolari relativi alla partenza:
«Nell’ottobre del 1933 la sezione di Torino, per mezzo del dottor Ferreri, del ragionier Del
Corno e dell’avvocato Zanetti, tentò l’avventura. Naturalmente il problema principale era
quello finanziario. Per risolverlo vene escogitato un sistema ingegnoso: quello di abbinare la
spedizione a una crociera turistica negli Stati dell’America del Sud. Debbo confessare che tale
sistema in un primo tempo no incontrò certo l’approvazione di noi giovani, ma poiché non
c’era altro mezzo fu giocoforza salutare a gran voce l’iniziativa». 27
Nel fascicolo relativo alla spedizione sulle Ande si trova anche un cablogramma di Zanetti
alla «Stampa» (con allegata relativa minuta di pugno dell’autore) datato Stgo [Santiago]
19/3/1934 in cui si registrano le imprese degli alpinisti italiani:
L’impresa parrebbe essere stata finanziata da industriali lombardi (Crespi, Borletti): cita il dato Maria
Mimita Lombardi in L’esploratore di Carlo Levi, cit.
26 Fondo Zanetti, Spedizione Ande. Montagna, scatola 8, fasc. 6.
27 Gervasutti, Salite sulle Alpi, cit., p. 93. Mi son chiesta a lungo se un’impresa alpinistica extra europea non
fosse in contrasto, in quegli anni, con il documentato impegno politico di Zanetti e il suo milieu antifascista,
allora soffocato dal regime e con gravi problemi anche economici, potesse – e in che misura – approvare o
capire la cosa. La risposta mi è arrivata da Luciana Benigno Ramella, che qui ringrazio, che mi ha regalato
l’indicazione di una fonte a me sconosciuta. Si tratta di Noi due, memoria scritta in inglese per i nipoti da
Davide Jona e Anna Foa, reperita da Luciana Benigno nel fondo manoscritti dell’Immmigration History
Research Center di Saint Paul, nel Minnesota, e da lei tradotta (Bologna, 1997). Davide Jona, riflettendo sugli
anni difficili del fascismo, parla del «caso» Zanetti, amico di Gobetti, grande alpinista, e che però aveva
partecipato alla spedizione nell’Artide in soccorso dei superstiti del dirigibile Italia. «Tra l’imbarazzata sorpresa
di tutti quelli che lo conoscevano, Zanetti fu scelto a guidare la spedizione. È vero che egli era un buon
scalatore, ma non certamente migliore di tanti altri […]. Tutti capirono che, per com’era stata organizzata, si
trattava di pura propaganda […]» (Foa, Noi due, cit., p. 160). È un chiaro scherzo della memoria, tanto che
Jona mostra di non sapere chi fosse il vero capo spedizione (Gianni Albertini, alla sua seconda spedizione
artica) e anche di confondere le date, il che è normale a distanza di tanti anni e con una vicenda biografica
(quella di Davide Jona e della sua famiglia) così tormentata. Ma tutto ciò lo fa comunque concludere:
«Quando Zanetti ritornò in Italia, considerato un eroe dal governo, anche se non comparve mai in pubblico
con l’uniforme fascista, io e gli altri amici di Gobetti non potemmo dissipare il dubbio che fosse da lungo
tempo in stretti rapporti con il partito e forse anche con la stessa polizia fascista.» (Ibid., p. 161). Jona parla
onestamente di «dubbio» e infatti la vera questione risiede nell’atmosfera di sospetto in cui tutti quegli uomini
e donne furono costretti a vivere per anni, effettivamente poi traditi da un sedicente amico (Dino Segre, in
arte Pitigrilli). Lo stesso Jona racconta, poche righe oltre, la sua situazione: «sfiduciato e disperato, mi isolai
sempre di più» (Ibid.).
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«Partiti nove marzo monte Marmolejo Bonacossa Binaghi Boccalatte Gervasutti Zanetti et
alpinista tedesco per riconoscere sconosciuto versante cileno et raggiunto giorno dieci
selvaggio bacino Engorda tra monti bellissimi et aspri ghiacciai gruppo rimase bloccato tre
giorni al bivacco quota quattromilacinquecento da terribile bufera stop. Tentativo ascensione
Marmolejo respinto dopo raggiunti cinquemila metri tormenta et abbondante nevicata stop
Rientrati diciassette Santiago gruppo ritrovossi compagni tornati vincitori Aconcagua stop
Vittorie conseguite brevissimo tempo Ande favorevolmente commentate stampa sudamericana
et affermarono capacità alpinisti italiani con vivissimo compiacimento tutti connazionali
Zanetti». 28
Vi è poi una lettera del presidente del Cai di Milano, Guido Bertarelli, del 15 novembre
1934, nella quale, con tono enfatico, Zanetti è invitato al pranzo annuale che si sarebbe
tenuto il primo dicembre, presieduto dal «S.E. Angelo Manaresi, nostro amato Presidente
Generale». Nell’occasione sarebbero state ricordate le ascensioni effettuate all’estero, per
cui Zanetti, nelle parole del presidente Bertarelli, essendo «compreso fra l’eletta schiera
degli arditi scalatori» era pregato di intervenire «alla simpatica riunione», che sarebbe stata
in pari tempo «una affermazione di quel tradizionale cameratismo alpino che è una delle
caratteristiche del nostro Club Alpino». Bertarelli concludeva ringraziando in anticipo e
inviando saluti fascisti; non è stato possibile verificare se Zanetti abbia partecipato o meno
al convivio. Una foto, pubblicata da Alessandro Pastore 29 e tratta da «Il Comune di
Bologna», del giugno 1934, mostra, come recita la didascalia, Angelo Manaresi che presenta
a Mussolini gli alpinisti reduci dalle spedizioni ai monti della Persia e delle Ande: anche in
questo caso, però, non è stato possibile verificare con certezza la presenza di Zanetti
all’evento, anche se nella foto commemorativa dell’evento non pare di poterlo riconoscere
tra i presenti. Partecipò invece certamente, fra i suoi compagni, Gervasutti, riconoscibile
nell’immagine. 30
Massimo Mila, che con Zanetti condivise il celebre arresto del 15 maggio 1935, dovuto alla
delazione da parte di Dino Segre, noto come Pitigrilli 31, in un suo saggio dedicato al
maestro Augusto Monti – suo e di quasi tutti coloro che rappresentarono l’antifascismo
torinese, Zanetti escluso perché di origine eporediese – usa un’espressione, che, senza
aggiungere ulteriori commenti vorrei usare a chiosa di questa breve esplorazione biografica:
Zanetti è stato infatti, come tanti della sua generazione, che attraverso la montagna ne
hanno trovato un’espressione possibile, esponente di quello che Mila definisce un idealismo
involontario, un antifascismo involontario. 32 Involontario, cioè morale prima che politico,
indiretto e soprattutto necessario.
Fondo Zanetti, Spedizione Ande. Montagna, scatola 8, fasc. 6
In Alpinismo e storia d’Italia, cit.
30 Se ne ha conferma nella didascalia della stessa foto pubblicata a cura di Pietro Crivellaro nelle memorie del
«Fortissimo», Scalate sulle Alpi, cit., che recita integralmente: «Il Duce riceve a Palazzo Venezia i membri della
spedizione alle Ande e di quella scientifica in Persia, accompagnati dal presidente del CAI Manaresi e dal
presidente del CONI Starace (30 maggio 1934). Gervasutti è il quinto in piedi da sinistra; a terra, tra Mussolini
e Manaresi, si riconosce Ardito Desio». Gervasutti, va aggiunto, come quasi tutti gli astanti, indossa la
regolamentare camicia nera. La stessa foto è stata pubblicata sul n. 197 di Alp, nel settembre 2001, un numero
speciale dedicato all’Aconcagua. La stessa signora Zanetti Casorati, è incerta nel riconoscimento del padre nel
ritratto di gruppo; in ogni caso, se l’individuo dall’incerta identità fosse lui, non indosserebbe la camicia nera.
31 La questione della delazione è più complessa e non riducibile al gesto di un singolo, che pure ne fu
responsabile. Infatti la polizia da mesi, se non da anni, cercava di ricostruire una rete di amicizie e relazioni
che potesse dare un quadro ampio degli antifascisti piemontesi (si veda a questo proposito i documenti
pubblicati in appendice al libro di Giua, Ricordi di un ex-detenuto politico, cit. pp. 165-178, e poi l’imprescindibile
libro di M. Giovana, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN piemontese, Milano, 1962). Zanetti in quel
momento si trovava in viaggio di nozze nella Francia del Sud, e fu facile immaginarlo in contatto con gli
antifascisti espatriati.
32 M. Mila, Scritti civili, a cura di A. Cavaglion, con una nota di Giulio Einaudi, Torino, 1995, p. 312.
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Donne che seguono i mariti
Stefania Bianchi
Premessa: come per il passato (cf. Parte chi impara l’arte. I Cantoni e la formazione di cantiere:
appunti di percorso per una sintesi d’insieme; Qui in Genova e in codesti paesi per gratia del Signore
abiamo crediti da tutte le parti e ne faciamo ogni giorno 1), il contributo che qui si propone considera
un altro dei temi presi in esame nella ricerca I Cantieri dei Cantoni. Le relazioni e le vicissitudini
di una famiglia di migranti della Svizzera italiana in Liguria (XVI-XVIII), ovvero il ruolo della
donna nella «strategia dell’assenza» praticata da migranti, nel caso specifico, con un alto
grado di specializzazione nell’ambito delle maestranze edilizie 2.
Le scelte delle spose
«Signora Consorta vi aspetto quanto prima, in Gienova con il nostro Pietro. Tenettelo di
conto, volio che vediatte Gienova e poi farette quelo che volette ma li filii volio che inparino
qui la crianza», scrive nel 1726 Francesco Maria Cantoni alla moglie Caterina, ma senza
successo 3. Infatti, Caterina si accontenterà di procrastinare il più possibile la partenza del
primogenito Pietro, ma non seguirà il marito nella capitale ligure, come a suo tempo invece
aveva fatto sua suocera. Infatti Francesco Maria è nato proprio a Genova nel 1699 da
un’altra Caterina, la seconda moglie di Pietro, che non ha esitato a seguirlo. Dopo la prima
lettera, dai toni appassionati, ricevuta dal novello sposo:
«Consorte mia carissima e figli. In risposta ad una sua carissima e di gran tittolo a me
per essere li suoi primi caratari e onori di inciostro favoritimi di simil calamaro e
fortunata penna per descrivere li suoi affetti ad un core incatenato di suoi sassi e per
soglierli non vi vol altro che la sua presenza. Nel altra mia inviatale già aveva sentito li
miei motivi come anche ne la mia scitta a mastro mater e Madona li ne avevano dato
parte di tutto e di novo starò atendendo la sua grata risposta del suo afetto e vs non
manchi di parlare a la libera del suo desiderio senza difigultà alcuna adesso io non ho
altro motivo solo di incontrare li suoi desideri già li miei Vossignoria li pol capire e
questa risoluccione forsi me sarà utille non però lei pensa di star meglio a Genova che
1 Questi i titoli delle relazioni tenute in occasione dei seminari organizzati dal Laboratorio di Storia delle Alpi
rispettivamente nei bienni 2008-2009, 2010-2011. La prima è stata pubblicata in «Percorsi di ricerca. Working
Papers», Laboratorio di Storia delle Alpi (LabiSAlp), 2/2010, pp. 21-30, www.arc.usi.ch/ra_2010_14.pdf.
2 Ovviamente non si tratta di migrazione al femminile perché queste donne non entrano poi sistematicamente
nel mercato del lavoro delle città d’accoglienza, aspetto che profila «l’emigrazione femminile» ancora agli inizi
del Novecento. Cf. A. De Clementi, I ruoli scambiati. Donne e uomini nell’emigrazione italiana, in A. De Clemente,
M. Stella (a cura di), Viaggi di donne, Napoli, 1995, pp. 171-195, in particolare p. 179 e p. 183; F. Ramella, Reti
sociali, famiglie e strategie migratorie, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione
italiana. Partenze, Roma, 2001, pp. 143-160, in particolare pp. 151-156 e, sempre nello stesso volume, B.
Bianchi, Lavoro ed emigrazione femminile (1880-1915), pp. 257-274, che invece individua le professioni praticate
dalle donne che partono, fra la fine dell’Ottocento e primi anni del Novecento: mondine, domestiche, sarte,
fornaciaie, operaie, balie da latte.
Altri importanti contributi sul tema: A. Arru, J. Ehmer, F. Ramella, Migrazioni, in «Quaderni storici», 106,
2001; A. Arru, F. Ramella (a cura di), L’Italia delle migrazioni interne. Donne, uomini, mobilità in età moderna e
contemporanea, Roma, 2003; A. Arru, D. Caglioti, F. Ramella (a cura di), Donne e uomini migranti. Storie e geografie
tra breve e lunga distanza, Roma, 2008.
3 Cf. Carte di casa Cantoni (in seguito CCC), Genova, 30 giugno 1726.
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a casa perché qua in Genova non vi sono le comodità cossi di pocho spendio e qua
sono di più spendio però faremo di una cosa se adesso io magnavo un pane magnerò
solo mezzo e come ne altre cosse anche non soi sarà la libertà di quelli paesi penso
però che la dimora non sarà solo per qualchi mesi ma non anni. Adesso anche io amo
l’aria nativa e me la trovo sana il scambiarla a spesso perché l’aria della marina mi è
troppo nociva, e quela di Cabio mi mette a sognio» 4
chiude casa e parte per la Superba, perché le accorate parole d’invito del compagno la
convincono ad affrontare quest’avventura in una città non certo facile che Caterina cercherà
di non lasciare neppure dopo la morte del marito, avvenuta nel marzo del 1700 5.
Anche le donne della famiglia Beccaria di Coldrerio prediligono la vita cittadina, anzi
dell’Urbe, dove «anche gli siocchi si rafinano» 6 e dove chi ha successo dimentica la propria
patria, come accaduto al Maderno, al Borromini o ai Fontana 7. Giovanna sposa Matteo
Miranino di Mendrisio e, dopo la nascita del primogenito, nel 1639 raggiunge il marito a
Roma e si stabilisce nella casa dei fratelli architetti, e lì ha altri 4 figli. Francesca nel 1642 si
unisce a Pietro Antonio Pozzi; ugualmente lo segue a Roma dove ha 3 figlie. Quando nel
1650 Pietro viene ucciso, lei torna in patria con le piccole, ma, dopo il 1667, quando due
sono accasate, Francesca, con la terza figlia Giovanna, torna a vivere a Roma, presso i
fratelli, e ci resta fino al 1675 8. Roma diventa la città anche di Anna Belloni sposa di mastro
Francesco Ronca, e di Camilla figlia del nobile Giulio Ghiringhelli che, maritatasi nel 1618
con Geronimo Pustera di Stabio, preferirà restare nella capitale anche dopo la morte
delcompagno.
Quanto a Caterina Cantoni, i debiti ipotecari la costringono a rimpatriare, e le spese di
famiglia a sacrificare la loro più importante proprietà terriera per costruire il futuro dei figli,
un apprendistato per i maschi, un’adeguata dote per le femmine 9. Queste donne, che non di
rado sanno leggere, scrivere e far di conto e spesso hanno la servitù, imparano a gestire i
destini di casa, come dimostra un’altra figura femminile della famiglia Beccaria, Margherita
Pozzi, moglie di Giovanni, che rimasta vedova prima del 1651, prende su di sé tutto il peso
dell’educazione dei figli, la conduzione dell’osteria e dei beni di casa, responsabilità che
toccano a lei, «donna avveduta e capace» 10. E se per Caterina la fatica di riadattarsi ad una
vita di periferia è mitigata dall’affetto dei figli e dei parenti, ben più triste il destino della
cognata, un’altra Caterina, Caterina Garibaldi, nata a Chiavari, vedova di Antonio e con un
solo figlio «conditionato» che dovrà abbandonare a Genova nell’ospedale degli incurabili 11,
per rifugiarsi a Cabbio dove ha ereditato qualche stanza della casa avita e una crosta di terra,
4 La lettera è stata trascritta per esteso in S. Bianchi, I Cantieri dei Cantoni. Relazioni, opere, vicissitudini di una
famiglia della Svizzera italiana in Liguria (XVI-XVIII), cap. 4, L’alchimia del vivere tra casa e cantiere, di prossima
pubblicazione.
5 Un appunto conservato fra le carte del fondo Cantoni-Fontana e l’inventario di sostanza redatto al suo
ritorno, indicano quale anno di riferimento il 1706.
6 G. Martinola, Lettere dai paesi transalpini degli artisti di Meride e dei villaggi vicini (XVII-XIX), Bellinzona, 1963, p.
XXI.
7 Si vedano rispettivamente M. Kahn-Rossi, M. Franciolli (a cura di), Il giovane Borromini. Dagli esordi a San Carlo
alle Quattro Fontane, Milano, 1999; M. Fagiolo, G. Bonaccorso (a cura di), Studi sui Fontana: una dinastia di
architetti ticinesi a Roma tra Manierismo e Barocco, Roma, 2008.
8 Morirà due anni più tardi a Coldrerio; cf. G. e G. Solcà, I Beccaria di Villa Coldrerio e la chiesa della Natività di
Gesù, Coldrerio, 2004, p. 72.
9 Cf. Archivio Bacciarini Zeli (in seguito ABZ), 15 marzo 1712. Caterina Fontana vedova di Pietro Cantoni
vende ai Ceppi i beni di Morbio per scudi 115 d’oro, 22 serviranno per il matrimonio di Anna Ursina, altri
«per il cammino di Giuseppe a Napoli per apprendere l’arte mercatoria», il resto, scudi 93, restano in deposito
presso il compratore.
10 Solcà, I Beccaria di Villa Coldrerio, cit., p .71.
11 Cf. CCC, lettera di Taddeo Cantoni alla cugina Caterina, vedova di Antonio Cantoni. Genova, 28 settembre
1719: «vostro figlio lui è venuto del tutto matto, è conditionato sta legato è tutto quello che umanamente se li
puo fare se li fa è di avantagio non si puo fare e se voi volete venire a Genova a pigliarlo fate come volete».
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poche risorse per tirare avanti che si aggiungono alla rendita del mezzano di Genova 12; un
destino ben più crudo che si conclude in una valle che di genovese ha qualche ricordo,
portato da questi migranti, che si intravede in un’edicola mariana o nella volumetria della
stessa casa di famiglia che si ispira ai palazzi di Strada Nuova 13.
E il destino di Caterina Garibaldi è condiviso da altre giovani incontrate da architetti,
capimastri, decoratori e plasticatori, ovvero l’aristocrazia dell’emigrazione, nelle città d’Italia
e d’Europa. Preferibilmente veneziane, ma pure bresciane o piacentine, sono le spose che si
portano a Bissone i casati più importanti del piccolo borgo lacustre: i Gaggini, i Camanedi, i
Garovaglio e i Castelli 14, mentre più di una sposa di mastri della valle di Muggio è
soprannominata la genovese, forse perché conosciuta nella terra di adozione o forse proprio
perché, accompagnando il marito, si è integrata nella realtà urbana da cui ha tratto nuove
abitudini. Un’ulteriore testimonianza di queste rinnovate presenze femminili ci viene dai
registri parrocchiali in cui, specialmente per gli ultimi decenni del Cinquecento e per buona
parte del Seicento, ai consueti nomi di battesimo, Maria, Caterina, Giovanna, se ne
aggiungono di più altisonanti, Lucrezia, Elisabetta, Diamante, Pantasilea.
D’altro canto alle mogli che seguono i mariti, innanzi tutto, si chiede un comportamento
adeguato «la prego di non andare fora di Cabio a girare senza causa si avverti di fare piu
misicia (amicizia) a quela persona che sa che ò proibito se vole che la meni a Gienova»,
come ordina nel 1756 Francesco Maria Cantoni alla nuora Zefirina 15, e un abbigliamento
che si intoni con la moda cittadina, come suggerisce Pietro Lorenzo Cantoni al genero
Giuseppe Fontana che si appresta a partire «mi ha ralegrato la risoluzione da lei presa di
portarsi in Genova, avarei a caro che seco portasse il Gaietanino mentre qui avrò modo
meglio di tirarlo avanti nelli studi [...] Dirà a mia moglie che venghi vestita all’uso genovese e
non diferente» 16.
Le donne vanno e vengono anche dalla Corsica, meta di un ramo dei Fontana di Cabbio.
Per una Prudenza che parte e regala una stanza di casa ai fratelli forse prevedendo un
improbabile ritorno 17, c’è una Lucrezia Fioravanti 18 che arriva, così come altre donne che
Cf. CCC, lettera di Taddeo Cantoni alla cugina Caterina. Genova, 27 maggio 1725.
«Carissima cugina
Io ò inteso che abiate fatto il testamento et avete lasciato erede vostro nepote il signor Giuseppe Cantone qd.
Pietro et dico che abiate fatto benissimo il quale lui è di lunga mane che vi puo agiutare asai et asai piu che me
e puoi siatte padrona del vostro et fatte come volete. Io ve mando tutto il conto destinto di tuttto quello che
io ò riceputo della pigione del vostro mezano dico avere riceputo sina tutto Aprile 1725 lire £ 402.2 moneta
di Genova pagata in piu e piu volte a voi mandatti a casa £ 392.3 moneta simile di Genova. Resto debitore di
£ 9.19 dele quale vorebe cominciasse a tratenerle a conto dela mia mercede che sete obligatta di giusta
giustitia a pagarme ma per non cominciare subito a strangolarvi ne voglio farmi vedere di esere piu che
galantomo e piu di parola che siete voi con me ve mando le sudette lire 9.19 come sopra di Genova e de
milano le riceverete per mane di mia figlia Maria Domenica».
13 Cf. S. Bianchi, T. Meyer, La casa Cantoni di Cabbio, Mendrisio, 2003.
14 Cf. Archivio parrocchiale di Bissone, Registro dei defunti 1622-1732, p. 15, attestato di morte di Lucrezia,
veneta, vedova di Giovanni Battista Gaggini, e di Marta, bresciana, moglie di Eugenio Comanedi; Archivio di
Stato del Cantone Ticino (in seguito ASTi), Notarile 27, 1633 rogito relativo ai beni di Margherita, moglie di
Giovanni Pietro Gaggini, di Venezia come Lucietta vedova di Andrea Castelli, secondo la procura del 1634 di
Eugenio Comanedi; sull’argomento cf. S. Bianchi, Francesco Castelli e il suo tempo, in Kahn-Rossi, Franciolli, Il
giovane Borromini, cit., pp. 27-32. ASTi, Notarile, da un documento del 1678, rogato da Giuseppe Rusca, si
desume che Bernardo Falconi di Rovio, abitante a Bissone è sposato con Lucia, veneziana; analogamente
secondo il testamento del 1687, il picca preda, Gian Pietro Garovi risulta ammogliato a Cossina, fu Antonio
Villani, di Piacenza.
15 Cf. ABZ, 19 giugno 1756.
16 Cf. ASTi, Cantoni-Fontana, 24 gennaio 1756.
17 Cf. ASTi, Notarile 3218, primo dicembre 1642. Inventario dei beni dei fratelli Fontana che risiedono a
Roma: «una stanza sopra la cucina, dove dorme la serva di casa, una donata da Prudenza quando andò in
Corsica», forse persuasa che si tratta di una partenza senza ritorno.
18 Cf. ASTi, Notarile 536, 28 giugno 1690. Procura di Lucrezia Fioravanti di Mausoleo de Brando, pieve di
Bastia, vedova di Fabrizio Fontana, a favore del figlio.
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invece non accompagnano i Signori dell’edilizia 19, ma uomini venuti a controbilanciare i
vuoti lasciati dalle maestranze che sciamano nelle città d’Europa, nelle attività agricole e
nell’uso dei boschi da lavoro, pastori e carbonai che provengono dalle valli superiori del
Canton Ticino, dal novarese o dalla bergamasca 20.
Sono Giovanna Gervasona della Val Brembana, fantesca della famiglia Cantoni durante
l’assenza di Caterina o Margherita Casarotti di Cimalmotto, vedova di Filippo Pontoni di
Campo Valle Maggia, che nel 1716 fa testamento a Cabbio 21.
Certo, per delle cittadine, inoltre, non doveva essere facile adattarsi alla quotidianità di un
paesino di valle o di pescatori, e di condividere questa quotidianità con la nuova famiglia,
quella del marito, perché la donna che parte per molti aspetti «rinuncia» alla propria 22.
Non doveva sempre essere semplice neppure la situazione inversa, dato che questi mariti
sono sempre presi da impegni di cantiere, per cui non resta che seguirli anche lì o accettare
la solitudine, come rivelano le lettere. «Vostra madre ha fatto il miracolo di venire la prima
volta in Polcevera con la cugina Zefirina per 15 giorni… Ha visto finire l’ultima arcata del
ponte di San Francesco»23, scrive nel 1776 al figlio Simone, Pietro Lorenzo Cantoni, mentre
nel 1792 la nuora, Anna, moglie del suo secondogenito Gaetano, così si rivolge alla sorella
che invece preferisce starsene a Muggio: «vivamente desidero che a Dio piacendo, che un
qualche momento vi rimanesse vacuo da poterlo impiegare a mia grandissima consolazione
dandomi vostre notizie non meno che dei Signori amabilissimi nostri genitori e del Signor
curato, narrandomi le vicende della vostra gravidanza e per vostro e mio diporto
aggiungendo notizie del Paese: sappiate che nella solitaria vita, che volontariamente faccio,
sarebbe questo il più caro degli innocenti trattenimenti che desidero e ne quali mi occupo» 24.
È la volontaria solitudine che scandisce la vita di altre mogli che hanno accompagnato lo
sposo; e non sono poche 25 se si pensa che la letteratura sull’emigrazione tende a situare la
moglie accanto al focolare del paese natio o sugli alpi con la gerla sulle spalle, condizione
sociale che può valere per l’emigrazione povera 26, ma che non convince in un contesto di
benessere, fatto che già il Füssli – e siamo nel tardo Settecento – sottolinea a proposito dei
Carloni di Scaria. Infatti, a differenza di molti altri artisti o meglio artigiani migranti, Carlo
Innocenzo Carloni porta con sé la compagna, Caterina Corbellini, che gli è accanto durante i
prolungati soggiorni prima a Vienna, quindi a Praga, segno di integrazione nella società
asburgica e nel contempo di successo professionale 27.
Altro segno dello status sociale raggiunto è, negli atti notarili e nelle partite d’estimo, il titolo di Dominus
che subentra a quello di mastro. Si veda la comunicazione Qui in Genova e in codesti paesi per gratia del Signore
abiamo crediti da tutte le parti e ne faciamo ogni giorno. Cf. nota 1.
20 Cf. R. Ceschi, Migrazioni dalla montagna alla montagna, in «Archivio storico ticinese», 111, pp. 5-36. Spesso già
dopo due generazioni anche queste nuove famiglie si aggiungono alla filiera migratoria. Cf. S. Bianchi, Partir
per Genova. Il contributo di alcune maestranze della Valle di Muggio al settecentesco rinnovamento edilizio della città.
L’esempio dei Cantoni: una prima indagine, in J.-F. Chauvard, L. Mocarelli (a cura di), L’Èconomie de la construction
dans l’Italie moderne, Roma, 2008, pp. 287-299.
21 I Gervasoni giungono in Valle nel 1694, all’indomani della partenza di Caterina; il marito si occupa delle
loro terre, mentre la moglie cura l’amministrazione di casa, tasse comprese.
22 F. Chiesi, Itinerari femminili di un’élite commerciale, in «Bollettino Storico della Svizzera italiana», 110, pp. 43-69,
p. 49.
23 ASTi, Cantoni-Fontana, 1/1, Genova, 25 ottobre 1776. Lettera di Pietro Lorenzo Cantoni al figlio Simone
a Muggio.
24 ASTi, Cantoni-Fontana, 12/75, Genova, 16 agosto 1792. Lettera di Anna Cantoni alla sorella Giuseppina a
Muggio.
25 Anche se il contesto è molto diverso, si consideri in termini comparativi il saggio di G. Ferigo, Le cifre, le
anime. Un saggio di demografia storica, in G. Ferigo, Le cifre, le anime. Scritti di storia della popolazione e della mobilità in
Carnia (a cura di Lorenzini C.), Udine, 2010, pp. 3-46, p. 39.
26 Cf. R. Merzario, Il paese stretto. Strategie matrimoniali nella diocesi di Como secoli XVI-XVIII, Torino, 1981; Idem,
Adamocrazia. Famiglie di emigranti in una regione alpina (Svizzera italiana, XVIII), Bologna, 2000. In termini più
generali, si veda O. Hufton, Destini femminili. Storia delle donne in Europa 1500-1800, Milano, 1996, pp. 138-140.
27 Cf. S. Colombo, S. Coppa, I Carloni di Scaria, Lugano, 1997, pp. 28 e 51.
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Anche Luca Antonio Colomba di Arogno ha trovato la sua nicchia in questa società,
cosicché la moglie Annamaria, vedova, resta dove sono i figli 28.
Le spose scelte
Altrimenti l’integrazione e il successo professionale si affermano proprio mediante il
matrimonio con una giovane incontrata nella nuova patria: dunque donne che seguono i
mariti, ma anche uomini che restano dove hanno trovato moglie.
Di nuovo la città che più conquista il cuore è l’Urbe, che per molti casati del Mendrisiotto
diventa la nuova o, perlomeno, la seconda patria. È il caso dei diversi ceppi di Fontana
comprendenti quelli di Melide, i Fontana della Brusata di Novazzano e i seppur meno noti
Fontana di Cabbio, che mettono in atto l’economia dell’assenza, creando discendenze
romane senza però compromettere l’esistenza del fuoco in terra natia 29. Altrettanto avviene
in casa Guglielmetti; nel corso del Cinquecento gli uomini che partono da Castel San Pietro
raramente tornano e mogli e figlie sono o si considerano romane 30.
La stretta relazione fra successo, integrazione e matrimonio si ripete anche oltralpe, ed è
quanto si ricava anche dal carteggio degli Oldelli di Meride e dei Pozzi di Castel San Pietro.
Francesco Antonio Giorgioli da Coburgo, il 18 novembre del 1691, così scrive ad Alfonso
Oldeli: «anno inteso de Paesani che sono venuti di queste parti come il signor Nicolao
Carcano si è maritato a Branswick, legame tale che chi non à del tutto niente in patria più
non ci ritornano, massime chi si lega con le tedesche, come tutti l’altri simili seguiti ne
mostrano l’esempio» 31, mentre Giovan Battista Clerici da Lubecca il 7 febbraio 1705 lo fa
partecipe del suo timore che un compaesano intenda stabilirsi definitivamente nella città:
«Questo Signor Antonio Petrini è architeto dela cità di Lubeck et è nativo della val di
Muggio, di Canegio, il quale è moliato in Lubeck et ha filioli grandi», quindi aggiunge che si
è «tanto slontanato dalla patria» e che non vi torna «come fano gli altri», perché «sente di
aver acciuffato la fortuna e non vuol perderla» 32.
Giuseppe Pozzi, invece, prende residenza definitiva in Mannheim e i suoi discendenti,
maschi e femmine, consolidano questa scelta, come appare dalla lettera spedita nel 1811 da
un certo Söller maritato con Teresa, una delle figlie di Giuseppe, allo zio Carlo Luca che
aveva richiesto notizie della famiglia del fratello, morto appunto in quell’anno 33.
Fama e matrimonio anche per Francesco Mocino, oriundo della val Verzasca, artista molto
ricercato che assume la cittadinanza di Cracovia nel 1622 e quindi si accasa con una
28 Cf. L. Pedrini Stanga, I Colomba di Arogno, Lugano, 1998, da cui si evince che alcune donne di mastri si
fanno sostituire nel ruolo di madrine ricorrendo a volte alla domestica; ad esempio, p. 196, il 13 dicembre del
1757 al battesimo del figlio di Domenico Colomba e Margherita Retti, fa da madrina Rosa Verda secondo la
procura di Annamaria, che è la sua padrona (p. 198, Stato delle anime del 1785, in cui Rosa figura come
serva).
29 Nell’ambito delle diverse famiglie Fontana, i giovani si accasano con donne romane tranne uno, non
necessariamente il primogenito, che è garante della continuità del casato in patria. Si veda l’importante saggio
sui Fontana e sulle maestranze a Roma nel Seicento di Fagiolo, Bonaccorso, cit., che prende in esame
l’operato dei molteplici casati, attivi a Roma e non solo. Manca però una riflessione sui Fontana di Cabbio che
pure, perlomeno nella prima metà del Seicento, lavoravano in cantieri di prestigio. Cf. Bianchi, I Cantieri, cit.,
ad esempio sono impegnati in Santa Maria Maggiore, e sono quasi tutti sposati con romane. I nomi delle
spose romane sono altisonanti e degni del titolo di Cavaliere, titolo di Domenico e più tardi di Carlo Fontana;
cf. W. Eisler, Carlo Fontana and the maestranze of the Mendrisiotto in Rome, in Fagiolo, Bonaccorso, cit., p. 383.
30 Ringrazio Mirko Guglielmetti per aver condiviso le sue riflessioni sulle scelte operate dai suoi avi, secondo
quanto da lui ricostruito mediante un articolato albero genealogico. Secondo l’autore, approssimativamente
fino al 1570 gli uomini partivano da soli e pochi rientravano (segno che sceglievano la sposa straniera); in
seguito anche le mogli, se non sono già romane, seguono il compagno e diventano cittadine.
31 Martinola, Lettere, cit., p. 63.
32 Ibid., pp. 18-19.
33 M. Medici, I Pozzi artisti di Castel S. Pietro, Bellinzona, 1946, pp. 6-7.
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borghese, Dorata Kurowna; successo e matrimoni anche per Tommaso Poncino, architetto
di origini luganesi morto a Varsavia nel 1659, che ha ben quattro mogli, tutte polacche, e
numerosi beni immobiliari nella capitale, a Kalisz, a Lowicz e a Poznam 34. Andrea Castelli,
scultore di Melide, non solo ha la moglie polacca ma anche l’amante, la donna di servizio
della casa di loro proprietà sempre a Cracovia 35.
La Polonia è pure la meta dei Pagano e dei Fontana, entrambi della Valsolda, ma, mentre
Paolo Pagano si porta appresso la moglie 36, Paolo Antonio Fontana sposa una giovane del
luogo, Marianna Suffczynska, che gli darà otto figli; tuttavia deciderà di mandare dalla madre
i due figli maschi, Giovanni e Giuseppe, affinché completino in Italia la loro formazione
professionale, affidandoli per il viaggio ad un compaesano, Giovanni Battista Stretto
stagnaro in Leopoli, che rientrava in patria proprio per prender la moglie e condurla con
sé 37, perché anche dall’Europa orientale le mogli vanno e vengono.
Anche gli artisti che hanno raccolto onori in Russia tendenzialmente o sono accompagnati
dalla moglie o si accasano in loco, soluzioni entrambe dettate dalla distanza fra paese natio e
città degli zar.
Gli architetti Gilardi che vivono a Mosca hanno appresso la famiglia, così come Tommaso
Corti di Aranno che nel 1771 torna in patria per sistemare i beni e portare con sé moglie e
figli in Russia, dove viveva pure Giovanni Rusca con la moglie Cristina e Domenico
Visconti sposato con Giuseppina Avanzini, che da Pavlovski corrisponde col suocero
rientrato in patria. Altri Visconti sono a San Pietroburgo con moglie e prole, ma altrettanti
rampolli delle casate che hanno reso famosi i ticinesi in Russia, si sono legati a donne del
posto. Sono Leopoldo Carloni, Leone Adamini, Giovanni Barbieri, Vincenzo Maderni,
Santino Beccaria, Giorgio Ruggia, forse partiti dal paese natale con il desiderio che
accomuna i migranti, quello di tornar presto e farsi una famiglia 38.
Progetti e destini
Nella società d’età moderna la famiglia nasce da donne che si collocano e maschi che si
accompagnano 39 a conferma del ruolo complementare femminile. Si assiste tuttavia,
nell’ambito delle maestranze, ad una progettualità che va oltre alla suffragata dicotomia che
vede in quest’economia dell’assenza, l’uomo produttore di rendite monetarie e la donna
produttrice di servizi, secondo un’alchimia giocata fra casa e luoghi stranieri dove c’è
l’opportunità di esercitare il proprio mestiere.
Come si è constatato, fra i gruppi artigianali più specializzati e fra i ceti mercantili benestanti,
il gioco dei ruoli non è così scontato, come neppure le regole secondo cui doverosamente il
migrante torna in patria per scegliere la moglie che lì rimaneva ad allevare i figli e a lavorare
nei campi, con rassegnata consapevolezza che quelli erano il suo ruolo e il suo posto.
M. Karpowicz, Artisti ticinesi in Polonia nella prima metà del Seicento, Lugano, 2002, rispettivamente pp. 39 e
201-202.
35 Ibid., pp. 155-156.
36 Dal suo matrimonio con Antonia, il 26 agosto 1694 nasce a Kromeriz il primogenito Angelo. Cf. A.
Morandotti, Paolo Pagani e i Pagani di Castello Valsolda, Lugano, 2000, p. 100.
37 Cf. J. Skrabski, La biografia di Paolo Antonio Fontana alla luce di nuovi documenti di archivio, in Fagiolo,
Bonaccorso, cit., pp. 411-416.
38 Cf. N. Navone, Sulle rive della Neva, Mendrisio, 2009.
39 Entrambi i termini sono stati desunti dalle lettere dei Cantoni. «Collocare» è il verbo usato come sinonimo
di accasare; diversamente per gli uomini «accompagnarsi» significa proprio l’avere una compagna, anche se
non sempre può essere la soluzione ideale come, in una lettera al padre, dichiara chiaramente Rocco Cantoni,
che intende dissuaderlo dal costringere i fratelli minori a sposarsi: «Riguardo a li fratelli che stano per la
Marcha non vi prendete fastidio per farli venire a casa per compagnarsi non e ben fatto perche se li tocha di
fare la vita mi tocha fare me mi dispiacerebe» (CCC, Napoli, 19 giugno 1770).
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Si può inoltre notare che una buona parte di coloro che nei trend demografici
corrispondono ai cosiddetti «dispersi», lo sono volontariamente, perché il successo
professionale e la scelta di una compagna straniera li radicano nel paese d’adozione.
Gli altri dispersi sono fondamentalmente i falliti, quelli che non tornano o perché non
hanno i mezzi o perché vogliono essere dimenticati. Dispersi e disperse, ovvero le donne
«sortite all’estero per effetto di matrimonio» 40, non sappiamo in che misura secondo una
scelta indotta o spontanea, anche se i pochi esempi trovati fra le carte di famiglia portano a
pensare che vi fosse un margine di discrezione concesso alle spose 41.
Allora, quando si seguono i mariti? Le ragioni vanno cercate in un insieme di concomitanze:
il successo professionale del compagno, tale da garantire una certa qualità di vita cittadina 42;
la distanza fra luoghi d’origine e meta che determina spesso anche la durata dell’assenza; il
contesto socioculturale cui si approda fatto di abitudini, lingua e religione 43; la comune
progettualità di dar vita a nuove discendenze, forti del fatto che altri e altre mantengono in
patria il fuoco acceso; e naturalmente la personalità e l’indole che inducono alcune giovani
ad afferrare nuove opportunità, altre a preferire la monotona ma sicura quotidianità di
villaggio44.
M. Redaelli, P. Todorovic, Montagnola San Pietroburgo: un epistolario della Collina d’Oro, 1845-1854, Montagnola,
1998, p. 186.
41 Si tratta di una complessa problematica perché, per ipotizzare se vi sia volontà effettiva, occorre considerare
la posizione della donna rispetto alla famiglia d’origine e a quella acquisita, il suo grado di subordinazione, il
«silenzio delle fonti»; cf. C. Grandi., Emigrazione alpina al femminile: lo spazio del possibile (secc. 17-20), in «Histoire
des Alpes», n. 3, 1998, pp. 49-62, in particolare pp. 51-52 e 56.
42 Tendenzialmente la donna segue il marito dopo pochi anni, non di rado dopo la nascita del primo figlio.
43 Sotto questi aspetti i «paesi tedeschi» risultano i meno accattivanti; diversamente nell’ortodossa Russia la
lingua di comunicazione è il francese e le comunità sono forti, con propri quartieri residenziali.
44 Il coraggio e lo spirito di avventura delle donne sono temi che ritroviamo anche in R. Martinoni, Il paradiso e
l’inferno. Storie di emigrazione alpina, Bellinzona, 2011.
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Impronte
Implicazioni nello spazio natio del casato mercantile Pedrazzini
di Campo Vallemaggia (XVIII-XIX s.)
Francesca Chiesi Ermotti
Premessa
La ricca documentazione conservata negli Archivi delle Famiglie Pedrazzini di Locarno e
studiata nel contesto di una ricerca di dottorato riferisce delle vicende di un casato di
mercanti alpini, attivi per più di un secolo in fiorenti centri tedeschi e nella città di Kassel in
particolare 1. Emigrati come altri conterranei a nord delle Alpi nel corso del Settecento, i
Pedrazzini di Campo Vallemaggia hanno gestito fino alla sua chiusura negli anni 1830 un
redditizio negozio di prodotti coloniali sotto la ragione sociale Gaspard Pedrazzini & Fils,
fondato nella città del landgraviato di Hesse-Kassel. La loro vicenda imprenditoriale, che
presenta diverse analogie con le iniziative di altri casati di commercianti nelle Alpi italiane, è
contraddistinta dalla sovrapposizione tra impresa e famiglia, dalle peculiarità di una
circolazione transnazionale costruita sugli andirivieni degli eredi tra il villaggio d’origine e la
città tedesca, dalle specificità di un progetto gestionale fondato sulla disponibilità dei
parenti ad assumere a turno la direzione dell’impresa, e dal legame forte con la patria che
impedisce loro di inserirsi durevolmente nel tessuto cittadino e di integrarvisi, spingendoli a
riprendere sempre il cammino che li riporta nella terra natia 2. La chiusura endogamica unita
a una fecondità familiare importante, così come le unioni concluse all’interno del gruppo
socio-professionale di mercanti migranti hanno favorito il mantenimento di un sistema
fortemente personalizzato e saldamente ancorato al gruppo di parenti. Traendo la sua
vitalità da una densa rete di scambi animata da commercianti sudalpini, questo sistema
poggia su collaborazioni che uniscono Kassel a Paderborn, Francoforte, Ansbach,
Heidelberg, Mannheim e Magonza 3.
Questo breve saggio espone alcune delle riflessioni maturate nell’ambito di una tesi di dottorato, che
coniuga storia della famiglia e storia dell’emigrazione alpine in epoca moderna, diretta congiuntamente dal
prof. F. Walter dell’Université de Genève e dalla prof. S. Cerutti dell’EHESS (Paris). Altri aspetti di questa
ricerca sono stati illustrati in un precedente contributo, consacrato alla Progettualità migratoria e conflitti intestini in
un casato alpino. I Pedrazzini di Campo Vallemaggia (XVIII-XIX s.), in «Percorsi di ricerca. Working Papers»,
Laboratorio di Storia delle Alpi (LabiSAlp), 1/2009, p. 19-29 (http://www.arc.usi.ch/ra_2009_01.pdf).
2 L. Lorenzetti, Les élites «tessinoises» du XVIIe au XIXe siècles: alliances et réseaux familiaux, in A.-L. Head-König,
L. Lorenzetti, B. Veyrassat (dir.), Familles, parenté, réseaux en Occident (XVIIe-XXe siècles). Mélanges offerts à Alfred
Perrenoud, Genève, 2001, p. 207-226; Id., Controllo del mercato, famiglie e forme imprenditoriali tra le élite mercantili
sudalpine, dalla fine del Cinquecento al Settecento, in S. Cavaciocchi (a cura di), La famiglia nell’economia europea secoli
XIII-XVIII, Atti del convegno dell’Istituto Internazionale di Storia Economica «F. Datini», Firenze, 2009, pp.
517-526
3 Inserendosi nel solco già ben tracciato di una vasta corrente storiografica che si è occupata di migranti partiti
per mete lontane e di minoranze straniere provenienti da aree montane attive in fiorenti centri urbani, l’analisi
si nutre delle peculiarità di un caso di studio che si distanzia sotto alcuni aspetti dalle esperienze di cui si è
scritto, fornendo originali spunti di riflessione. Tra le letture su cui si basa la riflessione sviluppata in queste
pagine, di particolare interesse per questo studio sono la ricca opera collettanea curata da P. Corti, M.
Sanfilippo, Migrazioni, Torino, 2009; le ricerche sulle comunità di migranti di M. Schulte Beerbühl, Deutsche
Kaufleute in London. Welthandel und Einbürgerung (1660-1818), Monaco, 2008, e di K. Weber, Deutsche Kaufleute im
Atlantikhandel 1680-1830. Unternehmen und Familien in Hamburg, Cádiz und Bordeaux, Monaco, 2004; la ricca
sintesi di A. Crespo Solana (dir.), Comunidades transnacionales: colonias de mercaderes extranjeros en el Mundo Atlàntico
(1500-1830), Aranjuez, 2010; il prezioso volume collettaneo di P.-Y. Beaurepaire, P. Pourchasse (dir.), Les
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Di un’indagine complessa consacrata ai percorsi commerciali del casato Pedrazzini si è
scelto di riassumere in questa occasione i risultati emersi da ricerche recenti, sebbene queste
non illustrino che parzialmente l’esame in corso. Privilegiando le conclusioni a cui si è
giunti ultimamente a scapito di tematiche forse maggiormente evocatrici, si vorrebbe
soffermarsi in questo contributo sull’analisi degli indizi che definiscono l’originalità della
traiettoria di una famiglia di emigranti in un contesto di forte mobilità come quello delle
valli sudalpine nel Settecento 4. Nella scelta di abbandonare provvisoriamente la trattazione
di tematiche in cui sia presente con più chiarezza l’esperienza del viaggio e
dell’imprenditorialità estera, si è voluto consacrare queste pagine all’esame di una serie di
segni quasi impercettibili raccolti dallo studio di fonti ecclesiastiche. Questo contributo si
prefigge di analizzare le tracce lasciate nell’ambito locale dall’intraprendenza migratoria del
casato Pedrazzini, indagando le gerarchie del prestigio, della reputazione e del potere locali.
In una cornice caratterizzata da una solida tradizione di emigrazione, si vorrebbero definire
con più precisione le peculiarità del ruolo assunto dalla famiglia studiata e se questo abbia
effettivamente iscritto nella memoria del villaggio la loro preminenza e il loro primato,
attestati per altro dallo sguardo ammirato dei vescovi che vi si sono recati in visita 5.
Sorvolando sulle ragioni di un’ascesa e di un’affermazione degne di nota, precisatesi grazie
al successo dei traffici tedeschi e in particolar modo della ditta Gaspard Pedrazzini & Fils con
sede a Kassel, si affronteranno qui le implicazioni della loro presenza nello spazio alpino.
La ricerca dei segni che l’operosità e il coinvolgimento della famiglia hanno lasciato nella
trama degli eventi della storia valmaggese dice del desiderio di intervenire nella vita della
comunità natia e di esercitarvi parte di quel potere che le ricchezze ingenti hanno loro
conferito, in forza di un’autorevolezza che deriva da un’intraprendenza mercantile svolta
altrove. Numerosi sono gli esempi in cui l’universo dell’emigrazione e dei commerci
tedeschi si innesta nella realtà comunitaria montana, offrendo all’osservatore la ricerca di
soluzioni inedite di un’«urbanità alpina» 6. Tra questi, si è scelto di metterne in luce in
particolare tre, che per la pregnanza di significato trattassero attraverso l’attribuzione di un
titolo onorifico, le pratiche del padrinato e i costumi sepolcrali dell’immagine del casato
nell’ambito comunitario di provenienza.
«Domini» campesi
Per approfondire il dialogo avuto dai Pedrazzini con le altre autorevoli voci della società
locale al fine di coglierne le gerarchie costitutive e i rapporti di potere, ci si è avvalsi
innanzitutto di un aspetto in apparenza minore, emerso consultando i registri settecenteschi
dei battesimi della parrocchia di S. Bernardo a Campo: la ricorrenza significativa del titolo
di «dominus» o «domina» attribuito ai nomi di alcuni abitanti del villaggio 7. L’appellativo,
che si presume onorifico e inteso a designare una persona di spicco nell’ambito
comunitario, è associato sia ai genitori dei battezzati che ai padrini e alle madrine, benché
circulations internationales en Europe, années 1680-années 1780, Rennes, 2010; nonché il recente libro di C. H.
Johnson, D. W. Sabean, S. Teuscher, F. Trivellato (ed.), Transregional and transnational families in Europe and
beyond: experiences since the Middle Ages, New York, 2011.
4 C. Maitté, Mobilités internationales de travail en Europe du Sud, v. 1680-1780, in Beaurepaire/Pourchasse, Les
circulations internationales en Europe, cit., pp. 37-54.
5 Nella descrizione della visita effettuata nel giugno 1761 da monsignor Giovanni Battista Albricci-Pellegrini,
vescovo di Como, si annota: «Inter cæteras familias huius loci sunt familiæ de Petracinis fortunæ bonis valde
divites, et humiles, quæ continuo hic commorantur, suntque ecclesie [prefa.te] benefactores». Mons. Giovanni
Battista Albricci-Pellegrini, Visite Pastorali, Archivio diocesano di Lugano, 1761, scatola 43, p. 4v.
6 R. Ceschi, La «città» nelle montagne, in «Histoire des Alpes», n. 5, 2000, pp. 189-204.
7 Registro dei battesimi della Parrocchia di San Bernardo, Campo Vallemaggia, vol. 2, 1666-1850, Archivio
Diocesano di Lugano, Parrocchia di Campo Vallemaggia, Scatola 1 (Battesimi, Matrimoni, Stato d’anime).
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l’analisi prediliga questi ultimi. Ci si deve interrogare sulle ragioni della sua attribuzione ai
membri di alcune famiglie campesi, nella fattispecie a eredi del casato, per stabilire quando
esso sia divenuto ricorrente per identificare notabili del luogo o illustri visitatori. Se si
eccettuano gli ecclesiastici cui il titolo è sempre conferito dai compilatori dei registri 8, le
prime occorrenze per designare così i Pedrazzini datano del 1744 per gli uomini e del 1757
per le donne. Tra gli uomini insigniti della qualifica nel ruolo di padrini è soltanto a partire
dagli anni 1760 che l’appellativo è utilizzato in modo sistematico nei libri parrocchiali.
All’infuori degli ecclesiastici (menzionati in 3 casi), tra il 1740 e il 1800 nel novero dei
padrini scelti tra i membri del casato Pedrazzini cui ci si riferisce come a dei «domini» 9
compaiono 116 uomini. Se raffrontati ai 27 laici e ai 14 ecclesiastici non appartenenti alla
famiglia e così qualificati tra i padrini, emerge come questo titolo designi di preferenza dei
discendenti del casato mercantile. Aureolati del prestigio che dalla qualifica emana, gli
uomini Pedrazzini vengono investiti di un’autorevolezza che ne sancisce la preminenza alle
origini, distinguendo il loro percorso familiare da quello di conterranei pur influenti.
Per quanto riguarda il titolo assegnato a figure femminili, esso assume una valenza
particolare per una «domina» con il ruolo di madrina e non unicamente quale madre del
neonato accanto al marito. Negli anni 1740-1800, le madrine designate quali «dominæ» dal
compilatore del libro dei battesimi sono 17 10. Le menzioni repertoriate si riferiscono
prevalentemente a vedove, a conferma di un protagonismo spiccato nelle vesti di madri
spirituali di donne sopravvissute al coniuge accanto a donne nubili (seppur meno
rappresentate), mentre a quelle sposate si preferisce il marito, dietro il quale esse si
eclissano. La parsimonia con cui il titolo è assegnato a figure femminili, più frequentemente
indicate con lo statuto di figlia o di moglie di un «dominus», suggerisce come la qualifica
incarni un’autorevolezza che meglio descrive la posizione conquistata dalla vedova
nell’assenza del marito. Avvalorando le considerazioni espresse a proposito dei padrini, la
maggior parte dei casi recensiti di madrine insignite del titolo riguarda gli anni 1760 e più
particolarmente il periodo 1764-1768, fase in cui in assoluto le occorrenze sono più
numerose. Esaminando – per apprezzare il dato su scala locale – le ricorrenze segnate nel
volume tra il 1740 e il 1800, si nota come l’appellativo riferito a una madrina sia
appannaggio quasi esclusivo del casato nella cornice della parrocchia campese (su 20
occorrenze, 2 soltanto riguardano un’erede Fantina, mentre un altro caso concerne una
Pontoni, forse tuttavia vedova di un Pedrazzini). L’appropriazione da parte delle donne
Pedrazzini della qualifica di «domina» le avvolge nella stessa aura di distinzione che
circonda padri e mariti, associandole al loro percorso di affermazione nel contesto locale.
Ampliando l’analisi dell’attribuzione dell’appellativo all’insieme delle famiglie che
compongono la comunità montana non ascritte al ramo studiato dei Pedrazzini, si
conferma quanto detto in precedenza sulla sua intensità. Si fa un uso più regolare del titolo
negli anni 1760 e più precisamente nel quinquennio 1765-1770, così come negli anni
1790 11. Non è forse irrilevante notare che in questo stesso periodo è indicato tra i preti che
amministrano il battesimo anche il canonico Giovanni Martino Pedrazzini (1736-1776),
ecclesiastico che con una certa frequenza officia cerimonie battesimali tra il 1763 e il 1775.
E benché la grafia distinguibile dei porzionari sembri indicare che il redattore del registro
sia stato un’unica persona, non si può escludere che la parentela con l’officiante abbia
Il titolo di «dominus» accompagna generalmente quello di «reverendus», «clericus», «canonicus», e di altre
cariche di membri del clero citati nei registri: esso è parte della loro designazione ufficiale nei registri della
cristianità.
9 Si sono presi in considerazione solo i casi in cui l’appellativo si riferisce al padrino stesso e non al padre di
cui si fa menzione per definire l’ascendenza.
10 Le occorrenze riguardano espressamente e direttamente delle donne Pedrazzini, non entrando in merito
dell’attribuzione del titolo a padri e mariti delle stesse.
11 Decennio 1760: 30 menzioni del titolo «dominus»; decennio 1770: 13 menzioni; decennio 1780: 11
menzioni; decennio 1790: 30 menzioni (+1 nel 1800).
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favorito l’assegnazione del titolo a eredi Pedrazzini. Potrebbe cioè essersi verificato che sia
stato il canonico Pedrazzini a propendere per l’uso dell’appellativo onorifico destinandolo
di preferenza ai membri del suo casato, per poi estenderne l’utilizzo anche a conterranei
degni di nota. In effetti, negli anni in cui officia, la registrazione dei battesimi nei quali
interviene assegna il titolo a 18 membri del casato e a 4 eredi di altre famiglie campesi (in 2
casi figli di donne Pedrazzini). Se però si legge il dato alla luce del numero di menzioni
complessive dell’attributo in questo stesso periodo (78 occorrenze per designare dei
Pedrazzini a fianco di 19 riconosciute ad altre famiglie), se ne deduce che – malgrado la
partecipazione dell’ecclesiastico abbia potuto favorirne l’utilizzo per i parenti – questo si
generalizza per designare numerosi altri campesi. Queste precisazioni legittimano un’analisi
delle occorrenze del titolo di «dominus» a fine Settecento, i cui risultati sono illustrati dallo
schema annesso che raccoglie le citazioni riferite essenzialmente a padri o a padrini di
bambini battezzati nell’intervallo 1760-1800 (Tab. 1)12. I casati di Campo insignoriti con più
costanza sono dinastie di emigranti come i Fantina (14 occorrenze) attivi nella città tedesca
di Heidelberg, i Lamberti negozianti ad Ansbach in Baviera (8) e i Travella con bottega a
Brà in Piemonte (7), famiglie non a caso con cui i Pedrazzini sono imparentati strettamente
tramite alleanze matrimoniali plurime. L’uso del titolo di «dominus» nella cornice del
villaggio diviene pressoché sistematico nel caso dei Pedrazzini (154 occorrenze), ciò che li
designa inequivocabilmente come potenti signori di Campo Vallemaggia. La loro traiettoria
imprenditoriale si eleva al di sopra di quelle avviate da casati conterranei insediati in centri
stranieri grazie all’eccellenza del progetto commerciale e al suo duraturo successo, che
consolidano la reputazione della casa Pedrazzini nel paese alpino.
Sebbene non si possa escludere definitivamente che il titolo venga assegnato dal
compilatore in modo aleatorio e non vi sia sistematicità nel suo conferimento né particolare
coerenza, valutazioni analoghe a quelle sopra abbozzate andrebbero formulate anche in
merito all’analisi di altri volumi della parrocchia di S. Bernardo come il registro delle
cresime o il registro dei matrimoni 13. Dal primo si deduce ad esempio che – benché vi sia
un leggero aumento a fine secolo di casi in cui il titolo non è prerogativa esclusiva della
famiglia Pedrazzini – questa resta depositaria del prestigio conferitole da un suo uso
ricorrente 14. Dal 1764 e con più insistenza dalla seconda metà degli anni 1770, anche nel
libro dei matrimoni sono soprattutto gli esponenti della famiglia Pedrazzini a fregiarsi del
titolo (42 occorrenze per il solo ramo studiato a fronte di 19 menzioni riferite a membri di
altre famiglie campesi). Attraverso gli occhi del compilatore dei libri parrocchiali si è
dunque potuto guardare alle persone vissute nel villaggio con la fugace (e in parte certo
erronea) impressione della contemporaneità dello sguardo. La possibilità di interrogare la
fonte attraverso un dettaglio di per sé irrilevante come l’uso di una qualifica rivela però
degli aspetti su cui poggia la costruzione sociale della comunità di cui sono originari i
Pedrazzini, mettendone a nudo la trama strutturata e gerarchica 15. L’attribuzione del titolo
andrebbe tuttavia interrogata in modo puntuale, mettendola in relazione con avvenimenti
Sono state escluse dal computo le donne (madri e madrine), poiché il loro statuto di figlie e mogli si presta
spesso a confusione, associando esse due cognomi e più titoli nella stessa persona. Si sono conteggiati invece
esclusivamente i padri e i padrini menzionati specificatamente con l’appellativo di «dominus», ignorando il
fatto che il loro genitore potesse portarlo ugualmente e privilegiando il riferimento alla singola persona e non
quello delle origini familiari (figlio di un «dominus»).
13 Registro dei Battesimi e delle Cresime (1666-1850) [anni presi in esame: 1719, 1741, 1761, 1776, 1795,
1806] e Registro dei Matrimoni della parrocchia di S. Bernardo Campo Vallemaggia (1677-1833), Archivio
diocesano di Lugano, Parrocchia di Campo Vallemaggia, Scatola 1 (Battesimi, Matrimoni, Stato d’anime).
14 Nelle annotazioni relative alle cresime celebrate dal vescovo nel 1761, l’appellativo «dominus» è riservato
esclusivamente a persone appartenenti alla famiglia Pedrazzini (29 occorrenze su 32, mentre 2 concernono
degli ecclesiastici). Nel 1776, 42 eredi Pedrazzini ricevono la qualifica (indirettamente o tramite il marito o il
genitore), mentre gli altri 5 casi si riferiscono a 3 ecclesiastici e in due occasioni al defunto Guglielmo Maria
Fantina. Nel 1795, il titolo designa 19 Pedrazzini e altre 8 persone appartenenti a famiglie campesi.
15 F. Cosandey (dir.), Dire et vivre l’ordre social: en France sous l’Ancien Régime, Paris, 2005.
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della storia locale e soprattutto con la cronologia del successo della famiglia, che resta da
precisare.
Padrini padroni
Altro aspetto messo in luce da un esame delle fonti parrocchiali è quello riferito alle
pratiche di padrinato presso gli eredi Pedrazzini e nella comunità di appartenenza 16. Da
un’analisi delle scelte dei padrini e delle madrine per i neonati della famiglia emerge con
forza il dato della ricerca di parentele spirituali all’interno di un ristretto gruppo di parenti.
Si constata infatti che su 93 cerimonie di battesimo celebrate per dei Pedrazzini tra il 1730 e
il 1800, 80 (86% dei casi) implicano la presenza di almeno un padrino o una madrina
appartenenti direttamente al casato 17. Negli altri 13 esempi recensiti (14% dei casi), vi è
almeno un padrino o una madrina imparentati con la famiglia in modo indiretto. Si tratta di
membri di altri casati, che si sono uniti in matrimonio con una donna Pedrazzini o che
sono in rapporti di parentela con i genitori del battezzato come cognati o fratelli. L’analisi
dei dati contenuti nel registro dei battesimi ha così permesso di individuare per ogni
neonato battezzato della stirpe Pedrazzini un padrino e/o una madrina che al casato cui egli
appartiene è legato da vincoli più o meno stretti. La pratica per cui i genitori spirituali sono
scelti all’interno di una limitata cerchia di persone note e a cui si è uniti dal sangue attesta il
desiderio di rinsaldare dei rapporti intestini al gruppo (caratterizzato per altro anche da una
spiccata endogamia) e forse un’esigenza meno sentita di rafforzare relazioni esogene.
Questa prima spiegazione, avvalorata dai comportamenti matrimoniali, apre la strada anche
a un’interpretazione di segno opposto: la possibile conflittualità dei Pedrazzini 18. È infatti
legittimo chiedersi se la ridondanza dei reciproci padrinaggi, che incrociano rami diversi, sia
il segno di un lavoro di contenimento dei conflitti. Questo interrogativo, a cui ancora non
si è dato risposta, ha il merito di legare le tensioni interne al casato all’esigenza di rinsaldare
l’unità familiare tramite momenti sacramentali come i battesimi.
Lasciando l’insieme coeso e raccolto degli eredi Pedrazzini per estendere l’analisi del
padrinato all’intera comunità cristiana di Campo Vallemaggia, è poi possibile apprezzare
l’intensità della loro implicazione come padrini nei confini noti del villaggio. Dei 718
battesimi celebrati tra il 1740 e il 1800 nella parrocchia di S. Bernardo – eccettuati gli 86
casi che concernono il casato Pedrazzini – sono portati al fonte battesimale 632 neonati
appartenenti ad altre famiglie campesi o a casati che pur essendo imparentati con i
Pedrazzini non ne portano il cognome (battezzati figli di una Pedrazzini, ma non eredi di un
Pedrazzini). Per soppesare l’importanza e il prestigio della famiglia alle radici, si è dunque
proceduto al computo dei suoi membri nelle vesti di padrini e madrine di giovani campesi.
Sul padrinato si veda la pubblicazione recente curata da G. Alfani, Ph. Castagnetti, V. Gourdon (dir.),
Baptiser. Pratique sacramentelle, pratique sociale (XVIe-XXe siècles), Saint-Étienne, 2009; nonché gli articoli di C.
Munno, Prestige, intégration, parentèle. Les réseaux de parrainage dans une communauté de Vénitie (1834-1854), in
«Annales de Démographie Historique», 109, 2005/1, pp. 95-130; di G. Alfani, V. Gourdon, Fêtes du baptême et
publicité des réseaux sociaux en Europe occidentale. Grandes tendances de la fin du Moyen Âge au XXe siècle, ibid., 117,
2009/1, pp. 153-189; e di S. Guzzi-Heeb, Kinship, ritual kinship and political milieus in an alpine Valley in 19th
century, in «The History of the Family», 2009/14, pp. 107-123.
17 Si è cioè in presenza o di eredi maschi e di figlie Pedrazzini (sposate o meno), oppure di mogli di
discendenti Pedrazzini: il cognome Pedrazzini compare esplicitamente in questo caso per designare queste
figure, sempre in riferimento al ramo studiato.
18 Compromesso indispensabile alla collaborazione e presupposto necessario alla costruzione del rapporto
fiduciario, l’armonia tra parenti è il postulato irrinunciabile dell’attività imprenditoriale nella ditta di famiglia.
Questo sistema – basato su solidarietà plurime, sulla fedeltà operativa dei singoli e sull’osservanza di una
deontologia mercantile condivisa – si incrina per la minaccia manifestatasi sul finire del XVIII secolo di una
crescente conflittualità intestina, documentata da controversie e azioni giuridiche intentate contro familiari.
Vedi Chiesi Ermotti, Progettualità migratoria e conflitti intestini, cit.
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L’aspetto rilevante di questo tipo di indagine è dato dalla possibilità di verificare quanto
sovente la scelta dei padrini da parte degli abitanti di Campo ricada su dei Pedrazzini e quali
siano i casati maggiormente interessati a stabilire con loro un legame spirituale. Su un totale
di 632 sacramenti conferiti a figli di famiglie autoctone, in 200 casi (31,7%) vi è un padrino
o una madrina scelti tra i membri del casato Pedrazzini, mentre in 64 occasioni (10,1%)
entrambi i padrini sono dei Pedrazzini. Ciò significa che tra le 632 celebrazioni che non
riguardano degli eredi Pedrazzini, in 264 esempi (41,8%) è presente almeno un membro
della famiglia tra i padrini del battezzato. Vi sono altri casati autoctoni altrettanto
rappresentati e interpellati con la stessa frequenza per divenire padrini nel periodo
considerato? Allo scopo di comparare i dati del padrinato campese è risultato più adeguato
esaminare esclusivamente i padrini uomini, essendo le donne divise tra la famiglia dello
sposo e quella del padre e ponendo la presenza simultanea di più cognomi sul registro non
pochi problemi per un corretto conteggio delle occorrenze relative a un unico casato. Negli
anni 1740-1800, i padrini Pedrazzini richiesti da altri casati campesi sono 215, tra i Fantina
se ne contano 41 (arrestandosi le menzioni al 1778), i Travella (o Trivelli) sono padrini 33
volte e i Porta 28, mentre i Gobbi sono menzionati in 36 casi con questa funzione, senza
tuttavia poter precisare se si sia in presenza di più rami della stessa famiglia e quante
persone in diverso rapporto di parentela associ il cognome 19. Si può dunque affermare che
nessuna famiglia di Campo è sollecitata quanto quella Pedrazzini, i cui membri divengono
padrini e madrine di piccoli campesi con una frequenza sorprendente almeno per il periodo
esaminato. La loro presenza supera di misura quella delle altre discendenze di conterranei
nelle fila dei padrini durante le cerimonie di battesimo in S. Bernardo.
Nel tentativo di documentare poi le scelte dei membri della comunità di Campo nella
ricerca di padrini e madrine per i figli da battezzare, sono stati raccolti i dati della
partecipazione degli eredi Pedrazzini alle cerimonie officiate in S. Bernardo nel periodo
1740-1800 (Tab. 2). Lo scopo è quello di illustrare quali e quante coppie di genitori tra le
famiglie attestate nel Settecento nella parrocchia alpina abbiano affidato spiritualmente i
nuovi nati a un membro del casato studiato. Omettendo le scelte interne alla famiglia
Pedrazzini, si sono volute mettere in rilievo quelle dei casati autoctoni per verificare se ve
ne siano alcuni che si rivolgano a loro con più frequenza. Sono dunque state repertoriate
sul registro le annotazioni di cerimonie in cui compaiono dei Pedrazzini come padrini o
madrine di bambini portati al fonte battesimale nella chiesa di Campo, per descrivere la
trama delle relazioni nella comunità. Le famiglie con il maggior numero di interventi del
casato sono innanzitutto l’altro ramo Pedrazzini (17 battesimi), accanto ai Fantina (17), gli
Spaletta (15), i Fagioli (13), e poi i Lamberti (11), i Tunzini (11), i Tosetti (11), i Porta (10), i
Serazzi (10) e i Genazzini (10) 20. Ciò che accomuna l’analisi del padrinato Pedrazzini alle
Il periodo 1740-1800 è tuttavia piuttosto ampio e forse eccessivamente esteso per osservare delle flessioni o
dei picchi. Se si considerano invece i trent’anni che intercorrono tra il 1770 e il 1800, si nota che dei 249
battesimi celebrati nella parrocchia di S. Bernardo, 45 casi (18%) concernono il ramo della famiglia Pedrazzini
studiato, mentre 204 bambini battezzati (82%) si riferiscono ad altri casati campesi. In 99 casi su 204 (vale a
dire nel 48,53% dei casi che non concernono il casato) vi è almeno un Pedrazzini tra i padrini e le madrine del
battezzato. Per quanto concerne le tendenze emerse, ci si accorge che più ci si avvicina alla fine del periodo in
esame, meno i Pedrazzini vengono interpellati dai campesi come padrini e madrine dei loro figli. Il ruolo
svolto dal casato in relazione al padrinato sembrerebbe dunque affievolirsi nel corso del tempo per perdere
progressivamente di vigore e di importanza nel decennio 1790. Il lasso di tempo in cui invece la famiglia è
maggiormente richiesta per assumere un ruolo spirituale parrebbe essere il decennio 1770 e i primi anni del
1780. In questo momento storico i Pedrazzini sono ricercati sia come padrini che come madrine (o entrambi
al tempo stesso) da un gran numero di campesi che desiderano affidar loro la paternità spirituale degli eredi.
20 Si è detto dei casati campesi Fantina e Lamberti attivi rispettivamente a Heidelberg e Ansbach. Vi sono poi
gli Spaletta (o Spalletta/i) di Cimalmotto presenti a Reggio e in altri centri italiani tra cui Dosolo, i Tosetti di
Campo con negozi a Magonza e la famiglia campese Serazzi presente a Novara. G. Mondada, Commerci e
commercianti di Campo Vallemaggia nel Settecento. Dalle lettere dei Pedrazzini e di altri conterranei attivi in Germania e in
Italia, Lugano, 1977.
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considerazioni sulle alleanze matrimoniali stipulate per i loro eredi è l’espressione di un
legame profondo che unisce i più importanti casati campesi, molti dei quali attivi all’estero
nei commerci (tranne forse i Fagioli, i Tunzini e i Genazzini). La realtà di questa vicinanza
sancita e consacrata attraverso dei riti comunitari rafforza la coesione di un’élite migrante,
testimoniando il bisogno di esibire o sacralizzare dei rapporti indispensabili anche per il
buon esito dei negozi esteri. Lo scarto tra l’intimità della cerimonia che introduce il neonato
nella comunità religiosa e il carattere pubblico del rito attraverso la solennizzazione di una
parentela costruita pone non poche domande sull’effettiva visibilità del legame che viene
stabilito tra il bambino, il padre e il padrino. In che modo questo non sia frutto di un caso
o della disponibilità fortuita del padrino il giorno del battesimo non è dato sapere. Oltre a
ciò, permangono dei dubbi circa il reale peso in termini di prestigio che un numero
considerevole di figliocci attribuisce a un padrino. Questo conferisce forse
un’autorevolezza che a padrini minori non è concessa? In merito poi alla natura del legame
spirituale, è probabilmente nel rapporto tra padre e padrino («compérage») che va cercata
l’importanza di un nesso, le cui reali implicazioni per la vita del figlioccio restano da
approfondire.
Nell’eternità
Perché lo spazio in cui è vissuta porti iscritto nella pietra come nella terra la memoria delle
vicende di una famiglia, occorre che questa si discosti in qualche modo dal percorso che
porta inesorabilmente all’oblio. E quando tutto decade e la morte avvolge una vita poco
prima piena di storia e operosità, annullando il successo con la disfatta in cui si sgretola
ogni progetto umano, in questo momento di verità è racchiusa una parte di significato della
traiettoria umana. Questa si conclude lasciando traccia del suo percorso là dove il tributo
della comunità e le disposizioni prese dal defunto stesso hanno definito le modalità del
ricordo, durevole qualora dal percorso terreno del singolo si prolunghino lasciti ed
elargizioni imperituri o più effimero in assenza dei segni di una distinzione certa. Da queste
considerazioni ha preso avvio l’indagine sulle tipologie sepolcrali del casato e della
comunità, tesa a individuare gli indizi di pratiche che delineino la preminenza di quella che
si presenta come l’élite mercantile di Campo. Grazie a una lettura del libro dei morti della
parrocchia di S. Bernardo, lo studio delle consuetudini funerarie nel villaggio è stato
sondato dapprima all’interno del solo casato Pedrazzini e poi in un confronto più largo
(sebbene più circoscritto da un punto di vista temporale) che abbracci tutta la comunità 21.
Partendo dall’esame della composizione dei 96 decessi registrati negli anni 1730-1800, si è
proceduto a una rassegna delle pratiche di sepoltura adottate per i cadaveri Pedrazzini in
terra campese e al loro mutare nel tempo, inventario che qui non si dettaglierà per ragioni
di brevità fornendone soltanto un sunto illustrativo (Tab. 3). Se ne desume la distinzione tra
le inumazioni degli adulti e i seppellimenti infantili, iato che interviene a differenziare la fine
del percorso terreno e i destini nella morte dei membri del casato, descrivendo nel tempo
evoluzioni diverse per i defunti Pedrazzini. Leggendo la fonte nella prospettiva di un’analisi
comparata che tuttavia si limiti al periodo 1770-1800, è possibile mettere maggiormente in
valore i dati estrapolati dal registro dei morti grazie a un’analisi che dal nucleo Pedrazzini si
estenda all’insieme della parrocchia campese. Delle 219 persone decedute nei tre ultimi
decenni del Settecento, 95 casi (43,4%) interessano la categoria in cui trovano posto i
bambini («infans», «puer» o «puella» che non superano i 14 anni). L’esame della mortalità
infantile permette di documentare la scelta del luogo di sepoltura destinato ai bambini,
mostrando un certo scarto tra le pratiche sepolcrali dei campesi e quelle proprie al casato
Registro dei morti della parrocchia di S. Bernardo (volume primo 1677-1747; volume secondo 1748-1896),
Archivio diocesano di Lugano, Parrocchia di Campo Vallemaggia, Scatola 2 (Morti).
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Pedrazzini. A parte tre eccezioni, si nota allora che dal 1770 al 1775 gli «infantes»
Pedrazzini che discendono dal fondatore riposano nell’oratorio di S. Giovanni Battista
(giuspatronato del casato), mentre i loro coetanei giacciono nel «puerorum sepulchro» in S.
Bernardo. A partire dal 1775, si delinea per i piccoli Pedrazzini ed essenzialmente per i più
grandicelli tra loro la consuetudine di un’inumazione in un «proprio sepulchro» nella chiesa
principale (e non nel «puerorum sepulchro» che accoglie i figli degli altri campesi). Da
questo momento in avanti, la differenziazione tra gli eredi Pedrazzini e quelli che al casato
non appartengono si cristallizza con più forza, i primi ricevendo sepoltura in una tomba
specifica o comunque localizzata in S. Bernardo, i secondi venendo calati nel loculo degli
infanti. La particolarità riscontrata nelle tipologie legate all’inumazione dei cadaveri bambini
tra i Pedrazzini si protrae per tutto il trentennio in esame (dal 1796 essi verranno interrati in
un sepolcro familiare non meglio definito). I diversi costumi sepolcrali che
contraddistinguono i defunti scomparsi in tenera età nella parrocchia sembrerebbero
marcare dunque la distanza (sociale e simbolica) tra il casato Pedrazzini e le famiglie del
paese. I bambini di queste ultime riposano infatti continuativamente nel sepolcro infantile
della chiesa di S. Bernardo, non ricevendo le loro spoglie una collocazione più prestigiosa.
L’analisi delle sepolture adulte presenta maggiori asperità, poiché per i 124 defunti deceduti
tra il 1770 e il 1800 molteplici e diverse sono le collocazioni mortuarie (Tab. 4).
Rimandando queste a tipologie più variegate, appare difficile cogliere e descrivere tendenze
precise che illustrino le scelte delle famiglie a Campo. Tra i 124 seppellimenti indicati nel
registro dei morti, se ne contano 77 (62,1%) avvenuti nel cimitero di S. Bernardo, di cui 9
soltanto concernono dei membri della famiglia Pedrazzini interrati nel camposanto.
Sorprende alquanto che nei 9 casi individuati non si sia di fronte a personaggi di secondo
piano, ma a uomini e donne protagonisti della storia familiare, il luogo del cui ultimo riposo
non li differenzia dai conterranei. Delle altre 38 sepolture (30,6%) situate nell’attiguo
edificio sacro, 11 (8 donne e 3 uomini) avvengono nella chiesa di S. Bernardo senza una
collocazione precisa e nessuna riguarda un erede Pedrazzini, mentre 27 occupano uno
spazio distinto (sepolcro di cui si indica la posizione o la proprietà). Tra queste ultime
inumazioni, 10 salme (6 donne e 4 uomini) sono deposte in sepolcri non meglio specificati
nella chiesa di S. Bernardo ma in nessun caso si tratta di un Pedrazzini, 6 defunte di
famiglie campesi riposano nel «sepulchro mulierum», 5 donne del casato trovano posto in
un «proprio sepulchro» (in un caso orientato verso l’altare del Carmelo) e una Pedrazzini
nel sepolcro Lamberti, mentre 4 ecclesiastici ricevono sepoltura in una tomba localizzata e
il cadavere di un giovane uomo di 24 anni giace nel sepolcro maschile (il solo
apparentemente per cui sia indicato questo tipo di sepoltura). Per quanto riguarda i 9
seppellimenti (7,3%) che esulano dallo spazio campese, è attestato il caso di un adulto
deposto nel sepolcro «virorum» della chiesa di S. Remigio a Linescio e tre altri esempi di
sepolture avvenute a Cimalmotto. All’estero muoiono invece 5 campesi che saranno sepolti
in terra straniera: un erede Fantina a Kassel, un Pedrazzini e un Lamberti deceduti ad
Ansbach, un Gobbi a Massa Carrara, nonché un Fagioli in Italia.
In sintesi, le 124 sepolture adulte comprendono 77 defunti sepolti in terra consacrata a S.
Bernardo, 38 all’interno di questo edificio e 9 lontani dal villaggio. I Pedrazzini maggiorenni
sono seppelliti di preferenza nel cimitero di S. Bernardo come i loro compaesani (11 casi) o
in un sepolcro specifico nella chiesa parrocchiale (ed è il caso di 6 donne e di 2
ecclesiastici), mentre un solo erede emigrante scompare all’estero. Si osserva dunque che
sul finire del Settecento i costumi relativi alla sepoltura dei defunti nel casato rispecchiano
grossomodo quelli della comunità alpina, prediligendo il seppellimento dei morti nell’area
cimiteriale. Se si eccettuano i casi non pertinenti al territorio di Campo, colpisce l’elevato
numero di corpi femminili che riceve sepoltura all’interno della chiesa (26 cadaveri di
donne a fronte di 12 uomini, di cui 4 ecclesiastici). Tra i membri del casato Pedrazzini, il
privilegio di una tomba interna è accordato a 6 eredi donne, mentre soltanto 2 uomini di
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Dio possono vantare una simile sistemazione sotto le lapidi sacre, non essendo praticata a
questo momento l’inumazione nell’oratorio familiare di S. Giovanni Battista. Da ciò emerge
come non solo le usanze sepolcrali degli abitanti del villaggio non si distanzino
sostanzialmente da quelle adottate dai Pedrazzini, ma anche come entrambi siano
accomunati dalla collocazione specifica assegnata alle salme femminili in S. Bernardo, oltre
che dal tributo riservato ai religiosi che vi hanno officiato. Ci si interroga allora sulle ragioni
della peculiarità funeraria tra le mura della chiesa, che potrebbe essere occasionata da fattori
estranei alla volontà dei parenti e all’importanza conferita a una tomba posta sotto il tetto
della chiesa e dunque più vicina all’altare. Un esame dell’ordine temporale in cui i
seppellimenti hanno avuto luogo dovrebbe favorire in questo senso la verifica di quanto gli
accenni a pratiche estive e a consuetudini invernali reperiti tra le annotazioni dei visitatori
apostolici hanno insinuato 22.
Partendo dal presupposto che i bambini sono sepolti esclusivamente all’interno dell’edificio
religioso, si è limitata l’analisi cronologica alle sepolture adulte, per verificare se la scelta del
luogo dell’inumazione sia legata o meno a fattori climatici. Il manto di neve e gelo potrebbe
precludere infatti l’interramento nel cimitero d’inverno e i miasmi dei corpi in disfacimento
escluderebbero il seppellimento sotto il pavimento della chiesa nei mesi caldi. Lo studio
della successione mensile delle sepolture di adulti campesi (Tab. 5) ha così messo in luce un
aspetto eloquente: la predominanza e la ricorrenza dei seppellimenti nel cimitero nel corso
degli anni e in quasi tutti i mesi. Vi è tuttavia il dato in controtendenza dei mesi di gennaio
e di giugno, in cui sono più numerose le tumulazioni in chiesa. A spiegazione di questo
fatto non si sono potute portare giustificazioni quali uno statuto privilegiato o un ruolo di
rilievo assunto in vita, poiché non sembra esservi un legame apparente tra le scelte
sepolcrali e la presenza di membri illustri tra i morti 23. È peraltro soprattutto il risultato di
gennaio a porre problema, poiché esso ripropone con forza l’eventualità che durante il
mese più rigido viga il principio di seppellire nel perimetro della chiesa. Per chiarire questo
dato che si discosta dalla norma funeraria, si è ricorso a un esame della composizione delle
sepolture mettendo in risalto la presenza femminile tra i defunti (80 su 118 morti adulti,
Tab. 6). La prevalenza numerica delle donne è tale sia tra le inumazioni nel cimitero che nei
seppellimenti in chiesa (la totalità delle fosse scavate nel camposanto in novembre è
destinata a donne e lo stesso accade in agosto). Il loro essere in sovrannumero tra i defunti
è una circostanza che se letta in riferimento al risultato di gennaio contribuisce a sciogliere
alcuni nodi: tra i 16 morti sepolti in questo periodo vi sono 14 parrocchiane. Nella scelta di
dar sepoltura sotto il tetto della chiesa a queste donne si cela forse (più che nel fattore
meteorologico) la ragione per cui a prevalere in gennaio siano le inumazioni all’interno
dell’edificio. Il dato divergente rispecchia infatti peculiarità legate alla presenza tra i morti di
un’importante numero di donne, che non a caso ricevono la stessa destinazione del
canonico Giovanni Martino Pedrazzini (1736-1776). La collocazione specifica riservata ai
cadaveri femminili influisce dunque probabilmente su questo caso limite, sommandosi a
circostanze climatiche non favorevoli.
Il testo della visita di monsignor Giovanni Battista Muggiasca nel luglio 1769 attesta l’esistenza in S.
Bernardo di tombe individuali per parroci, bambini, uomini e donne, oltre a quella di un cimitero con ossario
nelle immediate vicinanze. Il compilatore afferma che esistono dei sepolcri «pro sacerdotibus, parvulis,
maribus et foeminis separatim sepeliendis: estivo tamen tempore sepeliuntur in cœmeterio extra ecclesiam».
Questo appunto conciso solleva la questione dell’inumazione dei cadaveri nel camposanto nel corso
dell’anno, alludendo forse al fatto che vi siano periodi in cui la sepoltura dei corpi dei parrocchiani è resa più
difficoltosa. Mons. Giovanni Battista Muggiasca, Visite Pastorali, Archivio diocesano di Lugano, 1769, scatola
80, p. 3.
23 Nel mese di giugno, tra i 5 cadaveri seppelliti in chiesa vi è sì quello del curato Giovanni Battista Fantina
accanto a una giovane erede Pedrazzini, ma nello stesso mese nel camposanto è interrato il corpo di un
importante discendente del casato quale Pietro Antonio (1716-1778). I numeri sono del resto poca cosa per
leggere dietro a queste occorrenze delle norme consuetudinarie inerenti alla sepoltura, che possano estendere
la loro validità anche al di là del breve periodo preso in esame.
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La pratica di inumare i cadaveri nel camposanto durante la bella stagione e in modo
inatteso anche nel periodo più inclemente attenua la validità della tesi secondo cui
condizioni meteorologiche avverse impedirebbero di sotterrare i corpi nel terreno gelato.
Oltre a ciò, il risultato rende pertinente un’analisi delle sepolture maggiormente svincolata
dal fattore climatico e la proietta verso risultati qualitativamente rilevanti. Dopo aver
ammesso infatti che la collocazione dei corpi nel cimitero non è subordinata a imperativi
ambientali, è possibile considerare le scelte funerarie per discernerne tratti peculiari. E sono
soprattutto i corpi deposti in chiesa a focalizzare l’attenzione del ricercatore, poiché a essi è
conferito un rilievo particolare, trattandosi di opzioni minoritarie e infrequenti. Data la
posizione preminente del casato nella comunità di Campo, si sarebbe potuto attendersi
delle scelte di sepoltura che ne rispecchiassero ruolo e prestigio, senza dover
necessariamente aspettare l’Ottocento per veder comparire superbi mausolei familiari.
Quanto si evince dall’esame di cui sopra è nondimeno l’assenza di una sepoltura particolare
per gli uomini eredi del casato in S. Bernardo (eccettuati gli ecclesiastici). I racconti dei
vescovi comensi che si sono recati nella parrocchia di Campo menzionano ciononostante
l’esistenza di un sepolcro di proprietà degli eredi Pedrazzini 24, in lieve contrasto con quanto
emerso dall’indagine condotta sui libri dei morti. Queste testimonianze lascerebbero
supporre che vi sia stata effettivamente una tomba destinata ad accogliere i corpi senza vita
dei Pedrazzini nello spazio della chiesa. Tuttavia, nel periodo studiato, gli uomini del casato
non vi vengono in genere seppelliti, mentre questa scelta è adottata per alcune donne della
famiglia. Sarebbe così documentata l’assenza nel Settecento di una specificità sepolcrale che
distingua gli eredi maschi adulti della famiglia dai compaesani, l’eternità avvolgendo tutti
indistintamente nel nucleo alpino. L’uguaglianza di fronte alla morte annulla privilegi di
status e la vicinanza creatasi tra ricchi mercanti e conterranei più poveri esprime il senso
della caducità umana.
Spunti conclusivi
Il rinnovato interesse per lo studio di comunità transnazionali attive in centri stranieri
formate da colonie di mercanti provenienti da varie aree europee offre interessanti spunti di
riflessione sul funzionamento di queste reti di migranti e sulle modalità del loro
insediamento e della loro presenza, nonché sulle caratteristiche del loro incessante
viaggiare 25. Iscrivendosi i Pedrazzini (fatte le debite proporzioni, poiché essi hanno
24 Alla venuta di monsignor Cernuschi nel giugno 1741 si annota che nella vice parrocchiale di S. Bernardo
oltre alle tombe comuni «vi sono li sepolcri de’ sacerdoti» e tra quelli dei particolari «ve n’è uno del signor
Petracino con l’iscrizione qui annessa» (è la prima occasione in cui si menziona un sepolcro specifico per un
laico). Visitando la chiesa nel giugno 1761, il vescovo Albrici-Pellegrini osserva che «tria sunt in ecclesiam
effossa sepulcra in quibus infantium, marium et fœminarum cadavera seorsim tumulantur aliud gentilitium
familiæ domini Michælis quondam Gaspari Petracini alia incolarum cadavera in cœmeterio etiam ad
electionem sepeliuntur». Si tratta verosimilmente del sepolcro in cui riposa il corpo di Michele I Pedrazzini
(1682-1736), benefattore della squadra di mezzo assieme ad Antonio Lamberti, e che qui è indicato come
tomba gentilizia, destinata dunque agli eredi defunti del casato. A fine Ottocento il vescovo Vincenzo Molo
preciserà invece nella sua visita che sul pavimento della chiesa si contano sei sepolture di famiglia, comprese
quelle dei parroci. Tra di esse, sembrerebbe che la sola tomba familiare sia quella segnalata dall’epigrafe
commemorativa del legato Lamberti-Pedrazzini. Mons. Paolo Cernuschi, Visite pastorali, Archivio diocesano
di Lugano, 1741, scatola 62, pp. 470-471; Mons. Albrici Pellegrini, Visite pastorali, Archivio diocesano di
Lugano, 1761, scatola 43, pp. 3-3a; M. R. Regolati Duppenthaler, W. Duppenthaler, Documentazione storica per il
restauro della chiesa parrocchiale di S. Bernardo, parrocchia di Campo Vallemaggia, Mosogno, marzo 2006, tabella anno
1894.
25 Tra i molti titoli si è scelto di citare H. Sonkajärvi, Qu’est-ce qu’un étranger? Frontières et identification à Strasbourg
(1681-1789), Strasbourg, 2008; F. Trivellato, The familiarity of strangers. The sephardic diaspora, Livorno, and crosscultural trade in the early modern period, New Haven, 2009; C. Maitte, Les chemins de verre. Les migrations de verriers
d’Altare et de Venise (XVIe-XIXe siècles), Rennes, 2009; A. Bartolomei, Les colonies de marchands étrangers en Espagne
32
Percorsi di ricerca
4/2012
costituito un gruppo coeso ma limitato essenzialmente al casato per la coincidenza ricercata
tra famiglia e impresa, non dando vita a una vera e propria comunità longeva e reperibile
nel tessuto cittadino) nella storia dell’itineranza europea e dell’avventuroso slancio
imprenditoriale che ha collegato aree discoste a centri fiorenti sottolineando in questo
l’effervescenza dei margini, il contributo ha voluto mettere l’accento su quanto la
consuetudine della modernità urbana abbia apportato a un mondo alpino erroneamente
creduto immoto. Indugiando su ciò che le fonti possono restituire al ricercatore della
vitalità ormai sepolta e perduta di una comunità d’altitudine in una valle impervia, sono stati
ritenuti alcuni elementi che si pensa possano testimoniare di un’attitudine pervasa dalla
consapevolezza di possedere uno status privilegiato. Molte sono ancora le declinazioni da
indagare per quanto concerne il ruolo assunto dal casato nello spazio natio e tra queste
figurano la pratica legatizia e l’implicazione confraternale, indici di una strategia che unisce
carità e prestigio e parla di un’implicazione concreta nelle vicende della storia locale. Gli
elementi che pertanto si evincono da uno studio non ancora concluso depongono a favore
di un protagonismo di eccezione, riflesso di un itinerario familiare improntato
sull’emigrazione che si erge al di sopra dei percorsi intrapresi dai conterranei e marca il
coronamento di un’ascesa degna di nota.
(années 1680-années 1780), in Beaurepaire/Pourchasse, Les circulations internationales en Europe, cit., pp. 107-120;
M. Schulte Beerbühl, K. Weber, Les négociants allemands à Londres, Cadix et Bordeaux (fin XVIIe-début XIXe siècle),
ibid., pp. 99-106.
33
Percorsi di ricerca
4/2012
Allegati
CASATO DI CAMPO
VALLEMAGGIA
Pedrazzini
Fantina
Lamberti
Trivelli o Travella
Pontoni
Serazzi
Lingeri
Pedrazzini (altro ramo)
Sartori
Jecchi
Fabbri
Camani
Spenzi
Gobbi
154
14
8
7
3 26
3
2
2
1
1
1
1
1
1
OCCORRENZE DEL
TITOLO «dominus»
TOTALE
TOTALE
BATTESIMI
PERIODO
5
7
6
1
4
2
3
3
2
3
1
4
1
1
1
1
1
1
2
MADRINE
PEDRAZZINI
12
10
9
12
7
9
8
10
10
10
6
7
6
7
4
6
6
5
4
5
5
3
3
2
PADRINI
PADRINI
Pedrazzini (non ramo studiato)
Fantina
Spaletta
Fagioli
Lamberti
Tunzini
Tosetti
Serazzi
Genazzini
Porta
Spenzi
Fabbri
Dell’Avo
Trivella o Travella
Gobbi
Sciapina o Chiappini/a
Holzer
De Petri
Anselmini o Selmini
Casarotti
Coppini
Martocchi
Lanzi
Jori
MADRINE
PEDRAZZINI
FAMIGLIA 27
O
E
Tab. 1: Occorrenze del titolo «dominus» attribuito a padri e padrini nel registro dei battesimi della parrocchia di S. Bernardo
a Campo Vallemaggia (1760-1800)
17
17
15
13
11
11
11
10
10
10
9
9
9
8
8
7
7
6
5
5
5
4
4
4
28 (60,7%)
21 (80,9%)
21 (71,4%)
22 (59,1%)
11 (100%)
32 (34,4%)
18 (61,1%)
18 (55,5%)
19 (52,6%)
61 (16,4%)
12 (75%)
19 (47,4%)
31 (29%)
36 (22,2%)
48 (16,7%)
14 (50%)
12 (58,3%)
9 (66,7%)
11 (45,5%)
12 (41,7%)
6 (83,3%)
5 (80%)
19 (21,1%)
4 (100%)
1741-1792
1742-1790
1740-1784
1740-1799
1740-1799
1743-1794
1745-1777
1740-1765
1748-1793
1746-1797
1741-1791
1744-1772
1755-1797
1755-1800
1752-1785
1748-1766
1749-1766
1750-1787
1740-1756
1741-1766
1749-1766
1740-1767
1763-1772
1770-1775
Nei tre casi si tratta di ecclesiastici appartenenti alla famiglia Pontoni.
L’ordine in cui compaiono i casati campesi rispecchia l’importanza del padrinato Pedrazzini presso i loro
membri. Si sono tralasciate le occorrenze singole delle famiglie menzionate e si è considerato solo il cognome
del padre di famiglia e non la paternità della moglie.
26
27
34
Percorsi di ricerca
Valocchi [Walocki]
Jecchi
Camani
Cometti
Fraquelli
Balocchi
Coppi
Tonini (di Bignasco)
Pontoni
Lingeri
Broglio
Galli
Sperolini
Sartori
[Tauffer]
Moretti
Buzzi
3
2
3
3
3
1
1
2
2
2
1
1
1
1
1
1
2
3
2
1
1
-
4
3
3
3
3
3
3
3
2
2
2
1
1
1
1
1
1
8 (50%)
7 (42,9%)
3 (100%)
9 (33,3%)
6 (50%)
7 (42,9%)
3 (100%)
3 (100%)
6 (33,3%)
4 (50%)
14 (14,3%)
3 (33,3%)
15 (6,7%)
1 (100%)
1 (100%)
2 (50%)
1 (100%)
4/2012
1784-1792
1740-1765
1741-1752
1742-1759
1744-1753
1745-1763
1749-1762
1781-1792
1741-1752
1763-1765
1771-1787
1742
1747
1766
1768
1771
1781
PERIODO
-
S. Bernardo
1
1753
1
1755
S. Bernardo
4
1772-1776
5 (donne)
1766-1776
S. Bernardo
6
1776-1782
1776-1782
S. Bernardo
S. Giovanni Battista
8
8
1784-1794
1768-1775
3 (di cui 2
ecclesiastici
e 1 donna)
2
1 (canonico)
[sito ignoto e non
specificato]
Beata Maria Vergine a
Cimalmotto (Campo)
Ansbach, Germania
4
1796-1800
-
-
-
-
1
1745
53
-
1
33
1798
Cimitero
S. Bernardo
2
«Puerorum sepulchro» in S.
Bernardo
Chiesa di S. Bernardo
(localizzazione non precisata)
Sepolcri definiti in S.
Bernardo
(localizzazione
precisa, sepolcro proprio)
Sepolcri definiti in S.
Bernardo
(localizzazione
precisa, sepolcro orientato)
Tomba di Antonio Lamberti
Sepolcro nell’oratorio di S.
Giovanni Battista
Sepolcro Pedrazzini
S. Bernardo
Oratorio della Beata Maria
Vergine
Città o borgo stranieri
TOTALE
PERIODO
-
BAMBINI (0-12 ANNI)
1730-1800
LOCALIZZAZIONE
19
20
[1728],
1753
1730-1766
INUMAZIONE
ADULTI (19-87 ANNI)
Tab. 2: Padrini e madrine del casato Pedrazzini scelti da famiglie 28 di Campo Vallemaggia (1740-1800)
1736, 1790
1754
Tab. 3: Pratiche di sepoltura per gli eredi della famiglia Pedrazzini a Campo Vallemaggia (1730-1800)
Nota bene: le famiglie qui menzionate come gruppi omogenei potrebbero essere composte in realtà di rami
diversi e non necessariamente uniti attorno a un capostipite o a un patriarca cui far riferimento. Dietro al
nome del casato potrebbe dunque celarsi una realtà molto più sfaccettata di ciò che si può dedurre da una
lettura superficiale del libro dei battesimi.
28
35
PEDRAZZINI
TOTALE
CASATI CAMPESI
Cimitero della chiesa di Cimalmotto
Sepolcro femminile della chiesa di
Cimalmotto
Altrove
DEFUNTI
Cimitero della chiesa di S. Bernardo
Chiesa di S. Bernardo (senza
collocazione precisa)
Sepolcro non localizzato in S. Bernardo
Sepolcro femminile in S. Bernardo
Sepolcro maschile in S. Bernardo
Sepolcro proprio in S. Bernardo
Sepolcro Lamberti in S. Bernardo
Tomba localizzata e orientata in S.
Bernardo
Sepolcro maschile in S. Remigio
4/2012
LOCALIZZAZIONE
INUMAZIONE
Percorsi di ricerca
S. Bernardo
S. Bernardo
77
11
68
11 (8 donne)
9
-
S. Bernardo
S. Bernardo
S. Bernardo
S. Bernardo
S. Bernardo
S. Bernardo
10 (6 donne)
6 (donne)
1 (uomo)
5 (donne)
1 (donna)
4 (ecclesiastici)
10
6
1
2
5
1
2
S. Remigio, Linescio
(Vallemaggia)
Cimalmotto
Cimalmotto
1 (uomo)
1
-
2 (donne)
1 (donna)
2
1
-
Estero
Italia)
5 (uomini)
4
1
124
106
18
(Germania
e
Tab. 4: Sepolture adulte nella parrocchia di S. Bernardo a Campo Vallemaggia (1770-1800)
MESE
MORTI ADULTI
CIMITERO CHIESA BAMBINI 29
Gennaio
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
16
13
11
11
11
6
9
6
9
9
8
8
1
7
10
4
2
3
3
5
2
8
6
5
12
16
4
5
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre
TOTALI
7
9
8
9
8
118
5
6
8
7
5
79
2
3
0
2
3
39
5
3
6
7
4
81
Tab. 5: Sepolture dei parrocchiani adulti di Campo Vallemaggia in S. Bernardo a seconda del mese del decesso (1770-1800)
29
I bambini sono sempre seppelliti in chiesa (in estate come in inverno).
36
MORTI ADULTI
DONNE
CIMITERO
DONNE
CAMPESI IN CIMITERO
PEDRAZZINI IN CIMITERO
CHIESA
DONNE
CAMPESI IN CHIESA
PEDRAZZINI IN CHIESA
4/2012
MESE
Percorsi di ricerca
Gennaio
16
14 (87,5%)
6
5
5
1
10
9
7
3
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre
TOTALE
13
11
11
11
6
9
7
9
8
9
8
118
9 (69,2%)
8 (72,7%)
7 (63,6%)
4 (36,4%)
2 (33,3%)
8 (88,9%)
6 (85,7%)
3 (33,3%)
5 (62,5%)
8 (88,9%)
6 (75%)
80 (67,8%)
9
9
8
8
1
7
5
6
8
7
5
79
6
7
5
3
6
5
2
5
7
3
54 (68,4%)
8
8
8
7
6
5
4
8
7
5
71
1
1
1
1
1
2
8
4
2
3
3
5
2
2
3
2
3
39
3
1
2
1
2
2
1
1
1
3
26 (66,7%)
4
1
1
3
4
2
1
3
2
3
31
1
2
1
1
8
Tab. 6: Sepolture adulte dei parrocchiani di Campo Vallemaggia in S. Bernardo secondo il mese del decesso e con l’indicazione
della presenza femminile (1770-1800)
37
Percorsi di ricerca
3 / 2011
38
Percorsi di ricerca
4/2012
I moti costituzionali del 1814 e gli Stoppani: conseguenze di una crisi
Francesca Mariani Arcobello
Premessa
Aspirazione della ricerca 1, di cui verranno esposti nel presente contributo alcuni risultati
parziali e provvisori, è fornire alcuni elementi conoscitivi sulla classe dirigente cantonale nel
XIX secolo, contribuendo così ad analizzare da una prospettiva nuova il sistema e la cultura
politici del Ticino. Supposto che la dimensione familiare abbia un ruolo di rilievo
nell’organizzazione dell’élite ticinese con ampie ripercussioni sul sistema istituzionale e
politico in cui essa si muove, si è scelto di tentare di raggiungere l’obiettivo prefissato
ripercorrendo, sull’arco di più generazioni, le vicende di due casati, gli Stoppani di Ponte
Tresa e i Pioda di Locarno. Si privilegia in particolare lo studio delle strategie economiche,
sociali e politiche attuate, più o meno consapevolmente, dai due gruppi per accrescere,
consolidare o conservare la propria posizione di potere.
Prendendo le mosse dall’approfondimento proposto in precedenza, che aveva permesso di
abbozzare un primo confronto tra le biografie di due esponenti contemporanei dei casati
esaminati, Angelo Maria Stoppani (1768-1815) e Giovanni Battista Pioda (1786-1845) 2, nel
presente contributo si affronteranno le conseguenze per la famiglia Stoppani della morte
violenta di Angelo Maria a seguito dei tumulti costituzionali del 1814, di cui egli fu uno dei
protagonisti. Se lo studio della biografia di quest’ultimo e della suddivisione delle
responsabilità interne al casato tra questi e il fratello Giovanni Battista (1779-1855) aveva in
parte già lasciato presagire l’ampiezza delle ripercussioni di questo avvenimento, la
prosecuzione dello spoglio delle carte di famiglia ha confermato questa supposizione. Si è
dunque deciso di concentrarsi in questo breve testo sulla crisi generata nella famiglia
Stoppani dal fallimento dei moti costituzionali del 1814 e dalla morte di Angelo Maria, di
cui si è ipotizzato che fosse destinato a un ruolo di primo piano nella cura degli interessi del
casato in territorio svizzero.
La principale controindicazione di tale scelta – è bene porlo sin d’ora in evidenza – è lo
spazio marginale riservato in questa sede ai Pioda a discapito della posizione centrale
attribuita loro nel progetto di ricerca complessivo. Le scelte degli Stoppani in questo
frangente storico presentano comunque, per le finalità più generali della ricerca, un
interesse sufficiente a giustificare questa impostazione. A dire il vero, nemmeno i Pioda
furono estranei ai moti del 1814, e anzi Giovanni Battista fece probabilmente in
quest’occasione il suo esordio sulla scena politica cantonale. Considerato l’avanzamento
dell’indagine e la brevità di questo contributo, si è però preferito riservare ad altra
occasione un’analisi del ruolo dei Pioda in questi avvenimenti e delle loro ricadute sulla
famiglia.
Tale ricerca si inserisce nel quadro di un lavoro di dottorato in fieri sotto la direzione della professoressa
Nelly Valsangiacomo presso l’Università di Losanna.
2 Cf. F. Mariani Arcobello, Angelo Maria Stoppani (1768-1815) e Giovanni Battista Pioda (1786-1845), due biografie a
confronto, in «Percorsi di ricerca», 2009, n. 1, pp. 35-46 (disponibile anche all’indirizzo elettronico:
http://www.arc.usi.ch/ra_2009_01.pdf). Questo contributo, elaborato nell’ambito del precedente biennio di
associazione al LabiSAlp, fornisce inoltre più ampi dettagli sulle finalità e l’approccio metodologico della
ricerca.
1
39
Percorsi di ricerca
4/2012
I moti costituzionali del 1814
Avvenimenti
Il sovvertimento, dal 1812, degli equilibri politici europei fu seguito da una brusca
inversione di tendenza anche nella Confederazione e nei singoli cantoni. L’irruzione in
Svizzera, nel dicembre del 1813, delle truppe della coalizione antifrancese, in rapida
avanzata dopo il fallimento della campagna di Russia di Napoleone e la successiva sconfitta
delle forze guidate da quest’ultimo nella battaglia di Lipsia, spinse la Dieta federale a
dichiarare decaduto l’Atto di Mediazione, carta fondamentale della Confederazione elvetica
dal 1803. Dopo alcuni mesi di incertezza, durante i quali la Svizzera fu sull’orlo di una
guerra civile tra i cantoni conservatori, guidati da Berna, favorevoli a un allentamento dei
vincoli confederali, e un gruppo di cantoni più moderati capeggiati da Zurigo, il decisivo
intervento delle grandi potenze sbloccò la situazione. Nel 1815 fu così imposta ai
Confederati l’adozione del Patto federale, sottoposto ai cantoni nel 1814 per la loro
approvazione e poi rimasto in vigore fino al 1848. Esso sancì un indebolimento del potere
centrale, peraltro già limitato, a favore di un rafforzamento della sovranità cantonale.
In Ticino il mutamento del clima internazionale e la caduta dell’Atto di Mediazione, che
chiamava i cantoni a dotarsi di nuove Costituzioni, meglio confacenti all’orientamento
conservatore delle potenze alleate, scatenarono una crisi gravissima 3. Del resto il cantone
subalpino attraversava ormai da alcuni anni un momento particolarmente difficile a causa
dell’occupazione militare da parte delle truppe del Regno d’Italia. Disposta dai Francesi per
arginare il favoreggiamento di contrabbando e diserzione imputato al Ticino e durata
dall’ottobre del 1810 al novembre del 1813, essa ostacolò fin quasi alla paralisi l’azione, già
inefficiente, delle istituzioni e fu accompagnata dall’aggravarsi di fenomeni di corruzione e
clientelismo fra la classe dirigente. In seguito alla rivendicazione avanzata da Uri nel
febbraio del 1814 di annettere la Leventina, la stessa integrità del cantone fu a repentaglio.
Il rischio di una disgregazione del territorio ticinese era del resto un segnale rivelatore degli
scarsi progressi del processo di edificazione statale e nazionale avviato dall’emancipazione
cantonale del 1803. Le difficoltà incontrate dallo Stato erano palesate pure dal sentimento,
pressoché inesistente nella larga maggioranza dei Ticinesi, di appartenere a una patria
comune, identificata dai più con il proprio comune o, al massimo, con la regione nativa 4.
In questo contesto furono elaborati due progetti di Costituzione, datati rispettivamente 4
marzo e 10 luglio 1814, respinti però da potenze alleate e Dieta federale. Piccolo e Gran
Consiglio finirono col cedere alle pressioni federali e straniere, elaborando il 29 luglio un
terzo testo, infine approvato dalla Dieta federale, ma respinto in votazione dagli elettori
ticinesi. L’ampio scontento popolare, provocato in primo luogo dalla crescente sfiducia
nelle istituzioni e nella classe dirigente, si condensò nel mese di dicembre in un esteso
movimento popolare a base comunale. Alcuni notabili, fra cui Angelo Maria Stoppani,
seppero prenderne le redini e sul finire di agosto si riunì a Giubiasco un’assemblea di
delegati comunali. Quest’ultima decise la destituzione delle autorità elette da pochi giorni e
la nomina di nuove istituzioni provvisorie, il Consiglio cantonale (legislativo) e la Reggenza
(esecutivo), in attesa di eleggerne di definitive. Dopo aver respinto il Patto federale, che
attendeva di essere approvato dalle autorità cantonali, i nuovi organi stesero una nuova
Costituzione, datata 4 settembre.
Sulle cause e lo svolgimento dei moti costituzionali del 1814 in Ticino si veda: R. Ceschi, Il Cantone Ticino
nella crisi del 1814, Bellinzona, 1979 e A. Ghiringhelli, La costruzione del Cantone (1803-1830), in R. Ceschi (a cura
di), Storia del Cantone Ticino. L’Ottocento, Bellinzona, 1998, pp. 33-62.
4 Sul tema dello sviluppo di una coscienza identitaria ticinese si vedano, tra gli altri, R. Ceschi, Appunti sulla
‘ticinesità’, in Bloc notes, 1980, n. 2-3, pp. 7-14 e A. Ghiringhelli, Costruire lo Stato, costruire la Nazione, in
«Bollettino storico della Svizzera italiana», 2002, fascicolo 2, pp. 27-37.
3
40
Percorsi di ricerca
4/2012
Quando la Carta fu sottoposta ai comuni per l’approvazione, le diverse posizioni all’interno
del fronte popolare, fino ad allora sufficientemente compatto, finirono per causarne lo
sgretolamento. Confrontata con una situazione internazionale estremamente delicata, la
Dieta federale era contraria ai moti costituzionali in atto in Ticino a causa del loro
orientamento, contrapposto a quello delle potenze alleate, e della pericolosa instabilità di
cui erano responsabili sul versante meridionale delle Alpi, instabilità che rischiava di
compromettere la già difficile situazione elvetica. Tra agosto e settembre le autorità federali
inviarono dunque in Ticino un commissario straordinario, il colonnello lucernese Ludwig
von Sonnenberg, e forze militari per domare la sedizione e ripristinare gli organi destituiti.
Le sorti dei moti costituzionali apparvero allora segnate. Soggiogata la rivolta, la Dieta
mandò in Ticino anche una Corte di giustizia, presieduta da Johann Jakob Hirzel, incaricata
di giudicare i responsabili della sedizione, chiamati a rifondere le spese originate dal
tumulto. In dicembre fu infine approvata la Costituzione cantonale imposta dalla Dieta
federale, segnando così l’avvio del cosiddetto regime dei Landamani, caratterizzato da una
netta preminenza dell’esecutivo sul legislativo e dalla restrizione dell’accesso al diritto di
cittadinanza attiva.
Condanna
Attratto dai principi della Rivoluzione francese, Angelo Maria Stoppani aveva esordito sul
piano politico cantonale nel 1798, affermandosi fra gli esponenti filoelvetici e
moderatamente progressisti nel tribolato periodo della Repubblica elvetica. Dopo aver
ottenuto sotto quest’ultima incarichi di rilievo, come quelli di segretario del Consiglio, poi
Governo provvisorio di Lugano (marzo-luglio 1798), di giudice del tribunale cantonale di
Lugano (1801-1802) e di ministero pubblico, in seno al nuovo cantone era stato deputato al
Gran Consiglio (1803-1808) e membro del Piccolo Consiglio (1803-1805). Questa
promettente carriera politica aveva però accusato una prima battuta d’arresto nel 1805,
quando Angelo Maria aveva mancato la rielezione nell’esecutivo, e una seconda nel 1808,
quando era stato escluso anche dal Gran Consiglio. Pur continuando a esercitare cariche
influenti, come quelle di commissario di governo (1805-1807) e di giudice del tribunale
d’appello (1809-1813), le sue aspirazioni politiche sembrano aver incontrato sempre
maggiori difficoltà. Nel 1813 egli perse infatti nuovamente le elezioni al Gran Consiglio.
Tra le cause del momento di impasse politica in cui sembrava versare alla vigilia della crisi
costituzionale del 1814 vi furono l’antagonismo con personalità di indubbio potere 5 e le
difficoltà a inserirsi efficacemente nella rete di relazioni politiche, ma pure familiari, che
univa i principali esponenti politici. In un contesto di impronta fortemente clientelare come
il sistema politico ticinese, il collocamento all’interno di queste reti di potere determinava in
ampia misura fortune e sfortune dei membri della classe politica. Se è facile intuire
l’incidenza negativa della rivalità con Giovanni Battista Quadri, che nel 1807 strappò ad
Angelo Maria la carica di commissario di governo e che di lì a poco si sarebbe affermato
come la personificazione stessa del regime dei Landamani, le modalità e le ragioni di questo
inefficace posizionamento, forse riconducile anche a ragioni caratteriali, restano ancora da
indagare.
In ogni caso, nella crisi del 1814 lo Stoppani riuscì a farsi interprete dell’insoddisfazione
degli elettori ticinesi di fronte al progetto costituzionale del 29 luglio e a porsi alla testa del
movimento che sfociò nel congresso di Giubiasco dell’agosto successivo. Nominato
presidente del Consiglio cantonale provvisorio che designò la Reggenza provvisoria, di cui
Angelo Maria si scontrò ad esempio con i sopracenerini Vincenzo Dalberti e Giuseppe Rusconi a proposito
della designazione del capoluogo cantonale, conteso tra Bellinzona e Lugano (cf. Ceschi, Il Cantone Ticino, cit.,
pp. 190-191).
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fu pure presidente, egli tornò sulla breccia, seppur per breve tempo. Il fallimento dei moti
in settembre e l’intervento federale lo spinsero a cercare rifugio a Como, dove la famiglia
possedeva una casa e altre proprietà. Posto sotto accusa dalla Corte federale di giustizia,
inviata in Ticino dalla Dieta federale, egli fu invitato a presentarsi dinnanzi agli inquirenti
per rispondere delle accuse di sedizione che gli venivano rivolte. Dopo aver ottenuto un
salvacondotto, con cui gli si garantiva l’immunità, egli tornò in Ticino per difendere il
proprio operato, ma per ordine del colonnello von Sonnenberg fu arrestato e tradotto in
carcere in flagrante contravvenzione del permesso concessogli 6.
La famiglia di Angelo Maria – e in particolare la moglie Marianna, ancora in Ticino, e il
fratello Giovanni Battista, da Milano – si mobilitò subito in suo favore, protestando per
l’ingiustizia commessa infrangendo l’immunità accordata e cercando di alleviare le
condizioni, piuttosto dure, della prigionia. Assistita da Bernardo Pebbia, canonico di
Lugano, vicino alla famiglia per ragioni di amicizia e di parentela, Marianna si recò a
Bellinzona per perorare la sua causa e presentò un memoriale di protesta al Piccolo
Consiglio 7. A Milano, dove era caduto il governo francese a seguito dei moti rivoluzionari
cittadini e dell’avanzata delle truppe austriache, il fratello Giovanni Battista rivolse al conte
Heinrich Joseph di Bellegarde, plenipotenziario austriaco, un’altra petizione 8. Se anche in
questo documento, come già nel memoriale presentato da Marianna, si protestava per
l’ingiustizia commessa e si rivendicava la liberazione del congiunto o quanto meno il
miglioramento delle condizioni di prigionia, in questo secondo testo Giovanni Battista
Stoppani motivava la legittimità e anzi la necessità di un intervento austriaco con la
cittadinanza comasca e quindi austriaca del fratello Angelo Maria. Torneremo più tardi su
questo aspetto, per ora basti sapere che gli sforzi degli Stoppani non servirono a evitare il
peggio ad Angelo Maria.
La mattina del 15 gennaio 1815 questi fu rinvenuto esanime nella sua cella. Le circostanze
della morte rimangono poco chiare. Se la versione ufficiale del governo ticinese, riportata
anche dalla stampa italiana 9, l’attribuisce al suicidio, la famiglia Stoppani lasciò in seguito
chiaramente trasparire la convinzione che si fosse trattato di un assassinio, adducendo a
conferma il rifiuto delle autorità ticinesi di consegnare la salma ai congiunti e di svolgere
sulla vicenda approfondite indagini 10.
La morte di Angelo Maria ebbe pesanti conseguenze per la famiglia, in primo luogo per
l’esito del provvedimento giudiziario intentato contro di lui per i fatti del 1814. Mancato
Angelo Maria, a essere chiamati a rispondere della richiesta di indennizzo per le spese
causate alla Confederazione dai moti del 1814 furono infatti i suoi eredi, ossia la moglie
Marianna e i sei figli ancora minorenni, rappresentati di fronte alle autorità da Leone
Stoppani, zio di Angelo Maria. A seguito della morte di Angelo Maria, a Marianna, assistita
da Leone e da tale Bellasi, zio materno di Angelo Maria, fu affidata la tutela dei figli e la
curatela sulla sostanza del defunto marito 11. I beni di Angelo Maria in territorio svizzero
furono posti sotto sequestro e il processo contro di lui si concluse il 22 maggio 1815 con la
sentenza della Corte federale di giustizia presieduta da Hirzel, che riconobbe Angelo Maria
come uno dei principali responsabili dei moti, condannando perciò i suoi eredi a pagare
8000 franchi di multa. Il primo luglio, con la vidimazione della sentenza da parte della Dieta
federale riunita a Zurigo, questa cifra fu ridotta a 6400 franchi, dato che il Gran Consiglio
Per la ricostruzione delle vicende della famiglia Stoppani in seguito all’arresto di Angelo Maria si è fatto
riferimento ai documenti conservati nell’Archivio De Stoppani presso l’Archivio di Stato del Cantone Ticino
a Bellinzona (in seguito: ASTi), scatola 13.
7 ASTi, 13.11.1, Petizione della famiglia Stoppani al Piccolo Consiglio ticinese, 9.1.1915.
8 ASTi, 13.11.1, Petizione di Giovanni Battista Stoppani al conte Heinrich Joseph di Bellegarde, 9.1.1815.
9 ASTi, 13.11.1, «Giornale italiano», 31.1.1815.
10 ASTi, 13.11.1, Petizione della famiglia Stoppani alla Dieta federale, senza data.
11 ASTi, 13.11.1, Lettera della municipalità di Lugano a Marianna Stoppani, 15.1.1815.
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ticinese aveva deciso il 14 giugno di farsi carico di una parte delle spese occasionate dai
tumulti, sborsando 100’000 franchi a tale scopo 12.
Solidarietà
Prima di esaminare in che modo la famiglia Stoppani cercò di contenere i danni causati dal
fallimento dei moti costituzionali del 1814, è necessario ricordare la suddivisione
patrimoniale interna alla famiglia avvenuta nel corso dello stesso anno. In seguito alla
morte, il 5 marzo 1814, di Nicola Stoppani, i suoi eredi, ossia i figli Angelo Maria e
Giovanni Battista e il fratello Leone, canonico della cattedrale di Como, si erano divisi il 18
luglio le proprietà di famiglia 13. Al canonico Leone era andata la metà di tutti i beni ancora
indivisi con il defunto fratello Nicola, mentre gli erano state riconosciute le sue proprietà
(«case, stabili, crediti, ragioni ed effetti») nella città di Como e a Viconago e dintorni, non
compresi nella divisione del 18 luglio perché già assegnati a lui nel 1788. Giovanni Battista
aveva ereditato un credito di 31’000 lire milanesi verso tale Bonsignori di Milano, 1500 lire
italiane impiegate presso il Monte nazionale di Milano e tutte le proprietà nel capoluogo
lombardo. Ad Angelo Maria erano andati «tutti i beni mobili, semoventi e crediti nella
giurisdizione svizzera», come pure tutti quelli esistenti nello Stato milanese da lui
direttamente acquistati. Il credito di 30’700 lire italiane verso i conti Francesco e Luigi
Melzi d’Eril era stato assegnato congiuntamente ad Angelo Maria e Leone, mentre il primo
si era fatto carico di tutti gli eventuali debiti gravanti le proprietà a lui assegnate e
dell’obbligo di manutenzione dell’oratorio di famiglia a Ponte Tresa. Questa suddivisione,
corroborata dalla scelta della propria residenza principale – Angelo Maria a Lugano e
Giovanni Battista a Milano – aveva lasciato supporre una divisione delle responsabilità tra
Angelo Maria e Giovanni Battista, destinati a reggere le sorti della famiglia, curandone gli
interessi l’uno in terra svizzera, l’altro in terra lombarda 14.
Questo quadro, solo apparentemente chiaro, si complica però nelle carte di famiglia
successive alla morte di Angelo Maria. Già il 20 gennaio, rispondendo da Como, dove si era
rifugiata con i figli, alla lettera con cui il municipio di Lugano le comunicava di averla
nominata curatrice e tutrice provvisoria dei suoi figli e della sostanza del defunto marito,
Marianna Stoppani affermò che Angelo Maria agiva in territorio svizzero come semplice
rappresentante dello zio Leone. Con strumento notarile del 20 luglio 1814, Angelo Maria
aveva infatti ceduto allo zio Leone tutte le proprietà svizzere in cambio di beni nel
Milanese, rivedendo così – e non di poco – la suddivisione del 18 luglio. Ciò aveva peraltro
come conseguenza di ostacolare il tentativo delle autorità federali di rifarsi sugli eredi diretti
di Angelo Maria: se i beni in territorio svizzero erano effettivamente di Leone Stoppani, il
loro sequestro e una loro eventuale confisca divenivano illegali, dato che non era possibile
sanzionare qualcuno per crimini commessi da altri.
L’autenticità dello strumento di divisione del 20 luglio 1814 apparve però presto dubbia alle
autorità federali. Convocato a Lugano dalla Corte di giustizia per chiarire la propria
posizione, il canonico Leone si fece rappresentare dal proprio avvocato, sostenendo di
essere impossibilitato a muoversi per ragioni di salute, ma probabilmente anche perché
temeva di fare la fine del nipote. Egli presentò comunque alla Corte l’atto di divisione del
20 luglio 1814, l’unico documento che comprovava la sua pretesa di essere il solo
ASTi, 13.10.7, Sentenza della Corte federale di giustizia in Lugano, 22.5.1815, vidimata dalla Dieta federale,
1.7.1815.
13 ASTi, 13.10.2, Strumento notarile di divisione tra Leone, Angelo Maria e Giovanni Battista Stoppani,
18.7.1814.
14 Per un’illustrazione più dettagliata di questa tesi e delle modalità della suddivisione patrimoniale tra Angelo
Maria e Giovanni Battista Stoppani, cf. Mariani Arcobello, Angelo Maria, cit.
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proprietario di tutti i beni della famiglia Stoppani nel Canton Ticino. La Corte si rifiutò
però di riconoscere tale documento, esprimendo dubbi sulla sua autenticità 15. Essa
giungeva a questa conclusione, non perché avesse prove concrete della presunta
falsificazione, ma sulla base di alcune constatazioni che la rendevano effettivamente molto
probabile.
In primo luogo, lo strumento del 20 luglio era in evidente contraddizione con l’atto firmato
due giorni prima, tanto da rendere incomprensibili le ragioni che potevano aver motivato
una prima divisione il 18 luglio e poi una sua quasi completa revisione solo due giorni
dopo. La spiegazione portata dal canonico Leone, che affermava che non vi era
contraddizione alcuna, dato che l’atto del 18 luglio era diretto innanzitutto a liquidare il
nipote Giovanni Battista e che, fatto ciò, quello del 20 procedeva invece a regolare la
divisione tra Leone e Angelo Maria, appare poco convincente. Nel testo del 18 luglio –
come visto – era infatti già definita l’attribuzione dei beni spettanti ad Angelo Maria. La
sola proprietà a rimanere indivisa tra zio e nipote era il credito verso i conti Melzi d’Eril,
assegnato congiuntamente a entrambi. E proprio questo credito si pretendeva fosse andato
interamente ad Angelo Maria con l’atto del 20 luglio in cambio di tutte le proprietà in
territorio svizzero. In secondo luogo, la Corte rilevava che di fatto Angelo Maria aveva
agito dopo il 20 luglio come se fosse il diretto proprietario dei beni svizzeri, acquistando,
vendendo e riscuotendo, senza mai precisare il suo ruolo di procuratore dello zio e senza
mai che lo zio intervenisse palesando la sua posizione di legittimo proprietario. A
quest’osservazione Leone replicava – anche in questo caso piuttosto debolmente – che ciò
non dimostrava affatto che Angelo Maria fosse in realtà il proprietario, ma solo che egli
aveva affidato al nipote l’amministrazione dei suoi beni e che l’agire del nipote non aveva
reso necessario il suo intervento. A questo proposito è interessante notare che il 10 aprile
1815, in pieno procedimento legale, Leone provvide a conferire mandato di rappresentarlo
nell’amministrazione dei suoi beni in territorio svizzero alla vedova di Angelo Maria,
Marianna Stoppani. Cosa ancor più interessante, a quest’ultima era già stato affidato un
incarico simile nel 1811 16, mentre allo stato attuale della ricerca non risulta alcuna delega di
questo tipo al nipote Angelo Maria, delega che Leone non presentò peraltro alla Corte a
sostegno della propria tesi.
Pur riservandosi di procedere in un secondo tempo contro Leone Stoppani, la Corte
rinunciò, probabilmente per la difficoltà dell’operazione, a dimostrare la falsità dello
strumento notarile del 20 luglio e chiese invece al canonico di rimetterle, a garanzia del
pagamento della multa, lo strumento originale di credito verso i conti Melzi d’Eril. Alla
consegna di tale documento, il sequestro posto sui beni svizzeri degli Stoppani sarebbe
stato tolto. Leone Stoppani presentò però solo una copia dell’atto, spiegando che non
poteva disporre dell’originale perché lo aveva consegnato al nipote Angelo Maria a seguito
della divisione del 20 luglio. Di fronte a questo ulteriore tentativo di Leone di tutelare le
proprietà di famiglia, sottraendole al sequestro cui erano sottoposte, la Corte reagì
spiccando un decreto d’accusa contro il canonico imputato di continui raggiri e maneggi.
L’animata battaglia legale tra la Corte federale di giustizia, da un lato, e il canonico Leone
Stoppani, dall’altro, da cui è possibile evincere le argomentazioni di entrambe le parti, si
protrasse per alcuni mesi. A porvi fine fu, nel maggio del 1815, la sentenza con cui la Corte
condannò la famiglia Stoppani al pagamento di 8000 franchi, poi ridotti a 6400. Dopo la
vidimazione della sentenza da parte della Dieta federale nel luglio seguente, gli Stoppani
furono infatti costretti ad arrendersi e a sborsare l’onerosa cifra, per evitare che si
procedesse manu militari alla liquidazione dei loro beni in Svizzera. Per raccogliere il denaro
ASTi, 13.11.2, Verbale della comparsa e presentazione documenti intimate dalla Corte federale di giustizia
del cantone Ticino al canonico Leone Stoppani, 31.3.1815.
16 ASTi, 13.10.4, Ricevuta di versamento di Giovanni Battista Stoppani a Marianna Stoppani, procuratrice del
canonico Leone Stoppani, 10.3.1811.
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necessario Leone fu costretto a procedere alla vendita di alcune sue proprietà 17 e a
indebitarsi con Carlo Rovelli, vescovo di Como, che gli concesse infatti un prestito di 6000
lire italiane 18.
Discordia
Il pagamento della multa, avvenuto attorno alla metà di luglio del 1815, e la conseguente
chiusura del procedimento legale intentato dalla Corte federale di giustizia contro gli eredi
di Angelo Maria Stoppani non segnò però la fine delle tribolazioni legali degli Stoppani.
Fallito il tentativo di difendere il patrimonio familiare dalle conseguenze del fallimento dei
moti del 1814, il fronte compatto fra i membri del casato, e in particolare tra la vedova e gli
orfani di Angelo Maria e Leone e Giovanni Battista Stoppani, si sgretolò. Dopo un primo
periodo di pace familiare, durante il quale Marianna, tornata a Lugano, fu – come detto –
nominata amministratrice dei beni della famiglia in territorio svizzero, presto si
presentarono i primi screzi tra Marianna e Leone. Senza le proprietà nel Canton Ticino e i
redditi che ne derivavano, Marianna cominciò a lamentare la difficoltà di provvedere ai
bisogni della sua numerosa prole e a rivolgere al canonico Leone appelli sempre più severi
di corrisponderle quanto le era dovuto. In un primo tempo, Marianna reclamò
precisamente la quarta parte dei possedimenti degli Stoppani nel Lombardo Veneto,
sottolineando che le proprietà lombarde del defunto marito non si limitavano al credito
verso i conti Melzi d’Eril, ma comprendevano anche altri beni oltre a quelli indicati
nell’inventario confidenziale allegato agli atti di divisione del 1814 19.
Dopo averla sostenuta di fronte alle autorità federali e cantonali nel 1815, Marianna
sembrava ora distanziarsi, almeno privatamente, dalla versione dell’assegnazione a Leone di
tutti i beni svizzeri della famiglia. I rapporti tra Marianna e Leone si incrinarono fino a
sfociare in una causa legale, intentata da Marianna di fronte alla giustizia di pace per
ottenere tra l’altro il pagamento di 30’000 lire per ragioni dotali e il riconoscimento di
quanto le spettava di alcune proprietà Stoppani nel Ticino. I rapporti, pur tesi, tra Marianna
e Leone non impedirono però a quest’ultimo di accettare di farsi carico delle spese
universitarie dei pronipoti Gerolamo e Valente Stoppani, avviati a studi di diritto,
confidando che con una laurea i pronipoti avrebbero potuto «rimettere l’onore e il decoro
della famiglia e sostenersi dignitosamente» 20. Dal canto suo, la stessa Marianna invitò il
figlio Gerolamo a «mantenersi nelle grazie dello zio canonico», che poteva provvedere ai
suoi bisogni. Apparentemente soprattutto per ragioni di convenienza economica, Marianna
sembrava quindi incline a evitare una rottura totale con la famiglia del defunto marito, pur
non rinunciando ad adire le vie legali per ottenere quanto le era dovuto. La situazione
finanziaria di Marianna doveva essere comunque relativamente precaria, se alcuni anni
dopo fu costretta a richiedere un prestito di 1500 lire cantonali al cognato Francesco Capra
per provvedere alle necessità della famiglia 21.
I rapporti tra i due «rami» degli Stoppani si tesero ulteriormente, quando attorno al 1822
Gerolamo e Valente, divenuti maggiorenni, subentrarono alla madre nella causa contro lo
ASTi, 13.10.4, Ricevuta di versamento di Marianna Stoppani a Leone Stoppani, 1815.
ASTi, 13.11.4, Pagherò di Leone Stoppani a favore di Carlo Rovelli, vescovo di Como, 5.7.1815.
19 ASTi, 13.10.4, Lettera di Marianna Stoppani a Leone Stoppani, 10.6.1821.
20 ASTi, 13.10.5, Lettera di Leone Stoppani a Giovanni Battista Stoppani, 3.8.1821. In seguito il canonico
sembrò essersi scordato di questo slancio di generosità. In una lettera al nipote Giovanni Battista, che aveva
anticipato i soldi necessari agli studi di Gerolamo e Valente e che chiedeva di essere risarcito, affermò infatti
di non ricordarsi di aver promesso di coprire le spese universitarie dei due pronipoti, ma di acconsentire
comunque ad accollarsele, sottolineando però che in futuro non avrebbe sborsato altro denaro. Cf. ASTi,
13.10.5, Lettera di Leone Stoppani a Giovanni Battista Stoppani, 11.11.1821.
21 ASTi, 13.10.4, Strumento di credito di Marianna Stoppani verso Francesco Capra, 11.4.1826.
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zio Leone. Alle rivendicazioni già avanzate da Marianna, aggiunsero quella di essere gli
unici proprietari della casa in via Nassa a Lugano in cui risiedevano. Dopo la madre, anche i
figli rimettevano quindi in discussione la presunta attribuzione dei beni svizzeri al canonico
Leone. Anche in questo caso, il procedimento legale fu lungo e tortuoso, tanto che appare
difficile (e forse inutile in questa sede) ricostruirne nel dettaglio le diverse tappe. Basti
sapere che poco prima della morte, il 6 ottobre 1823, di Leone Stoppani, che avrebbe
rimescolato di nuovo le carte, gli eredi di Angelo Maria ottennero un risultato in parte
positivo. Durante l’estate precedente risulta infatti un loro ricorso in appello contro la
sentenza pronunciata il 30 luglio 1823, poiché quest’ultima «fa riserva al suddetto canonico
Leone De Stoppani delle ragioni di comproprietà [sulla casa di via Nassa e su altri beni,
non meglio precisati]»: se ciò equivaleva in effetti a una mancata soddisfazione della loro
rivendicazione di essere gli unici titolari di tali beni, gli eredi di Angelo Maria avevano
quanto meno ottenuto di essere riconosciuti proprietari almeno in parte di immobili nella
giurisdizione svizzera, contrariamente a quanto affermato dopo la morte del padre sulla
base dello strumento di divisione del 20 luglio 1814. Il progressivo distanziarsi di Marianna
e dei suoi figli dalla versione sostenuta all’indomani della morte di Angelo Maria non fa che
rafforzare l’ipotesi, sostenuta dalla Corte federale di giustizia nel 1815, che si trattasse di un
tentativo disperato e fraudolento di sottrarre la famiglia e i suoi beni alle conseguenze del
fallimento dei moti del 1814.
Lo scontro si fece ancor più duro quando, dopo la morte di Leone, il nipote Giovanni
Battista fece valere i propri diritti di erede universale di quest’ultimo, richiedendo a
Gerolamo e fratelli di cedergli le proprietà del defunto canonico da lui ereditate in base al
testamento di Leone e alla convenzione conclusa tra Giovanni Battista, Angelo Maria e
Leone il 20 luglio 1814. Tale richiesta corrispondeva al risarcimento dei 6400 franchi di
multa sborsati dallo zio Leone. Anche questa rivendicazione fu all’origine di un lungo
procedimento legale, durato dal 1823 al 1826. Esaminando il vivace scambio di petizioni,
risposte, repliche e dupliche, è possibile ricostruire le posizioni delle due parti. Alle
rivendicazioni economiche avanzate contro il canonico Leone da Marianna, prima, e da
Gerolamo e fratelli, poi, Giovanni Battista rispondeva chiedendo che i nipoti fossero
costretti innanzitutto a saldare il loro debito verso il canonico e ora verso di lui, nella sua
posizione di erede universale di quest’ultimo. Secondo Giovanni Battista, Leone,
proprietario sulla base dell’ormai celebre strumento di divisione del 20 luglio 1814, di tutte
le proprietà degli Stoppani in Svizzera aveva provveduto di tasca propria a pagare la multa
inflitta agli eredi diretti di Angelo Maria. Secondo Giovanni Battista, Leone aveva però
diritto a essere risarcito di tale cifra e, visto che non lo era stato mentre era in vita,
Giovanni Battista in qualità di suo erede riteneva ora che questa somma fosse di sua
legittima spettanza. Alle richieste dello zio, Gerolamo e fratelli rispondevano da un lato
rimettendo in discussione la ripartizione patrimoniale della famiglia e in particolare l’atto
del 20 luglio 1814, di cui nel 1825 chiesero apertamente lo stralcio in quanto falso, e
dall’altro sostenendo che in ogni caso Leone, che era all’epoca loro tutore legale, aveva
provveduto a pagare la multa con soldi loro. Anche nell’ipotesi (a cui non credevano) in cui
avesse sborsato soldi suoi – aggiungevano poi – egli non ne aveva mai chiesta la
restituzione, ciò che provava che considerava tale esborso come una donazione in loro
favore. Il risultato in entrambi i casi era che non avrebbero restituito un centesimo allo zio.
In assenza della documentazione completa relativa alla causa legale, mi è impossibile
ricostruire l’esito definitivo del procedimento. L’ultima traccia conservata è la sentenza del
tribunale di appello di Lugano, che il 16 dicembre 1825 accolse per intero le
argomentazioni di Gerolamo e dei suoi fratelli respingendo la petizione di Giovanni
Battista. Resta invece ignota la conclusione del ricorso in appello presentato in seguito da
Giovanni Battista.
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Breve analisi delle strategie di difesa
Al termine dell’esposizione delle tortuose vicende giudiziarie degli Stoppani – di cui si è
tentato nelle pagine precedenti di abbozzare un primo schizzo, pur nella difficoltà di fornire
una ricostruzione certa a causa della discontinuità e della parzialità dei documenti
disponibili – sembra utile ricapitolare in estrema sintesi le reazioni della famiglia al
fallimento dei moti costituzionali del 1814.
Per breve tempo tali avvenimenti lasciarono sperare, innanzitutto, in un rilancio della
carriera politica di Angelo Maria. Principale esponente della famiglia in territorio svizzero,
questi, pur avendo raggiunto in precedenza posizioni di grande autorevolezza, attraversava
alla vigilia dei moti un momento di relativa impasse politica. Il fallimento di tali moti e
soprattutto le rovinose conseguenze che ne derivarono rischiarono di assestare un duro
colpo alle basi economiche e alla posizione socio-politica degli Stoppani. Se la sentenza del
maggio 1815 della Corte federale, poi in parte rivista a luglio in occasione della sua
vidimazione da parte della Dieta federale, permise di quantificare con esattezza la portata
dei danni, che rimanevano peraltro piuttosto consistenti, il sequestro di tutti i beni della
famiglia in territorio svizzero attuato dalle autorità federali subito dopo la morte di Angelo
Maria poteva lasciar presagire conseguenze ancor più pesanti. Se l’ipotesi, non del tutto
improbabile, di una confisca definitiva di tutti i beni si fosse avverata, le basi stesse della
presenza degli Stoppani in Ticino sarebbero state compromesse.
Di fronte alla gravità di questo scenario i sopravvissuti, innanzitutto il canonico Leone – il
decano della famiglia – e Giovanni Battista, sostenuti almeno in un primo tempo da
Marianna, tentarono di attuare uno stratagemma, con ogni probabilità fraudolento, che
doveva permettere alla famiglia di salvare il salvabile, ma che finì poi col fallire. Produssero
allora un documento – lo strumento di divisione del 20 luglio 1814 – che rivedeva
sostanzialmente la distribuzione patrimoniale fra i suoi membri, rendendo illegale il
sequestro posto sui beni svizzeri della famiglia dopo la sua morte di Angelo Maria. Come
visto, questo documento fu ritenuto un falso dalle autorità federali. Pur senza poterlo
provare, queste ultime addussero, a sostegno di questa tesi, argomenti assai convincenti, alla
luce del testo dello strumento di divisione del 18 luglio 1814 e del comportamento –
rimasto invariato – dei diversi Stoppani dopo il rovesciamento, insito nella seconda
divisione del 20 luglio, degli equilibri patrimoniali interni alla famiglia. Più tardi alcuni
Stoppani – Marianna e, ancor più chiaramente, i suoi figli – rimisero in discussione la
divisione del 20 luglio, probabilmente una volta che si resero conto che il canonico Leone e
Giovanni Battista non avevano intenzione di controbilanciare le perdite che tale atto aveva
comportato per loro (o per lo meno non nella misura in cui si aspettavano avrebbero fatto).
A margine si rilevi pure che se tale atto fosse stato effettivamente vero, esso avrebbe
probabilmente messo in dubbio lo stesso statuto di cittadino attivo di Angelo Maria dati i
criteri censitari posti alla partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica, criteri i cui
fondamenti non furono rimessi in discussione neppure dai promotori della rivolta.
Al di là dell’effettiva veridicità della divisione del 20 luglio, rimangono alcuni fatti che non
mutano di molto la posizione degli Stoppani. In primo luogo, tale divisione non era nota
alle autorità federali e cantonali, che pensarono di potersi rifare su Angelo Maria ponendo
sotto sequestro quelli che consideravano essere suoi beni. In secondo, il sequestro a
garanzia del pagamento della multa fu mantenuto – legittimamente o illegittimamente –
fino all’effettivo esborso della somma richiesta.
Il fallimento del tentativo di porre i beni di famiglia al riparo dalle richieste di indennizzo
incrinò il fronte, inizialmente compatto, degli Stoppani, che tentarono di far pesare sul
ramo avverso il peso delle conseguenze dei fatti del 1814. Sembrerebbe infatti che
l’ipotizzata suddivisione spaziale delle responsabilità, che aveva affidato ad Angelo Maria la
cura degli interessi della famiglia in territorio svizzero e a Giovanni Battista gli interessi in
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area lombarda, abbia creato, in seguito alla morte di Angelo Maria, le condizioni favorevoli
al (ri)emergere delle rivalità in seno alla famiglia. Per effetto della divisione del 20 luglio –
vera o falsa che fosse – e della designazione a erede universale dello zio Leone di Giovanni
Battista, quest’ultimo divenne infatti l’elemento più forte, dal punto di vista patrimoniale,
all’interno della famiglia, mostrandosi poco incline a condividere la propria fortuna con i
nipoti.
In questo contesto è interessante osservare la posizione di Marianna Stoppani. Già prima
della morte del marito il suo ruolo all’interno della famiglia non pare passivo. Ne è una
dimostrazione tra l’altro lo statuto di amministratrice dei beni del canonico Leone in
territorio ticinese, attestato già nel 1811, ricoperto poi di nuovo dal 1815 e definitivamente
revocato solo nel 1822. D’altra parte, anche in precedenza Marianna pare essersi mossa in
ambito economico in modo relativamente autonomo: nel 1805 aveva infatti ottenuto dal
suocero Nicola Stoppani un prestito di 3500 lire di Milano, per saldare per intero l’acquisto
di una masseria, comprata a sua sorella Regina Carli, moglie di Francesco Capra. Alla morte
del marito, Marianna, designata tutrice e curatrice dei suoi figli e della sostanza del defunto,
tentò di tutelare l’avvenire dei propri figli, cercando di tenere testa a Leone e Giovanni
Battista. In lotta con l’altro ramo degli Stoppani, Marianna e poi i figli finirono
coll’appoggiarsi per questioni economiche ma anche per la tutela dei propri interessi ai
Capra: se Francesco, cognato di Marianna, le prestò come visto del denaro per provvedere
ai bisogni della sua numerosa prole, Fedele Capra (forse figlio o parente in altro modo di
Francesco) assunse poi la difesa dei figli di Marianna nella causa che li oppose a Leone e
poi a Giovanni Battista.
I moti costituzionali del 1814 e il loro fallimento mi paiono interessanti ai fini di un esame
delle strategie di potere, in questo caso conservative, della famiglia Stoppani anche per un
altro aspetto, che permette di accennare una breve riflessione sulla posizione della famiglia
rispetto al tema del diritto di cittadinanza. Mi ci soffermerò nelle pagine che seguono.
Gli Stoppani: «lombardi» o «svizzeri»?
Abbiamo già avuto modo di accennare molto brevemente al fatto che, in seguito all’arresto
del fratello Angelo Maria, il 9 gennaio 1815 Giovanni Battista presentò al conte di
Bellegarde, plenipotenzario austriaco, un memoriale in cui chiedeva l’intervento delle
autorità del Lombardo Veneto a favore del fratello. A motivazione di tale richiesta si
sottolineava la cittadinanza lombarda di Angelo Maria, «possidente nel dipartimento del
Lario e avente da anni domicilio stabile in Como» 22. In una situazione di estremo pericolo
per un loro congiunto, Giovanni Battista e gli altri membri della famiglia Stoppani si
appellarono quindi ai sovrani del Lombardo Veneto, da poco ristabilitisi al potere dopo
aver spodestato i Francesi, sottolineando i loro doveri di assistenza e tutela nei confronti di
un suddito.
Prima di mostrare il carattere per nulla eccezionale di un simile comportamento fra le file
degli Stoppani, è bene ricordare brevemente le origini e la distribuzione patrimoniale della
famiglia. Antico casato di origini comasche con numerose ramificazioni in area lombarda,
gli Stoppani erano presenti stabilmente in terra ticinese dal XVI secolo. Anche dopo aver
messo radici e aver prosperato nel meridione dei baliaggi transalpini, avevano comunque
conservato una forte presenza nel ducato milanese. Il loro caso può anzi essere citato ad
esempio di quel gruppo di famiglie agiate, presenti soprattutto nei baliaggi di Lugano e
ASTi, 13.11.1, Petizione di Giovanni Battista Stoppani a nome del fratello Angelo Maria al conte Heinrich
Joseph di Bellegarde, 9.1.1815.
22
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Mendrisio, per cui il confine politico tra le due entità territoriali (i baliaggi italiani e il ducato
di Milano) non costituiva una cesura netta nella distribuzione dei propri beni 23.
Mi sembra quindi particolarmente interessante rilevare come a questa «permeabilità del
possedere» (prendendo a prestito un’espressione di Stefania Bianchi) corrisponda
un’affermazione bivalente della propria appartenenza «nazionale» 24 da parte degli Stoppani,
e probabilmente anche di altre famiglie. Tale ambivalenza – è bene dirlo sin d’ora – va in
ampia parte ricondotta al contesto ancora solo parzialmente esposto a condizionamenti
nazionali, condizionamenti che divennero viepiù costringenti con il progredire del processo
di edificazione statale e nazionale. Resta il fatto che nel 1815 gli Stoppani non erano nuovi
ad affermazioni in una certa misura contraddittorie della loro appartenenza nazionale.
Gli Stoppani avevano ottenuto nel 1616 la cittadinanza di Milano, insieme al titolo
nobiliare. Questa concessione, fatta a Giovanni Battista di Ponte Tresa da Filippo III, re di
Spagna e duca di Milano, segnava naturalmente l’ascesa sociale della famiglia piuttosto che
l’integrazione in una struttura nazionale di cui sarebbe anacronistico parlare in quest’epoca
(per lo meno rispetto al concetto di nazione diffusosi nel XIX secolo). Sul tema della
cittadinanza, in senso lato, si trova poi un’ulteriore attestazione nelle carte della famiglia nel
1775 quando Alessandro Maria, figlio di Angelo Maria sr e fratello di Nicola Stoppani
(rispettivamente nonno e padre di Angelo Maria e Giovanni Battista), chiese e ottenne la
concessione di un passaporto «austriaco» che doveva permettergli di viaggiare in Europa.
La prima attestazione che può essere interpretata nel senso di un’affermazione (più
moderna) della propria appartenenza nazionale risale però al 1798-1799 e all’instabile
periodo della Repubblica elvetica, che introdusse per la prima volta, seppur
temporaneamente, il diritto di cittadinanza svizzera 25. Premesso che allo stato attuale della
ricerca non mi è possibile circostanziare meglio questa richiesta, il 26 giugno 1798 la
famiglia di Nicola Stoppani ottenne infatti dal governo provvisorio di Lugano che le fosse
rilasciato un attestato che ne certificava la nazionalità svizzera 26. In assenza di maggiori
informazioni, si può solo supporre che fra le ragioni che motivarono questa domanda vi sia
stato anche il desiderio di fugare ogni dubbio sull’appartenenza nazionale e quindi pure sul
diritto di partecipare alla vita pubblica di una famiglia che conservava in effetti ampi
possedimenti al di là di un confine che proprio con l’Elvetica acquisiva maggiore densità 27.
In ogni caso, essa diviene ancor più interessante alla luce di quanto avvenne l’anno
successivo.
Nel 1799, a seguito del rovesciamento antifrancese degli equilibri locali e internazionali,
Giovanni Battista Stoppani affermò infatti la propria cittadinanza lombarda. A Giovanni
Battista, fratello minore di due figure di rilievo della rivoluzione del 1798 a Lugano –
Angelo Maria, segretario del governo provvisorio, e Felice, commissario di guerra,
assassinato proprio nei moti antifrancesi dell’aprile di quell’anno –, allora a Como presso lo
zio Leone per ragioni di studio, era stato intimato di abbandonare la città, perché accusato
Per una più ampia trattazione del tema del compenetrarsi a cavallo del confine delle proprietà lombarde ed
elvetiche si veda S. Bianchi, Proprietari stranieri in Lombardia e ‘possessori’ lombardi nella Svizzera italiana (XVIXVIII secc.), in L. Lorenzetti, N. Valsangiacomo (a cura di), Lo spazio insubrico. Un’identità storica tra percorsi
politici e realtà socioeconomiche 1500-1900, Bellinzona, 2005, pp. 109-128.
24 Consapevole della complessità del concetto di appartenenza «nazionale», il cui utilizzo è particolarmente
delicato in questa fase di progressivo superamento dell’ancien régime, e dell’enorme abbondanza di letteratura
su di esso, mi limito a rimandare per una definizione sintetica del concetto e degli approcci storiografici a
questo tema che si sono succeduti in Svizzera a G. Kreis, Nazione, in Dizionario storico della Svizzera, vol. 9,
Locarno, 2010, pp. 20-22 (URL: http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I17437.php).
25 Si veda sull’argomento, tra gli altri, S. Arlettaz, Citoyens et étrangers sous la République Helvétique, 1798-1803,
Ginevra, 2005.
26 Cf. A. Gili (a cura di), I protocolli dei governi provvisori di Lugano, 1798-1800, vol. 1, Lugano, 2010, p. 77.
27 Su questo argomento si veda anche S. Guzzi, Logiche della rivolta rurale. Insurrezioni contro la Repubblica elvetica
nel Ticino meridionale (1798-1803), Bologna, 1994, p. 15 e S. Bianchi, Fra Cisalpina ed Elvetica: un fragile confine, in
A. Gili (a cura di), Lugano dopo il 1798, Lugano, 1999, pp. 135-144.
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dal podestà di essere un pericoloso elemento giacobino. Intervenne allora lo zio Leone,
personalità di una certa influenza nella città per la sua posizione nelle gerarchie
ecclesiastiche. Egli prese le difese del nipote, affermando la sua estraneità ai moti del 1798 e
garantendo per la sua buona condotta 28. Nella supplica presentata alla regia commissione
generale di polizia, affinché revocasse l’intimazione a lasciare la città pronunciata dal
podestà, si sottolineava che Giovanni Battista era «per nascita accidentale luganese», ma che
il padre Nicola e lo zio Leone, fratelli indivisi, possedevano beni a Como, Lavena,
Viconago, nella Valtravaglia e nella Valcuvia. I due avevano inoltre pagato i tributi richiesti
all’invasione dei Francesi. Ciò provava la cittadinanza comasca e, più in generale, lombarda
della famiglia 29. A distanza di meno di un anno dalla richiesta della famiglia di Nicola
Stoppani di vedersi confermare pubblicamente la propria cittadinanza svizzera, a seguito
del sovvertimento degli equilibri locali e internazionali, uno dei suoi figli sottolineava quindi
la cittadinanza lombarda della famiglia.
Ciò avvenne, come visto, anche nel gennaio del 1815, con la richiesta di soccorso al fratello
presentata da Giovanni Battista alle autorità lombarde, e si ripeté nuovamente nel 1817. In
quell’anno Giovanni Battista si era visto negare il rilascio della carta di iscrizione e
sicurezza, necessaria per circolare liberamente nel regno Lombardo Veneto, perché nato a
Lugano. Benché avesse già ottenuto in precedenza documenti che comprovavano la sua
cittadinanza austriaca, l’introduzione di nuove norme che negavano tale diritto alle persone
nate all’estero ostacolava ora la sua richiesta. Egli domandò perciò al governo di Milano di
attestare la sua «naturalizzazione, ossia la cittadinanza austriaca a norma del Codice civile» 30.
A sostegno della legittimità di tale domanda, sottolineava di risiedere stabilmente a Milano
ormai da oltre 20 anni e, soprattutto, di discendere da una famiglia, con rilevanti proprietà
in area lombarda, che ormai da generazioni era ritenuta milanese. A conferma di ciò egli
produsse una serie di documenti, fra cui il diploma rilasciato nel 1616 al suo omonimo avo
e alcuni testamenti che provavano che egli discendeva da quest’ultimo.
Ripercorrendo questi episodi, e in particolare l’ambivalente affermazione della propria
cittadinanza e con essa della propria appartenenza nazionale nel 1798-1799, nel 1815 e nel
1817, sembrerebbe quindi che gli Stoppani abbiano sfruttato la distribuzione transnazionale
dei loro beni per godere dei benefici derivanti dallo statuto di cittadino in entrambi i
contesti statali. Essi riattivarono così, di volta in volta, l’una o l’altra cittadinanza a seconda
dei propri interessi contingenti. Come detto, la richiesta di conferma della cittadinanza
svizzera della famiglia presentata nel giugno del 1798 al governo provvisorio di Lugano da
Nicola Stoppani, nella sua qualità di capofamiglia, fu forse motivata dal desiderio di fugare
ogni dubbio sulla posizione giuridica come pure, di riflesso, politica e sociale della famiglia
Il canonico scrisse precisamente: «Devo pur dar lode alla verità ed all’innocenza certificare che mio nipote
Gianbatttista figlio dell’unico mio fratello Nicola De Stoppani fino da giovinetto (come pure
antecedentemente e contemporaneamente li altri suoi fratelli) fu sotto la mia direzione in Como e non ho
scorto nel figliuolo né massima repubblicana, né sentimento alcuno contrario alla nostra santa religione, ma
esservi egli sempre comportato rispettoso verso di me e di tutti, ed operando unicamente ciò che gli veniva
applaudito da suoi maggiori, avendolo all’arrivo de francesi nella Lombardia Austriaca mandato a Lugano a
studiare parte della filosofia per allontanarlo da ogni occasione, quindi nel 1798 essendo stato invaso anche
quel Paese di sì fatta razza di gente l’ho richiamato e perché non s’immischiasse in alcun altro impiego civile o
militare e stesse lontano dall’ozio ho concesso che prendesse cognizioni di commercio. Sono poi rimasto
assaissimo sorpreso nell’intendere dal signore Podestà di Como il calunnioso carattere fatto al medesimo di
giacobino contrario alla notorietà della sua buona condotta per la quale garantisco io in tutto e per tutto e per
fede e corroborazione di quanto sopra mi sottoscrivo di propria mano e carattere frapponendosi anche il
sigillo della famiglia.» Cf. ASTi, 12.8.2, Attestato di buona condotta rilasciato dal canonico Leone Stoppani a
Giovanni Battista Stoppani, 12.7.1799.
29 ASTi, 12.8.3, Supplica con produzione di documenti comprovanti la condotta e la nazionalità alla regia
commissione generale di polizia, 15.7.1799.
30 ASTi, 12.8.3, Istanza di Giovanni Battista Stoppani al regio governo di Milano per il rilascio della carta di
sicurezza e cittadinanza, 7.8.1817.
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in territorio elvetico. In seguito al rovesciamento della situazione politica nella primavera
del 1799 e al temporaneo ritorno degli Austriaci nel Milanese, fu necessario sminuire il
ruolo di diversi membri della famiglia nei moti rivoluzionari del 1798 – ossia di Angelo
Maria e del fratello Felice, ma anche del padre Nicola, che vi prese parte attivamente tra
l’altro come giudice del tribunale interinale di Lugano accanto a Francesco Capra e a Giulio
Domenico Somazzi 31 – e di riaffermare la propria cittadinanza lombarda. Se il ritorno degli
Austriaci fosse stato definitivo e se il coinvolgimento rivoluzionario dei diversi Stoppani
fosse stato provato, la famiglia rischiava infatti di incorrere in sanzioni nello Stato
lombardo. La richiesta di revoca dell’allontanamento inflitto dalle autorità di Como a
Giovanni Battista, che non risulta aver preso parte attivamente ai fatti del 1798, doveva
quindi servire a tutelare gli interessi generali della famiglia oltre il confine.
Una situazione molto simile si ripresentò in seguito ai moti del 1814; questa volta però la
famiglia non riuscì a uscirne altrettanto bene, almeno in territorio ticinese, e anzi, pur
cercando di non perdere posizioni in quest’area, ripiegò per alcuni anni sui suoi
possedimenti lombardi. Al di là della condanna e della multa inflitta agli Stoppani dalla
Corte federale di giustizia, tale ripiegamento fu forse dovuto anche al loro cattivo
posizionamento nelle reti di potere del cantone. Si è infatti già accennato al fatto che le
difficoltà politiche che Angelo Maria aveva incontrato dai primi anni del XIX secolo sono
forse riconducibili anche alla rivalità con esponenti di primo piano, fra cui Giovanni
Battista Quadri, divenuto dal 1815 l’uomo forte del governo ticinese. Asceso dopo la morte
del fratello Angelo Maria e poi anche dello zio Leone al ruolo di esponente principale della
famiglia, Giovanni Battista fu attivo ancora per alcuni anni soprattutto a Milano, dove nel
1817 presentò la già citata richiesta di conferma della propria cittadinanza lombarda.
L’interesse per l’area ticinese non venne comunque meno, come dimostrano la rivalità con
gli eredi di Angelo Maria per il possesso di beni in Ticino, il ruolo di primo piano giocato
da Giovanni Battista nella rivoluzione liberale del 1839 e la brillante carriera politica svolta
in Ticino dal figlio Leone (1825-1895).
Conclusione
Le conseguenze del fallimento dei moti costituzionali del 1814 si rivelano quindi
interessanti sia per l’analisi delle strategie di potere di una famiglia della classe dirigente
ticinese sia per la (reiterata) affermazione bivalente della propria appartenenza nazionale da
parte di quest’ultima. Sul primo aspetto, si è rilevata la versatilità degli Stoppani di fronte a
un evento potenzialmente molto dannoso, la morte del familiare che sembrava destinato a
reggere le sorti del casato in territorio elvetico e il rischio, per nulla remoto, di vedersi
confiscare tutte o buona parte delle proprietà in quest’area. Di fronte a questo rischio, gli
Stoppani reagirono prontamente e con una buona dose di inventiva, rivedendo piuttosto
agilmente le strategie privilegiate in precedenza. I risultati di questa brusca inversione di
marcia non furono però sempre soddisfacenti: gli Stoppani non riuscirono, in primo luogo,
a evitare la condanna, piuttosto onerosa, da parte della Corte federale di giustizia. In
secondo luogo, la revisione delle strategie familiari e il ruolo di preminenza ottenuto da
Giovanni Battista furono all’origine di logoranti tensioni intestine. Queste ultime, insieme
forse alla difficoltà di protrarre sul lungo periodo strategie che impegnavano gli Stoppani su
entrambi i lati di un confine sempre meno permeabile, contribuirono probabilmente a
innescare il declino politico e sociale della famiglia, che pare infatti essere scomparsa dalla
scena politica ticinese dopo il figlio di Giovanni Battista, Leone.
Sul secondo aspetto, quello dell’ambivalente affermazione della propria appartenenza
nazionale, il caso degli Stoppani offre alcuni spunti interessanti per una riflessione di più
31
Cf. Gili, I protocolli, cit., vol. 2, p. 239.
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ampio respiro. Esso appare infatti particolarmente stimolante se inserito nel contesto in cui
si sviluppa. Quest’ultimo era caratterizzato, sul piano europeo, dalla nascita e dal
progressivo affermarsi delle identità nazionali, doppiato, su quello cantonale, dal tortuoso
avanzare del processo di edificazione statale. Sebbene lo stato attuale dell’indagine ostacoli
un contributo maturo a questa riflessione, è forse utile richiamare comunque alcune delle
osservazioni fatte. In primo luogo, si è costatato come a una distribuzione transnazionale
della proprietà corrisponda nella famiglia Stoppani la tendenza, rilevata in diversi momenti
e contesti, a riattivare l’una o l’altra cittadinanza a seconda degli interessi contingenti. Per
quanto non ne abbia al momento le prove, è altamente probabile che quello degli Stoppani
non sia un comportamento isolato. Si è già rilevato come il fatto di possedere proprietà su
un lato e sull’altro del confine fosse comune a diverse famiglie agiate dei baliaggi di Lugano
e Mendrisio, e in particolare di località di frontiera come Ponte Tresa 32. Da un certo punto
di vista, questo era peraltro quasi inevitabile in un contesto in cui il confine tra due entità
geopolitiche diverse assunse solo progressivamente una «densità» sufficiente a farne
effettivamente una linea di separazione. Se la distribuzione delle proprietà a cavallo del
confine non fu rara, probabilmente non lo fu nemmeno il ricorso bivalente a una
cittadinanza o all’altra. Un primo indizio in questa direzione è offerto, ad esempio, dal fatto
che nel 1798 gli Stoppani non furono i soli a richiedere conferma della propria cittadinanza
svizzera. Tale domanda fu presentata infatti anche dai Pellegrini, altra famiglia di Ponte
Tresa 33.
Queste osservazioni ancora rudimentali lasciano aperti diversi interrogativi, cui sarà
necessario cercare di rispondere. Fra questi, innanzitutto, quello di sapere quanto fu
effettivamente diffuso questo comportamento nella classe dirigente ticinese, in che modo
esso si ricolleghi al processo di edificazione statale e nazionale, ancora ai primi stadi della
sua evoluzione, e quali conseguenze ebbe sulle strategie di lungo periodo delle élite. Allo
stato attuale, si può solo ipotizzare, come si è fatto, che l’affermazione (am)bivalente della
propria appartenenza nazionale fosse in effetti relativamente diffusa fra la classe dirigente e
che tale comportamento fosse reso possibile dall’avanzamento ancora insufficiente del
processo di edificazione statale e nazionale. In altre parole, esso fu probabilmente il frutto
del permanere di mentalità e pratiche d’ancien régime, durante il quale il diritto di cittadinanza
offriva la possibilità di beneficiare dei vantaggi derivanti dall’appartenenza a una comunità,
appartenenza che non era però per nulla esclusiva. Si poteva quindi essere membri
simultaneamente di più comunità, beneficiando quindi nel contempo dei diversi vantaggi
che ne derivavano. L’esclusività dell’appartenenza (divenuta ora) nazionale parrebbe quindi
un prodotto della modernizzazione. L’avanzamento del processo di edificazione statale e
nazionale, per quanto lento e tortuoso, avrebbe quindi condizionato la classe dirigente in
questo come in altri ambiti 34.
Accanto al caso degli Stoppani Stefania Bianchi menziona ad esempio quello dei Crivelli, pure di Ponte
Tresa. Cf. Bianchi, Proprietari stranieri, cit., p. 122.
33 Cf. Gili, Protocolli, cit., p. 77.
34 In un altro contributo si è avuto modo di osservare come il processo di modernizzazione in corso nel XIX
secolo abbia probabilmente condizionato i comportamenti della classe dirigente ticinese anche, ad esempio,
nelle loro pratiche clientelari. Cf. F. Mariani Arcobello, Notables, partis et clientelisme: le cas tessinois entre
permanences et adaptations au processus de modernisation, in O. Mazzoleni, H. Rayner (a cura di), Les partis politiques
suisses: traditions et renouvellements, Parigi, 2009, pp. 45-87.
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Linoleum Giubiasco. Territorialità e patrimonio industriale
Alessandro Moreschi
Nel 1879, la cessazione dei diritti di brevetto sul processo di ossidazione dell’olio di lino di
Frederick Walton pone le basi per l’espansione della produzione industriale del linoleum a
livello internazionale 1. Il rivestimento resiliente a base di materie prime naturali come l’olio
di lino e le farine di legno, fino a quel momento prodotto esclusivamente entro i confini del
Regno Unito 2, diventa oggetto di una produzione industriale di massa su scala continentale.
Una produzione scalare volta a soddisfare la crescente domanda in relazione allo specifico
contesto socio-storico di fine Ottocento. Lo stabilimento industriale di Giubiasco, sorto nel
1905 con capitali italiani della famiglia Pirelli, è uno dei protagonisti dell’espansione
produttiva, della commercializzazione e della diffusione del linoleum tra la fine del XIX e la
prima metà del XX secolo.
Oltre a rappresentare un caso paradigmatico per quel che concerne la storia dell’industria
nel Cantone Ticino, la fabbrica di Giubiasco offre la possibilità di indagare il sistema
complesso di relazioni che si sono storicamente determinate in seno allo sviluppo di reti
capitalistiche transnazionali. Le tappe cronologiche dell’espansione industriale della fabbrica
di Giubiasco e del suo borgo rappresentano, su scala diversa, fasi precise di un percorso che
scandisce l’affermazione del prodotto linoleum sui mercati internazionali e il conseguente
sviluppo di realtà industriali di tipo multinazionale. Attraverso il caso svizzero del linoleum
appare possibile porre in evidenza, non solo un importante tassello del processo storico
industriale ticinese, caratterizzato dalla scarsità di capitali locali, dall’impiego di manodopera
e di energia elettrica a basso costo 3 ma, soprattutto, il sistema di reti e relazioni economiche
transnazionali, il ruolo stesso del cantone e della Confederazione nell’ambito delle
dinamiche dello sviluppo economico europeo del primo Novecento. Il carattere
multinazionale che ha determinato a livello locale i momenti di espansione, sviluppo e
trasformazione della fabbrica del linoleum pone il problema di un approccio a diversi livelli:
una prospettiva che permetta di analizzare le dinamiche territoriali dell’industrializzazione,
nel quadro di un’analisi storica del capitalismo internazionale del primo Novecento.
Il periodo considerato è quello tra la fine del XIX secolo e il secondo dopoguerra, fino agli
anni Settanta del XX secolo. Esso riguarda l’attività di produzione del linoleum che ha
direttamente o indirettamente interessato la fabbrica di Giubiasco: a partire dalla prima
fabbrica italiana di Narni 4 che offre le condizioni e i presupposti per la creazione dello
stabilimento ticinese, fino alla definitiva dismissione del prodotto e alla riconversione
produttiva del biennio 1969-1970, ad opera della multinazionale Forbo, già Unione
1 Patent No. 3210. In H. G. Bodenbender, Linoleum-Handbuch, Chemisch-technischer Dr. Bodenbender,
Berlino-Steglitz, 1931, p. 6, cit. da S. Tauss, Die Linoleumfabrik Giubiasco – Geschichte und Produkte, Seminararbeit,
Hochschule der Künste, Berna. Konservierung und Restaurierung. Architektur, Ausstattung und Möbel,
2004.
2 In realtà, Frederick Walton, in qualità di Direttore Tecnico della società Manufactoring Co. Lim di Staines,
apre filiali a Parigi e New York tra il 1873 e il 1875. L’avventura imprenditoriale di Walton é maggiormente
approfondita nel volume di H. Fischer, Geschichte, Eigenschaften un Fabrikation des Linoleums, Lipsia, 1924, p. 14.
3
Si veda soprattutto S. Guzzi-Heeb, Per una storia economica del Canton Ticino, in J. F. Bergier, Storia economica
della Svizzera, Lugano, 1999, pp. 311-360 e con un taglio decisamente differente R. Romano, Il Cantone Ticino
tra ‘800 e ‘900. La mancata industrializzazione di una regione di frontiera, Milano, 2002.
4 G. Bovini, R. Covino, M. Giorgini (a cura di), Archeologia industriale e territorio a Narni: Elettrocarbonium,
Linoleum, Nera Montoro, Perugia, 1992; Carburo, calciocianamide ammoniaca sintetica, polipropilene. Un secolo di industria
chimica nella Valle del Nera, Terni, 2003, pp. 13-17.
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Continentale del Linoleum. In particolare, il passaggio dall’amministrazione italiana del
gruppo Pirelli alla costituzione della holding finanziaria dell’Unione Continentale del
Linoleum, trainata dalla componente tedesca della Deutsche Linoleum Werke AG di
Berlino, rappresenta il momento storico focale di una complessa relazione capitalistica
improntata alla ricerca di affermazione sul mercato globale 5. Mentre la fabbrica si afferma
sul territorio determinando strutture complesse, espansione urbana del borgo di Giubiasco
e nuove relazioni sociali attraverso l’impiego di numerosi operai e lo sviluppo di un indotto
commerciale di posa in opera, il successo internazionale del linoleum e il volume della
domanda interna ed estera spingono incessantemente verso la costituzione di grandi cartelli
industriali. Tali complessi sono rivolti essenzialmente all’abbattimento dei costi di
produzione relativi alla gestione delle materie prime e alla distribuzione del prodotto finito,
ma anche alla condivisione di informazioni tecnico-scientifiche e allo sviluppo di brevetti
sull’onda dei grandi concentramenti europei dell’industria chimica.
Gli aspetti della nuova territorializzazione
L’avvento dell’industria nel borgo contadino di Giubiasco agli albori del XX secolo,
corrisponde a una sostanziale ri-territorializzazione 6, una nuova morfologia del territorio
che ha nei mutamenti del regime demografico, del sistema tecnico e di quello energetico gli
aspetti più evidenti e più facilmente rintracciabili nelle fonti. Tale territorializzazione
permane, seppur in maniera limitata, morfologicamente ancora visibile nel tessuto urbano
della Giubiasco contemporanea (derivazioni ferroviarie, capannoni, vecchi edifici per gli
uffici). Tuttavia, la scarsità dei residui industriali del linoleum, le ri-qualifiche urbane
intervenute sui vecchi sedimi di fabbrica e nelle zone residenziali per gli impiegati, nonché il
carattere stesso della «città diffusa» 7 di epoca contemporanea, rendono difficile l’assunzione
del concetto di paesaggio industriale. La Giubiasco degli anni Trenta veicolataci dalle fonti
d’impresa ha negli essiccatoi verticali, nelle calandre, nei depositi, nei magazzini, nelle alte
ciminiere e nei mulini quegli elementi essenziali di un paesaggio industriale decisamente
riconoscibile. Cionondimeno, questi oggetti materiali e visibili, non sono in grado di
cogliere l’interezza del concetto stesso di paesaggio industriale. Il paesaggio è infatti
costituito anche dai diversi elementi tecnici, economici, sociali, politici e culturali che danno
vita a un determinato contesto territoriale e ciclo produttivo, ma che non sempre risultano
immediatamente o direttamente osservabili, perché immateriali. Per questo motivo è
necessario proporre un modello di osservazione in grado di far emergere l’essenza storica
di un territorio industriale, della fabbrica che lo ha determinato e degli elementi relazionali
che lo hanno caratterizzato. La presa in considerazione di tutti gli elementi costitutivi del
paesaggio industriale: quelli scarsi, morfologicamente visibili (territorio industriale) e quelli
relazionali, storicamente preponderanti, diffusi nelle fonti d’impresa e nella
rappresentazione aziendale (territorialità industriale), permette di mantenere valido il
concetto di paesaggio industriale, attraverso una ricostruzione diacronica del periodo
storico del linoleum.
Le ragioni storico-economiche per la creazione di uno stabilimento gemello in Svizzera da
parte della Società Italiana del Linoleum di Giovan Battista Pirelli sono da attribuirsi
principalmente: alla notevole domanda di importazione svizzera del linoleum, ma
Linoleum AG Giubiasco, Monographie 1905-1935, Zürich, 1935. Una ricostruzione più aggiornata delle
vicende storiche vissuta dall’azienda è presente anche in Die Geschichte unserer Fabrik, in «Noi – Bollettino
aziendale della Forbo-Giubiasco SA», n. 48, 1980, pp. 5-19.
6 C. Raffestin, L’industria: dalla realtà materiale alla ‘messa in immagine’, in E. Dansero, A. Vanolo (a cura di),
Geografie dei paesaggi industriali in Italia, Milano, 2006, p. 19.
7 F. Governa, M. Santangelo, Industria, diffusione urbana, salvaguardia/recupero della naturalità esistente: valori e criticità,
in Dansero/Vanolo, cit., pp. 217-222.
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soprattutto, alla necessità di aggirare la politica daziaria sulla importazione in Italia dell’olio
di lino. Giubiasco gode di una posizione geografica privilegiata: posto al centro del cantone,
il borgo si trova sul principale asse di comunicazione nord-sud delle Alpi occidentali e
l’apertura della linea ferroviaria del Gottardo nel 1882 garantisce un importante
collegamento tra Milano (sede della Società Italiana del Linoleum) e Lucerna. Grazie
all’apertura di diverse tratte della ferrovia del Gottardo, Giubiasco rappresenta sin dalla fine
del XIX secolo uno snodo di smistamento sulle linee Bellinzona-Locarno (20.12.1874),
Bellinzona-Lugano («Ferrovia del Monteceneri», 10.4.1882) e Bellinzona-Ranzo-Pino
(04.12.1882, divenuta tratta internazionale grazie al prolungamento fino a Luino).
Trovandosi in prossimità di un importante centro urbano come Bellinzona, agli inizi del
XX secolo il territorio di Giubiasco dispone di terreni pianeggianti vicini alla linea
ferroviaria, ed è storicamente un polo artigianale di raccolta e di lavorazione dei prodotti
agricoli provenienti dal vicino Piano di Magadino. Inoltre, sin dal 1891, la municipalità di
Bellinzona usufruisce dell’illuminazione elettrica fornita dalla centrale di Godurno e nel
1903 è inaugurata per Giubiasco la nuova centrale della Morobbia in Valle di Loro 8. Esiste
quindi una territorializzazione originaria (linea ferroviaria del Gottardo, doppio binario
Bellinzona-Giubiasco, bonifica degli areali tra il fiume Ticino e il fiume Morobbia, ecc.) che
crea i presupposti e le condizioni valide per la ri-territorializzazione industriale.
Il borgo, che al momento della costruzione dello stabilimento conta circa 1600 abitanti,
vede raddoppiare la propria popolazione già prima della Prima guerra mondiale, mentre nel
1919 i dipendenti della Fabbrica del Linoleum sono 220. Da questo momento in avanti e
per un periodo che interessa tutta la prima parte del XX secolo, Giubiasco vede crescere ed
espandersi la zona industriale in prossimità della linea ferroviaria. Nel 1906 entrano in
funzione le fucine della Fabbrica Lentz, in seguito divenute Ferriere Cattaneo, nel 1928 si
costituisce nelle vicinanze anche la Cantina Sociale Bellinzonese. Nel 1941 è la volta della
Cooperativa Agricola Ticinese che inaugura uno stabilimento nel quale sono in funzione
mulini per la produzione di farine di diverso tipo. Il cappellificio La Moderna SA è del
1944, mentre nel 1959 è aperta l’unica fabbrica ticinese per l’ossidazione anodica
dell’alluminio: la Ossida SA. La municipalità comunale appoggia e facilita l’installazione di
imprese nel proprio territorio e Giubiasco diventa, assieme a quello di Bodio, il principale
polo industriale del cantone. Dal 1870 al 1938, il periodo in cui si verifica l’installazione dei
più importanti stabilimenti industriali, le statistiche sui movimenti e il ruolo della
popolazione del comune di Giubiasco segnalano un incremento di popolazione che passa
da 1200 a 3000 abitanti in poco meno di settanta anni. Colpisce anche la struttura dei
«fuochi», ovvero delle famiglie presenti nel borgo che passano da un numero di 400 a
1300 9. Se la popolazione raddoppia, il numero di famiglie è più che triplicato,
presumibilmente in virtù di una composizione differente dei fuochi, non più basati
esclusivamente sulla famiglia patriarcale di tipo contadino, ma anche sulla nuova
immigrazione operaia.
Protagonista principale di questo processo di modernizzazione è la Fabbrica del Linoleum
che dopo la fine del primo conflitto mondiale si rende definitivamente indipendente dal
capitale italiano. Nel 1921 è costituita, con un capitale di 1,5 milioni di franchi, la Società
Anonima del Linoleum Giubiasco. La ragione di questo «divorzio» è da considerarsi
principalmente un effetto del primo conflitto mondiale. Nel periodo bellico la fabbrica
svizzero-italiana soffre pesanti difficoltà, soprattutto dovute alla scarsità di materie prime.
La produzione rimane pressoché insignificante fino a tutto il 1919. Per la ripresa post
bellica la fabbrica di Giubiasco necessita maggiori investimenti e nuovi settori di mercato
che la struttura societaria preesistente non può garantire. In generale, la fabbrica
giubiaschese sembra sempre più rivolgersi verso il mercato transalpino e la creazione della
8
9
A. Caldelari, Stradario del borgo di Giubiasco, Porza-Lugano, 1978, p. 80.
Archivio Storico del Comune di Giubiasco (ASG), Ruolo Popolazione e Statistiche, Fondo A - Un. 8.2.
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Continentale del Linoleum nel 1928 è l’approdo maturo alla dimensione multinazionale. A
partire da questo momento la Linoleum SA di Giubiasco vive un processo di continua
espansione in termini di mercato. Attraversando crisi, ristrutturazioni, diversificazioni
produttive e cambiamenti di gestione, la fabbrica giunge a collocarsi come una delle
imprese più importanti del cantone, in grado di impiegare più di trecento operai alla fine
degli anni Sessanta.
Fig. 1: Giubiasco nei primi anni del Novecento. La territorializzazione industriale si impone su quella rurale contadina. Il lato
sud della fabbrica di linoleum con gli essiccatoi verticali e i depositi.
Fonte: Archivio di Stato del Cantone Ticino, Fondo Diversi.
Alla conquista della «simpatica borgata»
La presenza di un certo numero di fonti iconografiche e di fondi fotografici costituiti
dall’azienda stessa o da semplici contemporanei, offre la possibilità di ricostruire con
precisione lo sviluppo morfologico dello stabilimento sul territorio di Giubiasco e il
conseguente inurbamento della località Camana, nei pressi del tracciato ferroviario.
Tuttavia, per la ricostruzione degli elementi relazionali del paesaggio storico industriale è
necessario riferirsi ad altri tipi di fonti. L’analisi del fondo archivistico relativo agli «Esoneri
Fiscali» del Comune di Giubiasco offre numerosi esempi di come, a partire dai primi anni
del Novecento, Giubiasco rappresenti una meta ambita per l’installazione di attività
industriali. Il borgo vive un’epoca di vera e propria «corsa all’oro» per la conquista di
appezzamenti in prossimità dello scalo ferroviario tra Bellinzona e Locarno; la stessa
amministrazione comunale diviene attrice diretta dello sviluppo locale mediante
concessioni, ricerca di manodopera e rapporti affaristici di varia natura.
«Nella mia qualità di Amministratore della Società del Linoleum avente sede in Milano, la quale,
come è a Vostra conoscenza, sta erigendo un importante stabilimento industriale in territorio
del Vostro comune, e precisamente nei pressi della Stazione ferroviaria del Gottardo, mi
permetto di presentarvi l’interpellanza, se non fosse possibile al comune di Giubiasco di
accordare alla nuova industria l’esonero dell’imposta comunale per almeno un periodo di 3
anni. Lo stabilimento di Giubiasco dovrà nei primi tempi lottare con molteplici difficoltà, e
perché esso possa riuscire vittorioso sulla potente concorrenza della Germania e
dell’Jnghilterra, necessita che all’inizio del suo esercizio quando cioè stabilimento e macchinario
non sentano ancora i vantaggi di larghi ammortamenti, esso sia facilitato nel suo sviluppo.
Se più tardi l’industria che stiamo impiantando nella simpatica borgata di Giubiasco, avrà
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raggiunto quel grado di floridezza che intendiamo assicurarle, anche le finanze comunali ne
trarranno considerevole vantaggio, epperò è nello stesso interesse del Comune di renderci facili
i nostri primi passi.
E lo scrivente, cui Giubiasco deve principalmente il vantaggio di ottenere un’importante
Stabilimento industriale, chiamato più tardi a prendere più estese proporzioni, fa speciale
assegnamento sulla cortesia e deferenza di codesta lod. Municipalità e del Comune, cui si sente
stretto da legami di sincera affezione.» 10
La lettera dell’Amministratore Giuseppe Stoffel, datata 1904, non è certamente l’unica di
questo genere presente nell’archivio storico del Comune di Giubiasco. La stessa richiesta è
fatta dalla Società Svizzera delle Macchine Lentz e dalla SA Turini, fabbrica di apparecchi
elettrici per il riscaldamento, nel 1909. Proprio per la Fabbrica Lentz, nel 1906, una cordata
di affaristi e notabili locali tra cui Arturo Stoffel, (anch’egli noto banchiere, direttore della
Banca Popolare Ticinese) e l’ing. A. Carlo Bonzaniga scrivono all’attenzione della
«Lodevole Municipalità di Giubiasco», menzionando il progetto industriale di «un gruppo
di capitalisti esteri». I firmatari si dichiarano «promotori» e garanti di tale progetto che
«occuperà un gran numero di impiegati e operai e non va dubbio che apporterà un
importante sviluppo per chi potrà averla.» Essi mettono comunque in guardia la
municipalità sul fatto che tali «promotori esteri ricevettero offerte non solo da parte di altre
località del Cantone, ma eziandio di altri cantoni della Svizzera e non fu che sulle vive
istanze dei sottoscritti che essi si decisero di fare le pratiche perché l’impianto avvenisse nel
territorio di Giubiasco», inoltrando alla stessa anche le condizioni preliminari per
l’impianto: prima fra tutte, l’acquisizione/espropriazione preliminare del terreno da parte
del Comune (circa 50’000 metri quadrati) 11. Il caso più eclatante di mediazione svolto dalla
municipalità di Giubiasco nella costituzione materiale di un polo industriale, rappresenta il
tentativo (fallito) di stabilire nel borgo un’enorme fabbrica per la produzione sintetica di
filati di seta (viscosa). All’interno di un fascicolo, interamente dedicato alla trattativa del
1923 tra le autorità comunali e la Societé de la Viscose Suisse con sede a Lucerna, è
possibile apprendere l’entità dello stabilimento e la natura del ruolo svolto dal comune nel
reclutamento della manodopera (quasi interamente femminile e di età compresa tra i
quattordici e i venticinque anni). Lo stesso Dipartimento Cantonale del Lavoro, diretto da
Guglielmo Canevascini, interviene per garantire l’arruolamento delle mille operaie tramite il
concorso dell’Ufficio Cantonale di Collocamento 12.
Lo sviluppo del polo industriale di Giubiasco è confermato anche dalle richieste di
costruzione e ampliamento dei binari nei pressi della stazione, nonché dal fondo sul
controllo degli stabilimenti. In esso è possibile riscontrare l’effettivo ampliamento della
fabbrica del linoleum durante il primo periodo dell’Unione Continentale del Linoleum. Tra
il 1936 e il 1943, anche in seguito al grave incendio del 1938, il Consiglio di Stato concede
l’adeguamento o la costruzione ex novo di due magazzini, due laboratori, una falegnameria,
un reparto di fusione della cera e paraffinatura della carta, un’officina meccanica, un
impianto di aria compressa e il posizionamento di un grande recipiente a pressione 13. La
falegnameria, in modo particolare, è concessa in costruzione all’interno dello stabilimento
dopo la definitiva dismissione del Mulino del Legno di Castione. Tra il 1920 e il 1922, la
Fabbrica del Linoleum partecipa assieme alla ditta SAFFA (Società Anonima Fabbricazione
Farina d’Abete) alla creazione e gestione di un mulino per la produzione di segatura
d’abete, materia prima per il ciclo di produzione del linoleum. Il mulino è quindi trasferito
definitivamente a Giubiasco a partire dalla costruzione della falegnameria aziendale. Di
ASG, Alla Lodevole Municipalità del Borgo di Giubiasco, Bellinzona, 19 luglio 1904. Lettera dattiloscritta di
Giuseppe Stoffel, Fondo A – Un. 17.3.
11 ASG, Alla Lodevole Municipalità di Giubiasco, Bellinzona, 18 marzo 1906, Fondo A – Un. 55.1.
12 ASG, Viscosa Svizzera, Trattative per l’installazione di una fabbrica, Fondo A – Un. 55.2.
13 ASG, Controllo degli Stabilimenti, risoluzioni del Consiglio di Stato del Cantone Ticino, Fondo A – Un.
37.4.
10
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particolare evidenza, risulta tra le fonti la richiesta di appalto per la costruzione di un
raccordo ferroviario per i depositi della Società Cooperativa di Consumo di Bellinzona, da
parte della Orenstein & Koppel di Zurigo e della Theodore Bell di Lucerna. Tale gara di
appalto è bandita dal comune nel 1916, dopo che la Società del Linoleum Giubiasco ha
fortemente rimostrato sulla concessione del proprio scalo e sull’impossibilità di un ulteriore
sfruttamento da parte di altre realtà, rivendicandone l’utilizzo esclusivo 14. Il 21 marzo dello
stesso anno, il Consiglio di Stato del Cantone Ticino autorizza la Motor SA di Bodio a
realizzare la tratta elettrica ad alta tensione tra Bodio e Giubiasco 15. Dopo l’acquisizione
comunale dell’impianto idroelettrico della Morobbia e l’acquisto della centrale di Gorduno
da parte della Società del Linoleum nel 1910, la realizzazione del collegamento ad alta
tensione con Bodio rappresenta l’ulteriore e definitiva affermazione del polo industriale di
Giubiasco.
Grazie a questi documenti è possibile tracciare il quadro dell’espansione industriale del
borgo di Giubiasco e il ruolo centrale e sinergico della fabbrica del linoleum. Tali
documenti forniscono, inoltre, i contorni di quegli elementi immateriali e invisibili del
paesaggio industriale di inizio Novecento. Il crescente ruolo di azione locale esercitato dalla
municipalità comunale, la natura profondamente esogena dei capitali industriali e la
mediazione di élite finanziarie locali formano il quadro relazionale proprio di una
territorialità industriale. Con lo sviluppo e la crescita dello stabilimento del linoleum, la
direzione di fabbrica diventa attrice locale 16 nel quadro di una dinamica globale del mercato
del linoleum. L’espansione dello stabilimento, la sua riconversione e la successiva
dismissione, rientrano nell’ambito delle pratiche di territorializzazione e riterritorializzazione industriale, interamente dipendenti da dinamiche e da fattori esogeni,
extralocali. La lettera con la quale il banchiere Stoffel richiede l’esonero d’imposta
comunale nel 1904, pone il problema di una produzione industriale ormai globalizzata: ad
entrare in competizione con la Germania e «l’Jnghilterra» non è soltanto la fabbrica di
linoleum, ma l’intera comunità di Giubiasco!
Fig. 2: Carta topografica Siegfried del 1917. All’incrocio tra l’attuale via linoleum e la tratta ferroviaria sono presenti i primi complessi
industriali. Appare ben visibile anche la derivazione idrica dalla Morobbia per la roggia industriale.
ASG, Società del Linoleum – Fabbrica Svizzera di Linoleum Giubiasco. Giubiasco, 22 gennaio 1916. Fondo
A - Un. 55.1.
15 ASG, Risoluzione del Consiglio Stato n. 2366. Bellinzona, 21 marzo 1916. Fondo A – Un. 67.1.
16
Nel 1935 la Municipalità di Giubiasco accorda all’avvocato Arnaldo Bolla «per la Spet. Soc. An. Del
Linoleum» un esonero dall’imposta comunale di dieci anni per la Fondazione di Previdenza della Società.
ASG, Esoneri Fiscali, Fondo A – Un. 17.3.
14
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Fig. 3: Carta topografica CNS del 1958. Massima espansione del complesso industriale dedicato alla produzione di linoleum a
sud della località Camana.
Il processo di patrimonializzazione del linoleum
Nel 2005 la Forbo Giubiasco SA celebra i cento anni di vita. In quel periodo essa
rappresenta meno del 5% del fatturato del gruppo Forbo, la multinazionale creata nel 1974
sulle basi dell’Unione Continentale del Linoleum. «Per una attività industriale, raggiungere il
secolo di vita nel medesimo luogo in cui è nata, non è ne avvenimento ricorrente, ne
ovvio» 17. Il traguardo secolare, al di là dei toni fortemente identitari della celebrazione
d’impresa, è il risultato di una serie di ristrutturazioni, ricollocamenti e cambiamenti anche
radicali che, sebbene abbiano permesso una certa continuità della realtà industriale, dal
1970 segnano la cessazione della produzione di linoleum a Giubiasco. Centinaia di
lavoratori sono licenziati, lo stabilimento originario di produzione è quasi interamente
demolito, la Linoleum entra definitivamente a far parte dell’immaginario collettivo: quale
protagonista dello sviluppo economico del borgo contadino di Giubiasco, artefice di
socialità operaia e di territorialità industriale. Per certi versi, la stessa direzione aziendale,
sempre attenta ad inserirsi ed integrarsi al meglio nel contesto locale attraverso forme
elaborate di rappresentazione, pone le basi per un processo di patrimonializzazione
dell’esperienza del linoleum. La celebrazione di anniversari, ricorrenze, giubilei è soltanto
parte di una serie di strumenti volti ad affermare la continuità di un ruolo rappresentativo
della propria azione locale. Ciò che ne consegue è l’effettiva produzione di fonti d’impresa in
grado di restituire le fasi e i processi di affermazione locale di una realtà industriale
fortemente segnata da rapporti transnazionali. Le fonti d’impresa rappresentano il
principale corpo documentario di questa ricerca, sebbene non possano rappresentare le
sole fonti in grado di reggere l’impianto d’analisi, esse permettono di rintracciare ulteriori
percorsi storiografici al di fuori della produzione storica di fabbrica.
Il linoleum quindi, in quanto prodotto storico di una precisa fase di industrializzazione, è
sostanzialmente un elemento del patrimonio industriale. L’epoca legata alla sua produzione a
Giubiasco coincide con un periodo storico che sancisce l’affermazione del borgo quale
polo industriale del Cantone Ticino, mentre le dinamiche globali della sua
commercializzazione, gestione e diffusione elevano la prospettiva d’analisi a una storia dei
17
P. Demarmels, Saluto del Presidente, in «Noi Magazine, periodico di cultura e tempo libero», n. 86, 2005, p. 2.
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rapporti industriali transnazionali tra la Svizzera e i vicini paesi europei. Dal 1905 al 1970,
lo stabilimento di Giubiasco si sviluppa in un’area compresa tra i cinquanta e gli ottantamila
metri quadrati a nord e a sud della linea ferroviaria (nei pressi della località «Camana»); gli
addetti nel periodo di massima occupazione sono più di trecento. L’epopea del linoleum a
Giubiasco può essere approssimativamente suddivisa in due periodi: uno italiano e uno
tedesco. Il primo, caratterizzato dalla gestione italiana di Pirelli, va dalla nascita fino al 1928,
anno che introduce il «periodo tedesco» con la costituzione dell’Unione Continental del
Linoleum (CLU).
In realtà, le dinamiche entro le quali lo stabilimento ticinese nasce e si sviluppa sono ben
più complesse e riguardano l’effettivo dispiegarsi di un mercato europeo multinazionale per
la produzione e la commercializzazione del linoleum: la stessa CLU nasce come holding
finanziaria con sede a Zurigo. La holding raggruppa le attività di produzione del linoleum
in Germania (fino al 1939 e dopo il 1945), nei paesi scandinavi, in Francia, Olanda e
Svizzera. Il periodo legato alla CLU è quello che vede la fabbrica di Giubiasco ingrandirsi e
modernizzarsi. Mentre la domanda sul mercato italiano viene supportata dalle Ferrovie e
dalla Marina, lo stabilimento svizzero rende noti i propri prodotti attraverso numerose
esposizioni nazionali ed internazionali: l’esposizione nazionale di Berna nel 1914 segna il
primo passo nell’affermazione del linoleum svizzero di Giubiasco. Nel 1917 è costituita
l’Associazione Svizzera dei Posatori di Linoleum, una realtà commerciale fondamentale per
il sistema integrato del linoleum svizzero che ha come centro lo stabilimento di Giubiasco.
La stessa direzione aziendale promuove i corsi per i posatori e le visite nei reparti di
produzione, gestendo in proprio la fornitura ai commercianti ticinesi e svizzeri. La presa in
considerazione del linoleum e della sua fabbrica si muove, quindi, su aspetti molteplici e a
differenti livelli di indagine. La storia di una fabbrica, e del suo prodotto, riflettono il
carattere multidimensionale del concetto stesso di patrimonio industriale. Tale patrimonio,
che noi intendiamo quale insieme complesso degli elementi di valore storico, tecnologico,
sociale, architettonico o scientifico propri della cultura industriale 18 è infatti materialmente e
immaterialmente legato al prodotto linoleum: in quanto posta del potere capitalisticoindustriale di inizio Novecento; merce innovativa nell’ambito dello sviluppo dell’edilizia,
dalla società di massa al boom del secondo dopoguerra; prodotto storico di processi di
fabbricazione morfologicamente definiti; infine come espressione di un certo paternalismo
aziendale, oggetto di una rappresentazione di impresa e artefice di una socialità industriale.
Al graduale processo di de-territorializzazione avviato dalla multinazionale Forbo nel 1970
si accompagna così un parallelo processo di patrimonializzazione del linoleum, riconosciuto
quale simbolo dell’identità di impresa. Da questo punto di vista, l’aspetto più rilevante delle
fonti d’impresa risiede nella rappresentazione stessa della fabbrica 19. La ricerca può quindi
avvalersi di documenti particolarmente ricchi, sia dal punto di vista iconografico (il
materiale fotografico storico restituisce elementi di archeologia industriale oggi quasi del
tutto scomparsi), sia dal punto di vista delle implicazioni socio-economiche della
produzione (molti documenti riportano dettagliatamente i luoghi di applicazione dei
rivestimenti prodotti, l’importante ruolo dell’architettura, del design e dell’industria edile in
generale).
La ricostruzione degli aspetti della territorialità industriale mette in evidenza il complesso
sistema relazionale di fabbrica durante il periodo storico del linoleum, mostrando il
18
Ci riferiamo alla definizione di patrimonio industriale elaborata dal TICCIH, The International Committee for
the Conservation of the Industrial Heritage. Cf. http://www.mnactec.cat/ticcih/index.php.
19 L’intera collezione di «Noi: bollettino aziendale della Forbo Giubiasco», fino al n. 17 e «Noi Magazine:
periodico di cultura e tempo libero» dal n. 18. Il bollettino aziendale contiene informazioni riguardanti tanto
le pratiche di integrazione territoriale dell’azienda (tornei sportivi, gite sociali, lotterie per il parco pubblico,
visite scolastiche, corsi per i posatori) quanto gli aspetti di marcata socialità aziendale e di spirito paternalista,
attraverso spunti di critica sociale, saggi politici, geopolitici e macroeconomici.
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carattere fortemente esogeno e transcalare delle dinamiche di produzione. Tale periodo
appare storicamente definibile grazie alla disanima del processo di patrimonializzazione
avviato, in primo luogo, dall’azienda e dalla rete di produzione e di commercializzazione del
linoleum. Territorialità e patrimonio industriale appaiono come due dispositivi di ricerca
estremamente validi, per tracciare la storia di una fabbrica che non esiste più, laddove gli
elementi immateriali «resistono» e permangono preponderanti rispetto a quelli materiali.
Conclusioni e prospettive
La fabbrica del linoleum, nella sua dimensione storica e territoriale, possiede l’insieme degli
elementi materiali e immateriali in grado di riflettere il patrimonio industriale?
La ricerca presso gli archivi comunali e l’utilizzo delle prime fonti d’impresa delineano il
quadro storico di una fabbrica che ha saputo affermarsi nello specifico contesto territoriale
di Giubiasco, mantenendo e implementando i legami specifici di una industrializzazione
transnazionale. Tale dimensione relazionale costituisce, per certi versi, l’essenza stessa del
processo di modernizzazione del contesto alpino e ticinese. I documenti finora considerati
sembrano confermare tanto la complessità della problematica storiografica del linoleum,
quanto la effettiva dimensione patrimoniale della sua struttura storica di produzione.
L’avvento di una nuova territorializzazione industriale nel borgo contadino e artigiano di
Giubiasco mantiene sullo sfondo la sostanziale affermazione di una élite finanziaria locale,
fortemente legata al «giovane» capitalismo transnazionale. L’affermazione locale della
fabbrica e del suo complesso relazionale determinano una produzione consistente di fonti
d’impresa e una effettiva patrimonializzazione, caratterizzata da processi di
rappresentazione territoriale e di memoria diffusa. Il patrimonio industriale è un concetto
olistico in grado di coinvolgere numerosi campi d’indagine e di far emergere altrettante
chiavi interpretative.
Il paesaggio industriale rappresenta soltanto un primo livello storiografico, una categoria
preferenziale di partenza. In primo luogo perché parte integrante del patrimonio e, allo
stesso tempo, funzione diretta del complesso di territorio e territorialità; e in secondo luogo
come il risultato di un processo di produzione mentale, che muove da uno sguardo umano,
in sintesi una rappresentazione della realtà. «Il paesaggio o immagine del territorio è sempre
un documento storico a due dimensioni che si sviluppa in modo sincronico, ed è
l’espressione di una pausa nel tempo: è un’istantanea» 20. Tuttavia, lavorare sul concetto di
paesaggio industriale, sulla territorialità, sul processo di patrimonializzazione del linoleum,
sul significato profondo dell’industria ticinese sempre più orfana di significanti,
rappresentano i primi generici tentativi di definizione di una problematica storiografica più
complessa. Una problematica nella quale territorialità e paesaggio industriale rappresentano
due aspetti limitati, nell’ambito di una prima definizione del patrimonio industriale.
Questo progetto intende svilupparsi ben oltre la ricostruzione di una territorialità di
fabbrica, rintracciando la molteplicità degli elementi materiali e immateriali del patrimonio,
analizzando le implicazioni globali delle reti industriali, il ruolo di mediazione delle élite
finanziarie, gli aspetti legati alla socialità di fabbrica e il livello di integrazione nel suo
complesso.
20
Raffestin, L’industria, cit., p. 21.
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Vincenzo Dalberti e le élite svizzere al sud delle Alpi
confrontate alla crisi del regime della Mediazione
Manolo Pellegrini
Al fine di analizzare le prese di posizione delle élite svizzere al sud delle Alpi durante la crisi
del regime della Mediazione, tra il 1810 e il 1814, oltre alla figura di Vincenzo Dalberti
abbiamo preso in considerazione una ventina di altre personalità scelte tra quelle che
furono più attive sul piano politico, dalla rivoluzione del 1798 alla fine dell’era
napoleonica 1. La scelta è stata fatta anche considerando una certa rappresentatività
geografica delle élite, élite radicate in un territorio molto diversificato e considerando i
differenti orientamenti iniziali riguardo il destino dei baliaggi sud alpini. Quali furono le
loro prese di posizione durante la crisi del regime della Mediazione tra il 1810 e il 1814?
Prima di provare a dare una risposta a questa domanda ci pare fondamentale chiederci
quale fosse stata precedentemente l’adesione di queste stesse personalità al regime della
Mediazione, regime che per le sue caratteristiche dava ampio spazio ai cantoni in un quadro
confederale.
È allora gioco forza constatare che ancora alla fine del 1802 le élite sud alpine erano divise
su quale dovesse essere l’assetto politico della Svizzera nel contesto dell’Europa
napoleonica. Solo una minoranza delle élite propendeva in modo esplicito per una
soluzione di tipo federalista simile a quella poi sancita dal regime della Mediazione. Una
maggioranza era favorevole ad una repubblica centralizzata in quanto la decentralizzazione
e il federalismo non erano considerati vantaggiosi dal punto di vista economico per un’area
povera come quella della Svizzera sud alpina. Così per esempio il progetto costituzionale
della Malmaison (del maggio del 1801), che pur mantenendo un quadro unitario prevedeva
una certa decentralizzazione delle competenze in favore dei cantoni, era vista da parecchi
esponenti dell’élite con diffidenza: «ce qui alarme un peu les esprits est l’article des finances,
et surtout celui, qui laisse à la charge des cantons respectifs les indemnités des ses
fonctionnaires, puisque dans ce canton il n’y a point des biens appartenants à lui, et par
conséquent toute dépense doit graver sur les contribuables» 2. Oltre al prefetto del Cantone
di Bellinzona, Giuseppe Rusconi, anche l’abate di Olivone Vincenzo Dalberti, il senatore
della Repubblica originario di Ascona Andrea Caglioni, il prefetto del Cantone di Lugano
Giuseppe Franzoni, il medico e membro della camera amministrativa del Cantone di
Lugano originario di Cabbio (Mendrisiotto) Francesco Bernasconi, per citarne solo alcuni,
si espressero in favore di una Repubblica unitaria e centralizzata. Favorevole all’avvento di
un sistema federalista, che riunisse in un’unica entità i cantoni di Lugano e Bellinzona,
creati dalla Repubblica elvetica, vi era invece Giovanni Battista Quadri, che nella primavera
La scelta è perciò caduta sulle seguenti venti personalità: originari dei territori posti a sud del lago Ceresio
(Mendrisiotto) erano Giovanni Battista Maggi (1775-1835), Francesco Bernasconi (1770-1808), della regione
di Lugano Giovanni Battista Quadri (1776-1839), Giovanni Reali (1774-1846), Angelo Maria Stoppani (17681815), Annibale Pellegrini (1756-1822), Antonio Maria Luvini (?), Pietro Frasca (1759-1829), Giacomo
Buonvicini (1751-1806), Giulio Pocobelli (1766-1843), e Modesto Farina (1771-1856), della regione di
Locarno e della valle Maggia Andrea Bustelli (1754-1823), Andrea Caglioni (1763-1825) e Giuseppe Franzoni
(1758-1817); originari della regione di Bellinzona e delle valli superiori erano invece Giuseppe Rusconi (17491817), Antonio Sacchi (1747-1831), Vittore Ghiringhelli (1774-?), Vincenzo Dalberti (1763-1849), Bernardino
Pedrazzi (1752-1829) e Agostino Dazzoni (1776-1851).
2 Archivio di Stato del Canton Ticino (ASTi), Fondo Repubblica elvetica, scatola 3, Corrispondenza
ministeriale del prefetto, Lettera di Rusconi al comitato esecutivo, 7 giugno 1801.
1
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del 1803 cercò di presentare alla consulta di Parigi un suo progetto costituzionale per il
nuovo Cantone Ticino, cantone che avrebbe visto la luce in virtù dell’atto di Mediazione e
nel contesto di un sistema confederale decentralizzato. Alla fine, nel primo parlamento e
governo del Cantone Ticino 3, nel maggio del 1803, entrarono sia i rappresentanti delle élite
precedentemente favorevoli ad una Repubblica unitaria, sia quelli che si erano battuti per
un sistema federalista. Tra i primi, entrarono a far parte del governo Vincenzo Dalberti,
Giuseppe Rusconi, Andrea Caglioni, tra i secondi Giovanni Battista Quadri e Giovanni
Reali.
Nonostante le iniziali divergenze l’insieme dell’élite, con sorprendente coesione, accettò il
nuovo quadro federalista della Mediazione e fu riconoscente a Napoleone e alla Francia per
la favorevole opera costituente: se senza sorpresa Giovanni Battista Quadri già il 20 maggio
del 1803 chiedeva con una mozione che il Gran Consiglio rendesse omaggio a Bonaparte
per «aver assicurato l’esistenza politica del Cantone Ticino» 4, l’intervento di Vincenzo
Dalberti in veste di membro dell’esecutivo e presidente del Gran Consiglio, del 19 maggio
del 1805, non fece che riaffermare tale adesione: «Chi poteva sperare che mentre la
rivoluzione era denigrata co’ più neri colori da’ suoi nemici, che baldanzosamente
presagivano il loro trionfo imminente, e minacciavano servitù e vendetta, allora appunto la
Rivoluzione doveva essere coronata dall’esito più felice? La provvidenza di Dio vegliava su
di noi; ella suscitava un Eroe alla nostra difesa; Bonaparte si fece nostro Mediatore, ed il
cantone Ticino fu ricostituito dalla sua saggezza in popolo sovrano, forte per la union
federale, indipendente pei propri diritti 5».
La coesione e la generale adesione delle élite svizzere sud alpine al regime della Mediazione
era probabilmente dovuta alla possibilità di usufruire di uno spazio politico all’interno del
quale l’élite locale poteva esprimersi senza ostacoli di sorta e senza dover porsi il problema
dell’integrazione in una dimensione politica tutto sommato lontana, culturalmente e
geograficamente, come quella Svizzera. Le élite approfittarono certamente del quadro
costituzionale della Mediazione per introdurre una serie di innovazioni politicoamministrative, direttamente ispirate al modello napoleonico, e per avviare riforme che
portavano ad una certa centralizzazione dello spazio svizzero sud alpino.
Con la recrudescenza del conflitto europeo e le crescenti pressioni da parte della Francia
napoleonica sugli alleati, sulla Svizzera e sul Ticino, a partire dal 1806, affinché si
procedesse con più efficacia al reclutamento di soldati al servizio della Francia e si
controllassero le merci di contrabbando, non abbiamo significativi indizi, che le élite locali
avessero adottato posizioni più critiche nei confronti del sistema napoleonico.
Ancora nel 1808, Dalberti, in un discorso davanti al Gran Consiglio, affermava che
nonostante la guerra europea non permettesse di godere nella calma dei frutti del regime
della Mediazione, la contingenza esterna aveva avuto il merito «di eccitare nella nostra
gioventù le spirito militare, che presuppone già la Costituzione nostra; che il nome solo di
Svizzeri esige da noi; che a noi impone l’attuale sistema politico d’Europa, e che per
l’infingardaggine degli ultimi tempi era nelle nostre popolazioni presso che distrutto 6».
Anche le pressioni per un maggior controllo delle frontiere, per contrastare il
contrabbando e l’afflusso di disertori dal Regno d’Italia, non produssero critiche ma
piuttosto l’effetto di una maggiore ottemperanza delle autorità locali. Ancora nell’autunno
del 1810 il Piccolo Consiglio ticinese, che vedeva in quel momento tra le sue fila oltre a
Vincenzo Dalberti, anche Giuseppe Rusconi, Giuseppe Franzoni, Pietro Frasca e
Giovanni Battista Maggi, sulla base delle sollecitazioni provenienti da Parigi e trasmesse al
Cf. con G. Martinola, La missione di Giovanni Battista Quadri a Parigi, Bellinzona, 1954.
Cit. in C. Caldelari, Napoleone e il Ticino, Bellinzona, 2003, p. 105.
5 Cf. V. Dalberti, discorso in occasione della prima festa civica religiosa del 19 maggio 1805, A. Bettelini (a
cura di), Scritti scelti, Vol. 1, Lugano, 1933-1937, pp. 41-42.
6 Ibid., discorso di V. Dalberti davanti al Gran Consiglio, 2 maggio 1808.
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landamano della Svizzera, non esitava a prendere delle severe misure per contrastare il
contrabbando delle merci inglesi 7. Quale fu allora, a partire dall’ottobre del 1810, l’effetto
dell’occupazione delle terre svizzere al sud delle Alpi da parte di truppe del Regno d’Italia
e, a partire dall’autunno del 1813, del crollo dell’ordinamento napoleonico, sull’adesione
delle élite sud alpine alla politica di Napoleone e al regime della Mediazione?
L’occupazione italiana e i tentativi di mantenere l’autonomia politica del Cantone
Nel corso del 1810, nonostante le preoccupazioni diffuse tra alcuni esponenti dell’élite
svizzera al sud delle Alpi, Vincenzo Dalberti escludeva nel modo più assoluto la
possibilità di un’occupazione da parte delle truppe italiane del Cantone e un suo possibile
distacco dal resto della Confederazione: «Pour moi je suis, et j’ai toujours été de votre
avis, que tant que nous serons fidèles à l’acte de Médiation, ou que nous ne ferons
quelque grande sottise, l’Empereur ne touchera point à nos Constitutions. C’est insulter
sa loyauté que de penser autrement 8». Era dimostrare troppa confidenza: il 31 ottobre del
1810 il Cantone Ticino e la Mesolcina furono occupate da duemila soldati del Regno
d’Italia ufficialmente inviati su ordine stesso di Napoleone per applicare con maggior
rigore le disposizioni volte a reprimere il contrabbando di merci inglesi. L’occupazione
era forse anche un modo da parte di Napoleone di far pressione sui cantoni svizzeri,
affinché rivedessero la capitolazione militare firmata tra i due paesi nel 1803,
capitolazione considerata poco efficace, essendo basata su un reclutamento volontario 9.
L’occupazione, come è rilevabile dal diario 10 dello stesso Dalberti, portò immediatamente
a dei contrasti tra le autorità locali e le truppe di occupazione. Gli ufficiali dell’esercito
d’occupazione cercarono inizialmente di impedire la convocazione del Gran Consiglio,
dirottarono a loro favore parte delle entrate fiscali del Cantone, introdussero tribunali
militari per giudicare cittadini e disertori italiani e presero disposizioni in campo
economico che potevano far presagire la pura e semplice annessione del Ticino al Regno
d’Italia. Le autorità del Cantone e le élite locali si trovarono confrontate ad una
contraddizione evidente. Il regime della Mediazione voluto nel 1803 dalla Francia
napoleonica aveva creato un cantone svizzero sud alpino che dava un’ampia autonomia
alle élite locali, autonomia per la quale esse erano riconoscenti a Napoleone. Ora il conflitto
europeo, in funzione del quale era stato instaurato il blocco continentale, aveva portato
all’occupazione e al pericolo di una perdita di capacità d’intervento da parte dell’élite locale,
tanto da far temere la fine di qualsiasi autonomia. Tale prospettiva, resa ancora più concreta
dall’incorporazione all’Impero francese del Vallese, il 12 novembre 1810, spinse le élite
locali a rivolgersi al landamano affinché convocasse una dieta atta a riaffermare il legame
confederale e a scongiurare lo scorporo del Cantone, ciò che avrebbe costituito una
flagrante violazione dei trattati con la Francia. Fu la richiesta impellente di Dalberti,
convinto che la soppressione del Cantone avrebbe portato alla rovina l’intera Svizzera 11, ma
anche quella del Piccolo Consiglio e del Gran Consiglio nel febbraio del 1811, su proposta
di una commissione guidata, oltre che da Dalberti e Rusconi, anche da Annibale Pellegrini,
Andrea Bustelli, Agostino Dazzoni e Carlo Sacchi, già protagonisti della prima ora del
rinnovamento delle istituzioni indotto dalla rivoluzione del 1798.
Cf. con G. Martinola, Epistolario Dalberti-Usteri 1807-1831, Bellinzona, 1975, p. 99.
Ibid., Lettera di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri, 12 luglio 1810.
9 Cf. con J. Dierauer, Le féderalisme à l’époque de la Médiation, in Histoire de la Conféderation suisse, livre XI, vol. V,
Lausanne, 1918, pp. 336-338.
10 Cf. con il diario di Dalberti, in Bettelini, Scritti scelti, cit., vol. II, pp. 17-54.
11 Cf. con M. Ferri, Vincenzo Dalberti, Paul Usteri, Frédéric César de la Harpe, il Ticino e gli altri cantoni, in Creare un
nuovo cantone all’epoca delle rivoluzioni, Ticino e Vaud nell’Europa napoleonica, Bellinzona, 2004, p. 101.
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Non sorprende perciò che l’occupazione portò ad un cambiamento della percezione della
politica di Napoleone in seno alle élite. Se ancora nel 1810 vi era adesione alla politica
dell’Impero francese e riconoscenza per l’atto di Mediazione, a partire dalla fine di
quell’anno nelle élite svizzere al sud delle Alpi crebbero le perplessità e l’ostilità nei
confronti dell’atteggiamento e della politica dell’Imperatore. La reazione di Dalberti dopo la
sprezzante accoglienza di Napoleone alla richiesta di chiarimenti da parte di una
delegazione svizzera a Parigi, nel giugno del 1811, denota in modo netto questo
cambiamento di atteggiamento: «L’audience a été accordée, mais dans les paroles de
l’Empereur, je ne vois ni le Médiateur, ni l’ami de la Suisse. C’est le langage despotique d’un
maître. Les princes ne sont pas les êtres les plus reconnaissants ; mais je suis affligé pour la
gloire de Napoléon, qu’il ait oublié les égards qu’il doit à notre patrie» 12. Questa posizione,
che niente ci induce a pensare non si fosse radicata nelle élite del Cantone, venne ribadita
con ancor più vigore successivamente da Dalberti. Tanto più che la Svizzera nel corso del
1812 dovette accettare una nuova capitolazione con la Francia per la fornitura di truppe,
che implicava la coscrizione obbligatoria e che portò sui campi di battaglia in Russia oltre
novemila soldati Confederati 13.
Nel gennaio del 1813 rispondendo a Paul Usteri che si diceva preoccupato per una
possibile pace imposta dall’Inghilterra al continente, Dalberti ribatté che era altrettanto
inaccettabile una pace imposta dalla Francia: «la nouvelle capitulation militaire et
l’occupation du canton Tessin sont deux actes d’un despotisme insultant, que la pauvre
Suisse ne meritait pas, et qui en fait craindre de plus terribles encore, si notre Mediateur ne
trouve plus d’obstacle a devenir notre maître. Je voudrais que fut la Raison qui dicatat les
conditions d’une Paix que l’Europe éplorée invoque è grand cris» 14.
Nonostante i sentimenti ostili, Dalberti e gli altri membri del Piccolo Consiglio, fino
all’ottobre del 1813 continuarono ad ottemperare alle disposizioni riguardanti la coscrizione
in favore del contingente capitolato 15, anche nell’ottica di evitare di dare un qualsiasi
pretesto ad un’annessione del Cantone al Regno d’Italia, ciò che apparentemente nel
Cantone nessuno voleva 16.
L’occupazione aveva dirottato le energie delle élite in favore della soddisfazione delle
esigenze dell’ordinamento napoleonico, distogliendole dal processo di centralizzazione e di
innovazione interna. Significativamente Dalberti scriveva nel febbraio del 1811: «Notre
administration ne va pas bien. L’incertitude de notre destinée a engourdi presque tous les
esprits, et on pense bien plus à soi même qu’aux affaires publiques. Le travail de nos
chemins a été suspendu à l’arrivée des étrangers, car il fallut prévoir qu’on aurait dû
employer autrement nos pauvres revenus, qui tombent en decroissement» 17. Il prevalere
degli interessi particolari ebbe delle nefaste conseguenze sulla coesione delle élite, élite che
si spaccarono anche sulle possibili risposte da dare alla crisi.
Lo stesso governo risultò diviso sull’atteggiamento da adottare rispetto alle autorità
occupanti: all’inizio della crisi Giovanni Battista Maggi propose una rapida convocazione
del Gran Consiglio per decidere il da farsi 18, mentre la maggioranza del governo giudicava
inopportuna tale proposta, passibile addirittura di far precipitare la situazione. Per la loro
intransigenza e i contatti che nello stesso tempo intrattenevano con le autorità italiane,
Cf. con la lettera di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri del 10 luglio 1811, in Martinola, Epistolario, cit., p. 161.
Cf. con Dierauer, Le féderalisme, cit., pp. 345-350.
14 Cf. con la lettera di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri del 17 gennaio 1811, in Martinola, Epistolario, cit., p.
205.
15 ASTi, Risoluzioni del Pc, vol. 41, cf. per esempio i verbali della seduta del 6 agosto 1813.
16 Cf. per esempio con la lettera di Dalberti a Usteri del 30 dicembre 1812, in Martinola, Epistolario, cit., p.
204.
17 Cf. con la lettera di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri del 4 febbraio 18011, in Martinola, Epistolario, cit. p.
133.
18 Cf. con il diario di Dalberti, in Bettelini, Scritti scelti, cit., vol. I, p. 28.
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Giovanni Battista Maggi e Pietro Frasca furono accusati in seguito di operare in favore di
una distacco del Cantone 19. Nel maggio del 1811, forse proprio per questo furono esclusi
dal governo, in seno al quale invece rientrò il già senatore della Repubblica elvetica Andrea
Caglioni.
Dalberti, dal canto suo, prima di conoscere le stesse intenzioni delle autorità del Regno
d’Italia e di Napoleone e contro l’opinione delle stesse élite elvetiche, suggerì la possibilità
di una rettifica dei confini meridionali del Cantone, con lo scopo di sacrificare una parte
pur di salvare la maggior porzione possibile del territorio, da quella che egli considerava più
che una mera eventualità: l’annessione al Regno d’Italia 20. Dopo la chiara presa di posizione
da parte della Dieta nell’aprile del 1811, in opposizione a qualsiasi concessione territoriale,
Dalberti, forse anche influenzato dall’atteggiamento di Giuseppe Rusconi che aveva
presenziato ai lavori, esitò sulla strada da prendere 21; poi però, anche in seguito al gelo di
Napoleone nei confronti delle autorità svizzere, operò affinché il parlamento si esprimesse
in favore di un negoziato per una rettifica dei confini del Cantone. Alla fine di luglio, l’élite
politica del Cantone votò con un’esigua maggioranza la sua disponibilità a negoziare in
cambio dell’evacuazione delle truppe italiane. A favore votarono soprattutto le élite dell’ex
Cantone elvetico di Bellinzona: Vincenzo Dalberti, i bellinzonesi Giuseppe Rusconi e Carlo
Sacchi i leventinesi Agostino Dazzoni e Bernardino Pedrazzi, ma anche esponenti delle
élite locarnesi e luganesi, Andrea Caglioni, l’ex filo cisalpino Giovanni Reali e l’ex segretario
di stato Annibale Pellegrini, quest’ultimo vicino a Dalberti per legami personali 22. Contrari a
qualsiasi concessione si espressero invece soprattutto l’insieme delle élite del Mendrisiotto,
capeggiate da Giovanni Battista Maggi, ma anche i luganesi Giovanni Battista Quadri, il già
prefetto del Cantone di Lugano Pietro Frasca, l’ex membro del governo Angelo Maria
Stoppani, Ambrogio Luvini e Giulio Pocobelli e il locarnese Andrea Bustelli uno dei tenori
del Gran Consiglio nel periodo della Mediazione 23.
Il voto e la perpetuazione dell’occupazione acuirono le acrimonie in seno alle élite svizzere
al sud delle Alpi, come dimostrano la corrispondenza di Giovanni Battista Monti e l’azione
di Giovanni Battista Maggi nel Mendrisiotto 24. Accentuarono in alcuni lo stato di attesa e di
ansia, come testimoniato dalla corrispondenza di Agostino Dazzoni: «siamo ancora nella
primiera incertezza, oppure abbiamo finalmente qualche cosa di positivo? Io non so darmi
pace finché non vedo cessato il pericolo. Abbia pertanto la bontà […] di fornire delle
notizie rassicuranti o almeno consolanti ad un povero montagnardo, che adora la bontà
della sua patria».
Le élite della svizzera sud alpina confrontate alla caduta del regime della
Mediazione
La sconfitta di Napoleone a Lipsia nell’ottobre del 1813, il conseguente ritiro delle truppe
italiane dal Cantone Ticino all’inizio di novembre e la convocazione di una dieta
19 Cf. con la lettera del landamano de Wattenville al colonnello de Hauser, 22 dicembre 1810, in Bettelini,
Scritti scelti, cit., vol. II, pp. 108-113.
20 Cf. con le lettere di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri, del 29 novembre 1810 e del 13 gennaio 1811 e con la
Lettera di risposta di Paul Usteri del 23 gennaio, in Martinola, Epistolario, cit., pp. 118-119 e 130-132.
21 Ibid., p. 153. Cf. con la lettera di Vincenzo a Paul Usteri del 1 maggio 1811.
22 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D, cf. con la corrispondenza tra Annibale Pellegrini e Vincenzo Dalberti tra
il marzo del 1810 e il dicembre del 1811.
23 Atti del Gran Consiglio del Cantone Ticino, Bellinzona, 1902, vol. III, pp. 412-414, seduta straordinaria del
31 luglio 1811.
24 Cf. con G. Martinola, Accuse e difese di GB Monti e GB Maggi, le sorti del Mendrisiotto nel 1811, in «Bollettino
storico della Svizzera italiana», vol. 79, fasc. 1, 1967, pp. 7-23.
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straordinaria atta a stabilire l’atteggiamento della Svizzera nel nuovo quadro europeo,
ridiedero un’insperata compattezza alle élite politiche sud alpine.
Il Gran Consiglio riunitosi all’inizio di novembre del 1813 nominò suo rappresentante alla
Dieta Vincenzo Dalberti con il mandato di difendere la neutralità svizzera di fronte alle
potenze belligeranti: «[…] le système de neutralité entrant parfaitement dans les vues du
Canton de Tessin, il [il Gran Consiglio] m’a donné l’instruction positive de voter pour
toutes les démarches qui seraient nécessaires pour faire reconnaître des autres puissances
belligerantes la neutralité de la Suisse» 25. La dieta confederale unanimemente adottò un
manifesto in difesa della neutralità, decise di mobilitare le truppe al fine di difendere le
frontiere e denunciò la sua partecipazione al blocco continentale. Anche queste ultime
misure furono accolte con favore dalle élite sud alpine.
Alla fine di dicembre, in seguito alla convocazione del landamano zurighese Reinhard di
una riunione informale di esponenti dell’élite di tutti i cantoni per discutere sul da farsi, il
Gran Consiglio ticinese mostrò ancora una volta una certa unità d’intenti nella definizione
del mandato alla sua delegazione guidata da Giuseppe Rusconi: la commissione, i cui
membri erano esponenti delle diverse regioni del Cantone e rappresentanti delle diverse
sensibilità politiche 26, propose un decreto volto alla difesa del regime della Mediazione
«ritrovando che anche la costituzione particolare di questo cantone ha sempre tenuta la sua
popolazione in uno stato di piena contentezza e unione». Secondo la commissione, la
delegazione, stando «ferma e fissa in questa 27 [Costituzione]», avrebbe dovuto difendere
con la massima energia l’indipendenza del Cantone in un sistema federativo, che
riconoscesse a tutti i cantoni libertà e eguaglianza nei diritti.
Nonostante fosse diffusa tra l’élite l’ostilità all’ordine europeo di Napoleone 28, le autorità
politiche del Cantone erano tutt’altro che disposte a rinunciare a quanto di positivo quel
regime aveva prodotto: la creazione di un cantone al sud delle Alpi, con proprie istituzioni
rappresentative, che permettevano alle élite svizzere sud alpine di gestire in modo diretto
un proprio potere sulla regione. Inevitabile perciò che le decisioni prese a Zurigo, alla fine
di dicembre del 1813 volte all’abolizione dell’atto di Mediazione e alla revisione del patto
federale, non fossero gradite dalle élite sud alpine, che si piegarono a malincuore 29.
Dissidi non tardarono a manifestarsi sulle procedure da seguire e su quale dovesse essere
nel nuovo ordine il capoluogo del Cantone. Nondimeno il Gran Consiglio riunito in seduta
straordinaria nel febbraio-marzo 1814 e chiamato ad accettare il nuovo patto federale e a
elaborare una nuova costituzione, riuscì a trovare un minimo comun denominatore. Le élite
politiche del Cantone adottarono il 4 marzo una Costituzione più democratica nei suoi
contenuti di quella imposta dalla Mediazione: le regioni erano meglio rappresentate in
parlamento e il principio della separazione dei poteri fu fissato in modo più rigoroso 30.
Anche sulla questione della capitale, che divideva le élite del Cantone, si impose il
compromesso dell’ambulanza del capoluogo tra Lugano, Locarno e Bellinzona,
compromesso sostenuto soprattutto dagli esponenti dell’élite dell’ex Cantone di Lugano: a
favore di tale soluzione si espressero i locarnesi Andrea Bustelli, Andrea Caglioni, Giuseppe
Franzoni, i luganesi Pietro Frasca, Antonio Maria Luvini, Annibale Pellegrini, Giovanni
Reali, Giovanni Battista Quadri, Giulio Pocobelli e il rappresentante del Mendrisiotto
Giovanni Battista Maggi. L’opposizione al compromesso venne soprattutto da esponenti
dell’ex Cantone di Bellinzona, che speravano di mantenere il centro del Cantone nel borgo
Cit. tratta dal discorso di Dalberti alla dieta confederale del 15 novembre 1813, in Bettelini, Scritti scelti, cit.,
vol. II.
26 Tra di essi vi erano Giovanni Battista Maggi, Andrea Bustelli, Antonio Maria Luvini, Annibale Pellegrini,
Agostino Dazzoni e Carlo Sacchi.
27 Atti del Gran Consiglio, cit., vol. IV, p. 162.
28 Cf. per esempio con Caldelari, Napoleone, cit.
29 Cf. con R. Ceschi, Il cantone Ticino nella crisi del 1814, Bellinzona, 1979, pp. 44-45.
30 Ibid., pp. 50-52.
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di Bellinzona, così come stabilito dalla Mediazione: votarono contro il bleniese Vincenzo
Dalberti, i leventinesi Agostino Dazzoni e Bernardino Pedrazzi, e il bellinzonese Carlo
Sacchi.
La decisione del Gran Consiglio portò alla reazione delle autorità locali del borgo di
Bellinzona: l’assemblea comunale della cittadina cercò di mobilitare i distretti sopracenerini
in favore della creazione di due semi cantoni con rispettivamente capitale Bellinzona e
Lugano 31. Tale proposta mise sotto pressione l’insieme dell’élite politica 32. Due tra gli
esponenti più in vista dell’élite locarnese, Giuseppe Franzoni e Andrea Bustelli, pur avendo
votato per l’ambulanza del capoluogo sostennero la proposta, allettati dalla possibilità di
un’adesione dei loro distretti ad un cantone sopracenerino. L’adesione al movimento giunse
anche dal segretario di Stato di Bellinzona Vittore Ghiringhelli, mentre lo stesso Vincenzo
Dalberti di fronte alla richiesta del suo comune di origine di esprimersi sul tale progetto,
adottò una posizione evasiva: «forse l’oggetto a cui tende il comune di Bellinzona potrebbe
essere utile; ma tanto la riuscita dello stesso, come la sua utilità dipendono da varie
combinazioni, che finora non si sono abbastanza sviluppate» 33. Tra i membri del Piccolo
Consiglio del sopraceneri solo Giuseppe Rusconi rifiutò categoricamente di assecondare le
mire del borgo di Bellinzona.
La mobilitazione di molti comuni del sopraceneri, l’ambigua posizione presa da una parte
dell’élite politica dell’ex Cantone di Bellinzona e del distretto di Locarno portò alla reazione
di molti comuni e delle élite del Sottoceneri che chiesero una ferma censura delle iniziative
del borgo di Bellinzona 34. Il governo diviso e titubante convocò inizialmente il Gran
Consiglio affinché affrontasse la questione; poi, anche su intimazione dell’ex landamano
Reinhard per evitare disordini e una possibile mobilitazione volta a destituire il governo 35,
desistette. Il conflitto sulla fissazione del capoluogo restò latente e le élite politiche, messe
sotto pressione dagli interessi dei ceti mercantili dei due principali borghi del Cantone, che
non volevano rassegnarsi all’ipotesi di divenire periferia, agirono alimentando incertezze e
contrasti che tendevano a delegittimare le istituzioni.
Il venir meno del regime della Mediazione aprì un altro fronte per le élite sud alpine di
difficile gestione: all’inizio di gennaio Uri aveva rivendicato presso le potenze alleate il
ritorno della Leventina sotto la sua giurisdizione e nel febbraio del 1814 pubblicò nella valle
un appello volto a indurre l’adesione delle comunità leventinesi al proprio progetto 36. Una
parte dell’élite locale, e soprattutto i comuni della media e dell’alta valle, accettarono di
entrare in materia e di discutere con gli urani le condizioni di un’aggregazione 37. Più in
generale invece, le élite politiche del Cantone Ticino, alla fine di febbraio, si espressero
quasi all’unanimità contro l’ipotesi di uno scorporo della Leventina 38, anche se erano
soprattutto le élite del sopraceneri a temere maggiormente tale eventualità, in quanto in un
cantone senza la Leventina sarebbero risultate più deboli di fronte alla forza contrattuale
delle élite sottocenerine. Nella valle, i più ostili alla causa urana, alla fine di marzo,
accusarono il governo di timidezza sulla questione leventinese. La missione di Giuseppe
Rusconi accompagnato da Carlo Sacchi, Antonio Zeglio, era risultata inefficace nel
31 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D, cf. con la proposta dell’assemblea comunale del borgo di Bellinzona, 14
marzo 1814.
32 Ibid., cfr. in particolare con la lettera a Vincenzo Dalberti, di Paolo e Vittore Ghiringhelli e di Giovanni
Andreazzi, tra il 20 e il 22 marzo 1814.
33 Ibid., Lettera di Dalberti all’assemblea comunale di Olivone, 29 marzo 1814.
34 Cf. con Ceschi, Il cantone Ticino, cit., pp. 111-112.
35 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D, cfr. con le lettere a Vincenzo Dalberti di Giuseppe Franzoni, del 24
marzo e di Vittore Ghiringhelli del 27 marzo 1814.
36 Ceschi, Il cantone Ticino, cit., pp. 115-116.
37 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3C, cf. con la Lettera di Agostino Dazzoni a Vincenzo Dalberti, 2 maggio
1814.
38 Cf. con gli Atti del Gran Consiglio, cit., vol. IV, pp. 307-309.
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convincere il congresso di Faido a desistere dai suoi propositi di proseguire i negoziati per
unire la valle a Uri: «La Leventina è persa se qualche circostanza straordinaria ed
impreveduta non c’entra di mezzo. Rusconi e Sacchi hanno agito a Faido
languidissimamente; sono partiti subito dopo il congresso del giorno 26 e non si sono
fermati per parlare in qualche assemblea, come molti dei ben pensanti lo avevano
consigliato loro 39».
Ci pensarono le eccessive richieste di Uri a scompigliare le carte a metà aprile e a ridare
fiato nella valle agli oppositori all’aggregazione. Anche quella parte dell’élite, inizialmente
favorevole ad entrare in materia, risultò delusa dalle pretese del governo urano. Notabili
della valle segnalarono durante il mese di aprile il pericolo di un’insurrezione popolare
sobillata dagli urani e chiesero a gran voce una maggiore determinazione da parte del
governo per evitare il peggio 40. Solo a quel punto vi fu una reazione coordinata da parte di
alcuni esponenti dell’élite sopracenerina: il primo maggio Vincenzo Dalberti sollecitò con
successo una chiara presa di posizione dei ministri delle potenze alleate contro qualsiasi
modifica territoriale in favore di Uri, mentre Andrea Caglioni inviato nella valle, pur non
potendo, il 3 maggio, impedire il pronunciamento a favore di Uri di un congresso a Faido,
riuscì a tutelare la posizione di quanti vi erano contrari. Giuseppe Rusconi dal canto suo,
scrisse a La Harpe a Parigi affinché la posizione del Ticino fosse difesa presso le potenze
alleate e il 19 maggio fece occupare da truppe confederate, inviate in Ticino su richiesta del
Piccolo Consiglio, la media e l’alta valle Leventina, mentre Franzoni si prodigò nello
scrivere un proclama da inviarsi nella valle per riportare la calma 41. La crisi trovò soluzione
solo al congresso di Vienna, che garantì l’esistenza e l’integrità territoriale dei nuovi cantoni
creati dalla Mediazione napoleonica e sancì definitivamente l’appartenenza della Leventina
al Cantone Ticino42.
Le attese delle comunità locali e della popolazione dei borghi e delle campagne, che, in
seguito al venir meno del regime della Mediazione, si aspettavano di avere voce in capitolo
nella situazione venutasi a creare dopo la caduta di Napoleone, alimentavano titubanze e
divisioni in seno alle élite. La costituzione del 4 marzo tardava ad essere riconosciuta dalle
potenze alleate e dalla dieta, ciò che rafforzava le incertezze e le speculazioni. Voci di una
possibile sollevazione volta a proclamare un governo provvisorio e a destituire le autorità in
carica erano ricorrenti 43. Durante la sessione del Gran Consiglio del maggio 1814, Giovanni
Battista Quadri propose la messa in vigore della Costituzione del 4 marzo, senza attendere
la positiva sanzione da parte della Dieta e delle potenze alleate. La proposta si scontrò con
l’opposizione della maggioranza guidata questa volta da Andrea Bustelli che proponeva di
attendere l’ultimazione dei lavori riguardanti il nuovo patto federale 44. La maggioranza si
disse disposta ad attendere, anche se molti esponenti speravano che i lavori della Dieta
avanzassero più celermente.
Tuttavia la situazione di incertezza si aggravò ulteriormente quando alla fine di giugno
divenne chiaro che la Costituzione ticinese del 4 marzo doveva essere modificata in quanto
secondo le potenze alleate era eccessivamente «modellata sul gusto francese, di cui si voleva
39 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D, cfr. con la lettera di Vittore Ghiringhelli a Vincenzo Dalberti, 3 aprile
1814.
40 Ibid., cfr. per esempio con le lettere a Vincenzo Dalberti di Giuseppe Antonio Cattaneo del 14 aprile e del
canonico Lorenzo Calgari del 28 aprile 1814.
41 Ibid., cf. con le lettere a Vincenzo Dalberti di Giuseppe Franzoni del 1 maggio, di Agostino Dazzoni del 5
maggio, di Vittore Ghiringhelli del 19 maggio 1814.
42 Cf. con Dierauer, Le féderalisme, cit., pp. 430-440.
43 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D. Cf. con la lettera a Vincenzo Dalberti di Giuseppe Franzoni, del 22
maggio 1814.
44 ASTi, Fondo Staffieri, scatola 3D, cfr. con la lettera del canonico Paolo Ghiringhelli a Vincenzo Dalberti,
del 29 maggio 1814.
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abolita la memoria» 45. Di fronte a tale esigenza il Gran Consiglio difese a grande
maggioranza il suo progetto di Costituzione. Tra gli esponenti più in vista dell’élite politica,
assieme ad una decina di deputati, solo Vincenzo Dalberti, Carlo Sacchi e Pietro Frasca si
opposero all’invio di un memoriale in sua difesa. Giovanni Battista Quadri e Annibale
Pellegrini invece guidarono una commissione incaricata di redigerlo all’attenzione dei
ministri delle potenze alleate 46. La loro risposta non poté essere più chiara: entro l’11 luglio
le autorità del Cantone avrebbero dovuto elaborare una nuova costituzione che
abbandonasse le velleità democratiche, il principio della separazione dei poteri e rafforzasse
in modo deciso il potere dell’esecutivo. La commissione del Gran Consiglio nella quale
erano rappresentati i maggiori tenori del regime della Mediazione 47 capitolò quasi su tutto 48.
Il Gran Consiglio adottò un progetto, ma l’incertezza sulla sua accettazione alimentò
successivamente le speculazioni su un possibile accentramento dei poteri in favore dei ceti
borghesi. Giuseppe Rusconi, Pietro Frasca e Ambrogio Luvini erano accusati di vedere con
favore una soluzione in tal senso. Vincenzo Dalberti all’opposto cercò di difendere gli
interessi delle campagne: «le mode d’élection adopté par le Grand conseil sauvera encore
un peu la liberté à la Campagne; […] le plus petit changement qu’on y introduirait à
l’instigation des bourgeois serait le signal de son oppression. Vous savez que je ne suis pas
demagogue, ni populacier; j’aime a protéger les proprietaires, car c’est sur eux que pose
particulierèment le système social. Mais chez nous les meilleurs proprietaires ne sont pas les
habitants des bourgs; ni ceux ci ont jamais acqui le moindre droit sur les habitants de la
campagne, ni par des services patriotiques, ni même par des talents distingué 49».
I timori di Dalberti risultarono alla fine infondati e i ministri delle potenze alleate dopo
qualche correttivo, accettarono la nuova Costituzione del Cantone che venne adottata alla
fine del mese di luglio. Il seguito è conosciuto: la riunione delle assemblee di circolo atte a
nominare i deputati del nuovo Gran Consiglio provocarono una generale mobilitazione,
soprattutto nel Sottoceneri e nel Bellinzonese, contro la Costituzione e le élite della
Mediazione che la sostenevano per compiacere le potenze alleate 50. La rivoluzione di
Giubiasco fu probabilmente favorita dalla delegittimazione delle istituzioni, dovuta alle
titubanze, alle divisioni e al voltafaccia delle élite politiche, ma essa fu soprattutto una
rivolta dei poteri locali basata su una sensibilità democratica, che negli anni successivi alla
rivoluzione del 1798 si era ben radicata nella popolazione del cantone. Tra quanti
guidarono i rivoltosi vi erano soprattutto esponenti dell’élite locale. Solo Angelo Maria
Stoppani, poteva essere considerato un esponente dell’élite politica dell’Elvetica e della
Mediazione. Un esponente tuttavia, che dopo esser stato membro del Piccolo Consiglio tra
il 1803 e il 1806, era rimasto ai margini del campo politico 51.
Dopo l’intervento militare della Confederazione e il ristabilimento delle autorità politiche, si
procedette ad ulteriori elaborazioni costituzionali, che si risolsero solo nel dicembre del
1814, con l’adozione di una Costituzione imposta dai ministri delle potenze alleate,
Costituzione che diede avvio alla Restaurazione, anche se non mise completamente fuori
gioco le élite politiche della Mediazione.
Cit. in G. Martinola, Il gran partito della libertà, la rivoluzione ticinese del 1814, Locarno, 1983, p. 37.
Atti del Gran Consiglio, cit., vol. IV, pp. 440-446.
47 Carlo Sacchi, Vincenzo Dalberti, Agostino Dazzoni, Andrea Bustelli, Annibale Pellegrini, Giovanni Battista
Quadri e Giovanni Battista Maggi.
48 Cf. con Ceschi, Il cantone Ticino, cit., p. 177.
49 Lettera di Vincenzo Dalberti a Paul Usteri, 11 luglio 1814, in Martinola, Epistolario, cit., pp. 237-241.
50 Cf. anche con Martinola, Il gran partito della libertà, cit., pp. 49-76.
51 Cf. con Ceschi, Il cantone Ticino, cit., p. 190.
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Conclusione
Grazie alla nostra ricerca incentrata sulla figura di Dalberti e su una ventina di personalità
appartenenti all’élite politica del periodo 1798-1814, abbiamo potuto constatare quanto il
regime della Mediazione e Napoleone fossero visti positivamente almeno fino al 1810. A
partire dall’occupazione del Cantone da parte delle truppe del Regno d’Italia, la percezione
dell’ordinamento napoleonico divenne meno favorevole, anche se continuava ad esservi
un’ampia adesione al regime della Mediazione, che aveva dato alle élite sud alpine
autonomia politica e potere regionale.
L’occupazione prima e l’abolizione del regime della Mediazione poi, misero in crisi le élite
politiche sud alpine che dovettero barcamenarsi tra le istanze delle comunità locali, sempre
più ostili e favorevoli a soluzioni democratiche e le esigenze di forze esterne quali la Francia
imperiale (fino alla fine del 1813) e le potenze della Restaurazione. Le pressioni delle
comunità locali e delle grandi potenze avevano forza disgregante e portarono le élite locali a
titubanze e divisioni che delegittimarono le istituzioni e rischiarono di portare alla
scomparsa dell’autonomia politica tanto cara alle élite svizzere del sud delle Alpi.
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Condizione migrante, lotte e sindacati nella Svizzera degli anni Settanta
Il caso Monteforno attraverso le fonti orali. Prime conclusioni
Mattia Pelli
Introduzione
Nel mio intervento dello scorso anno ho presentato l’ipotesi sulla quale ho basato il mio
lavoro di ricerca di questi due anni, svolto nel quadro della mia tesi di dottorato in Storia
presso l’Università di Losanna, in cotutela con quella di Bologna. Permettetemi di
riassumerla brevemente.
Sulla base di alcune riflessioni di studiosi dell’autunno caldo italiano come Goffredo Fofi, ho
cercato di esaminare il peso della condizione migrante – insieme ad altri fattori tra cui le lotte
studentesche del Sessantotto e lo sviluppo dei partiti di estrema sinistra – nella nascita,
anche in Svizzera, di un’inedita ondata di mobilitazioni sociali in fabbrica negli anni
Settanta, di cui l’acciaieria Monteforno di Bodio-Giornico (Canton Ticino) è stata parte
importante.
Nel suo pionieristico lavoro L’immigrazione meridionale a Torino, Goffredo Fofi sosteneva
come essere degli immigrati meridionali a Torino rappresentò quel «di-più» che poteva
spiegare alcune caratteristiche delle lotte operaie del 1969:
«In questo contesto il problema della casa, dell’isolamento sociale, del carovita, e i problemi
interni alla fabbrica sono venuti a saldarsi in un unico motivo di lotta, che evidentemente è
simile per gli operai in generale ma che, per la pressione maggiore a cui essi sono sottoposti, è
stato più esplosivo nel caso degli immigrati. In definitiva, potremmo dire che il fattore
‘immigrazione’ è stato il di-più che ha accelerato i tempi e aumentato la violenza dello scontro
a Torino, ma che esso non ha rappresentato altro che un’accentuazione maggiore di una
situazione comune per tutti gli operai, a Milano, Mestre e così via.» 1
È lo stesso Goffredo Fofi, nell’edizione del 1976 della sua opera che, nell’analizzare le
caratteristiche dell’autunno caldo, apre ad una prospettiva comparativa che va oltre i confini
nazionali:
«[…] si pensi alla partecipazione massiccia, e per la prima volta nella storia operaia francese,
degli operai immigrati al Maggio, oppure alle lotte dei minatori immigrati nel Belgio, oppure
alle lotte della Fiat, e anche a esempi più ridotti ma non per questo meno significativi come
l’inizio di lotte degli immigrati spagnoli e italiani in Svizzera […].» 2
Giovani, celibi, lontani da casa, attratti dalle opportunità aperte dal boom economico ma
costretti alla marginalità nelle società d’accoglienza da un diffuso pregiudizio e nella
fabbrica costretti ad un lavoro ripetitivo ed alienante, gli immigrati furono i veri
protagonisti di quella stagione di lotte che – pure nelle rivendicazioni e nei metodi – fu
probabilmente influenzata anche dalla loro condizione migrante. Con questa espressione ho
cercato di riassumere una serie di caratteristiche comuni all’esperienza degli immigrati in
Svizzera negli anni Sessanta-Settanta che influenzavano l’intera vita sociale dello straniero e
i processi di interazione con la società ospitante e che non si manifestavano unicamente nel
quadro del contesto lavorativo, sul posto di lavoro, in fabbrica. Si trattava essenzialmente
Fofi, L’ immigrazione meridionale a Torino, Milano, 1976, p. 309.
Ibid., p. 315.
1 G.
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dell’esperienza della discriminazione e della marginalità sociale nella quale i lavoratori
immigrati erano costretti a vivere in Svizzera, paese che non accordava loro diritti politici e
che li considerava unicamente come fattore produttivo da manipolare a seconda delle
necessità.
Ho già avuto modo, nei due anni precedenti di lavoro come ricercatore associato del
LabiSAlp di presentare molti esempi di discriminazione e di reazione ad essa da parte di
lavoratori stranieri della Monteforno. Quello che è importante notare, dal punto di vista
generale, è che gli anni Sessanta furono quelli di una forte crescita del sentimento xenofobo
in Svizzera, soltanto in parte contrastata dalle istituzioni federali, che raggiunse il suo apice
nel 1970 con la famosa iniziativa Schwarzenbach 3: se questa fosse stata accolta avrebbe
determinato l’espulsione dal Paese di 300’000 lavoratori immigrati. La campagna
precedente al voto fu avvelenata e mise in luce una diffusa xenofobia tra la popolazione
elvetica. Ma, cosa ancora più importante per il tema trattato oggi, fu che questa si manifestò
anche all’interno dei sindacati, in particolare di quelli legati all’USS, l’Unione Sindacale
Svizzera, alla quale era affiliata la FOMO (Federazione degli Operai Metallurgici e Orologiai),
attiva anche all’interno della Monteforno.
I lavoratori arrivati in Ticino dal Sud Italia tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli
anni Sessanta, la «seconda ondata», furono quelli che dovettero fare fronte a questa marea
xenofoba: l’iniziativa del 1970 venne respinta per pochi voti in svizzera (54% di no contro
46% di sì) e con ben più margine nel Canton Ticino (36,3% di sì contro il 63,7% di no).
La contemporaneità dello scoppio degli scioperi che – a partire dal 1970, in particolare in
Ticino e in Svizzera romanda – scossero il settore metalmeccanico con la fase più acuta del
sentimento anti-stranieri nel paese è interessante e va senza dubbio indagata: trovare un
legamene tra questi due fenomeni significa rafforzare l’idea di una relazione tra
discriminazione subita e disponibilità alla lotta e aprirebbe la strada a una lettura nuova di
quegli anni di mobilitazioni sociali, che videro protagonisti i lavoratori immigrati e la messa
in discussione del principio della «pace del lavoro», così come la strategia sindacale volta
alla sua difesa attraverso la pratica della concertazione. Inoltre la verifica di questo legame
porterebbe a rafforzare il punto di vista secondo il quale questo ciclo di lotte non fu
indotto da una maggiore politicizzazione della manodopera e sposterebbe l’attenzione dalla
centralità della fabbrica e del lavoro nel determinare lo scoppio della protesta alla situazione
globale di discriminazione vissuta dall’immigrato. Una nuova chiave di lettura che pone
anche nuove domande, relativamente per esempio al rapporto tra i lavoratori immigrati
protagonisti delle mobilitazioni e i sindacati o alle caratteristiche particolari che ebbero
queste lotte rispetto alle precedenti.
Problematica
Verificare l’esistenza del legame tra condizione migrante e lotte sociali in Svizzera negli anni
Settanta e in particolare alla Monteforno è estremamente difficile facendo ricorso soltanto
alle fonti tradizionali, in questo caso principalmente sindacali. L’archivio della FLMO
(Federazione dei lavoratori metallurgici e orologiai, in precedenza FOMO) conservato
presso la Fondazione Pellegrini Canevascini di Bellinzona, pur essendo molto interessante
per ricostruire lo sviluppo del lavoro sindacale all’interno della Monteforno, denota uno
scarsissimo interesse per l’analisi della condizione migrante dei lavoratori dell’acciaieria.
Non è una sorpresa: per tutto il secondo dopoguerra e fino almeno alla metà degli anni
Settanta, l’Unione Sindacale Svizzera e le federazioni sindacali ad essa affiliate (a parte rare
eccezioni) si rifiutarono di accettare la specificità rappresentata dall’esperienza dei lavoratori
De Bernardi, L’immigrazione in Svizzera e le iniziative contro l’inforestieramento degli anni Settanta del secolo scorso, in
«Bollettino storico della Svizzera italiana», Vol. 109, fasc. 1, 2006, pp. 37-62.
3 A.
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stranieri, anche a causa di una diffusa xenofobia che permaneva al loro interno. Come
mostra per esempio lo studio di Monica Bartolo4, in Ticino anche i sindacati più vicini al
Partito Socialista si limitavano a considerare l’immigrazione dal punto di vista economico,
come un fattore di sviluppo importante per il paese, senza valutarne l’aspetto umano, cosa
che invece a partire dalla fine degli anni Sessanta cominciarono a fare i sindacati cattolici,
che riuscirono così a penetrare in modo significativo tra gli stranieri. Se le fonti tradizionali
non sono dunque d’aiuto, è necessario ricorrere a quelle orali, interrogando direttamente i
protagonisti di quelle lotte. È quello che ho fatto negli ultimi due anni, portando a termine
– su questo tema specifico e con il sostegno degli Archivi sociali svizzeri – dieci nuove
interviste con lavoratori dell’acciaieria di Bodio-Giornico.
È mia intenzione, in questo articolo, analizzare parti significative di due interviste che mi
hanno permesso di formulare alcune prime risposte alle domande poste all’inizio di questo
lavoro. Si tratta di due interviste ad altrettanti testimoni che – per il loro particolare
itinerario politico e professionale – si collocano in modo diverso e in alcuni casi opposto
relativamente agli scontri tra operai e direzione iniziatisi nel 1970 e protrattisi fino a tutti gli
anni Ottanta, ma anche relativamente alla visione dell’immigrazione dal Sud, della lotta
politica e dell’iniziativa sindacale. La loro testimonianza è dunque interessante proprio per
questa loro diversità che rafforza gli elementi di interpretazione comune che emergono
durante le interviste.
Gli «anni caldi», 1970-1972
Ma prima di presentarvi gli spezzoni di intervista, è utile ricostruire gli avvenimenti
principali di quei due anni «caldi» alla Monteforno di Bodio come emergono dal risultato
del lavoro di ricerca svolto grazie all’incrocio di fonti scritte e fonti orali.
Il 14 maggio 1970 gli operai dell’acciaieria – il reparto di punta della fabbrica – tramite la
commissione d’azienda avevano fermato i forni senza nessun avvertimento e avevano
chiesto un aumento immediato di un franco l’ora sulla paga base, rifiutato dalla direzione,
che fece alcune controproposte (in sostanza 50 centesimi di aumento) a loro volta giudicate
inaccettabili dai lavoratori promotori della protesta. Il 20 maggio gli operai scesero in
sciopero e con loro tutta la fabbrica: il 22 maggio arrivò la proposta di un aumento di 60
centesimi, accolta dalla maggioranza delle maestranze e solo con grande difficoltà dal
nucleo duro degli scioperanti, ai quali si riconobbe anche un aumento dell’«indennità di
calore». Nel 1971 vi fu un altro sciopero di 48 ore per ottenere ulteriori aumenti salariali,
contro il parere della commissione d’azienda: anche questa istituzione, considerata troppo
vicina alla direzione e ai sindacati, venne in questi anni fortemente rimessa in discussione.
Tanto da essere costretta nel 1972 a dare le dimissioni di fronte alla sua delegittimazione
attuata dal GOM (il Gruppo Operai Monteforno, legato al Partito Socialista Autonomo 5, di
orientamento marxista), sostituita da una delegazione eletta direttamente dall’assemblea
degli operai, subito sconfessata dalla direzione della Monteforno, che decise di non
riceverla.
Venne eletta una nuova commissione d’azienda, espressione dei lavoratori più combattivi,
che però fu travolta dalla rappresaglia messa in atto dai dirigenti dell’acciaieria. I primi a
essere colpiti furono due membri della nuova commissione, licenziati con motivazioni
pretestuose: il primo perché propose di adottare lo «sciopero dello zelo» come metodo di
M. Bartolo, Renitenti, sindacalisti o sovversivi? Gli immigrati italiani nel Canton Ticino (1945-1970), Friborgo, 2004.
Sulla storia del PSA, cf. P. Macaluso, Storia del Partito Socialista Autonomo, Locarno, 1997; M. Rauch, Il partito
socialista autonomo tra rottura e continuità. Caratteristiche e contraddizioni del processo d’elaborazione di una strategia politica
nel partito della «nuova sinistra» ticinese (1969-1974), Tesi di Laurea, Facoltà di lettere dell’Università di Losanna,
2000.
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lotta 6; il secondo perché arrivò in fabbrica con una spilletta con la falce e martello attaccata
al bavero il giorno in cui nel cortile della Monteforno vennero trovate scritte «ingiuriose
contro la direzione». La notte tra il 29 e il 30 maggio 1972 – dopo che anche la nuova
commissione d’azienda ebbe dato le dimissioni dopo la repressione attuata dalla direzione –
gli operai fermarono l’attività dei forni per sedici ore per chiedere il ritiro dei due
licenziamenti. Fu l’ultimo atto di una lunga fase di mobilitazioni in fabbrica: lo sciopero fallì
per la scarsa preparazione, per la stanchezza della maggioranza dei lavoratori e per l’assenza
di una direzione del movimento. Il 13 giugno, con un referendum interno, il 79,7% dei
lavoratori diede mandato ai sindacati di riprendere le trattative con la direzione della
Monteforno.
Lotte e condizione migrante
Il primo testimone che desidero introdurre è un lavoratore immigrato da Mantova all’inizio
degli anni Sessanta, iscritto fin dall’inizio al sindacato FOMO. Egli spiega di aver ricevuto
in famiglia una educazione politica forte, essendo «dalle nostre parti tutti comunisti» e per
questo la scelta del sindacato fu per lui obbligata: il sindacato di sinistra, per lui, era la
FOMO, mentre l’OCST era il «sindacato dei preti». Ma – contraddittoriamente – questo
lavoratore spiega anche che nell’azienda dove lavorava a Mantova «non abbiamo mai fatto
uno sciopero, guai! Il padrone era come uno di famiglia». Insomma, questo lavoratore, che
dice che i suoi compaesani del Sud «hanno un’altra cultura» e che si sente più vicino agli
svizzeri, non fatica ad adattarsi alla disciplina sindacale dei sindacati elvetici, alla pace del
lavoro e alla strategia concertativa che li guida. Questo lavoratore è stato anche presidente
della commissione di fabbrica e – dal punto di vista sindacale – si contraddistingue per una
ricerca del compromesso e per il tentativo di evitare il conflitto. Anche se – durante il
biennio più caldo tra il 1970 e il 1972 – dice di essere stato assolutamente solidale con gli
scioperi selvaggi scoppiati in fabbrica.
Ma invece in quei primi scioperi nella fase 1970-1972, il primo sciopero per il franco
all’ora... Oh, quelli erano giusti, ah, quelli lì eravamo uniti tutti, ah, lì non c’era... non c’era
proprio... no, no, i primi le dico... i primi che abbiamo fatto erano voluti da tutti, cioè erano
proprio... anche se non lo poteva dire apertamente, perché il sindacato era tenuto alla pace del
lavoro, però ad ogni modo gli operai erano abbastanza uniti, perché c’erano dei problemi,
bisognava risolverli, lì son d’accordo che era giusto.
[...] Dunque ha scioperato anche lei... Ho scioperato, sì. Anche se, le dico, gli ultimi [scioperi
degli anni ‘80], ho scioperato anche se, anche per... cosa voleva fare, dividersi? Però non li
condividevo e nelle nostre riunioni non ho mai condiviso. C’è stato uno sciopero che abbiamo
partecipato per solidarietà, per non mettere in condizioni quel gruppo che venisse poi
boicottato, sa com’è... Però non era giusto.
La sua posizione sugli anni della contestazione è contraddittoria: accanto all’adesione alle
lotte, spiega di essere sempre stato contrario alla politicizzazione indotta anche in fabbrica
dall’onda lunga del Sessantotto, che certamente ha avuto un ruolo nello scatenare le
battaglie all’interno della fabbrica.
In effetti, questo testimone è un buon interprete della mentalità politico-sindacale tipica
della prima ondata di immigrazione arrivata alla Monteforno dall’Italia del Nord:
tendenzialmente politicizzata (si pensi agli operai della Cobianchi di Omegna 7, in Piemonte,
6 Con «sciopero dello zelo» si intendeva il rispetto pedissequo di tutte le norme che regolavano il lavoro in
acciaieria, per incidere così sulla produttività del lavoro. Da notare che questa proposta venne fatta in
commissione d’azienda, dove non erano presenti membri della direzione.
7 F. Colombara, Uomini di ferriera: esperienze operaie alla Cobianchi di Omegna, Comunità montana Cusio
Mottarone, 1999.
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azienda «madre» della Monteforno) ma rispettosa della disciplina sindacale, quindi anche di
quella svizzera.
Si tratta di un atteggiamento a prima vista contraddittorio ma che invece ben si concilia con
la disciplina imposta ai propri iscritti dal Partito Comunista Italiano e dalla CGIL in
funzione della volontà di integrazione nel sistema politico-economico italiano del secondo
dopoguerra e dell’abbandono della prospettiva di superamento del capitalismo.
Così, come mostrano gli studi sul 1969 operaio a Torino, non saranno gli operai della
«vecchia generazione», i più politicizzati e sindacalizzati, a rilanciare le lotte nelle fabbriche,
ma i nuovi, gli immigrati dal Sud, provenienti spesso da un contesto agrario, scarsamente
politicizzati e raramente sindacalizzati.
Molto interessante la testimonianza di questo ex lavoratore Monteforno sul tema cardine
del mio lavoro di ricerca: il rapporto tra discriminazione e scoppio delle lotte in fabbrica.
In questi primi scioperi che lei reputa necessari e giusti, una mia curiosità è questa:
secondo lei, il fatto di essere immigrati, per questi lavoratori, era una spinta in più a...
come dire... a alzarsi in piedi e dire: «Basta»? Perché, per dire, in quegli anni lì c’era
tutto il discorso Schwarzenbach... Ah, lì non si poteva... euh... non si poteva fare niente,
tutto... «qui in Svizzera non si può», il sindacato che diceva «qui non s’è mai fatto sciopero, non
si può fare sciopero, bisogna fare...», e lì è stata una reazione a catena. «Ah sì, allora lo
facciamo». E lì ha trovato... Ma il fatto di essere immigrati ha avuto un’influenza... Per
me sì. La nostra reazione... l’unità, che eravamo... già si parlava male di questi immigrati,
eravamo quasi tutti italiani, no, c’è stato quasi una forma di reazione, «Ah, sì? Ti facciamo
vedere», poi «Tu non lo tocchi uno [di noi]...». Ecco quello che le dicevo, l’unità. Eravamo una
comunità... perché lo si è fatto solo per migliorie sul nostro lavoro, non si chiedeva nient’altro.
Migliorare le sicurezze... Noi contestati, le dico, contestati dagli indigeni. Manodopera indigena,
euh, ci ha contestato, chi: «Adesso arriva l’esercito, i ve manda via... », euh, mi ricordo ancora
quando mi dicevano «Arriva l’esercito, vi manda via». «Arriva l’esercito vado via, prendo la mia
valigia...». Cioè le risposte erano tutte uguali, eravamo unanime. Loro, gli indigeni, che non
avevano mai visto una cosa simile, si aspettavano l’esercito fuori, la polizia di qui. È che noi
non avevamo paura di niente. «Eh, vabbé, chiudiamo e andiamo a casa», e credo che è stata una
lezione - socialmente parlando - di vita anche per gli indigeni che erano lì a lavorare. Han
capito che bisognava alzare la testa ogni tanto.
Emergono, in questo passaggio dell’intervista, numerose chiavi di lettura molto importanti:
il conflitto come risposta al razzismo dilagante e come strumento di riaffermazione della
propria dignità ma anche l’immagine di una comunità di immigrati unita proprio perché
messa sotto pressione, anche in fabbrica, dove gli indigeni non vedono di buon occhi
l’utilizzo dello strumento dello sciopero.
Più avanti la testimonianza si fa ancora più esplicita nel collegare le lotte all’interno della
fabbrica al periodo di tensione vissuta in relazione all’iniziativa anti-stranieri:
E c’è un collegamento secondo lei tra l’ambiente che si viveva con questa cosa di
Schwarzenbach e questa combattività in fabbrica? Sì, sì, eh, lo può collegare... Perché
secondo lei è collegabile? Perché a un certo momento non ci sentivamo più sicuri, dopo
tutto il lavoro, gente che aveva già dato più anni di noi, capisce, altri che ragionano come me
che poteva andare fuori e trovare lavoro dappertutto, che allora c’era tanto lavoro, detto: «Ma
che, sto qui a rischiare la pelle per...», cioè... e allora lì c’è stato appunto questo movimento,
secondo la mia opinione la gente ha detto: «Eh, adess basta, ah sì, gh’avem el Schwarzenbach?»,
andiamo via, però gli facciamo vedere chi siamo e siamo uniti. Ecco questo sì.
È utile sottolineare in questo caso come questo testimone, in un’altra parte dell’intervista,
spiega come attese il risultato della votazione prima di decidere se fermarsi in Svizzera o se
ritornare in Italia, dove gli era stato proposto un altro lavoro.
Altro aspetto molto interessante è il legame stabilito tra appartenenza sindacale e
provenienza geografica, una delle questioni che mi proponevo di studiare: anche su questo
il testimone ci dà delle informazioni interessanti che confermano la tesi di partenza:
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Tra l’altro in quegli anni l’OCST era cresciuta moltissimo... Altro che. Forse perché era
più aperta a questi nuovi immigrati? Siii, ecco, esatto, lei era molto più aperta di noi con gli
immigrati, cioè riconosceva qualche cosa che noi non riconoscevamo, che io non ho condiviso,
io non mi sono mai iscritto all’OCST. Ma mi diceva l’OCST cos’è che riconosceva di più?
No, riconosceva una certa... l’OCST quando ha cominciato a aprirsi molto di più
all’emigrazione. Ha cominciato a valutare di più l’emigrazione. E se lei vedeva in tutti i direttivi
che hanno loro erano quasi tutti emigranti. Invece noi prima non si poteva andare nel comitato
della FOMO, eh, straniero, sono stato mi sembra il secondo o il terzo che è entrato, grazie a
uno svizzero, che mi ha portato, che mi ha insegnato cos’era, e lo ringrazio, Franco Carobbio.
In che senso non si poteva entrare... eh, no, nel comitato, se era straniero, non poteva far
parte del comitato, iscritto sì, ma nel comitato no, erano solo gli svizzeri. Il comitato cos’era?
Il comitato che dirigeva la sezione di Bodio. […] E invece nell’OCST potevano entrare...
Eh, loro hanno cominciato a mettere già dentro in comitato... è arrivato un punto che erano
più... erano quasi tutti stranieri, invece noi no, noi c’era sempre un numero di stranieri ed è
giusto, per me era giusto, che ci fossero... [gli svizzeri] perché senno cosa fai, un comitato di
stranieri? No.
Che l’OCST fosse il sindacato degli immigrati (in particolare del Sud) non era dunque
soltanto una diceria senza fondamento: era invece un dato di fatto favorito da una misura
concreta, quella di aprire gli organismi dirigenti del sindacato alla partecipazione degli
stranieri, cosa che la FOMO (poi FLMO) farà soltanto più tardi, nel corso degli anni
Settanta. Questa scelta deriva con tutta probabilità da elementi diversi: prima di tutto dalla
comprensione del fatto che gli stranieri potevano essere un importante bacino di iscritti al
sindacato, per cercare di colmare il gap di iscrizioni nei confronti del più forte sindacato
FOMO. Ma questa apertura derivava anche dalla riflessione cattolica 8 sull’importanza del
coinvolgimento dei lavoratori stranieri nel sindacato, lavoratori non più visti soltanto come
fattore economico ma anche come esseri umani, con i loro particolari problemi.
Il secondo testimone che introduco è una figura chiave nelle lotte del 1970-1972 alla
Monteforno: egli è uno dei tre licenziati in tronco nel 1972; vicepresidente della
commissione di fabbrica; membro del Gruppo Operai Monteforno (emanazione del PSA
ma anche della LMR, Ligue Marxiste Révolutionnaire) e ticinese. Egli rappresenta rispetto
al primo testimone un’altra tipologia di lavoratore: si tratta di un giovane operaio elettricista
svizzero, che ha vissuto in pieno il Sessantotto, durante il quale si è politicizzato
avvicinandosi a Losanna alla LMR e che – entrato in fabbrica – comincia a mettere in
pratica quanto appreso nel corso della propria formazione politica. Fa parte di una
minoranza in fabbrica: i ticinesi non sono molti e soprattutto sono poco politicizzati.
Egli ci racconta prima di tutto come è cominciata l’organizzazione delle prime fermate della
fabbrica, i famosi «scioperi selvaggi». Quello che emerge è un nuovo modo di organizzarsi,
basato sui rapporti informali e orizzontali tra operai, al di fuori delle strutture classiche,
come la commissione interna o i sindacati.
Come nascevano queste fermate? Con delle piccole riunioni... Già avevate cominciato
come GOM? No, il GOM nasce dopo. Qui erano i gruppi tipo... ci trovavamo tipo con i sardi,
io li trovavo questi sardi e gli dicevo: «Senti ‘n attimo, cosa si può fare adesso», «Sì, troviamoci,
si potrebbe fermare questo, si potrebbe fermare quello... ». Questo l’abbiamo fatto in principal
modo il sottoscritto con due o tre amici e con i sardi. Per cui non era ancora una cosa
ancora, come dire, formalizzata, con il GOM o dei gruppi... No, no, no... Non era
neanche all’interno del sindacato. No, no, queste erano... nascevano così, per un contesto.
Quando si cerca di contestare, però non deve uscire più di quel tanto, allora si facevano queste
fermate e le rivendicazioni le hanno capite, le hanno recepite, perché l’aumento c’è stato in
È utile ricordare come in Svizzera fossero attive le Missioni Cattoliche di Lingua Italiana, il cui compito era
quello di fornire sostegno morale e religioso agli emigranti italiani. Queste ebbero una grande influenza sul
mondo dell’emigrazione italiana, ma anche sulla Chiesa svizzera. Cf. G. Tassello, Diversità nella comunione: spunti
per la storia delle missioni cattoliche italiane in Svizzera, 1896-2004, Roma, 2005.
8
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pratica. L’aumento c’è stato. Erano cose che nascevano un po’ spontanee... Nascevano
spontanee. Ma secondo lei erano legate alla politicizzazione già, oppure era una cosa...
Diciamo, diciamo... erano piuttosto legate alla politicizzazione queste cose, perché diciamo i
compagni che conoscevo erano quasi tutti politicizzati. Però la gente vi seguiva... Sì, sì...
Anche quelli che non lo erano, politicizzati. Ah, sì, evidentemente, la gente seguiva perché
oramai... tutti sapevano che era una condizione che bisognava cambiare. Loro avevano bisogno
solo di uno stimolo e lo stimolo glielo abbiamo dato noi. Ecco, questo è stato il grande evento
del 1968 al 1972, è stato questo il grande evento, che noi siamo arrivati nel momento giusto al
posto giusto.
Il testimone ci descrive le dinamiche della mobilitazione: prima di tutto ci spiega come
erano organizzate le «fermate» (così erano chiamati dai lavoratori gli «scioperi selvaggi»,
espressione chiaramente denigratoria in voga sulla stampa dell’epoca), cioè in modo
spontaneo, grazie all’azione di pochi gruppi di operai e al passaparola, dove la parte più
politicizzata ma estremamente minoritaria (il GOM) e la componente dei lavoratori
immigrati (in particolare i sardi) riuscivano grazie all’azione comune a fermare la
produzione e a coinvolgere tutti gli operai nello sciopero. Una modalità che ricorda gli
scioperi a singhiozzo adottati come nuova forma di lotta alla Fiat durante l’autunno caldo,
sconosciuta alla generazione precedente di operai sindacalizzati, che di certo non avrebbero
mai pensato di adottarla e certamente non senza prima aver percorso i tradizionali canali di
trattativa con la direzione dell’azienda. Questa dinamica della mobilitazione mostra
l’importanza della presenza di una «direzione» politica delle mobilitazioni, la quale però non
avrebbe avuto nessuna capacità di influenzare la grande massa dei lavoratori se non fosse
stata sostenuta dalla parte più combattiva della manodopera e se – in fin dei conti – la
maggioranza dei lavoratori della Monteforno non fosse stata pronta a combattere per i
propri diritti.
In questo caso sembra contare anche l’origine della direzione politica, aspetto interessante e
inaspettato che emerge dalle testimonianze orali: si tratta di ticinesi, e questo darebbe ai
lavoratori immigrati una grande fiducia, ciò che spiega in parte la loro disponibilità a
impegnarsi in battaglie considerate illegali e «selvagge» nel paese di accoglienza,
atteggiamento contrario alla prudenza che contraddistingue i salariati immigrati, che si
tengono prudentemente al di fuori di conflitti che potrebbero mettere in discussione il
proprio progetto migratorio.
Perché si sentivano protetti, noi li proteggevamo. E loro avevano una fiducia incredibile su di
noi, dicono: «Questi svizzeri si mettono a disposizione, guarda qui questi, ci aiutano, ci... perché
dobbiamo... noi dobbiamo essere come loro».
Ma questa fiducia posta nella presenza di svizzeri alla testa delle lotte non basta per spiegare
la massiccia adesione delle maestranze Monteforno ad esse. A spingerle allo sciopero
nonostante la paura del licenziamento e del ritorno in patria, sono ovviamente le condizioni
materiali (il primo sciopero del 1970 è indetto per ottenere un franco di aumento): bisogna
ottenere il più possibile nel minor tempo possibile per poi poter tornare a casa. Secondo i
giornali dell’epoca e lo schieramento politico ticinese nella sua quasi totalità, a spiegare la
combattività dei lavoratori Monteforno contribuiva anche la loro politicizzazione avvenuta
in Italia, descritta come il paese dei «rossi» e degli scioperi continui. Una tesi che non regge
anche soltanto se esaminata alla luce del buonsenso: la maggioranza degli stranieri al lavoro
in quegli anni in Svizzera proveniva da contesti agricoli, dove la presenza sindacale e
politica della sinistra era tutt’altro che forte:
Il fatto di venire da un contesto come l’Italia, dove c’era stata comunque... faceva sì che
fossero più politicizzati, in generale? Non parlo di quelli che poi erano alla testa delle
lotte, ma la gran massa dei lavoratori? Diciamo, la parte che veniva dal Nord era
leggermente politicizzata. La parte che veniva dal Sud, tipo i sardi, così, avevano una mentalità
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che non si può dire politicizzata, ma avevano una mentalità di libertà. Questo era molto
interessante, perché loro vivevano un contesto un po’ particolare, perché probabilmente da
loro avevano già dei contesti tra pastori, tra sopra e sotto, e il bassopiano e l’altopiano... Però
era interessante, perché questa gente... dico: «Ma questi sono pastori»... Ho trovato
un’intelligenza tra questi sardi che è qualcosa di incredibile.
A determinare la disponibilità alla lotta – è l’ipotesi attorno alla quale si è sviluppata la mia
ricerca – c’era, più probabilmente, anche la voglia di reagire a un clima di intolleranza,
dentro ma soprattutto fuori dalla fabbrica: l’iniziativa Schwarzenbach era una ferita aperta e
la marginalità un’esperienza di tutti i giorni per questi lavoratori:
Avevano un vissuto non integrato, è per quello il problema, eh. Quando vivi una situazione di
un vissuto non integrato, agisci di conseguenza. Potrebbe dire la stessa cosa anche della
Monteforno? Potrei dire in parte anche della Monteforno, in parte sì, non totale, però in
parte... Cioè? ...questa situazione di voglia di di di, aiutarti, di combattere, così, viene un po’ da
questo sistema, no. Perché era una situazione un po’ discriminatoria? Sì, sì, beh, è
evidente, questo sì, vivevano una situazione discriminatoria, anche diciamo all’esterno, erano
un po’ messi là, con delle baracche, tanti vivevano ancora in baracche e qui si sentivano
discriminati, quello è vero. E allora agisci di conseguenza poi, il tuo sfogo diventa... si
raddoppia la volontà di combattere. Questo lei l’ha notato? L’ho notato...
Conclusioni
Affrontare nel corso delle interviste la questione della condizione migrante e del suo rapporto
con le lotte degli anni Settanta è stato particolarmente difficile: prima di tutto per una
naturale resistenza dei testimoni a parlare di ciò che li differenziava dagli altri – il loro
essere immigrati – e che li costringeva in una situazione di marginalità, oggi fortunatamente
superata. Essi tendono oggi più a mettere in evidenza gli elementi di integrazione e i
rapporti di buon vicinato con gli indigeni, in fabbrica e fuori. In secondo luogo c’è il
silenzio calato sulle lotte del biennio 1970-1972, la cui memoria è stata travolta dalla
campagna mediatica che si scatenò contro gli «estremisti» e dalle forti pressioni verso la
normalizzazione svolte da sindacati e direzione, con episodi di vera e propria repressione,
come il licenziamento di tre membri della commissione di fabbrica.
Ma poi, in più, c’è il fatto che ai testimoni si chiedeva, in questo caso, di discutere non di
fatti ma di una interpretazione da dare ad essi. Se c’è una regola che mi sento di
generalizzare, pur se con le dovute eccezioni, riguardo a ciò che non si deve fare durante
un’intervista, è che ai testimoni non ha senso chiedere risposte a domande astratte, che
implicano un’elaborazione lontana dai loro meccanismi mentali, spesso orientati al fare.
Bisogna invece sempre che essi si possano collocare in un avvenimento, un fatto concreto e
dai fatti fare emergere spontaneamente l’interpretazione.
Proprio per la grande astrattezza della mia ipotesi di partenza, ho cercato di declinare
l’interrogazione degli operai intervistati partendo da domande più concrete. Molto utile è
stato in particolare poter partire dall’indagare il rapporto tra iniziativa Schwarzenbach e le
lotte in fabbrica, per approfondire poi il tema della condizione migrante. Ma non sempre
questa indagine ha dato risposte chiare: se veramente il fatto di essere immigrati e
discriminati è soltanto un «di-più» (come dice Goffredo Fofi), allora è evidente che
motivazioni come quelle economiche per spiegare l’innesco delle proteste sono messe al
primo posto in ordine di importanza dai testimoni. Eppure, scavando, queste risposte ci
sono state e credo siano una pista interessante da seguire per raccontare un periodo di lotte
sociali che hanno coinvolto tutta l’Europa (e sui cui è calato, anche qui, il silenzio). Questo
«di-più«» dell’essere migranti discriminati contribuì a decidere la disponibilità alle
mobilitazioni e i loro tempi e modi.
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I primi passi del Club alpino svizzero a Sud delle Alpi (1871-1876)
Andrea Porrini
Il 9 settembre 1894 due alpinisti svizzero-tedeschi conquistano per la prima volta il
Sassariente, godendo della stupenda vista che lo sperone offre sul piano di Magadino.
Questo è quanto riporta la prima guida delle Alpi ticinesi, volumetto tascabile ad uso e
consumo degli alpinisti, pubblicato in tedesco nel 1908 e tradotto in italiano nel 1932. La
stessa guida informa inoltre che la vetta del Pizzo Barone, che con i suoi 2864 metri
sovrasta le cime della Valle Verzasca, conosce la sua prima «scalata turistica» il 24 giugno
1899, ad opera di un gruppo di membri della neocostituita Subsektion Leventina del Club
alpino svizzero, costola bellinzonese della sezione di Lucerna 1.
Di fronte a queste affermazioni, non è difficile immaginare lo scetticismo di chiunque abbia
avuto occasione di salire le due cime o disponga di una pur minima conoscenza della
regione, che non mancherà di trovare quanto mai inverosimile che montagne di
relativamente facile accesso, non lontane da pascoli e alpeggi, siano state scalate solo poco
più di un secolo fa, fosse anche solo in «prima turistica». Come e forse più che in altri
campi, la storia dell’alpinismo è segnata da una sorta di simbolica appropriazione indebita,
riconducibile in parte alla carenza di fonti e in maniera più generale al «differenziale
mediatico» 2 esistente sin dalla fine del XVIII secolo tra gli ambienti intellettuali urbani e le
comunità alpine. «Gli illuministi alla scoperta delle Alpi erano brillanti e loquaci (talvolta
logorroici), disponevano di salotti e giornali, e sentivano come missione il riscattare le
popolazioni montane dalle tenebre dell’ignoranza» 3, osserva Andrea Zannini, con
un’affermazione da estendere – con modalità diverse, ma senza rotture di fondo – anche
all’Ottocento borghese, secolo delle associazioni 4. Ancora nel 1923 Angiolo Martignoni, già
vice-presidente della Sezione Ticino del CAS e futuro Consigliere di Stato, introduce un
volumetto di Angelo Tamburini sull’alpinismo augurandosi che esso aiuti i giovani a
rendersi conto «di tutto ciò che è Montagna sotto l’aspetto estetico, scientifico, sportivo:
complesso enorme di cognizioni e di sentimenti che furono scoperti e avvalorati dagli
uomini cittadini e libreschi, soprattutto nel secolo XIX. Il montanaro vive una vita alpina,
ma ignora spesso le forze che dominano la sua vita medesima e di queste leggi scientifiche
ed estetiche dev’esser fatto cosciente appunto da chi è fornito di conoscenza e sensibilità» 5.
Spesso incuranti del problema della provenienza delle fonti e talvolta troppo attenti a
registrare piccole e grandi prestazioni individuali, storici e appassionati corrono in buona
sostanza il rischio di ripetere su carta l’esperienza di quei membri del CAS che nell’agosto
del 1864 realizzano la scalata – definita «rischiosa» – del Faulhorn e, con grande sorpresa,
trovano in vetta tre bracconieri intenti a giocare a carte 6. In realtà, ben più delle generalità
dettagliate dei primi conquistatori delle varie vette – alimento di infinite polemiche che
fanno la fortuna della pubblicistica di montagna – sembra significativo piuttosto che tale
L. Lisibach, G. End, J. Kutzner, Clubführer durch die Tessiner-Alpen, II Band, Freiburg, 1909, pp. 38 e 103.
A. Zannini, Tonache e piccozze. Il clero e la nascita dell’alpinismo, Torino, 2004, p. 9.
3 Ibidem. Sul problema del rapporto tra fonti e storia dell’alpinismo, cf. anche J. Mathieu, Alpenwahrnehmung:
Probleme der historischen Periodisierung, in J. Mathieu, S. Boscani Leoni (a cura di), Les Alpes! Pour une histoire de la
perception européenne depuis la Renaissance, Berna, 2005.
4 Cf. H.-U Jost, Sociabilité, faits associatifs et vie politique en Suisse au 19e siècle, in H.-U. Jost, J. Tanner (a cura di),
Geselligkeit, Sozietäten und Vereine. Sociabilité et faits associatifs, Zurigo, 1991.
5 A. Martignoni, Prefazione, in A. Tamburini, Alpinismo, Bellinzona, 1923, p. 3. L’avvocato Martignoni sarà
Consigliere di Stato per il Partito Conservatore tra il 1927 e il 1947.
6 L’episodio è riportato dalla «Gazette de Lausanne», 25 agosto 1864.
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guida esista, e che sia stata commissionata (dopo discussioni e voto formale) dall’assemblea
di una grande associazione, rispondendo a una precisa riflessione in termini funzionali,
economici e propagandistici e, al limite, proprio il fatto che i redattori abbiano ritenuto
importante snocciolare (in tedesco) date e coordinate delle varie «prime assolute»,
attribuendo per giunta valore alla categoria quantomeno singolare (benché diffusa) di
«prima turistica» 7.
Contrariamente a quanto accade con i protagonisti di molte ascensioni, specie se di
secondaria importanza, la fondazione dei primi club alpini è chiaramente documentata,
quindi precisamente identificabile nelle sue coordinate e nei suoi contenuti e, se non
coincide con la nascita dell’alpinismo, rappresenta una significativa fase
d’istituzionalizzazione della pratica, destinata a infondere un impulso decisivo alla sua
diffusione e a modificarne i codici etici e comportamentali. L’avvento dell’associazionismo
alpinistico in Europa evidenzia e accompagna i cambiamenti di un’epoca: nel corso del
XIX secolo si passa dal Grand tour agli uffici delle agenzie di viaggio, dalla figura idealtipica
del colto viaggiatore a quella dell’alpinista sportivo, dai tentativi privati di abbozzare i
contorni dei territori alpini alla carta Dufour e all’Atlante Siegfried, dall’informalità dei
gruppi di appassionati autodidatti che percorrono il territorio a organizzazioni di decine di
migliaia di persone, che ricevono sistematicamente le riviste associative e partecipano a
escursioni e corsi di formazione. Con l’irruzione sulla scena di un’associazione come il CAS
appare un nuovo influente attore capace di apporre il proprio marchio sulla dinamica
alpinistica, fungendo da laboratorio di pratiche e valori 8. Nel panorama elvetico, nonostante
la successiva creazione di numerose altre società, il Club alpino assume dalla sua
fondazione le caratteristiche di un’associazione egemonica, dotata di forza sufficiente per
imporre un discorso pubblico su cosa deve e non deve essere l’alpinismo, che vanta un
rapporto privilegiato con le autorità e dispone concretamente di strumenti e risorse atti ad
esercitare un’azione politica e istituzionale 9. Sul piano prettamente pratico, il Club alpino
allestisce e organizza rifugi, induce alla professionalizzazione delle guide, diffonde
rappresentazioni visive e scritturali del paesaggio, si iscrive insomma in una nuova fase nel
rapporto tra la società e il territorio.
Come avvenuto nel resto della Confederazione, anche il Cantone Ticino ha conosciuto la
nascita di numerose associazioni consacrate all’alpinismo. Al giorno d’oggi si registra una
buona e attiva presenza, con in particolare tre sezioni del CAS – Ticino (Lugano, 1886),
Leventina (oggi «Bellinzona e Valli», sezione indipendente dal 1904) e Locarno (1925) – e
numerose altre società riunite nella Federazione alpinistica ticinese, che raccoglie tra l’altro
UTOE e SAT 10. Oltre a queste, nel corso degli ultimi 150 anni sono sorte e poi – spesso
immediatamente – scomparse numerose piccole società locali. Sul finire dell’Ottocento si
manifesta una discreta attitudine a creare associazioni alpinistiche, in corrispondenza con
un periodo di crisi del CAS nel Cantone e, più in particolare, nel Sottoceneri. Si hanno
notizie, ad esempio, della Società alpina «Monte Generoso» (Chiasso), di un Club alpino
Cavaldrossa (Tesserete), di una società di escursionisti del Malcantone, attiva tra il 1890 e il
Riflessioni sul rapporto tra scrittura e alpinismo in T. Wirz, Wer ist die Braut des Montblanc? Einige Gedanken
über Definitionsmacht, Identität und das Schreiben von Tourenberichten am Beispiel von Henriette d’Angevilles Bericht über
ihre Montblanc-Expedition von 1838, in J. Mathieu, S. Boscani Leoni (a cura di), Les Alpes! Pour une histoire de la
perception européenne depuis la Renaissance, Berna, 2005, pp. 267-277.
8 C. Ambrosi, M. Wedekind (a cura di), L’invenzione di un cosmo borghese: valori sociali e simboli culturali dell’alpinismo
nei secoli XIX e XX, Trento, 2000.
9 Cf. G. Haver, Le Club alpin suisse (1863-1914), in O. Hoibian (a cura di), L’invention de l’alpinisme. La montagne et
l’affirmation de la bourgeoisie cultivée (1786-1914), Parigi, 2008.
10 Per quanto riguarda la storia di UTOE e SAT, cf. A. Porrini, Tra salute, politica e patria: l’alpinismo popolare
dell’Unione Ticinese Operai Escursionisti (1919-1939), in M. Marcacci (a cura di), La Befana rossa. Memoria, sociabilità
e tempo libero nel movimento operaio ticinese, Bellinzona, 2005.
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1895, e ancora di una «Società escursionisti Excelsior» (1899), con sede verosimilmente a
Lugano 11.
Tale effervescenza associativa contrasta tuttavia con le difficoltà incontrate solo pochi anni
prima, nel 1871, quando il CAS nazionale tenta di esplorare le Alpi ticinesi e di indurre alla
fondazione della prima società alpinistica nel Cantone. Questo è il tema al centro del
presente contributo 12.
I «campi d’escursione»: il CAS alla conquista del territorio nazionale
Nel suo appello alla creazione di una società svizzera di amanti della montagna, il chimico e
geologo zurighese Rudolf Theodor Simler denuncia, sul finire del 1862, il pericolo che i
Touristen 13 elvetici sparsi sul territorio siano superati nei loro sforzi dagli esponenti
dell’Alpine club inglese, prima associazione in campo alpinistico nata cinque anni prima. Tra
desiderio d’emulazione e volontà di distinzione, la risposta «patriottica» a questa
colonizzazione simbolica del giovane Stato federale prende corpo assumendo
significativamente la denominazione di «club». Il CAS si costituisce così all’intersezione tra
una forma di associazionismo scientifico e culturale esistente da tempo in Svizzera e un
modello proveniente dalla Gran Bretagna, corrispondente «a una mentalità vittoriana
dominata dai valori che le élite borghesi hanno saputo mettere in evidenza attraverso la
rivoluzione industriale: lavoro, perseveranza, abnegazione, precisione»14. Sempre secondo
Simler, il pubblico svizzero, per informarsi sulle regioni alpine e sulle vie d’accesso alle
cime, sarebbe stato costretto a breve a ricorrere alle pubblicazioni dell’associazione
londinese: «un tale stato delle cose sarebbe per noi fastidioso, per non dire vergognoso» 15.
Non è quindi sorprendente costatare come tra gli scopi principali del Club alpino svizzero,
fondato nell’aprile del 1863, figuri il «conoscere più intimamente le Alpi, in particolare dal
punto di vista topografico, scientifico e artistico e portare i risultati ottenuti a conoscenza
del pubblico attraverso rapporti scritti» 16. Per riprendere una felice formula utilizzata da
Simler nel suo discorso d’apertura alla prima assemblea generale del CAS svoltasi a Glarona
nel settembre del 1863, si tratta «di fornire un commento vivente all’Atlante topografico
Dufour» 17.
Uno degli strumenti immaginati dal CAS per realizzare il suo obiettivo di conoscenza delle
Alpi è il cosiddetto «campo d’escursione» (Excursionsgebiet). Sin dal primo anno di vita,
l’assemblea generale sceglie periodicamente un territorio ben delimitato, che i membri e le
sezioni sono tenuti a privilegiare nel loro peregrinare alpinistico. Fulcro della vita
dell’associazione, i campi sono selezionati in accordo con l’Ufficio federale di topografia, in
modo da poter disporre in tempo utile di carte su scala 1:50’000 18. In cambio l’associazione
assume parte dei costi di pubblicazione, garantendo inoltre alla Confederazione un
Cf. A. Tamburini, Alpinismo, Bellinzona, 1923, p. 27; e «Corriere del Ticino», 28 marzo 1899.
Questo articolo s’inserisce nel solco della ricerca «Faits associatifs, territoire et société: histoire du Club
alpin suisse (1863-1945)», diretta da Gianni Haver (UNIL) e finanziata dal FNS. Ha beneficiato inoltre delle
discussioni sviluppatesi in occasione dei seminari del Laboratorio di Storia delle Alpi (USI), diretto da Luigi
Lorenzetti.
13 Termine tradotto significativamente con «alpinistes» nella cronaca commemorativa apparsa in francese nel
1913: H. Dübi, Les cinquante premières années du Club Alpin Suisse, Berna, 1913.
14 L. Tissot, Naissance d’une industrie touristique. Les Anglais et la Suisse au XIXe siècle, Lausanne, 2000, p. 49. Come
in seguito, le traduzioni dal francese e dal tedesco sono nostre.
15 La circolare, datata 20 ottobre 1862, è pubblicata in Dübi, cit., p. 25.
16 Art. 1 degli statuti approvati alla prima assemblea generale del settembre 1863.
17 A. Roth, Chronik des Club, in «Jahrbuch des Schweizer Alpenclub», 1864, p. 11.
18 L’Atlante topografico della Svizzera, meglio conosciuto come Carta Siegfried, viene pubblicato
progressivamente solo a partire dal 1870. Prima di questa data, grazie a una richiesta formulata direttamente al
Consiglio federale, il CAS ha fatto capo ai lavori svolti per l’allestimento della Carta Dufour.
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finanziamento supplementare dell’operazione attraverso la vendita di un buon numero di
carte ai privati, attratti dalle descrizioni pubblicate nelle riviste del CAS. Il Comitato
centrale incarica quindi una persona, o sarebbe forse il caso di dire una personalità, di
redigere un «itinerario» ufficiale, testo introduttivo da distribuire prima della stagione estiva
ai membri del club, accompagnato dalla carta della regione. L’itinerario, che col tempo si è
accresciuto fino a raggiungere anche il centinaio di pagine, ambisce a fornire un condensato
enciclopedico delle conoscenze relative al campo d’escursioni sul piano geografico,
geologico, botanico e talvolta anche etnografico, senza con questo rinunciare a commenti
puramente estetici. Si tratta di una sorta d’evoluzione delle colte descrizioni di viaggio di
lunga tradizione, affinate nel loro intento pedagogico e rimpolpate di indicazioni pratiche,
riconducibili alle guide turistiche specializzate già in uso all’epoca 19. Idealmente, il buon
clubista è tenuto a percorrere l’Excursionsgebiet per completare le informazioni, correggere
gli errori (in particolare della carta, con osservazioni poi riunite e trasmesse dal Comitato
centrale all’Ufficio topografico 20) e contribuire quindi al miglioramento delle conoscenze. I
risultati delle esplorazioni, con l’eventuale elenco delle prime ascensioni realizzate, sono poi
pubblicati in una sezione ad hoc dell’annuario del CAS in articoli monografici sulle
escursioni più significative e con il supporto di un riassunto generale realizzato dal
presidente centrale 21.
Il concetto di «campo d’escursione» esprime l’ambizione di realizzare un’esplorazione
metodica e pianificata del territorio, organizzando accuratamente quella che oggi sarebbe
chiamata la «società civile» in vista del raggiungimento di una finalità patriottica comune. Il
ragionamento alla base dell’azione collettiva promossa dal CAS poggia sull’idea che una
risposta «totale» agli «interrogativi» posti dalle Alpi possa concretarsi solo concentrando per
un periodo stabilito tutti gli sforzi in un territorio specifico 22, superando così i tentativi più
o meno isolati effettuati prima della sua costituzione. La filosofia ufficiale del primo CAS
riflette manifestamente le influenze positiviste degli ambienti scientifici in cui è nato e si
traduce in un modello utilitaristico dell’alpinismo, distinto da quello – più sportivo e attento
alle performance – in voga a Londra 23.
Dalle prealpi vodesi all’Engadina, passando per la Svizzera centrale, tra il 1863 e il 1903,
data dell’ultimo campo ufficiale, il CAS ha così coperto la quasi totalità del territorio alpino
elvetico24. Inevitabile dunque, presto o tardi, l’esplorazione delle montagne ticinesi: dopo
averne inclusa un’esigua porzione già nel campo del 1865, comprendente la regione tra il
Lucomagno e la Greina, è soprattutto nel triennio 1871-1873 che il CAS rivolge le sue
attenzioni al Cantone, dapprima con la regione del Gottardo, poi nel 1872 con il gruppo
dell’Adula (comprese Valli di Blenio, Mesolcina e Calanca) e l’anno seguente con le regioni
a ovest del fiume Ticino (Val Maggia, Verzasca e Formazza). In quegli anni il Comitato
centrale dell’associazione, assunto all’epoca a rotazione per un triennio, ha sede a Basilea,
Cf. Tissot, Naissance d’une industrie touristique, cit.
Non bisogna dimenticare che molti ingegneri che lavoravano alla carta Siegfried erano membri del CAS.
21 Circolare del 31 dicembre 1872, Archivi centrali del CAS, Berna. Al momento della nostra consultazione, i
documenti del CAS centrale erano conservati disordinatamente in uno scantinato presso il segretariato
centrale di Berna. In seguito sono stati riordinati e catalogati, e oggi sono consultabili presso la Bürgerbibliothek
di Berna. Non abbiamo purtroppo avuto la possibilità di aggiornare i riferimenti archivistici presentati in
questo articolo.
22 L’espressione «razionale» è ampiamente utilizzata nel primo libro commemorativo realizzato dal pastore
Ernst Buss in occasione dei primi 25 anni di vita del CAS. Cf. E. Buss, Die ersten 25 Jahre des Schweizer
Alpenclub, Glarus, 1889, p. 225.
23 Per un confronto tra i diversi modelli di alpinismo europeo, cf. O. Hoibian (a cura di), L’invention de
l’alpinisme. La montagne et l’affirmation de la bourgeoisie cultivée (1786-1914), Parigi, 2008.
24 Dopo il 1903 si passa al modello delle guide, scritte da «specialisti», sgravando (e deresponsabilizzando) il
collettivo.
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ed è presieduto dall’industriale e commerciante Albert Hoffmann-Burckhardt 25. È proprio
quest’ultimo a proporre in una circolare indirizzata a tutti i membri di «far visita al Canton
Ticino» e di adottarlo quale «campo d’osservazione» 26. Per convincere i delegati, il
presidente argomenta facendo leva sull’art. 1 degli statuti, che impone di rivolgere lo
sguardo verso le regioni «meno conosciute» della patria, aggiungendo che con una lunga
permanenza in Ticino sarebbe stato possibile stimolare la creazione di una sezione locale,
consolidando così i legami patriottici con «quella parte della nostra amata Svizzera» 27. Una
presenza concreta nella Svizzera italiana, oltre a coronare l’ambizione dell’associazione di
assumere una dimensione compiutamente federale, avrebbe permesso anche di ottenere un
pied-à-terre nella regione, dando un ulteriore impulso allo sviluppo del CAS e
dell’alpinismo nel suo insieme.
Il CAS fa rotta a sud
L’assemblea generale di Zurigo dell’autunno 1871 accoglie la proposta all’unanimità 28.
Comincia allora per il Comitato centrale un intenso lavoro di raccolta di informazioni in
vista della preparazione degli itinerari del Gottardo, dell’Adula e delle Alpi Ticinesi. Il
presidente Hoffmann-Burckhardt si rivolge ad alcune persone di contatto nel cantone,
incaricate poi a loro volta di raccogliere dati di prima mano presso loro conoscenti. Così
avviene nell’autunno del 1870 con il direttore dell’ospizio del Gottardo, Felice Lombardi 29,
e la primavera seguente con il Comandante di battaglione Camillo Dotta, di Airolo. Questi,
in una lettera del 17 maggio 1871, riferisce dei suoi abboccamenti con notabili dei vari paesi
della Leventina, fornendo indicazioni utili «benché non del tutto complette [sic] perché da
queste incapaci municipalità nessuna risposta evasiva potei ottenere» 30. Le informazioni
raccolte da Dotta riguardano i percorsi, le possibilità di pernottamento e i nomi delle
persone del luogo disposte a fungere da guida o da portatore. Come contatto, figurano
solitamente il parroco, il sindaco, talvolta un maestro, in ogni modo piccoli notabili locali.
Se generalmente non sono previsti problemi di comunicazione, dato che i membri del CAS
avrebbero trovato in loco, senza troppe difficoltà, emigranti e stagionali con una certa
padronanza del francese o del tedesco, maggiori problemi sembrano riservare le osterie,
senza insegne e soprattutto poco adeguate ad ospitare gruppi 31. Ulteriori liste molto
dettagliate riguardanti Leventina, Riviera, Blenio e Mesolcina sono recapitate nei mesi di
febbraio e marzo del 1872 da un intraprendente negoziante di Faido, Carlo Pedrini, che ha
fatto capo a sua volta, tra gli altri, ad Ambrogio Bertoni e ad un giovane Cesare Bolla 32.
La durata e le difficoltà di questa raccolta ramificata e capillare di informazioni sono
rivelatrici di una «offerta turistica» praticamente inesistente nelle valli ticinesi.
L’inadeguatezza delle strutture, naturalmente poco sorprendente, è confermata a posteriori
dallo stesso presidente nel resoconto sul campo d’escursione dell’Adula, apparso
Membro fondatore del CAS, Albert Hoffmann-Burckhardt (1826-1896) rivestirà nel corso della sua vita
anche la carica di presidente della Società svizzera di utilità pubblica e di numerose altre associazioni. Fratello
nonché zio dei due futuri fondatori della Hoffmann-La Roche, è genero del Consigliere di Stato e
borgomastro Johann Jakob Burckhardt, e riveste per alcuni anni pure la carica di presidente del consiglio
patriziale basilese.
26 Circolare del Comitato centrale a tutti i membri, 1 giugno 1870, Archivio centrale del CAS, Berna.
27 Ibid.
28 La decisione era all’ordine del giorno dell’assemblea generale del 1870, rinviata di un anno a causa della
guerra. Cf. Protokoll der Abgeordneten versammlung des SAC, 1871, Archivio centrale del CAS, Berna.
29 Risposta di Felice Lombardi a Hoffmann, lettera del 13 novembre 1870, Archivi centrali del CAS, Berna.
30 Dotta Camillo, Comandante del Battaglione n. 25, a Hoffmann-Burckhardt, lettera del 17.5.1871, Archivi
centrali del CAS, Berna.
31 Ibid.
32 Cf. Carteggio tra il Comitato centrale di Basilea e Pedrini, Archivio centrale del CAS, Berna.
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nell’annuario. Prima di essere accolti dai Bolla a Olivone, i clubisti sostano in effetti a
Campo Blenio: il redattore descrive la località come un nodo estremamente favorevole per
le più disparate escursioni ma esprime anche il forte auspicio «che la civilizzazione vi
effettui i suoi lavori preliminari e che, lasciando al sig. parroco di Campo esclusivamente la
cura delle anime, si stabilisca almeno una modesta osteria» 33. Queste osservazioni passano
tuttavia in secondo piano, sempre secondo Hoffmann-Burckhardt, al cospetto di una
regione ricca di bellezze naturali, di sorprendenti contrasti, di montagne selvagge e passi
sconosciuti o poco percorsi dalla gran parte dei turisti, al punto da affermare che per un
membro del Club alpino svizzero siano immaginabili «nella nostra bella patria» pochi campi
d’escursione più appaganti di quelli sudalpini 34.
Le notizie raccolte dal Presidente centrale per il tramite della sua rete di informatori,
arricchite da citazioni di scienziati di fama come Bernhard Studer o dai commenti di
importanti topografi della Confederazione, confluiscono poi nei due itinerari delle alpi
ticinesi, pubblicati nel 1872 e nel 1873 35. Redatti dal vicepresidente centrale del sodalizio, il
professore e naturalista Ludwig Rütimeyer36, riuniscono ciascuno in una cinquantina di
dense pagine una presentazione idrogeologica e botanica delle rispettive regioni, integrata
con osservazioni sulla popolazione e sull’economia locale e arricchita di indicazioni pratiche
per gli escursionisti 37. Il testo è pensato per interessare un largo pubblico e si vuole
pedagogico, benché spesso non sia d’immediata comprensione, tanto più che difficilmente
gli stimoli proposti su questioni tecniche e scientifiche potrebbero essere raccolti da
semplici profani. Rütimeyer illustra ogni valle con dovizia di particolari e con qualche
imprecisione, soprattutto nei toponimi, abbandonandosi a tratti a descrizioni estetiche, ma
nell’insieme lontane dalla tentazione dell’idillio. Entusiasta il commento sui vigneti ticinesi,
elogiatori i toni di fronte alla magnificenza dei castagni di Chironico e Lavorgo e al loro
«carattere tutto meridionale», mentre molto severo è il giudizio più generale sulla Riviera:
«la fertilità del suolo è pressoché nulla, i pascoli sono cattivi, e non ci si dà la minima pena
per migliorarli, ciò che spesso sarebbe facile. I boschi, già così ridotti, diminuiscono a vista
d’occhio, perché, a causa di un’incuria imperdonabile, li si distrugge senza preoccuparsi
minimamente di ripiantarli» 38. Quasi drammatica la descrizione della miseria a Biasca, dove i
castagni, principale fonte di nutrimento, apparterrebbero agli abitanti più ricchi di Airolo o
Quinto 39, mentre poche telegrafiche righe sono consacrate a Pontirone, «piccolo villaggio
abitato tutto l’anno, dove segale e canapa prosperano ancora, ma dove non vi è sole da
ottobre a marzo. A Pontirone dormire sul fieno. Vino presso il curato. Gli abitanti sono
molto abili nell’arte, così spesso fatale in Ticino, di costruire condotte di legno per portare a
valle i tronchi d’albero» 40. Rütimeyer accenna anche all’emigrazione di massa, citando in
particolare l’esempio di Frasco, aggiungendo che «nelle abitazioni più discoste, i pastori
sanno parlarvi, per averli visti, di altri continenti e degli antipodi» 41. Prende il tempo di
33 A. Hoffmann-Burckhardt, In den Excursionsgebieten von 1871 bis 1873, in «Jahrbuch des Schweizer Alpenclub»
1872-1873, p. 21.
34 Ibid., p. 43.
35 L. Rütimeyer, Le groupe du Rheinwald. Itinéraire de 1872 pour le Club Alpin Suisse, Basilea, 1872; L. Rütimeyer,
Les Alpes du Tessin. Itinéraire de 1873 pour le Club Alpin Suisse, Basilea, 1873.
36 Professore di zoologia a Berna e poi per tre decenni a Basilea, Ludwig Rütimeyer (1825-1895) è senza
dubbio una delle personalità marcanti del CAS dell’Ottocento. Membro fondatore, due volte vice presidente
centrale (nel 1864 e negli anni 1870-1872), figura tra i principali esponenti della sensibilità scientifica
dell’associazione.
37 Dopo le escursioni, nello Jahrbuch n. 9 del 1873-1874, Rütimeyer ripubblica l’articolo con alcune modifiche,
accompagnato da un resoconto del presidente centrale Albert Hoffmann, e da un lungo articolo del prof. H.
Christ sulla vegetazione.
38 Rütimeyer, Les Alpes du Tessin, cit., pp. 23-24.
39 Rütimeyer, Le groupe du Rheinwald, cit., p. 28.
40 Rütimeyer, Les Alpes du Tessin, cit., p. 29.
41 Rütimeyer, Les Alpes du Tessin, cit., p. 29.
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spiegare la differenza tra «monte» e «alpe» 42, segnalando il carattere impervio di molti
pascoli, non solo per il bestiame «quasi elefantiaco delle Alpi dell’Emmenthal», ma
addirittura per le piccole mucche del Ticino, «che ricordano piuttosto le antilopi e
arrampicano come delle capre» 43.
Dalle pagine degli itinerari del CAS di questi primissimi anni 1870, emerge l’immagine di un
Ticino sconosciuto e poco considerato dai turisti d’oltralpe. L’assenza di guide locali
organizzate e professionali non facilita certo il compito di esplorazione: commentando le
liste raccolte da Hoffmann tramite i corrispondenti locali, Rütimeyer conclude che la
maggior parte dei nomi forniti non possono fungere da guida se non per montagne da loro
già conosciute 44. Ciò nonostante, lo scienziato basilese cerca in tutti i modi di stimolare i
clubisti a recarsi nel campo d’escursione, e le sue parole sui colori del fiume Verzasca sono
iperboliche: «Mai, nel mondo intero, un artista ha dipinto questo verde ammirabile, mai ne
ha sospettato l’esistenza, a meno di averlo visto sul posto. Chiunque abbia visto la Verzasca
presso il Ponte Scuro in estate e in autunno, una volta passato lo scioglimento delle nevi,
non ammirerà mai più nessun torrente di montagna» 45. La pubblicità nei confronti dei
luoghi, che si estende anche ad alberghi e osterie, costituisce uno stimolo al coinvolgimento
degli imprenditori turistici. Si consideri per esempio il caso dei Bolla, molto collaborativi
con la direzione del CAS, che dopo una descrizione accurata delle bellezze di Olivone,
«sotto ogni aspetto una delle stazioni più belle e più comode per fare escursioni in
montagna nel campo intero», vedono ricompensati i loro sforzi con l’annuncio che «si è
perfettamente alloggiati e trattati presso Stefano Bolla, SAC»46.
Riassumendo lo spirito delle prime iniziative ufficiali del CAS a Sud delle Alpi, crediamo
valga la pena considerare una lunga citazione del celebre topografo – e membro del club –
Philip Charles Gosset, riportata nell’itinerario per il 1873: «Le Alpi ticinesi passano in
generale per noiose. Le loro cime sono disdegnate, ad eccezione forse del Basondano [sic],
che si scala solo perché punto culminante del gruppo. Nelle valli ci sono troppi blocchi
rocciosi e troppi pochi ponti, troppa acqua e non abbastanza alberghi. I colli e i passaggi da
una valle all’altra sono troppo lunghi per l’uno, troppo corti per l’altro. Il geologo,
ritenendo che il Ticino abbia troppo gneiss, di conseguenza non ci va. Il botanico sale sul S.
Salvatore e trova che faccia troppo caldo perché delle piante possano prosperare su rocce la
cui nudità è già visibile da lontano. Lo zoologo pensa che queste montagne sono troppo
povere di sostanze nutritive per permettere a degli animali ragionevoli di viverci. E tuttavia
molta tremolite blu brilla sulle pareti rocciose del Campo Tencia, qui il rododendro porta
fiori doppi e la bella felce, l’osmunda regalis, trova il suo posto tra il pietrame e raggiunge 5
piedi di altezza. I castagni di 10 piedi di diametro non sono un’eccezione così rara e si trova
persino il gipeto barbuto che, sotto il cielo blu scuro delle Alpi ticinesi, ha ancora occasione
di effettuare i suoi rapimenti» 47.
La prima sezione ticinese del Club alpino svizzero (1871-1876)
La scelta dell’Excursionsgebiet del Gottardo nel 1871 e del Sud delle Alpi negli anni seguenti
induce il presidente centrale a cercare personalità ticinesi disposte a fondare una sezione del
CAS in Ticino. Una politica simile era già stata tentata in occasione del campo d’escursioni
Rütimeyer, Le groupe du Rheinwald, cit., p. 26.
Rütimeyer, Les Alpes du Tessin, cit., p. 21.
44 Rütimeyer, Le groupe du Rheinwald, cit., p. 43.
45 Rütimeyer, Les Alpes du Tessin, cit., pp. 26-27.
46 Rütimeyer, Le groupe du Rheinwald, cit., p. 31.
47 Philip Charles Gosset, topografo e membro illustre del CAS, citato in L. Rütimeyer, Les Alpes du Tessin, cit.,
30-31.
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del 1865 dall’allora presidente Johann Wilhelm Fortunat Coaz 48, che aveva cercato di far
leva sui suoi contatti in seno alla Società forestale svizzera, ma senza successo 49. Questa volta la
manovra sembra dare frutto, la raccolta d’informazioni per l’itinerario smuove
effettivamente le acque ed emergono alcuni interessati alla creazione di una sezione
cantonale. Gli ambienti più ricettivi in un primo tempo sembrano essere legati a
un’embrionale «industria degli stranieri». Nell’estate del 1871 si annunciano potenziali
promotori a Faido, dove il negoziante Carlo Pedrini 50, ricevuti itinerario e statuti da
Hoffmann, si attiva per proporre il progetto a conoscenti della zona, scrivendo in
particolare ai figli dell’albergatore Motta di Airolo e a Cesare Bolla di Olivone. Pedrini ne
discute inoltre con persone di passaggio in valle, come l’avvocato Guglielmo Bruni, il
Consigliere nazionale radicale, nonché sindaco di Bellinzona, Giovanni Jauch 51, e
soprattutto l’avvocato locarnese Attilio Righetti. Non abbiamo potuto appurare se Carlo
Pedrini 52 condividesse o meno legami di parentela con Ferdinando, l’uomo che più di tutti
ha contribuito alla creazione del polo turistico leventinese 53. Nell’interessamento di Carlo
Pedrini e nel suo coinvolgere alcuni albergatori troviamo in ogni modo indizi di una
sensibilità simile, in un momento in cui, con il progetto della Gotthardbahn, si stanno per
realizzare importanti sconvolgimenti nella vita dei comuni leventinesi. Se prima
dell’apertura della galleria, che avverrà nel 1882, l’unica struttura importante a Faido è
l’Albergo dell’Angelo, creato dai fratelli Bullo e sviluppatosi in particolare con la strada
carrozzabile del Gottardo nel 1830, dopo l’avvento della ferrovia nasceranno nuovi hotel su
iniziativa in particolare, appunto, di Ferdinando Pedrini, «un esempio di imprenditore attivo
nelle valli superiori del Cantone che sfrutta fino in fondo le nuove possibilità economiche
introdotte dalla modernizzazione»54, facendo tra il resto leva su di una «importante rete di
relazioni che comprendeva gli esponenti politici più in vista dell’epoca» 55. Come è il caso in
altre regioni della Svizzera 56, il Club alpino viene visto come una risorsa a cui far capo per
sviluppare il turismo locale. Per inciso, abbiamo una conferma di questo interesse
percorrendo l’elenco dei membri della sezione ticinese del CAS per il 1873 57, dove tra i
quattro abitanti di Faido presenti troviamo, oltre a Carlo Pedrini, proprio i due albergatori
Gioacchino e Andrea Bullo. Anche al momento della «rinascita» della sezione, avvenuta nel
1886, quattro anni dopo l’entrata in funzione della galleria ferroviaria, gli unici due membri
48 Il grigionese Johann Wilhelm Fortunat Coaz (1822-1918) figura senza dubbio tra le personalità di maggior
spessore dei primi 50 anni di vita del CAS. Come topografo percorre tra il 1844 e il 1851 tutte le montagne
grigionesi, realizzando in questa veste la prima del Bernina. Segretario personale di Dufour durante la guerra
del Sonderbund, ispettore forestale dei Cantoni Grigioni (1851-1873) e San Gallo (1873-1875), diventa il
primo ispettore federale delle foreste, ruolo che ricopre dal 1875 al 1914. Presidente centrale del CAS nel
1865, funge per diversi decenni da influente anello di congiunzione tra l’associazione e le amministrazioni
pubbliche cantonali e federale.
49 Verbali dell’Assemblea generale di Coira, 27 agosto 1865, Archivio centrali del CAS, Berna; Verbali del
Comitato centrale, 20 settembre e 6 novembre 1865, Archivio centrali del CAS, Berna.
50 Lettera di Carlo Pedrini a Hoffmann, 25 luglio 1871, Archivio centrale del CAS, Berna.
51 Lettera di Carlo Pedrini a Hoffmann, 24 ottobre 1871, Archivio centrale del CAS, Berna.
52 Si tratta verosimilmente del Carlo Pedrini (1831-1896) che diventerà Commissario di Governo per la
Leventina nel 1895. Originario di Osco, liberale, stando al necrologio apparso ne «L’educatore» (1896, p. 107)
seppe crearsi una invidiata posizione economica, poi dilapidata dal figlio finito nei guai con la giustizia,
ragione alla base del suo suicidio avvenuto nel 1896.
53 Vedi F. Viscontini, Alla ricerca dello sviluppo: la politica economica nel Ticino (1873-1953): aspetti cantonali e regionali,
Locarno, 2005.
54 Ibid., 81.
55 Ibid.
56 Cf. O. Bayard, Club alpin et développement touristique: l’exemple valaisan (1865-1915), Mémoire di licenza non
pubblicato, Università di Ginevra, 1986; F. Mauron François, Alpinisme et tourisme dans les Préalpes fribourgeoises.
Le rôle de la section Moléson, de Fribourg, du Club alpin suisse (1871-1939), Mémoire di licenza non pubblicato,
Università di Friborgo, 1994.
57 Mitglieder-Verzeichniss des Schweizer-Alpen-Club 1873, Luzern, 1873.
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fondatori provenienti da Faido sono gli albergatori Andrea Bullo e Erminio Bazzi (genero
di Ferdinando Pedrini).
Se l’impulso dato dal presidente del CAS Hoffmann-Burckhardt è recepito dapprima a
Faido, la realizzazione concreta avviene però significativamente in città, e più precisamente
a Locarno, vale a dire un centro dove è possibile raccogliere il capitale sociale per costituire
una società all’altezza delle ambizioni del fondatore, Attilio Righetti (1834-1890) 58. Nato a
Como da un medico e da un’esponente della famiglia Pinchetti (il nonno da parte di madre
era stato architetto alla Corte dell’imperatrice Caterina II di Russia), Righetti ha svolto studi
di diritto a Ginevra. Stabilitosi a Locarno, viene eletto procuratore pubblico nel 1863, carica
che riveste ancora al momento della fondazione della sezione ticinese del CAS. Nominato
procuratore generale nel 1877 e subito allontanato dai conservatori con la caduta del
regime 59, Righetti dimostra una sensibilità particolare nei confronti delle società di
ispirazione liberale. È stato in effetti presidente della Società dei Carabinieri di Locarno,
veste nella quale aveva accolto Garibaldi durante la sua celebre visita del 1862 60, e nel 1873
lo sarà della Demopedeutica.
Dopo una serie di scambi epistolari con il presidente Hoffmann, Righetti indice la seduta
costitutiva domenica 29 ottobre 1871, nella sala del palazzo comunale di Locarno. La
«Gazzetta Ticinese» di venerdì 3 novembre 1871 dedica ampio spazio ad un comunicato
della commissione incaricata di formare la Sezione ticinese e composta da Attilio Righetti,
Giuseppe Bacilieri e Rinaldo Simen. L’appello all’adesione presenta l’associazione sotto le
vesti di una «Società di utilità pubblica», sorta con lo scopo di riunire «amatori delle corse
nelle montagne» e «investigatori delle ricchezze e bellezze di esse», con un accento
particolare posto sullo spirito patriottico che muoverebbe l’associazione nella «nostra bella
e libera Svizzera».
La lista dei 17 primi aderenti, pubblicata integralmente dalla «Gazzetta» 61, funge come
sovente da vetrina per l’esposizione dei «padrini» dell’associazione, in modo da permettere
ai potenziali aderenti di cogliere orientamento e intenti del sodalizio, e nel contempo
sfoggiare un capitale sociale che valorizzi il giovane club. Questo elenco si rivela ricco
d’informazioni: sotto la guida di Attilio Righetti, troviamo le più importanti famiglie patrizie
locarnesi, che almeno fino agli anni 1880 dell’Ottocento detengono il potere politico,
religioso ed economico nella cittadina 62. Significativo in questo senso il fatto che, tra questi
primi aderenti, figurino le persone che hanno e avrebbero rivestito la carica di sindaco di
Locarno ininterrottamente dal 1848 al 1880: Pietro Romerio, Felice Bianchetti, Luigi Rusca
e, per finire, il sindaco in carica Bartolomeo Varenna. Da notare peraltro che vi figurano tre
ex consiglieri di Stato (Romerio, Rusca e Varenna) e uno futuro (Simen). In merito
all’orientamento politico dei primi soci del CAT non vi è dubbio alcuno. Ai già citati
personaggi, si aggiungono altri ferventi liberali come l’avvocato Carlo Pancaldi-Pasini
(sindaco di Ascona), il farmacista Paolo Gavirati e l’albergatore e municipale locarnese
Luigi Fanciola.
Un elemento caratteristico del primo gruppo di fondatori della Sezione Ticino del CAS è
l’accumulo di cariche in società di stampo liberale, ridondanza associativa che conforta le
analisi di Hans-Ulrich Jost, secondo cui le associazioni cosiddette «volontarie»
contribuiscono in maniera determinante a strutturare lo spazio pubblico e politico nella
Lettera di Carlo Pedrini a Hoffmann, 2 settembre 1871 e lettera di Attilio Righetti a Hoffmann, 5 ottobre
1871, Archivio centrale del CAS, Berna.
59 L’educatore della Svizzera italiana, 1890, pp. 351-352.
60 G. Bettone, Garibaldi a Locarno nel giugno del 1862, in «Archivio storico ticinese», n. 9, 1962, p. 459.
61 In ordine alfabetico, la lista dei membri fondatori: Enrico e Giuseppe Bacilieri, avv. Felice Bianchetti, Luigi
Fanciola, Guglielmo Franzoni, Paolo Gavirati, magg. Ang. Guglielmoni, Domenico Nessi, avv. Carlo
Pancaldi-Pasini, avv. Attilio Righetti, avv. Pietro Romerio, commissario Felice Rusca, avv. Luigi Rusca fu
Carlo, avv. Luigi Rusca fu Franchino, Rinaldo Simen, avv. Bartolomeo Varenna, prof. Enrico Zambiagi.
62 R. Huber, Locarno nella prima metà dell’Ottocento, Locarno, 1997, p. 81.
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Svizzera dell’Ottocento 63. La rete di relazioni associative che unisce i primi firmatari è
straordinariamente densa, tanto è vero che vi sono alcuni sodalizi nei quali si ritrovano più
o meno tutti i fondatori del CAS Ticino. Dei diciassette membri, almeno tredici sono
membri della Demopedeutica, otto sono membri onorari del Mutuo soccorso, altrettanti
della società dei carabinieri e sette di quella di ginnastica.
Si potrebbe quindi riassumere così il ritratto del membro fondatore «tipo» del CAS Ticino
nel 1871: notabile appartenente a una importante famiglia di patrizi locarnesi, liberale, sulla
cinquantina (senza Simen l’età media supererebbe i 52 anni), estremamente presente
nell’universo politico e associativo e con alle spalle studi superiori in legge (dei primi 17
membri, almeno 7 sono avvocati o magistrati, con all’attivo spesso una carriera importante:
oltre al procuratore pubblico e futuro procuratore generale Righetti, abbiamo Romerio
giudice al tribunale militare, Bianchetti giudice supplente al tribunale federale e PancaldiPasini istruttore giudiziario nel Locarnese). Piuttosto debole invece – se rapportata agli
standard del CAS nazionale – l’influenza degli uomini di scienza, fatta astrazione da Enrico
Zambiagi, professore al ginnasio di Locarno, già organizzatore negli anni precedenti di
escursioni nell’ambito del cosiddetto «turismo scolastico» 64. L’unico riferimento alla
questione scientifica si presenta in un appello apparso il 7 dicembre 1871 su «Gazzetta
Ticinese» a firma di Pietro Pavesi, già docente di storia naturale al Liceo di Lugano e
all’epoca professore presso l’Università di Napoli, il quale propone un programma d’azione,
suggerendo che il CAS ordini le cose «per modo che ogni escursione possa arrecare
vantaggi scientifici. La carta geologica del Cantone non è ancora redatta, e specialmente le
parti superiori richiedono nuovi studi. La carta dei trovanti [massi erratici, in corsivo
nell’originale] della Svizzera rimane senza dati pel Ticino». L’appello, messo in evidenza
con orgoglio dalla neonata associazione, non porterà frutto, e anche la nomina di Luigi
Lavizzari a membro onorario rispecchia più la logica di ricerca di capitale sociale che la
volontà di infondere all’associazione un impulso scientifico fattivo, tanto è vero che non si
riscontrano tracce di un impegno diretto dello scienziato nel club.
Per quanto concerne la politica di ammissione dei comuni membri, si può affermare che
l’associazione non mira ad assumere una dimensione veramente popolare. Questo fatto è
testimoniato da un indicatore come la quota sociale, conforme a quella in vigore nelle
diverse sezioni svizzere ma certo non alla portata di tutti, visto che la tassa d’ammissione è
di 5 franchi, alla quale si aggiungono altri 5 franchi annuali. Il numero di membri ammonta
a 40 nel 1872, permettendo all’associazione di ampliare leggermente lo spazio d’azione ad
altre regioni del Ticino, ma confermando il carattere rigorosamente omogeneo del colore
politico 65. Tra le varie personalità che si aggiungono alla lista dei membri segnaliamo il
Consigliere di Stato Alessandro Franchini, i Consiglieri nazionali Costantino Bernasconi e
Giovanni Jauch, nonché il Canonico Ghiringhelli e i giovani Alfredo Pioda e Cesare Bolla.
Una volta fondata la società, la corrispondenza disponibile permette di percepire ben
presto una certa stanchezza e apatia. Attilio Righetti, in una lettera al presidente Hoffmann
del 28 ottobre 1872, dopo aver lamentato la sua mancanza di tempo e l’inattività dei
colleghi, si giustifica sottolineando che «la nostra posizione geografica coi piccoli suoi
confini dispersi e lontani l’un dall’altro» renderebbe difficile la partecipazione alle riunioni e
ai lavori di comitato 66. Bisogna ricordare in questo senso che la prima sezione del CAS
nasce in un’epoca ancora pre-ferroviaria (dunque, per il Cantone, pre-turistica). È solo nel
1874 che entrano in servizio le tratte Chiasso-Lugano e Bellinzona-Biasca, mentre l’anno
seguente viene aperto il tracciato ferroviario tra Bellinzona e Locarno. Nel 1882 si inaugura
H.-U. Jost, Sociabilité, faits associatifs et vie politique en Suisse au 19e siècle, in H.-U. Jost, A. Tanner (a cura di),
Geselligkeit, Sozietäten und Vereine. Sociabilité et faits associatifs, Zurich, 1991.
64 L’educatore della Svizzera italiana, 1864, pp. 4 e 27. Zambiagi è anch’egli membro della Demopedeutica.
65 Lettera di Attilio Righetti al Comitato centrale, 2 febbraio 1872, Archivio centrale del CAS, Berna.
66 Lettera di Attilio Righetti a Hoffmann, 28 ottobre 1872, Archivio centrale del CAS, Berna.
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la linea del Ceneri, lo stesso anno del traforo del Gottardo 67. Nelle osservazioni di Righetti
paiono trovare conferma – tradotte nel campo associativo – le osservazioni secondo cui il
Ticino pre-ferroviario sarebbe un «conglomerato di piccoli spazi, scarsamente collegati, con
una distribuzione relativamente omogenea della popolazione» 68. La questione dei mezzi di
trasporto, per quanto importante nel caso di un’associazione che per natura fonda la sua
azione sugli spostamenti, non spiega però completamente l’evoluzione registrata.
L’impressione è di non essere confrontati con un gruppo di promotori entusiasti e
soprattutto pronti all’esplorazione concreta, ma piuttosto con un club di notabili non più
giovani (l’età media dei 17 fondatori supera infatti la speranza di vita dell’epoca) che
aderiscono ad una società di «utilità pubblica» come un’altra, aggiungendo una tessera ad
una già lunga serie di società sportive, filantropiche o culturali, ma assolutamente non
disposte a passare all’azione, dimensione indispensabile perché un progetto come quello del
Club alpino Ticinese possa attecchire. I primi fondatori non si dimostrano in grado di
investire le proprie energie nel tradurre in pratica il potenziale di un’associazione che, come
a livello nazionale, avrebbe potuto rappresentare nel panorama sociale dell’epoca un
elemento d’innovazione e modernizzazione.
Nella sostanza, il respiro di questa prima fondazione è dunque molto breve. L’Educatore
pubblica nel 1874 un «Canto degli alpinisti italiani», di Giuseppe Regaldi, «nella fiducia che
gl’ispirati versi del vecchio Bardo dell’Alpi italiane ridestino alquanto i membri della
Sezione ticinese del Club Alpino Svizzero» 69. Si tratta di una testimonianza della simpatia
provata dalla Demopedeutica nei confronti del «programma» ideale del CAS Ticino, e nel
contempo della delusione provocata dalla sua inconsistenza. L’invito cade nel vuoto, e la
dissoluzione della prima sezione, annunciata da una lettera del presidente Guglielmo Bruni,
succeduto nel frattempo a Righetti, e dal segretario Germano Bruni 70, è riportata senza
commenti nei verbali del Comitato centrale del CAS alla seduta del 28 marzo 1876. In
questa data si realizza lo scioglimento di una sezione in realtà già morta da lungo tempo.
Il fallimento della sezione ticinese del CAS è in qualche modo il compimento di quello dei
due campi d’escursione per il 1872 e 1873, completamente disertati dai clubisti svizzeri e
ticinesi. Nel 1873, solo due visitatori sono noti al Comitato centrale e alla redazione
dell’annuario, così che la sezione «Clubgebiet» dello Jahrbuch deve essere sostituita da
resoconti su gite non inerenti al campo d’escursione. Lo smacco per il Comitato centrale
risulta ingigantito dal fatto che i campi d’escursione del Gottardo nel 1871 e delle Alpi
occidentali grigionesi nel 1874, vale a dire quello precedente e quello successivo, hanno
riscontrato invece un buon successo presso gli alpinisti elvetici. Il rapporto sulle escursioni
a Sud delle Alpi nel 1873, redatto dal Presidente centrale del CAS, il professor Zähringer 71,
è particolarmente severo, e pone l’accento sull’assenza di una comune misura tra l’impegno
fisico e finanziario profuso dal Comitato per favorire l’esplorazione e i risultati ottenuti 72.
Tra le righe dell’elenco delle lacune ancora da colmare, stilato dal presidente, leggiamo le
ambizioni ufficiali del CAS e nel contempo la frustrazione dei dirigenti di fronte ai magri
risultati: storia delle valli Maggia e Verzasca, studio dell’unico comune germanofono del
Cantone (Bosco Gurin), caratteristiche culturali e economiche della popolazione, scienza
forestale, idrografia ed altro ancora. L’auspicio che la sezione Ticino possa approfondire
questi temi per conto suo non otterrà soddisfazione.
67 A. Gili, Lugano Capolinea. Sviluppo storico delle linee di pubblico trasporto passeggeri, dalle funicolari, tranvie e ferrovie ai
filobus e autolinee, Lugano, 1996.
68 T. Bottinelli, Traffici e processi di regionalizzazione nel Ticino moderno, in «Archivio Storico Ticinese», 1980, citato
da A. Ghiringhelli, Il Ticino della transizione 1889-1922, Locarno, 1988, p. 55.
69 L’educatore della Svizzera italiana, 1874, p. 335.
70 Il documento è pubblicato in P. Grossi, Il Ticino di fine Ottocento, Pregassona, 1999, p. 22.
71 Il Comitato centrale nel triennio 1873-1875 si trasferisce da Basilea a Lucerna, e Hermann Zähringer
succede a Albert Hoffmann-Burckhardt alla presidenza.
72 H. Zähringer, Bericht über das Excursionsgebiet 1873, in «Jahrbuch des Schweizer Alpenclub», IX, 1873-1874.
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Indipendentemente dalle spiegazioni adducibili, appare chiaro che l’esperimento ticinese
degli anni 1872 e 1873 può essere considerato un fallimento, un’iniziativa incapace di
suscitare interesse e adesione sul piano nazionale. Si tratta tuttavia di un inciampo, visto che
pochi anni dopo, nel 1886, nasce – su basi diverse – una nuova sezione Ticino, tuttora
esistente.
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Antonio Croci, Mendrisio 1823-1884
Architetto fra tradizione e cultura cosmopolita
Graziella Zannone Milan
Premessa
Dopo anni dedicati allo studio monografico sull’architetto di Mendrisio Antonio Croci, è
veramente difficile condensare in poche pagine quelli che sono stati i risultati raggiunti. Nel
testo che segue si cercherà di spiegare quali erano i materiali dai quali si è sviluppata la
ricerca. Si concluderà con una biografia completa, aggiornata e accertata delle uniche
notizie sulla vita del nostro artista.
«Dell’architetto Antonio Croci, uomo senza tanti eguali, non si sa come si
vorrebbe» 1
La prima persona ad interrogarsi sull’architetto Antonio Croci è Florindo Bernasconi quando
nel 1926 pubblica Le maestranze ticinesi nella storia dell’arte: «Il nome di questo architetto è quasi
ignorato, e nessun testo lo ricorda, mentre l’opera sua, veramente grande, risplende di genialità
e di freschezza»2. Nessun testo di storia dell’architettura dedica un solo passaggio ad Antonio
Croci mentre i dizionari ne riportano la voce 3.
In occasione di una esposizione d’arte dell’Ottocento al Castello di Trevano nel 1937 Ambrogio
Croci, pronipote di Antonio, scrive al curatore Antonio Galli che potrebbe mettere a
disposizione una decina di disegni appartenuti al prozio Antonio, autore della prestigiosa sede
della mostra 4. Purtroppo di Antonio Croci non verrà esposto nulla e Ambrogio scoraggiato
pubblica la biografia «romanzata» del prozio sul «Corriere del Ticino», che rimane una delle
poche pagine consacrate alla vita dell’architetto di Mendrisio5. Se non fosse stato per il
fortuito incontro, tra Fabio Reinhart e Giuseppe Martinola, in quel lontano 8 febbraio del
1970, al posto di Casa Croci troveremmo il nuovo istituto scolastico di Mendrisio; nessuno
G. Martinola, I diletti figli di Mendrisio, Locarno, 1980, p. 85.
F. Bernasconi, Le maestranze ticinesi nella storia dell’arte, Lugano, 1926, p. 190. In questa pubblicazione appare
l’unico ritratto di Antonio Croci.
3 Di seguito vengono citati tutti i dizionari che riportano la voce «Antonio Croci»: J. Béha-Castagnola, in C.
Brun (a cura di), Schweizerisches Künstler-Lexicon, Frauenfeld, 1905, B. 1, p. 329; U. Thieme, F. Becker,
Allgemeines Lexicon der Bildenden Künstler, Leipzig, 1913, B. 8, p. 140; Dictionnaire historique et biographique de la
Suisse, Neuchâtel, 1921-1934, T. 2, p. 610; M. Guidi, Dizionario degli artisti ticinesi, Roma, 1932, p. 100; G. L.
Kannès, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, 1960, pp. 222-223; Dizionario enciclopedico di architettura e
urbanistica, Roma, 1968-1969, p. 113; M. Agliati, in Schweizer Lexikon, Luzern, 1991, B. 2, p. 106; M. Pfister,
Repertorium der Tessiner Künstler, Thalwil, 1994, s. p.; G. Zannone, Architektenlexikon der Schweiz 19./20.
Jahrhundert, Basel, 1998, p. 136.
4 Biblioteca Cantonale di Lugano (BCLU), Fondo Libreria Patria, lettera di Ambrogio Croci ad Antonio Galli,
con allegata la trascrizione di quella di Constantin Scala del 10 gennaio 1937, s. d.; lettera di Ambrogio Croci
ad Antonio Galli, 2 giugno 1937; lettera di Ambrogio Croci ad Antonio Galli, Lugano, 2 settembre 1937.
Catalogo dell’esposizione al Castello di Trevano: Mostra ticinese d’arte dell’800 e contemporanea, LuganoBellinzona, 1937.
5 Ambrogio Croci (Mendrisio 1882-Lugano 1942), figlio di Giuseppe Cesare e Luigia Faverio, a sua volta
figlio di Ambrogio, fratello di Antonio, e Maria Baroffio. Ambrogio era giornalista e deputato al Gran
Consiglio del Cantone Ticino dal 1918 al 1921, in Ibn. Index bio-bibliographicus notorum hominum, Osnabruck,
1988, p. 760; A. Croci, Arch. Antonio Croci Mendrisio, in «Corriere del Ticino», 12 ottobre 1937.
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Percorsi di ricerca
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si sarebbe interessato al suo ideatore, probabilmente qualcuno avrebbe speso qualche
parola per la Villa Argentina, solo perché oggi sede dell’Accademia di architettura. Il caso
ha voluto che le cose andassero diversamente: dalla scoperta da parte di Fabio Reinhart del
«mondo» di Antonio Croci tante cose sono successe, compresa questa ricerca. La finalità è
stata, fin da principio, quella di «riscoprire» un’opera ed una vita originali sfatando molti
miti, proponendo nuovi riferimenti e mettendo in risalto il contrasto che si viene a creare
confrontando lo studio razionale e storiografico con l’ipotesi dell’«eccentricità» del
personaggio. La figura di Antonio Croci è stata misconosciuta per molteplici ragioni; pur
discostandosi da coevi esponenti ticinesi più noti, si tratta sicuramente di un bravo architetto
che andava studiato. L’unico contributo dedicato a tutta l’opera di Antonio Croci è il saggio
pubblicato nel 1972 in «I nostri monumenti storici» da Fabio Reinhart e Bruno Reichlin. Si
tratta di uno scritto dotto e rigoroso che traccia la biografia e approfondisce ogni progetto
noto fino a quel momento.
Nel passato Antonio Croci è stato oggetto dell’attenzione di alcuni architetti e storici.
Questo interesse era però focalizzato sulla casa dell’architetto, il Carlasch a Mendrisio,
quando negli anni Settanta l’edificio correva il pericolo di venir abbattuto. Gli architetti
Fabio Reinhart e Bruno Reichlin con lo storico ticinese Giuseppe Martinola, si prodigarono
per salvare il capolavoro di Croci dalla distruzione, chiedendo ad un nutrito gruppo di
studiosi come Otmar Birkner, Georg Germann, Francesco Gurrieri, Paul Hofer, Franco
Rosso e Alfred A. Schmid di intervenire in suo favore, scrivendo lettere alla commissione
dei monumenti storici oppure pubblicando saggi; sono tutt’ora questi i contributi più
interessanti sull’opera 6. Per la residenza che l’architetto si costruisce a Mendrisio è stata
compilata una cronologia, dall’acquisto del terreno nel 1875, all’inaugurazione quale sede
museale nel 2008. Sono state pure raccolte e commentate l’insieme delle indagini svolte
dagli specialisti che si sono occupati del restauro.
Fig. 1: Il Carlasch visto dal primo piano del Municipio (foto Museo d’arte Mendrisio)
Otmar Birkner, autore di Bauen+Wohnen in Der Schweiz 1850-1920, Zurich, 1975; Georg Germann, specialista
dell’architettura europea dell’Ottocento; Francesco Gurrieri, docente di storia dell’architettura all’Università di
Firenze e membro della Sovrintendenza toscana alle Belle Arti; Paul Hofer, docente di storia dell’urbanistica
al Politecnico federale di Zurigo; Franco Rosso, docente al Politecnico di Torino e autore della monografia
Alessandro Antonelli, 1798-1888, Milano, 1989; Alfred A. Schmid, docente di storia dell’arte all’Università di
Friborgo e Presidente della Commissione federale dei monumenti storici. Il 3 novembre del 1970, dalla
Televisione della Svizzera Italiana, viene trasmesso un documentario filmato da F. Bonetti e curato da B.
Reichlin e F. Reinhart, seguito da un dibattito tra G. Martinola, G. Mezzanotte e F. Gurrieri.
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Percorsi di ricerca
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Fig. 2: Spaccato assonometrico (disegno di Lorenza Boschetti e Olivia Genni)
La storia della famiglia Bernasconi e della Villa che Antonio Croci realizzerà per loro a
Mendrisio, era stata affrontata da Mercedes Daguerre nel testo La costruzione di un mito: Ticinesi
d’Argentina, committenza e architettura, 1850-1940, e ripresa da Letizia Tedeschi in occasione della
pubblicazione Archivi e architetture: presenze nel Cantone Ticino. Per questo edificio, oltre a
descrivere le tappe più significative della storia, si è approfondito il tema del tipo architettonico,
proponendo nuovi riferimenti.
Fig. 3: Villa Argentina e il suo parco
Oltre ai due edifici citati, che sono i più rappresentativi della sua opera, Croci ha realizzato,
o solo disegnato, altri progetti per i quali è stato necessario un lungo lavoro di analisi e
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Percorsi di ricerca
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verifica. Alcuni storici hanno riportato spesso notizie inesatte, mai verificate, dando origine
ad una serie di ripetuti errori, come nel caso della formazione alla Scuola di disegno di
Mendrisio, mai frequentata da Croci; oppure circa la sua partecipazione al progetto del
castello di Trevano, che da più fonti gli viene attribuito, ma nel quale ha avuto un ruolo
marginale. Anche riguardo alla vicenda dei concorsi per la nuova chiesa parrocchiale è stato
necessario elencare in successione gli estratti dai registri Parrocchiale e Municipale,
integrando altri documenti, per smentire le precedenti ricostruzioni.
Riguardo ai progetti dell’alto Vallese esistevano i notevoli contributi dello storico dell’arte
Walter Ruppen, attento conoscitore della storia delle chiese del cantone alpino, che aveva
condotto un’analisi approfondita dei disegni per la «neogotizzazione» della parrocchiale di
Ernen ed operato un attento confronto tra il progetto e l’esecuzione della chiesa di Lax. A
questi studi è stata aggiunta la ricerca iconografica sulle due chiese, la quale ha permesso di
chiarire gli aspetti architettonici dei diversi interventi. Le indagini svolte in Costa Azzurra,
per analizzare il periodo trascorso alle dipendenze del barone von Derwies, hanno
permesso di attribuire ad Antonio Croci alcune parti della nobile residenza. Nell’archivio di
Nizza sono stati censiti una ventina di disegni di mano di Antonio Croci. La biografia che
Ambrogio Croci, pronipote di Antonio, compila nel 1937, riferendo ingenuamente la
«leggenda dello stravagante parente», ha reso ancor più complicata la verifica delle opere
ascritte, come ad esempio la sinagoga e la moschea di Smirne.
Una delle scoperte più interessanti è stata la presenza di Croci a Iaşi, in Romania. Eravamo in
possesso di un disegno di torre campanaria con la sola indicazione «Clocher de San Spiridon».
Con un’accurata ricerca è stato possibile localizzare la chiesa e, dopo indagini in loco, si è
ricostruita la storia del manufatto. La collaborazione al disegno del mausoleo Brunswick a
Ginevra con Vincenzo Vela era stata più volte indagata, studiando i documenti conservati dallo
scultore, da Giuseppe Piffaretti e Nancy J. Scott; più recentemente nel mémoire di licenza di
Michèle Andrey. L’insieme di questi scritti ha come limite quello di occuparsi della vicenda dal
punto di vista artistico dell’opera dello scultore, tralasciando un’analisi sull’architettura. I disegni
fin’ora inediti appartenenti al Fondo Croci dell’Archivio di Stato del Cantone Ticino
(Bellinzona), completano la serie custodita al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto. La
ricostruzione della collaborazione con Vincenzo Vela è stata possibile consultando l’archivio
dello scultore.
Nella scarsa bibliografia dedicata all’opera di Antonio Croci, prevalgono scritti che non fanno
riferimento alle tecniche costruttive, non parlano del concetto di spazio e tralasciano l’«analisi
architettonica», limitando le considerazioni alla decorazione o agli elementi più familiari agli
autori. Abbiamo cercato di completare le ricerche storiche esaminando anche questi aspetti.
Tra gli appunti di una conferenza tenuta da Fabio Reinhart leggiamo:
«Ogni vita è un romanzo/la vita di un creatore è un romanzo non concluso/questa è la prima
difficoltà di chi vuole parlare di Antonio Croci/ma non è l’unica né la minore/perché parlare di
un romanzo si può in molti modi:/riassumere/citare i passi salienti/parlare della sua
struttura/ma il fatto che il romanzo di Antonio Croci non sia ancora interamente scritto è
certo la/difficoltà minore/la vita di Antonio Croci è un romanzo che nessuno ha ancora
letto/rimangono poche pagine/molte perdute, certo alcune le ritroveremo/rimangono
frammenti [...]» 7
A quasi quarant’anni di distanza dal primo saggio monografico dedicato all’architetto, si sono
volute scrivere alcune delle pagine smarrite, completando le ricerche intraprese dagli «scopritori»
di Antonio Croci e raccogliendo l’insieme delle indagini condotte sugli edifici durante gli
interventi di restauro.
7
F. Reinhart, Appunti per una conferenza su Antonio Croci, 22 aprile 1989, dattiloscritto, archivio Reinhart.
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Percorsi di ricerca
1823
7 aprile, Antonio Croci nasce a Mendrisio da
Giovanni e Maria nata Zolla. Ultimo di quattro
fratelli: Ambrogio (1812-1879), Giuseppe (1814-1891)
e Luigi (1820-1896).
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Archivio Parrocchiale di Mendrisio (APM),
Status animarum, nr. 46; APM, Ruolo della
popolazione di Mendrisio compilato a tutto
ottobre 1845, nr. 95; cronologia della
famiglia Croci a cura di Luigi Soldati,
dattiloscritto
La famiglia discende da Pietro Croci giunto a
Mendrisio dal Varesotto, di mestiere macellaio. Le
famiglie Croci a Mendrisio all’epoca sono tre, quella di
Antonio viene detta «Croci macellaro», un’altra è «dei
Zan».
1837
2 marzo, fa domanda alla Commissione Aulica di
ammissione alla Imperial Regia Accademia di Belle
Arti di Brera a Milano.
Archivio Storico dell’Accademia di Brera
(ASAB), G IV 21, nr. 108
2 dicembre, si iscrive alla Scuola di Ornamenti, in
seguito passerà a quella di Architettura.
ASAB, Scuole, Ornato, 2.20; Scuole,
Architettura, 2.1
20 novembre, fa dono alla Scuola di disegno di
Mendrisio di una tavola di architettura.
Archivio Storico del Comune di Mendrisio
(ASCM), Sedute municipio 1841-1843, p. 23
23 novembre, il Municipio gli scrive ringraziandolo e
lodandolo per i rapidi progressi fatti negli studi di
disegno.
ASCM, Copia lettere della Municipalità dal
13 agosto 1841
1842
Si iscrive alla Scuola di Estetica.
ASAB, Scuole, 2.149
1843
Vince il primo premio al Concorso di II Classe per
l’architettura
ASAB, Atti dell’I. R. Accademia di Belle
Arti in Milano, Milano 1843, p. 39
11 novembre, viene ammesso alla Scuola di
Prospettiva per attestazione del Professor Carlo
Amati.
ASAB, Scuole, 2.145
1844
Espone due disegni alla mostra biennale che presenta i
lavori degli studenti di Brera: «Prospetto dell’atrio
anteriore della basilica di Sant’Ambrogio» e «Il Ponte di
Rialto progettato da Palladio».
Esposizione delle opere degli artisti e dei
dilettanti nelle gallerie dell’I. R. Accademia di
Belle Arti per l’anno 1844, Milano, 1844, p. 7 e
p. 58.
1845
Ottiene il 2° Accessit al Concorso di II Classe per il
rilievo di ornamenti.
ASAB, Atti dell’I. R. Accademia di Belle
Arti in Milano, Milano, 1845, p. 48
1847
24 ottobre, si trova a Costantinopoli.
ASCM, SE2, Militari
1857
Partecipa alla prima Esposizione Svizzera di Belle arti
di Berna con due acquerelli: «Progetto di un ponte da
erigersi in Venezia» e «L’interno della Basilica di S.
Ambrogio in Milano».
BSSI, Anno XXV, 1903, p. 89; Verzeichnis
der Kunstgegenstände auf der
Schweizerischen Kunstausstellung zu Bern,
Bern 1857, p. 14
1858
dicembre, colloquio con il Direttore delle pubbliche
costruzioni e diversi membri del Consiglio di Stato a
Locarno per presentare il progetto di ferrovia.
Der Bund, 13.12.1858
16 dicembre, si pubblica in Ticino un articolo sulla
sua proposta per un nuovo sistema di ferrovia.
La Democrazia, 16.12.1858
14 dicembre, l’ingegner Leemann di Bienne scrive
all’ingegner Sebastiano Beroldingen di Mendrisio per
chiedere informazioni sul progetto di Croci, la cui
descrizione è apparsa su «Der Bund».
Archivio di Stato del Canton Ticino (ASTi),
Diversi 1143
18 dicembre, articolo su invenzione ferrovia.
Gazzetta Ticinese, 18.12.1858
1841
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Percorsi di ricerca
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23 dicembre, Sebastiano Beroldingen risponde a
Leemann, spiegandogli che Croci è disposto a
sottomettergli il progetto e collaborare, sente il bisogno di
confrontarsi con un esperto.
ASTi, Diversi 1143
1861
Partecipa al Concorso per l’edificazione della Nuova
Chiesa Parrocchiale di Mendrisio, che lo vedrà
coinvolto fino al 1864.
Archivio parrocchiale di Mendrisio (APM) e
ASCM
1862
25 febbraio, riceve 200 franchi dal parroco Mengis per
«... i disegni del ristauro ed aggionta alla Parrocchia di
Ernen».
Pfarrarchiv Ernen (PAE), D 219
5 gennaio, viene scartato provvisoriamente dal
servizio militare.
ASCM, Protocollo dei Coscritti e delle
Reclute appartenenti al Comune di
Mendrisio, 1862-1863, nr. 97, 5 gennaio
16 luglio, la Congregazione dei Confratelli di S. Maria di
Mendrisio gli corrisponde la cifra di 75 franchi per il
disegno della controporta della chiesa e per l’elaborazione,
ancora in corso, dello stendardo.
ASCM, Confraternita del S. Sacramento del
Rosario, SRI/2
6 agosto, firma il disegno della Cappella Franchini a
Mendrisio.
Collezione privata Riccardo Bergossi
3 febbraio, «a saldo d’ogni suo avere» la Cassa della
chiesa nuova gli versa la somma di 900 franchi.
M. Medici, La Chiesa dei SS. Cosma e
Damiano, Mendrisio, 1980, p. 139, n. 10
22 febbraio, riceve 12 franchi in pagamento del
disegno per l’armadio che deve contenere lo
stendardo.
ASCM, Confraternita del S. Sacramento del
Rosario, SRI/2
1866
16 luglio, la Municipalità lo informa che il
Dipartimento Militare gli ha ridotto, dopo sua istanza,
la tassa d’imposta militare.
ASCM, Copia lettere della Municipalità,
1858-1867, 16 luglio 1866, nr. 693
1869
7 febbraio, il censimento dalla municipalità certifica
che si trova in Francia.
ASCM, Scatola PO0, Cartella 5
EMIGRAZIONE
1870
20 agosto, il fratello Luigi scrive alla Famiglia Barberini a
Buenos Aires: «Sento che avete veduto mio fratello
Antonio...»
ASCM, PP1
1873
4 marzo, firma il disegno del prospetto principale di Villa
Argentina.
ASTi, Fondo Antonio Croci
5 dicembre, Vincenzo Vela accetta la commissione del
monumento al duca Carlo II di Brunswick, sceglie
Antonio Croci per assisterlo. Scultore e architetto
partono alla volta di Verona per studiare le tombe
Scaligere, quindi si recano a Ginevra per un
sopralluogo al sito destinato al progetto.
Archivio Federale di Berna (AFB,) A-N 3,
Bd. 53, doc. 2.
24 gennaio, Vela in una lettera a Cherbuliez, uno degli
esecutori testamentari del duca, scrive che Antonio
Croci partirà per Ginevra con nuovi disegni e potrà
fare lui stesso i cambiamenti che si riterranno
opportuni.
G. Piffaretti, Il grande rifiuto ovvero la storia del
monumento a Ginevra che Vincenzo Vela non poté
realizzare, Mendrisio, 1990, p. 41
26 gennaio, Cherbuliez risponde a Vela di non
mandare Croci a Ginevra, ma che sarà l’architetto
Franel a venire a Ligornetto, per un incontro a tre. Da
questo momento Croci verrà estromesso dalla vicenda
della costruzione del mausoleo.
Ibid., p. 42
1863
1864
1875
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Percorsi di ricerca
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Acquista dalle sorelle Piotti, Rachele e Carolina, e da
Antonio Mantegazza tre terreni, definiti orti, in
contrada Caslaccio, per la somma totale di 549 lire di
Milano e 32 soldi.
ASCM, Estimo censuario del Comune di
Mendrisio, I, 1-291; Catasto delle partite
patriziali dei possidenti di Mendrisio, II,
218-456
1880
30 dicembre, paga la «Tassa d’inscrizione» di 10
franchi relativa al 1879.
ASCM, copia lettere della Municipalità, 30
dicembre 1880, nr. 705
1884
2 gennaio, ricorre tardivamente contro le variazioni
introdotte alla propria partita d’imposta dall’Ufficio di
revisione, perché è da lungo tempo malato.
ASCM, copia lettere della Municipalità, 2
gennaio 1884, nr. 78
25 settembre, in risposta alla sua richiesta di sussidio,
il Municipio gli risponde: «... i vostri fratelli Sig. Luigi
e Giuseppe Croci sono sempre disposti a sovvenirvi
quanto vi può essere necessario per campare la vita,
purché ne facciate loro domanda...».
ASCM, copia lettere della Municipalità 25
settembre 1884, nr. 424
2 dicembre, a mezzogiorno muore di tisi bronchiale.
Nel registro dei morti di Mendrisio si scrive:
«...Architetctus Egregius, animan suam Deo reddidit
in propria domo ab ipso designata (parva sed apta
sibi)....».
ASCM, Fondo Comune, Registro dei
decessi, nr. 94; APM, 5° Liber Mortorum
1869-1886, nr. 56
I parenti afflitti annunciano la morte del loro
amatissimo Architetto ANTONIO CROCI avvenuta
in oggi, dopo lunga malattia sostenuta colla massima
rassegnazione e confidenza in Dio. I funerali avranno
luogo, in Mendrisio, il giorno di giovedì 4 dicembre,
alle ore 9 1/2. Il presente annuncio serva per coloro
che desiderassero accompagnare la salma all’ultima
dimora.
La Libertà, 3.12.84; Il Credente Cattolico,
4.12.1884; Gazzetta Ticinese, 4.12.1884
I parenti del compianto Architetto ANTONIO
CROCI presentano vive grazie ai numerosi amici, che
ne onorarono i funerali, ed in special modo all’egregio
sig. avv. Antonio Cattaneo per le affettuose parole
pronunciate sulla sua tomba.
La Libertà, 6.12.1884; Gazzetta Ticinese,
6.12.1884
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Percorsi di ricerca
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Finito di stampare
nel maggio 2012
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Percorsi di ricerca
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Percorsi di ricerca
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Laboratorio di Storia delle Alpi – LabiSAlp
Accademia di architettura – Università della Svizzera italiana
Largo Bernasconi 2
CH-6850 Mendrisio
www.arc.usi.ch/labisalp
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