L`umorismo ebraico tra dolore e speranza

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L`umorismo ebraico tra dolore e speranza
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L’umorismo ebraico tra dolore e speranza
Contributed by MASSIMO CAVIGLIA
Wednesday, 05 September 2012
Fin dalla storia di Abramo e Isacco sembra che la risata per gli ebrei sia strettamente legata alla sofferenza
In 30 anni di attività quale autore di satira, e in oltre 50 anni di vita come ebreo, ho potuto sperimentare come la risata
alleggerisca spesso le tensioni e dia sollievo a chi la crea e a chi la riceve.
Sono ormai noti i meccanismi alla base di questo procedimento: diceva Freud che l’umorismo consente uno sfogo
sicuro al desiderio sessuale e all’aggressione sociale. Ma vorrei provare a riflettere su un altro motivo per cui
l'ebreo si serve di questa tecnica, e perché la utilizzi così spesso.
Nel corso degli ultimi anni lo stile di vita ebraico, il suo modo di esistere nel mondo, il suo spaesamento (il “non
poter essere in nessun Paese”), ha attratto l’interesse di un certo numero di persone perché, in un'epoca
di incertezze, l'esperienza dell'ebreo - che ha vissuto queste sensazioni per millenni ai quattro angoli della terra - viene
fatta propria da chi cerca di comprendere il suo modo di mantenere un'identità nonostante quanto gli sia accaduto nei
secoli.
Ogni ebreo, in ogni periodo storico, si è confrontato con difficoltà più o meno gravi che hanno minato la sua stabilità
emotiva. E ritengo che l’umorismo sia stato uno dei principali metodi per rimanere persone equilibrate. Mentre però
la comicità coglie solo il lato ridicolo di un evento, l’ironia (più frequentemente praticata in ambito ebraico) va oltre,
facendosi spesso beffa del potere politico, sociale o religioso. La satira viene da lontano: lo scrittore Giovenale, già
nell'antica Roma sosteneva: "Ciò che mi spinge a scrivere è l'indignazione verso il degrado della società in cui mi trovo a
vivere". E lo ripeteva il filosofo Hegel, nella sua opera "L'estetica", sottolineando come: "L'animo puro, non potendo
ricreare il proprio ideale in questo mondo senza morale, se ne fa beffe con la satira". Ma la risata ebraica viene ancora
da più lontano.
Qual’è il motivo per cui questo popolo, così duramente colpito, ha ancora voglia di continuare a ridere dopo 5000
anni di eventi drammatici, in cui l'ebreo si svegliava ogni mattina e non sapeva se lui e la propria famiglia sarebbero
sopravvissuti? È una domanda che mi ha sempre incuriosito perché anche nella mia famiglia, che la Shoah ha
profondamente segnato, non è mai mancato un sorriso e una battuta, perfino nei momenti più difficili. Mi sono quindi
chiesto se l'umorismo ebraico non fosse altro che un sedativo alle persecuzioni, un modo di lenire le ferite e scaricare
tensioni represse che non avrebbero potuto emergere altrimenti. Per capire se fosse davvero così, fin da giovane ho
iniziato a cercare partendo dalla Torah.
Il primo uomo che ride è proprio il primo ebreo, il patriarca Abramo (in Bereshit, cap. XVII, vv.15-19), e dopo di lui sua
moglie Sara (cap. XVIII, vv. 9-15). In Abramo la risata ha inizialmente una connotazione di sofferenza per la propria
sterilità, poi una caratteristica di incredulità per la paternità annunciata, e poco dopo (da parte di Sara) di scetticismo alla
notizia della gravidanza. Successivamente la risata diventa paura, perché (anche se solo interiore) Sara teme che venga
recepita come scherno nei confronti dell’onnipotenza divina. Infine diventa felicità per il concepimento e il parto, e
si tramuta in una rivincita per il successo ottenuto (cap. XXI, vv. 6-8).
Ma da quella risata deriva anche la grande sofferenza del figlio Isacco ("colui che ride", dalla radice del verbo tsachak):
sua è la sofferenza nel sapere di andare al sacrificio; del padre è la sofferenza di portarlo al macello; della madre la
sofferenza nel vederlo andare via pensando che non tornerà; e infine di nuovo la sofferenza del figlio, che torna salvo ma
trova la madre morta di dolore.
Per essere nato tutto da una risata, gli spunti di riflessione sono molti. Lascio ai rabbanim e agli psicologi
l’interpretazione di questi versi, ma non posso fare a meno di notare che la risata ebraica è strettamente legata
alla sofferenza, fin dalla nascita del popolo stesso. Una sofferenza quasi iscritta nel DNA, che comporta una grande
forza d'animo per sopportarla, e di cui la risata è la causa scatenante ma anche il modo di opporsi alle avversità.
L'ebreo che reagisce con ironia è quasi un piccolo eroe, uno spaventato guerriero che conosce il terribile destino che lo
permea dall'interno e che lo circonda all'esterno, e cerca di contrastare in questo modo gli eventi tragici della vita.
L'umorismo ebraico è spesso rivolto contro il potere: nel caso di Abramo e Sara rappresentato dall’onnipotenza
divina e dalla società circostante, dubbiosa di quella maternità; nel corso dei secoli, incarnato dalle autorità che imponevano
le conversioni forzate, i ghetti, le torture e le deportazioni; una realtà verso la quale non esisteva altra difesa che le parole.
Perciò, come un condannato a morte di lunedì che davanti al plotone d'esecuzione dice "Comincia bene la settimana", così
nemmeno le persecuzioni, neanche la morte possono piegare l'ebreo che ha il dono dell'ironia. Più che una guarigione a
posteriori dalla sofferenza, l’umorismo fa - a priori - dell'ebreo un essere umano inattaccabile dal dolore che
inevitabilmente ne permea l’esistenza.
Che la risata sia rivolta verso gli altri o verso se stesso, anche nel momento della sconfitta l'ebreo - attraverso
l’ironia - consegue una vittoria personale. Forte anche della promessa plurimillenaria che il popolo ebraico non
avrà mai fine. Una speranza che finora, contro ogni previsione, ci ha permesso di essere ancora qui.
MASSIMO CAVIGLIA
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