1 Il cattivo tenente: ultima chiamata New Orleans «Le Lezioni di

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1 Il cattivo tenente: ultima chiamata New Orleans «Le Lezioni di
Il cattivo tenente: ultima chiamata New Orleans
«Le Lezioni di Oscurità continuano»
Alessandro Della Valentina
In un certo senso potremmo affermare che Werner Herzog ha raccolto, per l’ennesima volta, quella
che in molti avrebbero considerato una sfida troppo pericolosa. In questo caso non si è trattato di
sorvolare la foresta amazzonica in mongolfiera o di arrischiarsi sulla cima di un vulcano in procinto
di eruttare, né di ipnotizzare un intero villaggio bavarese. E il regista tedesco non ha nemmeno
avuto bisogno di allontanarsi di molto dalla Los Angeles adottiva e proprio per nulla dalle comodità
del mondo occidentale; eppure solo in pochi avrebbero accettato di realizzare un film partendo dalla
sceneggiatura (rivisitata per l’occasione) del capolavoro di Abel Ferrara. Al contrario, Herzog si è
mostrato molto sicuro di sé; ha finto di non aver mai sentito parlare del collega e ha ammesso di
non aver mai visto il suo Cattivo tenente (1992).
Se è vero che egli ha già dei precedenti nel campo del remake - nel 1979 ha reso omaggio al
Nosferatu (1922) di Murnau - tuttavia non lo si può certo definire un regista cinefilo e tantomeno
uno col gusto per la citazione. Egli stesso ammette di non possedere una particolare cultura
cinematografica e di non vedere più di un film al mese, convinto che siano le esperienze di vita la
principale scuola di un cineasta1.
Poco conta, in ogni caso, la ragione che ha spinto Herzog ad accettare un soggetto apparentemente
così distante dai suoi interessi, perché Il cattivo tenente: ultima chiamata New Orleans (2009)
riesce a far emergere alcuni fra i tratti più personali di un immenso corpus di opere che si è
caratterizzato anche per la frequente diffidenza che gli è stata riservata da una buona parte del
pubblico e della critica. Costantemente ignorato in patria, nonostante oggi sia celebrato come uno
dei maestri del cinema contemporaneo, anche all’estero Herzog è stato spesso accolto con freddezza
e spirito polemico. Si pensi che, riconoscendo di averlo a lungo e ingiustamente «preso per un
cineasta pompiere invaghito di grandiosità», solo nel dicembre 2008, i Cahiers du cinéma gli hanno
reso omaggio con un’intervista e dedicandogli una copertina2. Del 2008, inoltre, sono le prime
retrospettive integrali con cui il Museo Nazionale del Cinema di Torino, prima, e il Centre G.
Pompidou di Parigi, poi, hanno ufficialmente celebrato il valore artistico della sua opera. A
coronare una simile ondata di riconoscimento pubblico è giunta quest’anno la sua partecipazione a
Venezia addirittura con due opere in concorso3; evento unico nella storia del festival.
E, nonostante l’entusiasmo di una buona parte della critica, Il cattivo tenente ha offerto, comunque,
l’ennesima occasione di portare il suo regista al centro della cronaca. Ad animare la discussione,
almeno in superficie, sono stati, infatti, i toni da pettegolezzo con cui è stata riportata la notizia del
diverbio sulla legittimità del remake che ha coinvolto Ferrara ed Herzog, rischiando di condurre il
dibattito esclusivamente sullo sterile confronto fra due opere omonime.
Per quanto sia apparentemente inevitabile, il parallelismo è tuttavia piuttosto ingiustificato. La
sceneggiatura di William M. Finkelstein è, infatti, profondamente trasformata rispetto all’originale
(di cui Ferrara stesso fu coautore) e depurata proprio di quelli che furono i temi più personali del
film interpretato da Harvey Keitel. Primo fra tutti il contesto religioso e con esso i temi della colpa e
del perdono. Anziché allo stupro di una suora, il film di Herzog ruota intorno al massacro di una
famiglia afroamericana e il suo tenente è un individuo indubbiamente poco morale, ma molto più
ligio al dovere rispetto al collega newyorkese. Per certi versi egli rispecchia più da vicino
l’infernale Quinlan; «uno sporco poliziotto, ma a suo modo anche un grand’uomo», come recita
1
Cfr. W. Herzog, Incontri alla fine del mondo, Minimum fax, Roma 2009, pp. 26 e 30.
Cfr. H. Aubron e E. Burdeau, Werner Herzog: le survivant, in «Cahiers du cinéma», n. 640, dicembre 2008, p. 11.
3
L’altra è My Son, My Son, What Have Ye Done (2009).
2
1
Marlene Dietrich nella sequenza finale del grande film di Welles (L’infernale Quinlan, 1958). Con
il poliziotto interpretato dal regista di Quarto potere (1941), il tenente di New Orleans ha diversi
tratti in comune: entrambi allucinati, il primo dall’alcol, il secondo dalla droga ed entrambi
menomati a causa delle loro gesta eroiche; l’uno sciancato da una pallottola che era destinata al
collega, l’altro sghembo per via di un tuffo, effettuato nel tentativo di salvare un carcerato.
Entrambi pronti a fabbricare prove che non esistono e a scendere a patti con criminali, per poi
liberarsene una volta raggiunti i loro scopi. Ma, a differenza dei suoi archetipi, il tenente McDonagh
non è poi così detestabile, è profondamente umano e pieno di affetti sinceri e, soprattutto, non
soccombe ai suoi stessi eccessi.
Sostenuto dalla pistola e dal distintivo spinge i suoi abusi, di droga e di potere, oltre il limite di ciò
che la sua carica gli consente di coprire; eppure, quando tutto sembra trascinarlo in una vertiginosa
e inarrestabile caduta, la fortuna gira dalla sua parte, il tenente si rialza, risolve il caso e, come se
ciò non bastasse, è promosso capitano. Ma il grottesco domina quest’ultima parte del film, che
sfiora i toni della commedia quando un’assurda e caricaturale “sfilata” di personaggi interviene a
risollevare le sorti dell’anti-eroe.
Herzog si permette, dunque, di scherzare e in alcuni tratti di parodiare un genere profondamente
americano, quello noir, che non appartiene al suo repertorio, ma che egli reinterpreta secondo il suo
stile personale, anche allentando la tensione con inserti comici, che negli ultimi anni hanno
caratterizzato opere come The White Diamond (2004), L’ignoto spazio profondo (2005) o
Encounters at the End of the World (2007). Herzog si è, infatti, più volte lamentato: «L’humour è
qualche cosa che si trascura troppo spesso nei miei film»4. Egli sembra piuttosto orgoglioso del
fatto che tale vena comica germogli frequentemente proprio da quelle opere che sotto quest’aspetto
parrebbero meno fertili - Kinski - Il mio nemico più caro (1999), per esempio, ma anche Grizzly
Man (2005) e Rescue Dawn (2006) -, come se si trattasse del sintomo di una profonda intimità da
parte dell’autore rispetto a eventi e personaggi reali che in qualche modo egli sente vicini5. Nel caso
del Cattivo tenente, dove al contrario domina la finzione, la comicità sembrerebbe, più che altro,
uno strumento volto a prendere il possesso e a mantenere le distanze da una sceneggiatura e da uno
stile cinematografico entrambi estranei al regista e profondamente americani; una sorta di sottotesto
più personale all’interno di un’opera su commissione.
Alla luce di questi presupposti, cerchiamo dunque di concentrarci sui tratti più caratterizzanti del
film, trascurando il suo aspetto puramente commerciale rappresentato dal titolo.
In una New Orleans post-Katrina dai toni lividi e bluastri, nonostante i danni dell’uragano siano
appena accennati, domina un’atmosfera quasi apocalittica. La città sembra deserta, popolata da
sbirri corrotti, delinquenti fumatori di crack, spacciatori e puttane. Ne leggiamo la desolazione
attraverso gli occhi di un alligatore, tramite un’emozionante semi-soggettiva, con l’impressione che
per un istante la natura umana e quella animale si siano invertite. Il rettile osserva un suo simile
travolto da un’automobile, ora riverso e agonizzante sulla carreggiata. Poco più in là, fra
l’indifferenza generale, McDonagh cerca di persuadere un collega a ritirare la multa inflitta a un
amico, per poi dedicarsi al corteggiamento di un’avvenente poliziotta, da cui spera di ottenere
l’aiuto necessario a recuperare della droga. Già in precedenza, un pacifico pesce combattente era
stato il testimone dell’abiezione che sembra aver invaso la città della Louisiana.
Nel celare gli effetti più appariscenti dell’uragano, il film trae ispirazione dalla tragedia di New
Orleans per rappresentare il trauma interiore che l’uomo ha subito. È come se l’ordine su cui si
regge la civiltà si trovasse improvvisamente sovvertito a causa dell’azione violenta della natura che
si riappropria dei suoi spazi. Non tanto perché l’acqua inonda la città, che si popola di bestie
(serpenti, alligatori e iguane), ma in quanto il sentimento di disfatta suscitato dalla morte e dalla
4
W. Herzog in H. Aubron e E. Burdeau, «Je lis le coeurs des hommes», in «Cahiers du cinéma», n. 640, dicembre
2008, pp.19-20.
5
Ibid.
2
distruzione genera una caduta etica e morale tale da risvegliare gli istinti più animaleschi e rendere
possibile il paradosso di un poliziotto al tempo stesso onesto e criminale, moralista e amorale,
vincitore e perdente.
Il tenente è costantemente sotto l’effetto di potenti farmaci e di stupefacenti per sopportare le
violente fitte che lo colpiscono alla schiena e finisce per perdere il controllo delle proprie azioni.
Nel difendere la ragazza, una prostituta d’alto bordo, si caccia in guai seri con certi malavitosi; è poi
sospeso dal servizio a causa di alcuni abusi di potere perpetrati nel corso delle indagini e, come se
non bastasse, persiste con scommesse suicide sul football. Parallelamente, scopriamo l’umanità del
protagonista nei suoi rapporti con la fidanzata e la famiglia.
L’indole altalenante e schizofrenica di McDonagh si riflette nel suo aspetto fisico e nella
camminata. Iperattivo a causa della cocaina, non si concede mai il riposo, ma il suo dinamismo
contrasta con i movimenti contratti degli arti; ha, infatti, la colonna vertebrale irreparabilmente lesa
e cammina con una spalla più alta rispetto all’altra. Nicolas Cage ha dichiarato di aver seguito
precise indicazioni del regista, ispirandosi alla figura del Riccardo III6. Eppure, ancora prima di
Shakespeare, l’aspetto fisico del cattivo tenente dovrebbe portare alla memoria uno dei più celebri
personaggi herzoghiani: il Kinski di Aguirre, furore di Dio (1972). Il condottiero ribelle, alla ricerca
della leggendaria El Dorado, si muoveva «come un ragno, come un granchio che cammina sulla
sabbia»7 e la sua fisicità rifletteva in modo caricaturale una personalità squilibrata. E, in fondo, il
cattivo tenente coniuga proprio i tratti più caratteristici degli eroi herzoghiani; personaggi
straordinari che vivono ai margini della società, oscillando «fra potenza del superuomo [Aguirre,
Fitzcarraldo, Timothy Treadwell] e impotenza del superstite [gli aborigeni, i sordo-ciechi,
Nosferatu, Stroszek, Woyezeck, Kaspar Hauser, ma in fin dei conti anche gli stessi Aguirre,
Fitzcarraldo e Timothy Treadwell]»8.
McDonagh è un folle visionario nel suo delirio di onnipotenza, ma vacilla in una realtà che non
garantisce equilibrio: dall’entusiasmo verso il potere e il successo («è incredibile quante cose puoi
fare se hai uno scopo nella vita!»), alla desolazione di fronte alla mediocrità («un uomo senza
pistola non è un uomo»). È vero, certo, che uscendo incredibilmente vincitore da tutti gli eventi egli
sembra conquistare una stabilità e non c’è dubbio che la sua vita professionale e affettiva possa
considerarsi un trionfo, ma il finale lascia trasparire un malessere interiore. Pur sempre senza
perdere il tono sardonico e il contegno che si confà alla parte del detective nel cinema noir, a chi si
informa sulla sua vita il tenente confessa: «a volte ho delle giornatacce». Herzog stesso conferma:
«i personaggi sono dei sopravvissuti e New Orleans ti fa respirare queste atmosfere: è lei stessa una
sopravvissuta»9.
Presentando il film alla stampa, il regista ha dichiarato di essere curiosamente attratto dall’America
soprattutto per la «sua capacità di risorgere dai momenti bui e di reinventarsi»10 e, probabilmente,
l’occasione di lavorare in una città devastata, che ora riaffiora lentamente, lo ha portato a
intravedere nella sceneggiatura de Il cattivo tenente proprio l’espressione di tale aspetto, fra i più
identificativi della storia americana. Tuttavia, come nella rievocazione dell’uragano, anche in
questo caso il riferimento a fatti reali non trova un’espressione documentaria o quantomeno
verosimile, ma si risolve piuttosto in toni surreali e grotteschi. «Siamo nel paese dei miracoli»,
afferma la voce di un telecronista e nella scena immediatamente successiva le buone notizie
travolgono il tenente: i problemi con i malavitosi che lo minacciavano sono risolti, le scommesse
6
Cfr. N. Cage in Redazionale, Il Cattivo tenente, un film estremo per Werner Herzog, in «Corriere della sera.it»,
(pubblicato: 4 settembre 2009; consultato: 23 settembre 2009). Disponibile all’indirizzo: http://cinematv.corriere.it/articoli/il-cattivo-tenente-un-film-estremo-per-werner-herzog/c_01_66_55.shtml
7
W.Herzog, Incontri alla fine del mondo, cit., p. 114.
8
H. Aubron e E. Burdeau, Werner Herzog: le survivant, cit.; cfr. anche M.L Potrel-Dorget, Dialectique du surhomme et
du sous-homme dans quelques films d’Herzog, in «Revue du cinéma», n. 342, settembre 1979, pp. 54-58.
9
W. Herzog in A. Catena, Werner Herzog parla del suo cattivo tenente, in «Max», (consultato: 24 settembre 2009).
Disponibile all’indirizzo: http://max.rcs.it/cinema/0909_09ci_Cattivoherzog.shtml
10
W. Herzog in M.P. Fusco, Doppio Herzog, in «la Repubblica», 5 settembre 2009, p. 48.
3
sul football iniziano a rivelarsi redditizie e il caso di omicidio è risolto. Eppure il tenente stesso
appare esterrefatto rispetto alla piega che hanno preso gli eventi; egli ha sempre agito
irrazionalmente, senza logica apparente, come se a condurlo fosse un primordiale istinto di
sopravvivenza che non contempla alcuna distinzione fra bene e male. McDonagh non sceglie, si
lascia guidare dalle scommesse ed è il caso a determinare il suo destino.
In tutta l’opera di Herzog emerge con forza l’immagine dell’uomo perso in una Natura ostile, che
sovrasta ogni volontà (natura non solo nel senso particolare di ambiente naturale, come può essere
la giungla amazzonica, ma in un’accezione più universale, ossia in quanto forza generatrice di tutte
le cose); una Natura dominata dal caos, dove l’oggettività vacilla. Pur in maniera anomala, Il cattivo
tenente riprende questo discorso. Seguendo un filo che lega La Soufrière (1977) a L’ignoto spazio
profondo ed Encounters at the End of the World, il film esprime l’idea di un’esistenza precaria e
tratteggia l’immagine di una normalità sovvertita. Inoltre, McDonagh condivide con Kaspar Hauser,
ma soprattutto con Hias11, la visionarietà profetica che gli consente di mettere in discussione il
concetto di realtà, vincere ogni ossessione di chiarezza e cogliere l’esistenza nella sua infinita
contraddittorietà, oltre le limitazioni imposte da qualsiasi categoria umana. Così, ne Il cattivo
tenente realtà e allucinazione si confondono e McDonagh non lotta per ristabilire un ordine; si
lascia trasportare, al contrario, dal vortice visionario che lo travolge.
Nell’oscillare fra fiction e documentario il cinema di Herzog ha fatto della questione del realismo
uno dei nodi centrali della sua riflessione; egli sostiene che, in rapporto all’immagine, il nostro
senso della realtà non sia sufficientemente affidabile, in particolar modo nell’epoca dalla tecnologia
digitale. Herzog è, dunque, convinto che il cinema, non potendo più trovare certezza oggettiva nella
realtà fattuale, sia in grado di cogliere livelli di verità profondi solo attingendo all’immaginazione e
al sogno12.
Il tenente si divertiva, da bambino, fantasticando su pirati e tesori nascosti e uno dei momenti in cui
egli si rivela con maggior sincerità è quello in cui racconta di un cucchiaio, simbolo di quei giochi,
ora vecchio e arrugginito ma affettivamente intriso di un valore così elevato come quello dei sogni
nella vita umana. Quanto questi siano rimasti importanti per McDonagh lo rivela il finale. Egli
ritrova casualmente il detenuto cui aveva salvato la vita e, insieme, si concedono un’inaspettata
visita all’acquario. Seduti per terra, con le spalle appoggiate al mastodontico vetro della vasca degli
squali, egli fa partecipe il suo compagno di una questione che lo assilla: «anche i pesci sognano?».
Deleuze avrebbe potuto citare anche questa assieme alla domanda che Bruno13 pone quando chiede:
«dove vanno a finire gli oggetti che non hanno più utilità?» e che il filosofo cita fra le prove del
fatto che il regista bavarese sia «il più metafisico degli autori di cinema». Alla curiosità di
McDonagh si potrebbe trovare una risposta scientifica nell’etologia, ma - come direbbe Deleuze questa «sarebbe insufficiente, perché la domanda è metafisica»14.
Tutti gli eroi herzoghiani sono incompresi perché vivono di sogni. Kaspar Hauser e gli indios di
Fitzcarraldo (1982) condividono il fatto di essere liberi e incondizionati rispetto alla cultura
razionalista e antropocentrica della società industriale, si spiega così come entrambi possano
ancora, in epoca moderna, confondere il sogno con la realtà. Herzog è tornato recentemente a
insistere sul tema in Encounters at the End of the World, dove fa proprie le parole di un filosofo
bulgaro secondo cui la realtà prenderebbe a esistere attraverso i sogni, ma questo pensiero
11
Il protagonista di Cuore di vetro (1976).
Cfr. G. Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, il Castoro, Milano 2008.
13
Il protagonista de La ballata di Stroszek (1976).
14
«Herzog è metafisico. È il più metafisico degli autori di cinema. […] Quando Bruno pone la domanda: dove vanno a
finire gli oggetti che non hanno più utilità? , si potrebbe rispondere che normalmente vanno buttati nella pattumiera, ma
questa risposta sarebbe insufficiente, perché la domanda è metafisica». G. Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri,
Milano 2002, p. 213.
12
4
«probabilmente, rimarrà sempre illusorio, perché non viviamo più nella cultura dell’età della pietra
e questa idea è strettamente legata alla percezione di quell’epoca»15.
Ritroviamo in tale convinzione il tema dello scontro fra uomo e Natura, che riaffiora anche in
questo finale attraverso l’immagine emozionante di un paesaggio marino incombente sui personaggi
minuscoli e che, come sempre in Herzog, esprime prima di tutto un’immagine interiore, «uno stato
della mente»16. La pace che domina questa scena si contrappone alla confusione che caratterizza
quelle precedenti. L’acquario è il luogo dove ha resistito il precario equilibrio fra natura e civiltà
imposto dall’uomo; ma quanto reggerà ancora questo stato delle cose?
Una possibile risposta la troviamo ancora in Encounters at the End of the World, nel quale Herzog
riprendeva l’idea, già introdotta nella Dichiarazione del Minnesota17, secondo cui «noi non siamo
un elemento stabile su questo pianeta»18 e «la nostra civiltà tecnologica, con il suo enorme spreco di
risorse, non è sostenibile […] Alla fine la natura ci regolerà e noi scompariremo abbastanza in
fretta»19. L’incertezza della sopravvivenza umana, ha origini lontane; l’uomo è sopravvissuto prima
di tutto perché è fuggito dall’oceano, «un immenso, assoluto inferno di costante e immediato
pericolo», ma anche sulla terraferma «le Lezioni di Oscurità continuano»20.
15
W. Herzog in G. Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, cit., pp. 115-116.
W. Herzog, Incontri alla fine del mondo, cit., p. 164.
17
Si tratta di un manifesto in dodici punti, presentato in occasione di una conferenza al Walker Art Center di
Minneapolis, nell’aprile del 1999, che tratta il tema dell’inconciliabilità fra fatti e verità nel cinema.
18
W. Herzog in H. Aubron e E. Burdeau, «Je lis le coeurs des hommes», cit., p. 17.
19
W. Herzog in G. Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, cit., p. 116.
20
W. Herzoh, La dichiarazione del Minnesota. Verità e fatto nel cinema documentario. Lezioni di Oscurità, in G.
Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, cit., p. 191. Lektionem in Finsternis, «Lezioni di oscurità», è anche
il titolo originale di Apocalisse nel deserto (1992).
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