Caratterizzazione di sensori di radiazione a pixel attivi integrati

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Caratterizzazione di sensori di radiazione a pixel attivi integrati
Università degli Studi di Perugia
Facoltà di Ingegneria
Corso di Laurea in Ingegneria dell’Informaione
Tesi di Laurea
Caratterizzazione di sensori di radiazione a
pixel attivi integrati mediante sorgenti X
Laureando
Stefano Meroli
Relatore
Correlatore
Prof. Daniele Passeri
Prof. Leonello Servoli
Anno Accademico 2005-2006
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Introduzione
Il lavoro svolto in questa tesi si inserisce nell’ambito del progetto SHAPS (Selfresetting High-gain Active Radiation Pixel Sensor). L’obiettivo di questo progetto è
lo sviluppo di sensori di radiazione in tecnologia CMOS standard. Sfruttando tutti i
vantaggi di questa tecnologia si cerca di fabbricare sensori , caratterizzati da bassi
costi e elevati standard di qualità.
Questa strada è stata notevolmente incentivata dai continui studi che si stanno
svolgendo nella fisica delle alte energie, atti ad approfondire le conoscenze che si
hanno sulla natura della materia. In questi esperimenti si ha la necessità di tracciare
i cammini, con elevata risoluzione, dei prodotti di collisioni tra particelle accelerate
mediante grandi energie. Le tipologie di sensori utilizzati sino ad ora presentano dei
costi di produzione elevati dato che non è possibile produrli su larga scala . In più
,rispetto ai sensori in tecnologia CMOS, hanno la parte sensibile separata
dall’elettronica di acquisizione e decodifica, che significa occupazione spaziale
maggiore e potenza dissipata molto elevata.
Questa famiglia di sensori sta avendo una crescita così veloce che si sta pensando di
utilizzarla in altri campi, totalmente diversi dagli esperimenti alle alte energie.
Infatti si pensa ad utilizzi come l’imaging medicale o ancora più commerciali, quali
sensori per videocamere o fotocamere.
Il progetto SHARPS è nato in origine con il nome di RAPS (Radiation Active Pixel
Sensor), nel quale ambito sono stati già realizzati due chip prototipi (RAPS01 e
RAPS02).
Il sensore analizzato in questo lavoro è RAPS02. Al contrario di altri progetti di
ricerca questi sensori fanno uso di substrati di silicio senza strato epitassiale
accresciuto. Essi cercano di rilevare il passaggio di particelle ionizzanti attraverso
l’utilizzo di matrici composte da sensori a pixel attivi (APS o active pixel sensor).
Nel lavoro svolto e presentato nei capitoli successivi si è cercato di caratterizzare il
funzionamento del chip RAPS02 quando esposto ad un fascio di fotoni X ad energia
costante di 8 keV. Si è partiti dalla messa a punto del set-up (tubo a raggi X,
oscilloscopio, etc..) fino all’analisi dei dati acquisiti. In particolare i dati acquisiti
sono stati studiati in MATLAB, con lo scopo di osservare e tentare di risolvere tutti i
problemi legati al set-up di acquisizione e al chip stesso.
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Capitolo 1
Introduzione ai sensori di radiazione
Negli ultimi anni la ricerca e il continuo sviluppo hanno portato allo studio di nuove strade per la
realizzazione di sensori di radiazioni.
Spinti dalle richieste di un mercato in continua crescita, si va alla ricerca di nuove soluzioni che
possano offrire qualità di immagine superiore, ovviamente a costi minori.
Inizialmente (anni 60 e 70) il mercato dei sensori di radiazione era saturato da sensori CCD (couple
charge device). Con il passare del tempo i sensori di immagine CCD hanno fatto notevoli passi in
avanti riuscendo ad migliorare notevolmente la loro efficienza quantica, diminuendo le dimensioni
dei pixel, le “dark current” e la potenza dissipata all’interno del chip. Oggigiorno i CCD hanno un
ruolo fondamentale e sono presenti in quasi tutti gli oggetti di consumo che richiedono l’uso di
sensori di immagine, come cellulari, videocamere digitali; importante è anche la loro presenza in
ambienti che richiedono performance notevoli quali l’industria militare, scientifica e soprattutto
medicale.
Ciò che si chiede oggi ai sensori di radiazione è la possibilità di individuare con elevata risoluzione
la posizione e l’energia con cui avviene l’impatto della particella ionizzante con il chip. Conoscere
la posizione della particella ci permette di poter studiare suoi eventuali movimenti, mentre
conoscere l’energia con cui avviene l’impatto ci permette di risalire alla sua lunghezza d’onda e
quindi ci fornisce un contributo informativo molto elevato. Tutto ciò che si è accennato risulta
fondamentale se si vuol usare il sensore per “imaging”. In questo caso la posizione è l’energia
diventano fondamentali per poter definire in maniera ottimale oggetti e colori.
Ultimamente i progressi fatti dai CMOS hanno permesso un notevole sviluppo di sensori di
radiazione basati su questa tecnologia. Se negli anni scorsi questo sviluppo era limitato da vincoli
tecnologici, quali tecniche litografiche non performanti, oggi non è più così. Sensori CMOS
permettono di disporre su uno stesso substrato l’elemento sensibile, l’elettronica di lettura e di
amplificazione. Questo significa un elevato grado di integrazione, quindi una risoluzione spaziale
notevole. Gli stessi costi di produzione sono ridotti in quanto è una tecnologia ad ampia diffusione
commerciale. Per i CCD questo non è possibile infatti vi è un notevole distacco tra elemento
sensibile ed elettronica di condizionamento e lettura, cosa che implica una dimensione per il chip e
una potenza dissipata molto elevata.
Anche i sensori con tecnologia CMOS hanno i loro limiti, ovvero una scarsa sensibilità dei
fotodiodi (dovuta a substrati a bassa resistività, a basse tensioni di polarizzazione e a piccole aree
sensibili) che però vengono compensati con un’elettronica di amplificazione dalle buone
prestazioni.
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Figura 1.1: Architettura di base di una matrice CCD e una CMOS.
La fgura 1.1 tende a chiarire quali siano le differenze nel funzionamento tra le due tecnologie.
Per i sensori CCD la carica fotogenerata si muove da un pixel all’altro sino ad arrivare ad un nodo
di output dove avviene la conversione carica-tensione.
Per i sensori CMOS questa conversione e la successiva amplificazione avviene all’interno di ogni
pixel (active pixel sensor). La differenza di potenziale derivata viene gestita da logiche di controllo.
1.1 IL PROGETTO RAPS
RAPS, Radiation Active Pixel Sensor, è un progetto che nasce dalla collaborazione tra l’Università
degli Studi di Perugia, l’Università degli Studi di Parma e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
(INFN). Lo scopo ultimo di questo progetto è la realizzazione di un sensore fabbricato in tecnologia
CMOS standard da 0.18μm, capace di rilevare il passaggio di una particella ionizzante fornendo con
un altissima precisione il punto di impatto rispetto ad una superficie. I sensori che costituiscono il
chip sono matrici di pixel attivi privi di strato epitassiale.
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Figura 1.2: Architettura di base di un sensore a pixel CMOS.
Come si nota dalla figura 1.2 i pixel sono facilmente selezionabili mediante indirizzamento della
relativa colonna e riga, come in una normale memoria.
Il progetto finale prevede la presenza di diverse matrici di sensori, implementate in maniera diversa:
con e senza la presenza di un “guard ring” di isolamento fra i pixel, con diverso numero di pixel,
con diversa spaziatura fra i pixel, ecc...
Tutte però fanno riferimento a due architetture diverse e ben precise:
• la prima, denominata APS (Active Pixel Sensor), prende spunto da una soluzione classica, già
utilizzata per applicazioni nel visibile, che è stata adattata ad un utilizzo non convenzionale;
• la seconda, denominata WIPS (Weak Inversion Pixel Sensor), è una soluzione innovativa,
sviluppata e realizzata specificatamente per questo progetto, per la rivelazione di eventi singolari
come appunto l’incidenza di una particella su una matrice di sensori.
Un particolare importante da evidenziare è che entrambe le tipologie di matrici realizzate nel
progetto RAPS (APS e WIPS) forniscono informazioni relative al pixel colpito, sia in formato
digitale che analogico. L’informazione digitale riguarda la posizione, all’interno della matrice, del
pixel colpito; mentre l’informazione analogica `e il valore del potenziale, opportunamente
amplificato, presente al catodo del fotodiodo del pixel.
1.1.1 Fotodiodo
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Le tecniche più moderne per rivelare il campo elettromagnetico si basano sull’interazione del
campo con i semiconduttori. Ogni fotone che incide su una parte di semiconduttore intrinseco viene
in teoria assorbito, producendo una coppia elettrone-lacuna nel materiale. Tale coppia, sotto
l’effetto di un campo elettrico esterno, contribuisce alla corrente di fotoconduzione. Ogni tipo di
rivelatore fotoconduttivo ha bisogno, per segnalare la presenza della radiazione luminosa, di una
polarizzazione esterna. In particolare, in assenza di radiazione incidente, la corrente nel circuito di
polarizzazione esterno è praticamente nulla, poiché il semiconduttore intrinseco ha un basso valore
di conduttività. Al contrario, in presenza di una radiazione incidente con potenza utile, il numero di
portatori generati per assorbimento può diventare rilevante: la corrente assume allora valori
apprezzabili, causando un’elevata caduta di tensione.
Figura 1.3: Fotodiodo (in grigio è rappresentata l regione svuotata)
Come si nota dalla figura 1.3 il fotodiodo è una semplice giunzione p-n polarizzata in inversa.
Quando questa giunzione è illuminata da un flusso di fotoni di frequenza opportuna essi penetrano
nel materiale e vengono assorbiti. In questa regione si ha generazione di coppie elettrone-lacuna,
ma, affinché esse generino una corrente, è necessario che vengano trasportate in una particolare
direzione. È necessaria quindi la presenza di un campo elettrico. L’unica regione della giunzione in
cui esso è presente è la regione svuotata. Questa è la regione in cui è preferibile che avvenga la
generazione.
Le coppie elettrone-lacuna generate nella regione di svuotamento vengono immediatamente
separate dal campo elettrico. Quando giungono nelle due regioni quasi neutre possono anche
ricombinarsi; le cariche di segno opposto con cui si ricombinano devono essere fornite direttamente
o indirettamente dal generatore, quindi si ha la corrente.
Può succedere che le coppie elettroni lacune vengano generate nelle zone neutre, ma in prossimità
della zona di svuotamento, quindi possono per diffusione giungere nella zona svuotata prima di
ricombinarsi. Qui il campo elettrico porta elettroni o lacune nell’altra zona rapidamente. La
separazione dà un contributo di corrente.
Gli elettroni e le lacune delle coppie che vengono generate nelle zone neutre, lontano dalla zona di
svuotamento, si muovono randomicamente finché non si ricombinano. La ricombinazione di
elettroni e lacune avviene nella stessa zona neutra, quindi non dà un contributo di corrente. Si ha
solo un aumento dei portatori, quindi un aumento della conducibilità.
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1.1.2 PIXEL APS
Il pixel come si può notare dalla figura 1.4 è formato da una giunzione p-n che funge da elemento
sensibile e da altri 3 transistor (M1, M2 , M3) rispettivamente utilizzati per il reset,
l’amplificazione dell’uscita e l’abilitazione alla lettura.
Figura 1.4: Schema circuitale di un pixel APS
Il principio di funzionamento sfruttato è quello dell’integrazione di carica. Al transistor di reset
(M1) è applicato un segnale periodico di reset, con un duty cycle variabile, in modo da permette al
diodo di polarizzarsi in inversa dato che la tensione al catodo del fotodiodo raggiungerà il valore di
Vdd-Vth, con Vth tensione di soglia del transistore di reset (dato che gli nmos degradano i segnali
alti). Quando il segnale di reset torna al livello logico basso , dapprima la tensione del nodo scende
(di poche decine di mV), a causa degli accoppiamenti capacitivi con il gate del MOS di reset. Se a
tal punto non si ha il passaggio di una particella, la tensione del catodo del fotodiodo si mantiene
costante, trascurando la piccola diminuzione dovuta alla sola corrente al buio.
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Figura 1.5: Andamento temporale di un pixel quando colpito da un fotone X
Nel caso in cui si verifica un evento, ovvero la particella ionizzante impatta la regione sensibile, la
tensione del fotodiodo diminuisce notevolmente (di alcune centinaia di mV) a causa del flusso di
portatori generati; il tutto è chiaramente visibile in figura 1.5. La variazione di tensione ottenuta
viene riportata al nodo di OUT del source follower (M2), dove viene letta, prima dell’applicazione
successiva del reset, ottenendo le informazioni sul passaggio della particella.
Figura 1.6: Layout del pixel APS con guard-ring
In Figura 1.6 è visibile il layout del pixel: le sue dimensioni sono di 3.3μm × 3.3μm e si distinguono
bene nella parte superiore i 3 NMOS e nella metà inferiore l’area occupata dal fotodiodo. In fase di
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partenza del progetto sono state valutate varie opzioni tecnologiche che da un lato hanno portato
all’adozione della tecnologia di fabbricazione già menzionata e dall’altro alla definizione di diverse
possibili architetture del pixel che si possono riassumere in:
- Presenza del guard ring
È un anello di tipo P che circonda l’area del pixel.
- Uso in fase di stampa su silicio della p-well-block
La p-well-block è una maschera che modifica il profilo dei drogaggi con cui è realizzato il
fotodiodo. Nel caso in cui sia stata utilizzata, la tasca di tipo N del catodo risulta distanziata dalla
p-well in cui è realizzata l’elettronica di tipo NMOS ed il contatto di anodo del diodo stesso,
cosicché il fotodiodo diventa una giunzione del tipo N+–P–P+. In caso di assenza della p-wellblock invece la p-well arriva sino a contatto della tasca di tipo N.
Dai risultati dei test sul precedente prototipo si è decisi di implementare nel RAPS02 tre tipi di
matrici APS di 32×32 pixel:
- G1P0
La sigla sta ad indicare la sola presenza del guard ring. I pixel sono adiacenti l’un l’altro.
- G1P0 Large
È formata dagli stessi pixel della precedente ma spaziati tra loro di 16μm.
- G1P1
Si ha la presenza del guard-ring e l’uso del p-well-block; dimensioni e spaziatura dei pixel sono le
stesse della G1P0.
L’architettura APS presenta notevoli vantaggi. Primo tra tutti l’isolamento del fotodiodo dalle linee
di lettura, grazie alla presenza del source follower, che ne diminuisce la scarica dovuta alle correnti
parassite. Non meno importante è la possibilità di integrare sullo stesso substrato l’elemento
sensibile e la circuiteria di lettura e elaborazione. Oltre a queste caratteristiche, i sensori APS,
possiedono numerosi vantaggi: velocità elevata, elevata tolleranza alla radiazione (ridotte
dimensioni dei transistor, ossidi molto sottili, enclosed gate), possibilità di sfruttare tecnologie di
produzione all’avanguardia e a basso costo (visto lo sviluppo che stanno avendo nel visibile)
appoggiandosi alle conoscenza delle aziende produttrici. Proprietà queste che rendono tali
dispositivi alquanto interessanti, e giustificano gli sforzi nella ricerca di possibili applicazioni nel
settore delle alte energie.
1.1.3 Amplificazione
Come gia illustrato il segnale del pixel attraversa una catena di amplificazione prima di giungere
all’esterno; occorre conoscere in maniera precisa come questa influisca su tale segnale onde
comprendere i risultati delle misure. La caratteristica ingresso-uscita degli amplificatori è a gradino.
Essa è tale da amplificare il segnale quando si verifica un evento e attenuare quando non si ha
nessun passaggio di particelle ionizzanti.
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Figura 1.7: Caratteristica di I/O dell’amplificazione a monte del pixel
Si capisce come sia fondamentale poter variare la forma della caratteristica I/O in modo da adattarla
al comportamento dei pixel. I parametri su quali agire sono tre e precisamente la corrente del
source-follover, la corrente che alimenta il differenziale e la tensione di riferimento
Aumentare la corrente che attraversa il source-follover ed il transistor di selezione della riga
comporta un aumento della caduta di tensione a valle dei due transistor in sostanza l’effetto è
quello di aggiungere una tensione;
Variare la tensione di riferimento del differenziale significai spostare verso tensioni maggiori o
minori la posizione del tratto ad alta pendenza;
Modulare la corrente che scorre nei due rami dell’amplificatore differenziale, in termini di
caratteristica I/O di tensione non produce effetti importanti, ma modificano il tempo di risposta,
che passa bruscamente dai millisecondi ai nanosecondi;
In figura 1.8 oltre al pixel APS viene rappresentata anche l’elettronica dedicata per la lettura e
l’amplificazione. Da questo schematico risultano più chiari quali parametri verranno modificati per
ottenere caratteristiche di I/O degli amplificatori più adatti ai pixel.
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Figura 1.8: Pixel con elettronica di lettura e amplificazione
Combinando questi tre parametri si arrivati all’identificazione di tre configurazioni mostrate in
tabella 1.1.
Tabella 1.1 Configurazioni usate con relativa stringa di bit di polarizzazione
La configurazione scelta viene impostata attraverso l’invio di una stringa di 15 bit. Di questi bit i
primi 5 determinano la corrente che attraversa il source-follover, i seguenti 5 la tensione di
riferimento del differenziale e gli ultimi 5 la corrente che scorre nei due rami dell’amplificatore
differenziale.
La configurazione lineare presenta un guadagno pressoché pari ad uno. Essa è utilizzata per studiare
senza particolare amplificazione le tensioni di uscita dei pixel.
Le altre due configurazioni presentano un guadagno di circa 10. Dal nome si capisce che la loro
funzione è quella di ottimizzare il segnale in uscita del pixel, in altre parole di migliorare il rapporto
segnale-rumore.
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Capitolo 2
Raggi X e interazione con la materia
2.1 Raggi X
I raggi X sono radiazioni (flusso di fotoni) che hanno la stessa natura della luce e delle onde radio.
Differiscono per la frequenza e per l’origine che per i raggi X è atomica. I raggi X hanno
generalmente energie comprese fra i 5 keV e i 500 keV (lunghezza d'onda compresa tra 10-8 e 1011
m ).
I raggi X furono scoperti da W.C.Roentgen nel 1895 bombardando un oggetto metallico con un
fascio di elettroni (raggi catodici) emessi dal catodo di un tubo di scarica contenente gas rarefatto.
Questa scoperta aprì l’era della diagnostica per immagini. Infatti l’alta energia dei raggi X permette
di penetrare tessuti umani; la penetrazione varia da tessuto a tessuto a seconda della loro
composizione chimica.
Figura 2.1: Prima radiografia effettuata (Mano della sig. Berta Roentgen).
2.2 Generazione dei Raggi X
I raggi X sono emessi da qualsiasi elemento investito da elettroni veloci o particelle cariche, a causa
dell’interazione tra le particelle e gli elettroni più interni degli atomi. Questi elettroni ricevono un
energia tale da far aumentare notevolmente la loro velocità sino a farli allontanare completamente
dal nucleo di partenza. La lacuna lasciata viene riempita da un elettrone più esterno (avente energia
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maggiore dell’elettrone strappato),che spostandosi da orbitale più esterno a uno più interno genera
un fotone, con un energia proporzionale alla differenza dei due livelli energetici.
I raggi X possono essere generati anche da sorgenti radioattive. Infatti il loro decadimento genererà
dei fotoni con energia compresa nello spettro X.
2.2.1 Tubo a raggi X
La maniera più semplice per ottenere i raggi X è utilizzando un tubo a raggi catodici. Esso è
costituito da un ampolla di vetro, all’interno della quale vi è il vuoto, contenuta a sua volta in una
guaina metallica (generalmente di alluminio, con schermature di piombo). Scopo della guaina è sia
di protezione meccanica, sia di assorbire alcune delle lunghezze d'onda dei raggi X emessi dal tubo
che non sono utili agli scopi preposti. La guaina è riempita di olio dielettrico che consente di
dissipare il calore generato dal tubo in funzione. Ad una delle 2 estremità del tubo vi è un
filamento, tipicamente di tungsteno, detto catodo (polo negativo). Esso è attraversato da una
corrente intensa che lo riscalda facendo uscire degli elettroni di conduzione per effetto termoionico.
Questi elettroni vengono accelerati da una d.d.p. elevatissima tra anodo e catodo, che gli permette di
arrivare all’anodo con velocità notevoli. Questi elettroni impattano l’anodo, una disco obliquo
costituito da un metallo pesante, generando raggi X. L’energia irradiata attraverso fotoni X in
genere è pari solo al 1% dell’energia totale trasportata dagli elettroni. Il rimanente 99% viene
trasformato in energia termica che va a riscaldare l’anodo.
Figura 2.2: Schema esemplificativo di un tubo a raggi x
Lo spettro di emissione di un tubo è funzione del materiale usato come anodo. Generalmente questo
spettro può essere visto come sovrapposizione di uno spettro continuo e uno discreto.
Il contributo continuo è dovuto al cosiddetto effetto bremsstrahlung (letteralmente radiazione di
frenamento). Infatti gli elettroni in prossimità dell’anodo subiscono una decelerazione dovuta
all’interazione con il campo elettrico dei nuclei dell’anodo. Decelerare
bruscamente significa
perdere energia. Questa è trasformata in raggi X, aventi frequenze diverse tra loro, che vengono
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irradiati. Questa radiazione diviene più intensa e si sposta verso frequenze più alte all’aumentare
dell’energia degli elettroni, mentre utilizzare un anodo costituito da un elemento con un alto numero
atomico significa aumentare l’efficienza del tubo (aumenterà la produzione di fotoni X).
Il contributo discreto (detto spettro caratteristico) è dovuto agli elettroni bombardanti che riescono
ad espellere elettroni dagli strati atomici più interni degli atomi del anodo e il rapido riempimento di
queste lacune da parte di elettroni degli strati superiori produce raggi X, caratteristici per ogni
atomo.
Figura 2.3: Spettro del tungsteno in funzione dell’energia del fotone
Ferro 55
I raggi X possono anche essere generati attraverso decadimenti radioattivi di particolari elementi.
Uno tra tutti è il ferro 55, capace grazie al
1.3 Interazione radiazione-materia
L’interazione radiazione-materia dipende principalmente dal tipo di radiazione (dalla sua carica e
massa), dal tipo di materiale (numero atomico, densità) e dall’energia della radiazione.
In particolare i fotoni nella materia sono soggetti a assorbimento e diffusione a seconda del
fenomeno fisico verificatosi.
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L’interazione può riguardare l’intero atomo (effetto Fotoelettrico), un singolo elettrone atomico
(effetto Compton ) oppure il nucleo atomico (produzione di coppie nel campo nucleare ).
1.3.1 Attenuazione ed assorbimento dei fotoni
Il numero di fotoni che, nell’attraversare uno spessore x di un dato materiale non hanno subito
interazioni, è espresso da una funzione esponenziale del tipo:
N(x) = N0 e -µ x
Dove µ [ cm-1 ] è il coefficiente di attenuazione lineare, che dipende dall’energia del fotone
incidente e dal tipo di materiale attraversato. µ ci indica in maniera qualitativa come la radiazione
interagisce con la materia, non ha caso µ è dato dalla somma di tre componenti: uno dovuto
all’effetto fotoelettrico, uno all’effetto compton e uno alla creazione di coppie elettrone positrone
(vedi fig.2.5).
Il coefficiente di attenuazione lineare tiene conto dell'energia rimossa dal fascio primario, sia quella
trasferita agli elettroni fotoelettrici e Compton che di quella trasportata da fotoni Compton.
Se uso il coefficiente di attenuazione lineare µ, la I = I0 e-µx fornisce la parte del fascio primario
che emerge con la stessa direzione iniziale.
Se uso µ per la dose (la quantità di energia assorbita), la sovrastimo perché solo una parte
dell'energia del fascio rimosso viene trasferita al mezzo e poi assorbita.
Se uso µ per progettare lo schermo,quindi per stimare il fascio emergente, lo sottostimo perché una
parte dei fotoni Compton emergono o possono addirittura ritornare nel fascio attraverso una
seconda diffusione (build-up).
Possono inoltre emergere dal mezzo X di fluorescenza prodotti in seguito ad una interazione
fotoelettrica.
Un indice della parte del fascio che viene trasferita al mezzo sarà µTR che è minore di µ
Esso rappresenta in modo più adeguato l'assorbimento del mezzo.
I*=I0e-µ TR x
I* rappresenta la radiazione complessiva non assorbita dal mezzo.
Questa stima non può essere utilizzata per calcolare il fascio uscente perché ipotizzo che tutti i
fotoni compton rientrino nel fascio. Sovrastimo il fascio in uscita. In realtà non tutta l'energia
trasferita agli elettroni viene assorbita.
Il coefficiente di assorbimento di energia è infine dato
µen = µtr (1 – g)
Dove g indica la frazione dell’energia cinetica degli elettroni emessa sotto forma di radiazione di
frenamento che si suppone non assorbita.
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Figura 2.5: Andamento del coefficiente di attenuazione e assorbimento in acqua per i fotoni
1.3.2 Effetto fotoelettrico
Per il nostro studio l’effetto fotoelettrico è di notevole importanza. Come si può notare dalla figura
2.5 lavorando con fotoni aventi energia media pari a 8 keV il fenomeno di interazione radiazionemateria più frequente è proprio quello fotoelettrico.
L’effetto fotoelettrico avviene quando un fotone X , interagendo con un atomo (elettrone legato),
cede completamente la sua energia espellendo un elettrone. Il fotoelettrone acquista un’energia
cinetica Ec uguale alla differenza tra l’energia del fotone incidente (hv0) e la sua energia di legame
(E1):
E C = hν O − E 1 .
Il fotoelettrone nel nostro caso avrà un energia media pari a 8 keV (energia media di un fotone)
meno 2 keV (energia di legame del silicio) per un totale di 6 keV. Questo fotoelettrone perderà in
maniera graduale la sua energia (ogni urto con il reticolo di atomi costa all’elettrone in termini
energetici 3,5 eV per il principio di conservazione della quantità di moto) creando coppie
elettrone-lacune nella zona di silicio in cui è stato generato (questa zona è rappresentabile come una
sfera con raggio di 1 um centrata nel punto in cui è stato strappato l’elettrone).
La lacuna lasciata dal fotoelettrone sarà colmata o da un elettrone libero o da un elettrone legato ad
un orbitale più esterno. Questa azione permette di liberare uno o più fotoni x.
In alcuni casi invece di emettere fotoni, l’energia di eccitazione del atomo sarà spesa per allontanare
dal nucleo un elettrone situato su un orbitale esterno. Questo è detto elettrone di Auger. La sua
energia sarà pari alla differenza tra l’energia di eccitazione del atomo e la sua energia di
legame (E1).
La probabilità di interazione per effetto fotoelettrico (definita come τ) è nulla se l’energia del
quanto è inferiore alla energia di legame dell’elettrone, presenta un massimo se l’energia del quanto
è uguale alla energia di legame (tipicamente EK ed EL) e successivamente decresce all’aumentare
1
dell’energia fotonica. L' effetto fotoelettrico è più probabile con elettroni più legati, quindi con
quelli appartenenti al “guscio K".
La probabilità di interazione tra fotone e materia dovuto all’effetto fotoelettrico è proporzionale a Z
del mezzo e inversamente proporzionale all’energia del fotone incidente.
NZ 4
τ ∝ Cn
(hv ) 3
N = numero di atomi per unità di volume [ atomi/ cm3]
E’ chiaro che l’effetto fotoelettrico è molto pronunciato in materiali densi e a basse energie
( E ≤ 0.1 MeV).
1.3.3 Effetto Compton
L’effetto Compton ha luogo quando l’energia del fotone incidente è molto più elevata dell’energia
di legame dell'elettrone con il quale interagisce e che può essere considerato libero.
Nell’interazione il fotone viene deflesso dalla sua direzione iniziale con cambiamento di lunghezza
d’onda e quindi di energia. La differenza d’energia tra il fotone incidente e quello deflesso viene
impartita all’elettrone.
Figura 2.4: Simulazione di un urto fotone-elettrone
Il fenomeno può essere descritto dalla meccanica classica come un urto elastico tra due particelle.
Applicando le leggi di conservazione dell’energia, si ha:
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La differenza tra la lunghezza d’onda del fotone incidente e di quello deflesso è funzione proprio
dell’angolo di diffusione.
Per un angolo di diffusione θ = 00 si ha hv0 = hv, in questo caso, il quanto non perde energia; per θ =
180° (quanto diffuso all’indietro ) si ha il massimo trasferimento di energia al fotone diffuso.
L’elettrone acquista una energia cinetica data da:
Ec = hv0 – hv.
EElettrone
E2
=
m0 c 2
E+
(1 − cos θ )
EFotone =
E
1 + 1,96 E (1 − cos θ )
dove E è l’energia del fotone incidente.
L'effetto Compton risulta predominante per energie comprese fra circa 100 KeV e 2 MeV.
I fotoni compton non possono essere considerati rimossi dal fascio perché attraverso un secondo
scattering possono tornar a far parte del fascio. Questo effetto è detto di accumulo Buid-up.
1.3.4 Produzione di Coppie
Con questa espressione si intende il processo secondo cui un fotone interagisce con il campo
elettrostatico che circonda una particella carica ( normalmente un nucleo atomico, ma anche con
minor frequenza un elettrone); in tal caso il fotone scompare dando origine ad una coppia di
elettroni di segno opposto (un elettrone e un positrone). Affinché il processo sia energeticamente
possibile, il fotone deve possedere un’energia almeno doppia di quella equivalente alla massa di
riposo dell’elettrone (m0c2 =0,511 MeV ). L’energia del fotone in eccesso di 2 m0c2, nel caso di
produzione di coppie, viene distribuita sotto forma di energia cinetica tra le due particelle della
coppia; solo una quantità trascurabile viene ceduta al nucleo per la conservazione della quantità di
moto.
Le particelle di coppia ( elettrone e positrone) dissipano entrambi la loro energia cinetica in
ionizzazione ed eccitazione degli atomi della materia: solo il loro destino finale è diverso, e cioè
mentre l’elettrone, esaurita la sua energia cinetica, entra a far parte della popolazione degli elettroni
liberi o legati negli atomi, il positrone si combina con un elettrone annichilandosi. Le due particelle
infatti scompaiono e la loro massa è convertita in due fotoni aventi ciascuno un’energia di 0,511
MeV ed emessi in direzione opposta, per il principio della conservazione della quantità di moto.
1.4 Dose
Tra i tanti possibili utilizzi futuri del chip Raps02 vi è anche la soluzione di utilizzarlo in
esperimenti come misuratore di energia. Risulta fondamentale conoscere quali sia la capacità di
assorbire energia da parte dell’elemento sensibile; in questa maniera si è sempre capaci partendo
2
dalla caduta di tensione registrata all’uscita del pixel di risalire all’energia della particella che ha
impattato il pixel.
1.4.1 Dose assorbita
Due materiali diversi, se soggetti alla stessa radiazione, in generale assorbono una quantità di
energia diversa. Una grandezza che indica l’energia assorbita per unità di massa è di notevole
importanza, dato che ci fornisce una stima di come la materia interagisce con la radiazione.
Questa grandezza esiste ed è detta Dose Assorbita; si misura in Gy o rad (1 Gy= 100 rad). La dose
assorbita dipende principalmente dal numero atomico del materiale; per questa ragione la capacità
di assorbire energia da parte dell’acqua e dell’ aria sono essenzialmente le stesse.
1.4.2 Dose equivalente
Quando gli effetti di una radiazione sono valutati su organismi viventi, l’assorbimento di un ugual
ammontare di energia può provocare effetti biologici differenti. Per valutare questi effetti che
possono essere altamente nocivi è stata introdotta una nuova grandezza: la Dose Equivalente. Essa
mi indica quanto l’energia assorbita è dannosa per l’organismo.
La Dose Equivalente = Dose Assorbita * Q, dove Q è un fattore adimensionale ricavabile dalla
tabella 2.1.
Tabella 2.1: Fattore di qualità Q in funzione di Lw
Il fattore Q viene scelto a seconda della natura della radiazione che investe l’organismo. Infatti più
la radiazione è penetrante nei tessuti e più il fattore Q deve essere alto. Per rendere la scelta più
facile è stata introdotta la Lw (funzione di trasferimento lineare dell’energia). In base a questa
grandezza riesco a classificare le varie sorgenti di radiazioni. Infatti la L w mi indica quanta energia
radiata viene assorbita in acqua per ogni um. La Dose Equivalente si misura in Sv o Rem.
1.4.3 Dose efficace
La stessa dose equivalente assorbita da organi diversi produce una diversa probabilità
di produrre danni biologici. I tessuti hanno cioè una diversa radiosensibilità e quindi reagiscono in
modo diversificato. Per tener conto di ciò la dose equivalente viene pesata da un fattore w T che
2
dipende dall'organo esposto. La nuova grandezza fisica si chiama Dose Efficace e si misura ancora
in Rem o Sv.
Dose Efficace = Dose Equivalente x w T . Anche in questo caso w T è un parametro adimensionale
ricavabile dalla tabella 2.2.
Tabella 2.2: w
T
al variare del tessuto e organo
2
2
Capitolo 3
Strumenti
In questo capitolo saranno introdotti tutti gli strumenti utilizzati nel corso del lavoro di tesi.
3.1 Hardware
Nella descrizione dell’hardware saranno descritti tutti gli strumenti utilizzati per l’acquisizione dei
file e per il loro studio. La maggior parte di questi strumenti si possono trovare in qualsiasi
laboratorio (vedi multimetro, oscilloscopio, PC ect..) altri sono stati realizzati appositamente per
permettere uno studio molto più agevole.
3.1.1 Tubo a raggi X
La sorgente di raggi X scelta è un tubo, situato presso l ‘INFN di Perugia ,il quale ha un fascio di
fotoni con caratteristiche a noi note. Infatti grazie ad una azione di filtraggio e collimazione siamo
riusciti ad ottenere un fascio di dimensioni note (circa 2 cm per 2 mm) che si distribuisce
gaussianamente negli infiniti piani perpendicolari alla sorgente al variare della distanza e un
energia per ogni fotone pari a 8 KeV.
Entrambi i valori sono effetti da incertezza, infatti le dimensioni del fascio non sono costanti al
variare della distanza dalla sorgente di raggi X, ma tendono ad allargarsi, distribuendo la potenza su
un area sempre maggiore; la stessa energia dei fotoni sappiamo essere 8 KeV con un incertezza del
1%.
L’operazione di collimazione, azione che ci permette di dimensionare il fascio, viene eseguita
facendo passare i vari fotoni emessi dal tubo attraverso una fessura in metallo, dalle dimensioni
variabili. Solo i fotoni caratterizzati da un angolo di emissione noto attraverseranno la fessura, gli
altri verranno bloccati grazie ad una forte attenuazione.
2
Fig. 3.1: Schema esemplificativo di collimazione e filtraggio
L’energia del fotone è definita attraverso l’utilizzo di un reticolo cristallino. Questo filtro sarà in
grado di bloccare i fotoni con energia più bassa di 8 KeV e di attenuare i fotoni con energie
maggiori sino a portarli al valore desiderato. Conoscendo l’energia di un fotone siamo in grado di
calcolare la sua frequenza attraverso la legge di Plank
E= h*f
dove h è la costante di Plank E è l’energia del fotone ed f la sua frequenza.
La potenza necessaria al tubo per generare fotoni è fornita da un alimentatore esterno. La sua
tensione e corrente sono controllabili grazie ad un software istallato su di un PC situato nel
laboratorio. I test sono stati portati avanti scegliendo una tensione di 30 kV (tensione che
rappresenta la differenza di potenziale tra anodo e catodo del tubo) e una corrente di 15 mA. Con
questi valori si è riusciti a generare un fascio composto da circa 9 miliardi di fotoni X per nS.
Per garantire la sicurezza di chi lavorava intorno al tubo X, si è chiusa con appositi pannelli di
plexiglas la zona d’aria attraversata dal fascio. In tal maniera le radiazioni che si disperdevano
nell’ambiente circostante era pressoché nulle.
3.1.2 Oscilloscopio Agilent INFINIUM 54831d MSO
Questo strumento dispone di quattro canali analogici con una larghezza di banda di 600MHz, ed è
in grado di raggiungere la frequenza di campionamento di 4GSa/s utilizzando due canali oppure
2GSa/s nel caso si usino più di due canali contemporaneamente, la memoria a una profondità di 2
milioni di punti per ognuno di essi. Accanto ai quattro canali analogici lo strumento dispone di un
ingresso al quale è possibile collegare sino a 16 segnali digitali. Tra le dotazioni a hardware
troviamo un driver floppy, un lettore CD-ROM l'interfaccia Ethernet, GPIB, seriale, una tastiera ed
un mouse ottico. Lo strumento dispone di un'interfaccia grafica in cui si lavora in ambiente
Windows Professional accessibile anche in remoto. Possiede molteplici modalità di trigger, ed una
varietà di funzioni che permettono di elaborare in tempo reale i dati acquisiti (Misure di frequenza,
periodo, ampiezza, transitori, FFT, integrazione, produzione di istogrammi ecc…). Si è dimostrato
indispensabile sia nella fase di collaudo che nelle successive sessioni di misura. La presenza di un
hard disk interno permette di salvare grandi quantità di dati in maniera del tutto automatica in
relazione ad un evento di trigger caratteristica questa che ha permesso di lasciar operare lo
2
strumento anche per giorni per poi recuperare i dati acquisiti che vengono salvati in file a cui
l’oscilloscopio assegna un nome in base ad una stringa assegnata dall’utente ed un suffisso che è un
numero incrementato ad ogni salvataggio. Occorre riportare comunque che in fase di rilettura dei
dati salvati è stato svelato un bug probabilmente di origine software, l’anomalia si presenta quando
si tenta di salvare i dati provenienti da più tracce in un file .txt.
Il file presenta una colonna di valori in notazione esponenziale per ogni canale salvato, in cui:
- Il 1° canale è salvato correttamente
- Il 2° e 3° mancano dell’ultimo campione
- Il 4° presenta tutti i valori slittati di una riga verso il basso ed il primo campione è
ripetuto due volte.
Si è dovuto difatti sviluppare il software per rileggere ed elaborare i dati in modo da eliminare tale
bug.
Fig. 3.2: Immagine dell’oscilloscopio
3.1.2 Multimetro
Il multimetro usato è un modello digitale della UNI-T, un UT60E, è di tipo palmare, alimentato con
una batteria da 9V e possiede un grande display LCD retroilluminato di 4 cifre. Dispone di una
varietà di funzioni di misurazioni diverse, tra cui: continuità, duty cycle, AC true RMS,
temperatura, frequenza, capacità, ecc…; permette la selezione della portata sia in manuale che in
automatico, e dispone di una interfaccia RS232C per il collegamento ad un PC.
3.1.3 Generatori di segnale
2
I generatori di segnali a nostra disposizione sono stati due, tutti analogici, li elenco:
- HP 8082A Pulse Generator
- Good Will GFG 8015G 2MHz Function Generator
Il primo è il più “performante”, in realtà si tratta di un generatore di impulsi, quindi permette di
creare esclusivamente forme d’onda impulsive o quadrate, raggiunge la frequenza di 500MHz e
possiede una varietà di manopole tramite le quali oltre i controlli standard (frequenza, duty cicle,
offset, ampiezza ecc…) si possono modulare i tempi di salita e discesa del segnale, ed altra
caratteristica che si è rivelata molto utile è la possibilità di triggerare la generazione dell’impulso
con il fronte di salita o discesa di un segnale esterno.
Il secondo presenta caratteristiche abbastanza simili e permette di raggiungere frequenze
di 2MHz circa.
3.1.4 Alimentatori
L’alimentatore maggiormente usato è della Good Will, modello GPC - 3030D, digitale con due
uscite variabili da 0V a 30V con corrente massima regolabile sino a 2, oltre ad una uscita fissa a 5V
e 3A max. Sia la corrente che la tensione possono essere monitorate sui due display da 3,5 cifre. Il
rumore sulle alimentazioni fornite varia a seconda della modalità in cui si utilizza lo strumento,
sinteticamente:
- 5V fixed output ≤ 2mV RMS
- Constant voltage operation ≤ 1mV RMS, 5Hz ÷1MHz
- Constant current operation ≤ 3mA RMS
3.1.5 Stadi traslatori motorizzati PIM-410-CG
Sono dei carrelli motorizzati della Physikinstrumente. Il laboratorio è dotato di tre di questi motori
montati in modo da potersi spostare sui tre assi cartesiani. Vengono comandati tramite tre controller
che si interfacciano alla porta seriale di un PC. Il passo minimo con cui questi traslatori riescono a
spostarsi e del decimo di micron con un errore di ripetibilità nello spostamento in una direzione di
0.2μm e di 2 μm per due spostamenti consecutivi in direzioni opposte.
3.1.6 Scheda di alloggiamento del chip RAPS02
In Figura 3.3 si può vedere l’hardware messo a punto per il test del sensore.
2
Esso si compone di due board: la più grande (Figura 3.3 b) è la stessa utilizzata per il chip RAPS01.
Essendo infatti piuttosto simili le necessità dei due chip, si è scelto di riutilizzare la vecchia board,
progettando solo una scheda (Figura 3.3 a) di interfacciamento che preleva dalle pad del socket del
RAPS01 tutto ciò e necessario. I segnali prelevati possono essere divisi in quattro gruppi:
alimentazioni, clock, segnali digitali che impostano il funzionamento del chip e bit di
polarizzazione.
Fig. 3.3: Nuova board di interfacciamento per il chip RAPS02 (a) vecchia board del chip RAPS01 (b)
L’intero set-up si avvale di 3 connettori appositi per la comunicazione con altrettante schede di
acquisizione della NI. Per quanto riguarda l’invio dei bit di polarizzazione esiste sulla vecchia
scheda un blocco denominato PISO, che si occupa di serializzare i 15 bit impostati sugli appositi
switch. Per effettuare tale operazione occorre manovrare una serie di interruttori. I primi 3 switch
impostano la frequenza di clock a cui lavora il blocco serializzatore, il 4° abilita l’oscillatore (può
infatti essere disabilitato quando non necessario per ridurre il rumore) mentre gli altri, una volta
impostati gli switch relativi alla polarizzazione da inviare, vanno portati ad ON e poi ad OFF. Ciò
ha l’effetto di resettare il blocco PISO, caricare i bit nei registri serializzatori ed inviare la sequenza.
Esiste pure la possibilità di fornire dall’esterno il clock necessario al blocco PISO.
Per agevolare tale operazione, per la verità molto frequente (in pratica ad ogni riaccensione del setup), esiste una scheda da collegare tramite l’apposito cavo (vedi Figura 3.4) in cui sono presenti i
comandi usati per l’invio dei bit una volta impostati.
2
Fig. 3.4: Scheda usata per l’invio dei bit di polarizzazione
Oltre ai segnali digitali, dalla vecchia board viene prelevato anche il segnale di CLOCK che fa
funzionare la logica di controllo del chip.
Sulla board di adattamento su cui è montato il chip RAPS02 è presente l’elettronica atta a gestire i
segnali di output. Infatti ci sono 3 banchi di switch utilizzati per indirizzare le varie uscite a diversi
connettori. Essa è stata dotata di un modulo USB imputato a raccogliere tutte le uscite digitali del
chip. Tale oggetto però non è stato ancora adoperato data la scarsa velocità che permette di
raggiungere, il che lo rende tuttora di limitata applicazione.
3.1.7 Schede di acquisizione della National Instrument
Per l’acquisizione delle uscite del chip sono state utilizzate tre schede della NI (NI PCI-DIO 96, NI
PCI 6503 e E Series NI 6014).
3.1.8 Personal Computer
2
Il laboratorio è dotato anche di un PC su cui sono montate le tre schede di acquisizione della
National Instruments: la PCI-DIO-96, la PCI-6503 e la NI 6014. Le caratteristiche di tale macchina
sono:
Processore:
Intel Pentium 4 2000 MHz
Level 1 Cache: 8KB + 12KB (data + instr.)
Level 2 Cache: 512 KB
Motherboard:
VIA TECHNOLOGIES, INC. P4X266E-8235
Memoria RAM:
1 Modulo 512MB PC2100 DDR SDRAM (Nanya Technology)
Memoria fisica:
1 Floppy 1.44 MB (3.5")
1° HDD: 76.33 GB Maxtor 6Y080L0
2° HDD: 114.50 GB Maxtor 6Y120L0
CD/DVD : 48x PHILIPS CDD6911
Monitor:
Samsung LCD 17 pollici
Scheda video:
ATI Radeon 7000 Series (RV100) 64 MB
Sistema operativo:
MS Windows 2000 Professional (5.0.2195 Service Pack 4)
A questo PC sono inoltre collegati i tre controller dei motori micrometrici. Da questa macchina
quindi tramite il software Labview sviluppato si possono manovrare tutti gli ingressi che impostano
il funzionamento del chip e monitorarne le uscite sia digitali che analogiche.
3.2
Software
3
Nel corso del lavoro sono stati utilizzati software, quali Matlab e Labview, utilizzati per
l’acquisizione dei dati ma soprattutto per la loro analisi.
3.2.1 Matlab
Inizialmente utilizzato da specialisti nell’elaborazione dei segnali e nell’analisi numerica,
Matlab negli ultimi anni ha raggiunto un livello elevato di diffusione nei vari campi
dell’ingegneria. Come altri linguaggi di programmazione (Fortran, C, Basic e Pascal), anche Matlab
include strutture logiche, relazionali, condizionali e cicli che permettono di controllare il processo
di elaborazione. Grazie soprattutto alla notazione vettoriale (non a caso MATLAB sta per
MATRIX LABORATORY), si possono manipolare matrici di dati in maniera agevole con una
sintassi piuttosto semplice ed intuitiva.
La popolarità di Matlab è in parte dovuta al fatto che il software ha una lunga storia e, quindi, è
stato possibile svilupparlo e collaudarlo in modo completo. La sua popolarità è dovuta anche alla
particolare interfaccia, che offre all’utente un ambiente interattivo facile da usare e ricco di funzioni
e capacità grafiche. La compattezza di Matlab è un altro grande vantaggio. Matlab è anche un
software che può essere facilmente ampliato. Attualmente esistono oltre 20 “toolbox” in vari campi
applicativi che possono essere utilizzati con Matlab per aggiungere nuovi comandi e funzioni.
Matlab è disponibile per i personal computer MS Windows e Macintosh e per altri
sistemi operativi. È compatibile in tutte queste piattaforme; questo significa che gli
utenti di Matlab possono condividere idee, programmi e tecniche di elaborazione,
anche se operano su sistemi differenti.
3.2.2 National Instuments LabVIEW
LabVIEW
(abbreviazione
di
LABORATORY
VIRTUAL
INSTRUMENTATION
ENGINEERING WORKBENCH) è un ambiente di sviluppo per il linguaggio di programmazione
visuale di National Instruments.
Il linguaggio grafico viene chiamato "G Language"(Graphic Language) proprio per la sua natura
grafica. La definizione di strutture dati ed algoritmi avviene con collegamenti tra oggetti grafici,
ognuno dei quali incapsula funzioni diverse. Tale linguaggio viene definito DataFlow proprio
perché la rappresentazione del flusso di dati avviene attraverso fili che collegano i diversi blocchi
funzionali del software. Il principale vantaggio del linguaggio è dato dalla velocità di realizzazione
di software che, grazie alla vasta libreria di funzioni predefinite, si limita spesso al semplice
collegamento di blocchi funzionali.
LabVIEW viene utilizzato per acquisizione dati, controllo di processi o più generalmente per tutto
ciò che concerne l'automazione industriale su diversi tipi di piattaforma come Microsoft Windows,
Solaris, Linux, e Mac OS.
L'ultima uscita di LabVIEW è la versione 8.0.
3
3
Capitolo 4
Analisi dati
Per un attento studio delle varie matrici è stato necessario acquisire un numero elevato di
misurazioni ed elaborarle con un apposito software, ovvero matlab.
Grazie ad esso è stato possibile studiare in maniera più approfondita come il chip RAPS02 reagisce
quando colpito da raggi X
.
Gli obiettivi principali delle elaborazioni con matlab sono:
• Osservare come l’impatti tra fotoni e pixel (eventi) si distribuiscono nella matrice.
• Con quale intensità gli eventi sono rilevati da ogni singolo pixel ovvero quale è la caduta
tensione provocata da un impatto tra fotone e pixel.
di
• Come il rumore insito nel dispositivo influenzi le misurazioni.
• Come eliminare i contributi indesiderati del rumore attraverso la scrittura di algoritmi.
4.1 Acquisizione
Per poter focalizzare su determinate problematiche il nostro studio e quindi per avere dei file con un
contenuto informativo maggiore, in fase di acquisizione sono stati tanti i parametri da considerare.
In primo luogo è stato necessario determinare il valore del trigger. Questo ci permetteva di acquisire
solo quando nella matrice almeno un pixel aveva un valore di tensione superiore alla soglia scelta
come trigger. Non inserire il trigger significava acquisire continuamente (con molta probabilità si
acquisiva anche solo rumore) mentre utilizzare un valore di trigger elevato significava pretendere di
rilevare almeno un evento per acquisizione. Un secondo parametro molto importante era il periodo
del segnale di reset. Variando questo si poteva aumentare o diminuire la finestra temporale in cui il
chip era sensibile. Infatti aumentando il tempo di reset, il chip aveva più tempo per poter rilevare un
impatto con un fotone prima di essere resettato (aumentavano le probabilità di rilevare un doppio
impatto di due fotoni ed un pixel) mentre abbassare il tempo di reset significava diminuire le
probabilità di rilevare un evento.
Un altro fattore molto importante era la posizione in cui disponevamo il chip rispetto al fascio di
fotoni X. Centrare il chip con il fascio significava avere un numero di eventi elevatissimo, mentre
spostarlo lateralmente rispetto al fascio permetteva di ridurre notevolmente il numero di eventi
(approssimativamente tre o quattro ogni 25 uS).
Infine fondamentale è stata la scelta della configurazione con cui polarizzare il chip. La
configurazione lineare nel nostro caso è stata preferita perché ci avrebbe mostrato con più veridicità
i fenomeni interni al chip senza particolari modifiche dovute all’amplificazione.
3
4.2 Elaborazione
I file memorizzati si presentavano in formato .txt. Questi andavano letti e memorizzati in variabili
(matrici) Matlab per essere elaborati. Tantissimi sono stati gli algoritmi utilizzati, già presenti in
Matlab ma altri scritti personalmente per l‘occorrenza che cercherò brevemente di riassumere.
-Acquisizione
Dato in ingresso un intero X, visualizza i valori delle tensioni dei 1024 pixel appartenenti alla
matrice, per l’acquisizione numero X.
-Calcoloeventi
Dato in ingresso una serie di acquisizioni, visualizza per ogni pixel il numero di volte colpito da un
fotone. Questo numero è calcolato verificando quante volte i valori di tensione di un pixel sono
maggiori della soglia calcolata.
-Calcoloeventi2
Dato in ingresso una serie di acquisizioni, visualizza per ogni pixel il numero di volte colpito da un
fotone. Questo numero è calcolato verificando per ogni acquisizione quale pixel presenta la
caduta di tensione maggiore. Questa caduta di tensione viene confrontata con una soglia per
verificare se si tratta di rumore o evento.
-Normalizzazione
Dato in ingresso una serie di acquisizioni di un solo pixel, l’algoritmo calcola il suo valor medio e
la sua deviazione standard. A questo punto effettua una normalizzazione sottraendo il valor medio
e dividendo per la deviazione standard.
-Normalizzazione a mediamobile
Dato in ingresso una serie di acquisizioni di un solo pixel, l’algoritmo calcola il suo valor medio
temporaneo, tenendo conto di variazioni fittizie del segnale dovute a errori nell’acquisizione.
-CalcoloLandau
Dato in ingresso una serie di acquisizioni, l’algoritmo calcolava la caduta di tensione relativa ad
ogni evento, graficandole complessivamente.
4.3 Caratterizzazione delle matrici
La tre matrici studiate sono state la G1P0, la G1P0 Large e la G1P1. Queste sono matrici APS
formate da 32x32 pixel per un totale di 1024, polarizzate per l’occasione linearmente.
Sono state effettuate circa 5000 scansioni delle matrice per un totale di 5125000 valori di tensione
acquisiti ( 5000x1024). Impostando un trigger, che varia tra i 5,3 mV e 8 mV, si è cercato di evitare
3
il salvataggio di scansioni prive di eventi e contenenti solo rumore mentre selezionando un periodo
di reset di pari a 1,5 us si è cercato di avere al massimo un evento per ogni acquisizione. Il chip è
stato decentrato rispetto al fascio di fotoni per lo stesso ultimo motivo.
Figura 4.1: Generica acquisizione di una matrice 32x32
Dalla figura 4.1 si può osservare una generica acquisizione. Come si può notare la matrice non ha
rilevato nessun evento, infatti la caduta di tensione massima registrata è stata di 6,3 mV, associabile
ad una fluttuazione rumorosa di un pixel.
3
Figura 4.2: Distribuzione delle acquisizioni registrate in funzione della tensione (mV)
Come si nota dalla figura 4.2 le acquisizioni si distribuiscono gaussianamente intorno allo zero.
Come accennato precedentemente tutte le 1024 acquisizioni rappresentano rumore dato che non si
registra nessuna caduta di tensione particolarmente elevata.
4.2.1 Caratterizzazione del segnale in uscita al pixel
Il fine ultimo del chip è quello di individuare con estrema precisione la posizione e l’energia della
particella ionizzante studiata. Per far ciò è estremamente importante riuscire a estrapolare dalle
numerose acquisizioni i dati di interesse, quindi riuscire a porre un distinguo tra il segnale rumoroso
e il segnale informativo.
Il file contenente le acquisizioni si presenta come un listato di valori di tensioni ognuno registrato
all’uscita di un pixel. Quando un pixel viene colpito da una particella la sua tensione registrata si
presenterà molto più bassa della media. E’ qui che gli algoritmi preposti dovranno lavorare ed
estrarre l’informazione, ovvero individuare il pixel colpito.
3
Figura 4.6: Cattura dei valori di tensione dei pixel quando avviene un evento.
Come si nota dalla figura 4.6 l’impatto di un fotone X con il chip provoca una caduta di tensione
molto elevata (in questo caso circa 50 mV). La variazione di tensione è così brusca da influenzare le
uscite dei pixel adiacenti. Questo fenomeno, nel nostro caso, non è attribuibile al fotone X ma ai
vari accoppiamenti elettromagnetici esistenti nella circuiteria del sensore.
L’algoritmo non deve far altro che verificare se le cadute di tensione registrate sono maggiori di una
soglia di trigger impostata dall’utente, ed incrementare il contatore degli eventi relativo al pixel
colpito.
Essendo le dimensioni del fascio di fotoni X molto maggiori delle dimensioni delle matrici ci
aspettiamo una distribuzione degli eventi uniforme tra i vari pixel, eccezion fatta per i pixel situati
sul perimetro della matrice influenzati dal rumore esterno.
In verità non si riuscirà mai completamente a discriminare tra ciò che è un evento e ciò che è una
eccessiva fluttuazione del rumore di un pixel. Dato che ogni pixel presenta rumore con una
deviazione standard e valor medio diverso è impossibile determinare una soglia di trigger al di
sopra della quale tutte le cadute di tensione rappresentano eventi .
Per questo l’ipotesi di uniformità della distribuzione degli eventi nella matrice è subito da
abbandonare.
Il tutto sarebbe di gran lunga più facile da elaborare se il rapporto segnale/rumore fosse il più alto
possibile. Avere un elevato rapporto S/N significa diminuire la possibilità di confondere eventi per
rumore e viceversa.
Purtroppo il rapporto S/N è una caratteristica intrinseca al chip e non può essere incrementabile per
via software.
In termini prettamente pratici avere un rapporto S/N elevato significa rilevare un passaggio di una
particella ionizzante con una forte caduta di potenziale all’uscita del pixel colpito. Le cadute di
tensione che si registrano in media sono descritte da una distribuzione Landau. Questa è una
3
funzione esponenziale il cui esponente varia in maniera lineare e non quadratica come in una
distribuzione gaussiana.
Fig. 4.7: Distribuzione degli eventi in funzione della loro caduta di tensione
Come si nota dalla figura la caduta di tensione più probabile è di 28 mV, che significa un rapporto
S/N maggiore di 10. Attorno al valor medio di 28 mV si distribuiscono secondo una distribuzione
Landau le cadute degli altri eventi. Si può notare anche come il sensore presenti cadute di tensione
dell’ordine dei 100 di mV (fino ad un massimo di 170 mV), valori molto elevati che rappresentano
il passaggio di fotoni particolarmente energetici.
4.3.2 Caratterizzazione della rumorosità dei pixel
3
Ogni pixel, per sua natura vedrà la tensione registrata ai suoi capi sporcata da rumore gaussiano. Per
questo motivo quando il pixel non registrerà l’impatto di un pixel verrà acquisito rumore.
Figura 4.3: Distribuzione delle acquisizioni registrate in uscita ad un pixel in funzione della tensione
Come si può notare dalla figura 4.3 l’andamento gaussiano è falsato dalla presenza di una seconda
campana gaussiana. La prima centrata in zero mentre la seconda centrata a valori più elevati.
Questo perché l’aumentare della temperatura durante le acquisizioni altera le proprietà elettriche del
pixel e in particolar modo, il valor medio della tensione registrata alla sua uscita, come si può
osservare in figura 4.4 .
3
Figura 4.4: Andamento della tensione del pixel in funzione del tempo
Questa variazione del valor medio è ancora più evidente nella figura 4.5. Questo problema è stato
risolto via software, riuscendo a recuperare le informazioni altrimenti perse.
Figura 4.5: Andamento del valor medio in funzione del tempo
.
Un ulteriore contributo di disturbo è dato dal crosstalk. Ovvero un fotone colpendo un pixel
provocherà una caduta di tensione non solo nel pixel colpito ma anche in quelli adiacenti. Questo
fenomeno diminuisce la risoluzione del sensore, dato che diventa molto più difficile trovare il pixel
effettivamente colpito dal fotone X. Infatti come si nota dalla fig sono ben quattro i pixel che
presentano una caduta di tensione maggiore di 10 mV. In particolare l’algoritmo per il calcolo degli
eventi segnalerà erroneamente il passaggio di ben quattro particelle ionizzanti invece di una.
4
Fig. 4.27: Fotografia di un evento con rispettivo rumore di crosstalk
Il problema viene risolto variando l’algoritmo di calcolo degli eventi. Infatti se prima per ogni
acquisizione tutte le cadute di tensione venivano confrontate con una soglia e, se maggiori,
considerate eventi, ora per ogni acquisizione verrà estratta la massima caduta di tensione e poi solo
questa confrontata con la soglia per discriminare tra evento e rumore. Il vantaggio di questa seconda
soluzione è che le cadute di tensione dovute al crosstalk verranno scartate dato che se ne avrà
sicuramente una maggiore di queste dovuta al fotone X che colpisce direttamente il pixel.
4.3
Matrice G1P0
Come accennato in precedenza e sintetizzato dalla sigla questa matrice presenta il solo guard ring
ed ha i pixel adiacenti l’un l’altro. E’ subito interessante vedere come gli eventi sono distribuiti
sulla matrice.
4
Fig. 4.7: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P0 quando la soglia è di 5,3 mv
Come si nota dalla figura 4.7 ci sono delle colonne molto più colpite dalle altre.
Eccezion fatta per la corona, di cui conosciamo la sua non affidabilità, abbiamo diverse colonne,
precisamente la 11 12 15 e 27, il cui numero di eventi è notevolmente maggiore rispetto alle altre.
In realtà questo surplus di eventi è dovuto ad una maggiore rumorosità delle colonne note.
Dalla figura 4.8 si può vedere come le colonne che mostrano più eventi sono anche quelle con una
sigma media maggiore, quindi più rumorose.
4
Fig. 4.8: Rappresentazione della sigma mediata tra tutti i pixel appartenenti a una stessa colonna
Una seconda fonte di errore è dovuta ad un errata sottrazione dei piedistalli.
Infatti il software Labview prima di iniziare l’acquisizione spende del tempo a calcolare i valor
medi di ogni pixel. Questa operazione per essere più precisa possibile deve essere eseguita al
buio. I valori calcolati non sono altro che i valor medi delle gaussiane che modellano il rumore
dei pixel.
Una volta calcolati verranno sottratti di default ai valori di tensione acquisiti, in modo da avere
delle misurazioni con un grado di incertezza minore.
Può succedere che, o per mancanza di buio o per un surriscaldamento del chip, questa operazione
possa avere degli esiti non ottimali; perciò è necessario rielaborare le misure ed eliminare la
componente media via software.
4
Fig. 4.9: Rappresentazione del valor medio di ogni pixel
Come si nota dalla figura 4.9 i valor medi di ogni pixel sono tutt’altro che uguale a zero, nonostante
il lavoro del Labview. Anche in questo caso il valor medio è un fattore che accomuna tutti i pixel di
una colonna. Sottrarre nuovamente i piedistalli via software, può migliorare la qualità delle
acquisizioni fino ad ora studiate.
4
Fig. 4.10: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P0 normalizzata secondo il valor medio quando la soglia è
di 5,3 mv
Come si nota in figura 4.10, una volta sottratti i piedistalli, nuovamente calcolati, l‘uniformità degli
eventi tra i pixel è aumentata. Ovviamente i pixel che contornano la matrice presentano ancora un
numero di eventi fuori dalla norma. Il problema può essere risolto eliminando questi pixel.
Infatti come si nota in figura 4.11, eliminando i pixel perimetrali l’uniformità è ancora più netta.
4
Fig.4.11: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P0 priva di corona sottratti i piedistalli quando la soglia è di
5,3 mv
Ora le uniche irregolarità sono dati da 2 pixel (il 112 e il 556) che presentano un numero di eventi
molto maggiore rispetto alla media.
Come si nota il numero elevato di eventi registrato per il pixel 112 è dovuto a una cresta segnalata
con un cerchietto in figura 4.12, dovuta ad un errore commesso da Labview in acquisizione.
4
Fig. 4.12:Andamento della tensione del pixel 112 in funzione del tempo
Per quanto riguarda il pixel 556 sono stati rilevati numerosi eventi perché esso è particolarmente
rumoroso. Come si vede dalla figura 4.14 la sua rumorosità è testimoniata da una sigma molto
elevata.
Fig. 4.14: Distribuzione delle acquisizioni registrate in uscita al pixel 556 in funzione della tensione
Un ultima soluzione possibile è quella di normalizzare tutti i pixel non solo secondo il valor medio
ma anche secondo la deviazione standard del rumore.
Questo significa che tutti i pixel avranno valor medio nullo e deviazione standard pari ad uno. In
questo caso ciò che dovrà discriminare tra rumore e eventi sarà una soglia dinamica. Infatti questa
sarà pari a 3 sigma (o anche maggiore), perciò assumerà valori diversi per ogni pixel. Per quelli più
rumorosi assumerà valori sicuramente maggiori che per pixel meno rumorosi. Effettuata questa
4
normalizzazione non avrà più senso parlare di cadute di tensione e di mV ma si dovrà ragionare in
termini di rapporto segnale/rumore. Per rilevare un evento dovremmo aspettarci un rapporto
segnale/rumore almeno maggiore di 3, dato che per rapporti minori di 3 la probabilità di confondere
un evento con rumore è molto alta.
Fig. 4.15: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P0 normalizzata secondo il valor medio e la sigma quando
la soglia è pari a sigma.
Come si nota dalla figura 4.15 l’uniformità migliora ancora e in particolare spariscono i due pixel
notati precedentemente. Le colonne più rumorose (come la 11 la 12) vedono il loro numero di
eventi sottostimato. Questo perché la normalizzazione secondo la sigma, non solo scalerà tutti i
valori che rappresentano rumore, ma anche quelli che rappresentano veri e propri eventi. Questi
eventi saranno tanto più scalati quanto più è rumoroso il pixel, dato che avrà una sigma maggiore.
Perciò, per i pixel rumorosi, molti eventi non verranno considerati dato che cadranno sotto la soglia
(scelta per l’eventualità pari a 3 sigma). Il tutto è legittimo dato che non sapremo mai se ciò che non
consideriamo sono eventi o semplicemente rumore.
Fino ad ora abbiamo studiato quale fosse la risoluzione spaziale della matrice, ovvero con quale
precisione il sensore riesce ad individuare la posizione del fotone. E’ giusto approfondire anche con
quale intensità è rilevata una particella ionizzante ovvero quale caduta di tensione produce il suo
passaggio.
4
Fig. 4.16: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P0 in funzione della loro caduta di tensione
Come si nota dalla figura 4.16 la distribuzione degli eventi può essere vista come la
sovrapposizione di due landau: una centrata in 21 mV e l’altra in 50 mV. Le cadute massime
registrate si aggirano sui 150 mV, valori molto elevati
4
4.4
Matrice G1P1
Come indicato dalla sigla nella matrice G1P1 si ha la presenza del guard-ring e l’uso del p-wellblock; dimensioni e spaziatura dei pixel sono le stesse della G1P0.
Fig. 4.17: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P1 quando la soglia è di 7 mV
Come si vede in figura 4.17 la distribuzione degli eventi è falsata da due pixel, i quali presentano un
incidenza notevolmente maggiore rispetto agli altri.
L’andamento temporale della tensione del pixel che presenta più di 1500 eventi (pixel 360) è
proposto in figura 4.18
5
Fig. 4.18: Andamento temporale della tensione del pixel 360 in funzione del tempo
L’eccessiva rumorosità è dovuta ad un continuo variare del valor medio della tensione di uscita.
Questo problema non può essere affrontato semplicemente sottraendo i piedistalli al segnale, ma va
risolto sottraendo una cosiddetta “mediamobile”. Ovvero il segnale che fungerà da piedistallo deve
essere dinamico e variare con la stessa velocità con cui varia il valor medio della tensione di uscita
del pixel.
Fig. 4.19: Andamento temporale del piedistallo denominato “mediamobile”
Sottraendo la mediamobile al segnale originale non si perderà informazione ma si aumenterà
notevolmente quello che è il rapporto S/N del pixel in questione.
Il tutto risulta molto chiaro in figura 4.20. Solo adesso si ha un segnale elaborabile con i consueti
algoritmi per il calcolo degli eventi.
5
Fig. 4.20: Andamento temporale della tensione in funzione del tempo
Le fluttuazioni rumorose rimanenti non sono un problema perché proprio per definizione
dell’algoritmo sosteranno sotto il valore di soglia (in questo caso 7 mV). I valori di tensione
superiori a 7 mV rappresentano eventi.
Dopo questa spinta normalizzazione la distribuzione risulta molto più omogenea.
5
Fig. 4.21: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P1 dopo la sottrazione ai pixel rumorosi della mediamobile
quando la soglia è di 7 mV
La figura 4.21 dimostra la bontà dei vari algoritmi utilizzati ed eccezion fatta per i pixel perimetrali
si ha una discreta uniformità tra i vari pixel.
5
Fig. 4.22: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P1 dopo la normalizzazione del valor medio e della sigma
quando la soglia è di 4 sigma.
Anche in questo caso come ultima analisi si scelto di normalizzare tutti i pixel oltre secondo il valor
medio anche secondo la deviazione standard. La soglia impostata è di 4 sigma in modo da
selezionare solo eventi con un alto rapporto S/N.
Anche in questo caso dopo aver risolto tutti i problemi si è riusciti ad avere una distribuzione degli
eventi uniforme
5
Fig. 4.23: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P1 in funzione della loro caduta di tensione
Per quanto riguarda le cadute di tensione degli eventi si può notare dalla figura 4.23 come esse si
attestino mediamente intorno ai 27 mV. La distribuzione che le modella come al solito è una landau.
Dalla figura si nota anche che il chip arriva anche ad registrare cadute di tensione nell’intorno di
170 mV, anche se il grosso degli eventi rimane concentrato al di sotto degli 80 mV.
4.5
Matrice G1P0 Large
5
Come indicato dalla sigla nella matrice G1P0 Large si ha la presenza del guard-ring; contrariamente
alla G1P0 i pixel sono spaziati di 16 um l’uno dall’altro.
Fig. 4.24: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P0 Large quando la soglia è di 8 mV
Anche per questa matrice abbiamo una discreta uniformità per la distribuzione degli eventi. Come
al solito i pixel perimetrali sono molto rumorosi; ancor di più i pixel situati negli angoli della
matrice data la loro doppia esposizione al rumore esterno.
Anche in questa matrice ci sono colonne molto più rumorose delle altre. Lo si può notare molto
bene in figura 4.25, dove sono rappresentate le deviazioni standard medie di ogni colonna. Si può
notare un notevole parallelismo tra le colonne più rumorose della matrice G1P0 Large e quelle della
G1P0.
5
Fig. 4.25: Rappresentazione della sigma mediata tra tutti i pixel appartenenti a una stessa colonna
Per ovviare al solito problema portato dal rumore si ricorre alla normalizzazione del valor medio e
della sigma per ogni pixel.
Fig. 4.26: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P0 Large dopo la normalizzazione del valor medio e della
sigma quando la soglia è di 6,5 sigma.
5
Anche in questo caso la normalizzazione eseguita aumenta l’uniformità della distribuzione degli
eventi.
Per quanto riguarda la distribuzione delle cadute di tensione degli eventi si può notare dalla figura
4.29 come essa sia modellata da due Landau centrate in 17 mV e 50 mV.
Fig. 4.29: Distribuzione degli eventi nella matrice G1P0 Large in funzione della loro caduta di tensione
5
5
Conclusioni
L’intero studio eseguito su RAPS02 ha testimoniato come il chip sia sensibile a
fotoni con bassa energia. Nonostante la scelta di non utilizzare nessun strato
epitassiale per la realizzazione dei sensori di radiazione a matrici di pixel attivi, si è
dimostrato come il chip sia in grado di rilevare il passaggio di particelle ionizzanti,
caratterizzate da energie dell’ordine degli 8 keV, con un buon rapporto
segnale/rumore. Questo apre le porte all’utilizzo di questo sensore in campi come
l’imaging medicale, settore dove per definizione si lavora a basse energia, dato che
va salvaguardata la salute dei pazienti. Si è dimostrato anche come il passaggio di
particelle ionizzanti sia rilevato con una risoluzione molto elevata visto la piccola
dimensione dei pixel.
Con questo lavoro si è cercato anche di mettere in evidenza quelli che sono i limiti
del setup e del chip RAPS02 dato che nel futuro immediato sarà progettato un terzo
prototipo. In particolare si è visto come il segnale di uscita dei pixel sia soggetto a
vari disturbi; quello gaussiano, dovuto alla rumorosità del pixel e della catena di
amplificazione e un contributo dovuto a repentine fluttuazioni del segnale causate da
un eccessivo riscaldamento del chip in seguito a continui urti con fotoni
particolarmente energetici.
Personalmente questo lavoro mi è servito ad avvicinarmi ad aspetti fisici, quali
l’interazione tra fotoni X e materia, ma anche a questo mondo di sensori di
radiazione in continuo sviluppo. Senza considerare che questo studio mi ha permesso
di unire aspetti prettamente teorici con aspetti pratici, quali la messa a punto del
set-up ma anche l’analisi dei dati in MATLAB.
Infine spero che questo lavoro serva ad avvicinare sempre più gente a questo
progetto.
6
6
Appendice
Script Matlab
Oltre alla già ricca libreria di MATLAB per uno studio puntuale è stato necessario costruire una
libreria di funzioni capace di estrapolare le informazioni cercate dall’enorme mole di dati acquisiti.
CalcoloEventi
[file1,file2]=uigetfile('.txt');
fid=fopen(strcat(file2,file1),'r');
[d,count]=fscanf(fid,'%e');
acquisizioni=length(d)/1024;
d=reshape(d,1024,acquisizioni);
totpixel=1024;
soglia= X;
for i =1:totpixel
eventomv(i)=0;
for j=1:length(d(i,:))
if(d(i,j)>soglia)
eventomv(i)=eventomv(i)+1;
end
end
end
CalcoloEventi 2
file1,file2]=uigetfile('.txt');
fid=fopen(strcat(file2,file1),'r');
[d,count]=fscanf(fid,'%e');
acquisizioni=length(d)/1024;
k=1;
soglia2= X;
for i= 1:acquisizioni
temp=d(1+1024*(i-1):i*1024);
[massimo,Index]=max(temp);
if(massimo>soglia2)
eventi2(k)=Index(1);
massimo2(k)=massimo(1);
k=k+1;
end
end
6
Acquisizione
file1,file2]=uigetfile('.txt');
fid=fopen(strcat(file2,file1),'r');
[d,count]=fscanf(fid,'%e');
acquisizioni=length(d)/1024;
Numeroacquisizione=X;
Pixeliniziale=1+(Numeroacquisizione-1)*1024;
Pixelfinale=Pixeliniziale+1023;
acquisizione=d(Pixeliniziale:Pixelfinale);
hist(acquisizione,100)
acquisizione=reshape(acquisizione,32,32);
Valormediamobile
[file1,file2]=uigetfile('.txt');
fid=fopen(strcat(file2,file1),'r');
[d,count]=fscanf(fid,'%e');
acquisizioni=length(d)/1024;
d=reshape(d,1024,acquisizioni);
pixel= X;
soglia= Y;
for i=111:acquisizioni
mediatemp=mean(d(pixel,i-110:i));
valormediomobile(i)=mediatemp;
end
k=1;
temp=d(pixel,:)-valormediomobile;
for i=1:acquisizioni
if(temp(i)>soglia)
Segnaeventi(k)=i;
k=k+1;
end
end
for i=1:length(Segnaeventi)
c(i)=mean(d(pixel,( Segnaeventi (i)+1):( Segnaeventi (i)+11)));
end
for i=1:length(a)
if(c(i)>soglia)
temp(a(i))=0;
end
end
d(pixel,:)=temp;
6
CalcoloLandau
[file1,file2]=uigetfile('.txt');
fid=fopen(strcat(file2,file1),'r');
[d,count]=fscanf(fid,'%e');
acquisizioni=length(d)/1024;
d=reshape(d,1024,acquisizioni);
totpixel=1024;
corona=33;
for i=1:30
corona=[corona,32*i+32,32*i+33];
end
corona=[corona,1:32,994:1024];
soglia= X;
eventolandau=[];
k=1;
for i =1:totpixel
if(sum(corona==i)<1)
for j=1:length(d(i,:))
if(d(i,j)>soglia)
eventolandau(k)=d(i,j);
k=k+1;
end
end
end
end
hist(eventolandau,160)
Normalizzazione
[file1,file2]=uigetfile('.txt');
fid=fopen(strcat(file2,file1),'r');
[d,count]=fscanf(fid,'%e');
acquisizioni=length(d)/1024;
d=reshape(d,1024,acquisizioni);
totpixel=1024;
for i =1:totpixel
end
medio=mean(d(i,:));
sigma=std(d(i,:));
d(i,:)=(d(i,:)-medio)/sigma;
6
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