La cheerleader tremava nascosta nel ripostiglio delle scope. La

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La cheerleader tremava nascosta nel ripostiglio delle scope. La
La cheerleader tremava nascosta nel ripostiglio delle scope. La sirena continuava a
strillare, ma le grida fuori erano cessate. Si strinse le mani sulle orecchie, ma riusciva
ancora a sentire quelle urla terribili, coperta dallo scaffale dei detergenti. Non voleva
morire in quel modo. Non voleva crepare di paura lì dove il professore di chimica si
portava le studentesse per alzargli il voto. Lei era Claire Summers, brillante studentessa,
fidanzata perfetta, il più giovane capitano della squadra delle cheerleader che il suo liceo
avesse mai avuto. Doveva farsi coraggio e uscire, affrontare ciò che c’era là fuori.
Si tirò su, aggrappandosi tremante a tutto ciò che poteva, ringraziando che non se la fosse
ancora fatta sotto. Si sentiva tutta sudata e sporca. Quanto tempo era rimasta là dentro,
rannicchiata nell’angolo, mentre quella maledetta sirena continuava a strillare?!
Lentamente appoggiò la mano sulla maniglia, la strinse e l’abbassò. La porta emise un
lieve cigolio, mentre apriva uno spiraglio sulla prigione.
Il corridoio era deserto. Nessun segno di anima viva. Forse c’era ancora la possibilità di
farcela, di riuscire a fuggire: per farlo, però, doveva uscire dal suo nascondiglio e muoversi
allo scoperto fino alla porta in fondo a destra e scendere le due rampe di scale, verso il
piano terra. Doveva arrivare all’ingresso, l’unica uscita che non era stata bloccata. Ma
sarebbe riuscita a raggiungerla, senza che la trovassero?
Sì, sussurrò una vocina dentro di lei. Ma il tono di quella vocina aveva qualcosa di
maligno.
Fece un piccolo passo, esitando, come se stesse per mettere i piedi su una mina.
S’immaginò il suo corpo esplodere in mille pezzi e addobbare tutto il corridoio: una
decorazione “action painting” contornata da brandelli di carne, organi e stoffa
sanguinolenta della divisa da capitano, con il busto e la testa esplosa cerchiati da
un’aureola nera di polvere da sparo.
Fece un secondo passo e si vide di nuovo saltare in aria. Un terzo passo. Un quarto passo.
BUM! La porta del ripostiglio sbatté dietro di lei. Ebbe la tentazione di correre di nuovo là
dentro, invece corse nella direzione opposta, lungo il corridoio. Solo dopo aver svoltato
due volte, riuscì a fermarsi, a recedere dal panico e si rese contò che, invece di correre
verso l’uscita, si era inoltrata ancora più all’interno.
No, no, no, no, no, no, no, no, no, no, no, no, no, no, no.
Doveva calmarsi, calmarsi, calmarsi, ti prego, ti prego.
Sentì dei passi dietro di lei. Sentì chiamare il suo nome, o almeno pensò che lo fosse: quello
che sentì realmente fu un sorta di suono strozzato, come di qualcuno che stesse affogando
nel suo stesso vomito. Si girò.
Per un secondo credette di vedere il suo ragazzo, Freddy, sperò di vedere il suo ragazzo. I
suoi capelli neri, i suoi occhi azzurri, la sua mascella perfettamente squadrata. Lo vide che
veniva verso di lei, lento, con la bocca spalancata, come se si fosse appena alzato per
andare a fare colazione. Veniva verso di lei, zoppicante. Veniva verso di lei, con la caviglia
destra che poggiava sul pavimento, assieme a tutto il lato sinistro del suo piede. Veniva
verso di lei, con i vestiti strappati con forza dove avevano lasciato i segni dei loro morsi e
le costole esposte. Veniva verso di lei, oscillando come le vene del collo seccate e la testa
piegata verso destra, come quando cercava di concentrarsi. Veniva verso di lei, con le
braccia tumefatte protese in avanti, come quando voleva abbracciarla davanti a tutti.
L’afferrò con forza come quando litigavano. La sua bocca sbavante si chinò verso di lei
come aveva fatto baciando Rosy Foster, quando credeva di non essere visto. Oh, Freddy. I
suoi capelli neri incrostati nelle pieghe del cervello. I suoi occhi putrefatti che piangevano
lacrime di pus. La sua mascella lussata che si apriva verso uno dei suoi capezzoli. Oh,
Freddy.
La cheerleader afferrò quello che rimaneva della testa di Freddy e la schiacciò contro il
vetro infrangibile di uno dei pannelli dell’antincendio. Freddy non mollò la presa. Lei
sbatté di nuovo il suo cranio sul vetro che iniziò a mostrare le prime crepe. Le mani di
Freddy lasciarono la presa. Ancora, ancora, ancora, ancora. Il vetro cigolò un po’. Dal
cervello schizzò fuori sangue e altra materia grigia che andò a macchiare la divisa del più
giovane capitano delle cheerleader che il liceo avesse mai avuto. Le ricordò una crostata di
fragole. La poltiglia della faccia di Freddy scivolò contro il vetro, emettendo un buffo
suono, poi cadde sul pavimento come un bambolotto rotto.
La sirena continuava a strillare.
Capì in quel momento che non sarebbe mai stata al sicuro. Capì quanto fosse inutile
nascondersi in uno sgabuzzino dove il professore di chimica molestava le sue studentesse.
Capì che se voleva uscire da quella foresta di spine doveva aprirsi la strada con le sue
mani. Doveva vivere. Voleva vivere.
Guardò il pannello del vetro antincendio, frantumato come una lastra di ghiaccio, ma
ancora compatto. Dentro vide un’ascia di quelle che i pompieri usavano per farsi largo fra
i detriti infuocati. Farsi largo. Spinse il pannello in avanti, ma nonostante fosse piegato,
non aveva ancora ceduto. Gli sarebbe servito uno di quei martelletti che le ricordavano
tanto quelli usati per le lobotomizzazioni. Gli cascò l’occhio sul braccio inerte del cadavere
di Freddy. Si chinò e strinse la sua mano nelle sue, facendole poi scivolare fino ad
affondare le dita fra ulna e radio. Poggiò il piede sulla clavicola. Tirò. Pensò a Rosy Foster
e tirò. Il muscolo fece un po’ di resistenza prima di strapparsi. Quasi scivolò sullo schifo
che uscì dalla spalla. Soddisfatta iniziò a colpire il vetro dell’antincendio, finché non
cedette, cadendo sulla poltiglia della testa di Freddy.
Gettò via il braccio - ormai non serviva più - prese l’ascia. Era più maneggevole di quanto
pensasse. Buona per abbattere i rovi.
Aveva ancora paura, ma ora quella stessa emozione che prima la bloccava, le spruzzava
adrenalina dentro, la eccitava. Iniziò a muoversi per i corridoi, fino a che, girando un
angolo ne vide altri. Riconobbe i loro vestiti, riconobbe fra di loro Rosy Foster, Peter
Williams, Penny Stirling, e qualche altro. Annaspavano emettendo versi gutturali verso la
fine del corridoio, dandole le spalle. Pensò allo stanzino, dove il professore di chimica
faceva sesso con le studentesse che dovevano recuperare delle insufficienze. Pensò che
aveva un’ascia.
Uscì dall’angolo, camminando silenziosa verso di loro. Gli veniva quasi da fischiettare.
Non disse niente nemmeno quando piantò l’ascia nel cranio di Peter, mentre gli altri
cadaveri si voltarono. Le parve di vedere l’ombra di una sorpresa sgradita nelle loro orbite
putrefatte, come se avesse appena affettato una torta a sorpresa prima che la portassero al
festeggiato. La metà della torta cadde ai piedi di uno di loro, insieme al resto del corpo.
Dopodiché la cheerleader si avventò con l’ascia su Penny, tranciandole l’avambraccio e
conficcando la lama in mezzo al petto, rompendo le costole e facendo esplodere un
polmone. Quella troia le sporcò la scritta sulla divisa.
Si aiutò con il piede a disincastrare l’ascia e si abbatté sugli altri che le stavano venendo
incontro con le bocche spalancate. Le sembrò di fare a pezzi delle scope magiche. Quando
ebbe finito, si tolse un brandello di pelle dalla guancia, come asciugandosi una lacrima.
Sentì una specie di guaito dietro di lei. Rosy Foster. Le aveva mozzato gli arti, ma si era
dimenticata di concludere. Si avvicinò al busto inerme, che ancora agitava la testa senza
un senso, mentre mordeva la mano di Penny che le aveva messo in bocca mentre le
tagliava le gambe per farla stare un po’ zitta. Guardando i suoi poveri ricci insanguinati e
l’espressione ormai priva di umanità ne ebbe quasi pietà.
Poi gli sfondo la fronte con il tacco della scarpa.
La sirena strillò ancora più forte.
Arrivò finalmente alle scale. Si appoggiò un attimo al corrimano, sentendosi mancare.
Capì che il suo corpo era esausto. Fare a pezzi quei mostri doveva essere stato più
sfiancante di quanto avesse percepito. Non era sicura che sarebbe stata in grado di
utilizzare ancora quell’ascia, ma aveva scelta? Liberarsene l’avrebbe lasciata indifesa dagli
altri, che probabilmente l’aspettavano di sotto. Era convinta che anche quelle bestie
mirassero a voler uscire.
Improvvisamente le venne in mente quella volta che aveva consegnato ne ll’ufficio del
preside la coppa del campionato delle cheerleader. La sua mente aveva, non sapeva
perché, registrato la presenza di quella mazza da baseball in allumino “strong”, quella
usata dai battitori di potenza. L’ufficio si trovava al primo piano, ol tre la porta alla sua
destra. Era una deviazione necessaria. Sapeva che di sotto l’avrebbe aspettata l’inferno.
Aprì la porta e percorse il primo tratto trascinando l’ascia con sé. L’arma la stava
rallentando e, tranne la sirena che continuava a suonare, non sentiva altri rumori da
corridoi abbandonati, quindi decise di liberarsene. All’ufficio non mancava molto.
Svoltò l’angolo, poggiando una delle mani sporche sul muro dove erano stati dipinti degli
arabeschi verde scuro, che a Claire avevano sempre ricordato i rovi neri del sortilegio
lanciato da una strega. Ora che percorreva quel pezzo da sola, gli sembrò di essersi
smarrita in quel bosco. E si sentiva addosso gli occhi del lupo.
Come previsto, anche l’ufficio del preside era vuoto. Le sembrò di sentire puzza di cane
bagnato, ma si disse che probabilmente, prima di sparire, il vecchio doveva essersi fatto
uno dei suoi sigari. Non gli interessava. Con gli occhi cercò la mazza e la trovò accanto alla
coppa del secondo posto della squadra di football. Dovette arrampicarsi su una sedia per
prenderla, come aveva dovuto fare per sistemare il premio delle cheerleader, mentre il
preside le sbirciava sotto la gonna. L’afferrò e la strinse, godendo della sua lucentezza e
della sua leggerezza. L’alluminio e l’anima in vetroresina avrebbero sfondato anche un
muro prima di rompersi. Si, poteva farcela, pensò mentre scendeva dalla sedia. Sentì di
nuovo puzza di cane bagnato, prima di ritrovarsi il lupo davanti.
La sua figura la sovrastava oscurandola completamente, in piedi sulle zampe posteriori.
Aveva il corpo ricoperto completamente di peli neri, artigli aguzzi e il muso allungato da
cui gocciolava bava a terra, come lubrificando le sue zanne. Il muso allungato era tutto
protratto verso di lei. I suoi occhi erano braci, avidi di ogni desiderio.
Le scattò addosso talmente veloce, che la cheerleader non ebbe il tempo di reagire. Ebbe
appena l’istinto di portarsi davanti la mazza, che scivolò dentro le fauci della bestia,
andando a bloccarsi all’altezza dell’articolazione temporo-mandibolare. Si sentì spinta
indietro con forza come quando suo padre era ubriaco e andò a sbattere con la schiena
sulla scrivania. Il lupo artigliò la scrivania con le zampe anteriori, mordendo il bastone con
foga selvaggia , cercando di spezzare il metallo. La sua stupidità era quello che la salvava
dall’essere sbranata; per ora. Quando avesse ripreso un secondo di lucidità, la bestia
avrebbe cambiato bersaglio e l’avrebbe dilaniata dal basso ventre in su. Provò a sferrare un
calcio con la forza della disperazione, ma andò a vuoto, ottenendo solo di farsi bloccare a
gambe larghe dalle zampe della bestia. Le sue spalle cedettero e picchiò violentemente i
gomiti sul solido legno di quercia. Quanto avrebbero retto i suoi polsi prima di spezzarsi
sotto quella spinta? Ma che poteva fare? La bava delle bestia le cadeva sul viso, come
ributtante pioggia sudicia. Ringhiò e i suoi occhi le bruciarono tutta la sua disperata
capacità di resistenza. Poteva vedere la sua voglia libidinosa di affondare i s uoi denti nel
collo dove la vena arteriosa pulsava invitante. Era perduta, poteva solo arrendersi. Fa
quello che vuoi, non uscirò mai di qui.
La bestia emise un guaito. La cheerleader sentì liquido caldo caderle sotto il seno. Lo
sbalzo di temperatura le fece quasi venire lo stimolo di orinare. Lentamente la pressione
che la teneva schiacciata sul tavolo diminuì, fino a che non rimase solo il peso morto. La
bocca morse ancora due volte la mazza spasmodicamente, prima di arrestarsi: la lingua
rotolò floscia fuori dalla mascella. Quando si rese conto che il lupo stava crepando,
Cappuccetto Rosso guardò in basso e vide una lama scura e leggermente curva che usciva
dalla peluria nera. Dondolò un po’, prima di sparire dentro l’ampia ferita che aveva
provocato, dalla quale piovve una cascata di sangue scuro, non più contenuta in un cuore
malvagio, oramai spezzato a metà.
Spinse col braccio destro in alto, lasciando che quello sinistro cedesse. Il lupo scivolò lungo
il metallo, producendo il leggero fischio del dente che lasciava la sua traccia lungo tutta la
mazza. Cadde sotto la mensola appesantita da tutti i trofei della scuola.
Davanti a lei apparve un porco. Anche lui stava in piedi su due zampe ed era vestito come
fosse un essere umano, coperto da un lungo cappotto nero che toccava terra. Le ricordava
l’illustrazione di un libro che le era capitato in mano da piccola, che parlava di una fattoria
di animali parlanti, tranne per il fatto che aveva gli occhi piccoli e allungati. Fra le zampe
teneva una lunga spada giapponese, ancora sporca del sangue della bestia. Grugnì
qualcosa. Grugnì che le porte erano bloccate. Che avrebbero dovuto aprirsi la strada. Passò
a lei la spada e tirò fuori un fucile dal cappotto. Vide che sotto ne aveva altri e che aveva
anche molte munizioni. Sarebbero servite.
La cheerleader prese la spada e godette delle sua leggerezza e della sua eleganza. Un’arma
più letale e rapida, adatta a lei. Nella sinistra teneva ancora la mazza morsicata. Forse
avrebbe dovuto rimetterla al suo posto, fra i trofei del preside, vicino alla coppa che il
preside le aveva fatto sistemare là sopra, prima di palparle il culo. Guardò poi il lupo che
ancora gorgogliava, ancora vivo e paralizzato dalla paura e dal terrore, annaspante in un
lago di sangue e piscio. Guardò la mazza e la sbatté contro la mensola dei trofei, che
precipitò addosso alla bestia, con tutto il peso della falsa buona reputazione del liceo,
residuo di antiche glorie montate là sopra per rendere meno evidenti le bugie. Il lupo
aveva sempre amato i suoi trofei. Guardò il porco e gli fece cenno di andare. Lei lo avrebbe
seguito.
La sirena continuava a strillare.
Rapidi tornarono alle scale, senza trovare nessun’altra insidia. La cheerleader sapeva che
restava poco tempo, prima che arrivassero i suoi accompagnatori e contro di loro non
sarebbe servito a nulla lottare. Doveva riuscire ad uscire dalla prigione.
Le scale finirono e finalmente toccarono terra. La grande porta bianca, con le maniglie
antipanico rosse, sembrava l’ultimo confine da superare. L’ultima tregua, l’ultima
esitazione prima di cessare ogni riflessione, ogni interiorità, ogni umano freno alla
violenza. Perché solo con la violenza poteva abbattere i rovi. Lo sapeva lei, lo sapeva il
porco. La guardò con occhi pieni di tenerezza e non poté fare a meno di concedersi un
ultimo gesto di dolcezza, ispirato dalla pena che quell’animale le faceva. Baciò la sua
guancia, sorprendendosi di quanto fosse simile a tutte quelle che aveva già baciato in
passato, lei che lo aveva sempre considerato solo un porco e ancora lo vedeva come tale.
Poi, spinse il maniglione antipanico e la campana strillò con tutta la sua intensità.
Erano tanti stavolta, tutti volti decomposti che si girarono con le bocche spalancate al
rumore della porta che si apriva. Sembravano tremare dai loro spasmi, nel vedere la carne
di cui bramavano nutrirsi, con le loro labbra malevole. Non l’avrebbero mai avuta. Mai
più.
Il porco aprì il fuoco. I colpi esplosero dal mitragliatore assordanti come i fuochi di
Capodanno, solo che le luci erano sostituite da schizzi di sangue e brandelli di carne, che si
alzavano in alto roteando ovunque, tingendo l’aria della stanza con una sorta di nebbia
rossastra. Quando finì la scarica, cominciarono ad avanzare, senza aspettare che lo
facessero gli altri mostri. Il porco colpì la testa di uno col calcio del mitra, mentre la
cheerleader muoveva la spada come aveva visto fare nelle serie televisive che
appassionavano tanto Freddy. Oh, Freddy. Pensò a lui mentre squarciava la faccia
cadaverica di uno di loro, prima di portargliela via del tutto. Si fecero largo lungo il
corridoio, continuando a muoversi avanti, senza preoccuparsi di ucciderli, ma solo di
renderli inoffensivi. Nel farlo il porco non sprecò altre munizioni. Anche lui sapeva che
presto sarebbero arrivati, e a quel punto non avrebbero avuto scampo.
I corridoi finirono presto e arrivarono nella grande sala dove il preside aveva tenuto il
discorso di inizio anno e che ora non avrebbe mai più tenuto. Un vero peccato: quell’anno
il discorso aveva fatto letteralmente cagare.
Era piena. Gli studenti si erano raccolti lì, eseguendo alla lettera le indicazioni in caso di
allarme antincendio e lì avevano trovato la loro fine. Sarebbe stato impossibile arrivare
dall’altra parte anche usando tutte le munizioni. Se fossero finiti in mezzo a un gruppo di
loro, sarebbero stati facilmente sopraffatti. Il porco lo sapeva. Per questo usò il suo asso
nella manica.
Tirò la spoletta e lanciò in mezzo la borsa delle mele, che stava conservando per il loro
arrivo. La necessità lo aveva costretto. Idiota. L’afferrò e la spinse dietro il palco dove
Claire sarebbe salita fra meno di un mese per ritirare il suo diploma, se il mondo non fosse
esploso prima. E il mondo era esploso, scagliando pezzi di cadaveri ovunque assieme alle
schegge di legno del parquet. I muri tremarono come se fosse una scossa di terremoto. Il
boato fu così forte quasi da coprire lo strillo della campana. Quasi.
La cheerleader si tirò su barcollando. Il palchetto aveva assorbito tutte le schegge. Tutte
tranne una. Il porco rimase a terra, annaspando, dal lato destro del suo fianco usciva un
pezzo di legno acuminato. Guaì, consapevole di essere spacciato. I suoi occhi a mandorla
erano talmente sgranati che pensò quasi che sarebbero esplosi come la borsa di mele.
Grugnì qualcosa. Grugnì quello che sentiva. Anche la cheerleader sentì il co ro di voci
lontane che annunziavano il sopraggiungere degli araldi infernali. L’esplosione li aveva
evocati. Fece una carezza al maiale per rendergli più dolce quello che avrebbe dovuto fare
per lei. Doveva dedicare quegli ultimi minuti a lei. Grugnì. Lo avrebbe fatto. Sentì il
rumore dei suoi cacciatori che venivano a prenderla. Gli dette un bacio sulla fronte e lo
benedì, come solo un demonio può benedire. Corse via, verso l’ultima tappa della sua
fuga. E mentre sentiva dietro di lei la sparatoria gli venne da sorridere: pensò a come
sarebbe stato esilarante mettergli una delle sue mele in bocca, prima di mandarlo al
macello.
La sirena strillò ancora più forte.
L’ultima porta era chiusa, sigillata con una chiave. Per andarla a prendere svoltò a sinistra,
verso il sudicio bagno del piano terra, quello che usavano tutti. Non rimaneva altro rifugio
per l’ultimo mostro della prigione. Avanzò con calma, nonostante il rumore degli spari
alle sue spalle, nonostante l’esplosione avesse fatto partire gli irrigatori dell’impianto
antincendio, quasi un tentativo del liceo di ripulire la mattanza che la cheerleader aveva
lasciato dietro di sé. Non le dispiaceva. Lasciò che l’acqua la bagnasse, ma non che la
ripulisse. Non era ancora il momento. L’ultimo mostro l’aspettava più avanti.
L’entrata del bagno delle ragazze era socchiusa. Il dislivello nel pavimento faceva si che un
fiumiciattolo di sangue, acqua e sudicio scorresse verso l’interno quasi come un
suggerimento in un videogioco. Lo seguì.
Lui era lì, rannicchiato in un angolo come una ragazza spaventata nel ripostiglio dove quel
surrogato di essere umano portava le studentesse più carine, casualmente le meno capaci
nella materia. I capelli grigi sempre in perfetto ordine quando sudava, quel ciuffetto che lo
faceva adorare dalle troiette del primo anno, ora era completamente sfatto dall’acqua che
gli cadeva addosso come uno sputo. Il volto era contratto e terrorizzato, non aveva niente
del sorriso soddisfatto che assumeva mentre sottometteva le sue studentesse insufficienti.
Sparito anche quello. Lo camicia bianca, che cadeva sul loro capo quando le costringeva ad
ingoiare, era tutta sporca e madida di sudore. Non sempre servono sembianze orribili per
essere dei mostri.
Quando la vide la chiamò per nome, come se avesse visto un angelo salvatore: disse che si
era nascosto lì quando il porco aveva iniziato a sparare, appena l’allarme era suonato,
disse che dovevano scappare, che poteva avere dei complici. Quando vide la katana, quel
tono di voce sparì e fu sostituito da un inizio di terrore dato dalla consapevolezza. Povero
professore, gli era sempre piaciuto giocare. Probabilmente quel gioco non gli sarebbe
piaciuto così tanto. Sorrise. La sirena strillò così forte che le sue orecchie probabilmente
iniziarono a sanguinare.
La cheerleader non seppe rispondersi quando si chiese quanto tempo fosse passato
quando uscì dal bagno. Fuori tutto taceva, non sentiva alcun rumore, come se tutto fosse
scomparso, come se tutti fossero finalmente morti. Meglio. Il silenzio era bello. Passò sotto
gli idranti che ancora gettavano acqua, stavolta lasciandosela scorrere addosso come a
lavare l’orrore che aveva vissuto. Aveva lasciato il buio della disperazione, chiusa nello
stanzino dove l’avevano rotta. Era uscita in un mondo che aveva visto per la prima volta
per quello che era, oltre l’illusione che li rendeva tutti prigionieri: una prigione per morti
viventi, pronti a divorarsi l’uno con l’altro, mentre i veri mostri facevano di loro ciò che
poteva appagare il loro perverso senso di superiorità, protetti dall’allucinazione racchiusa
nella sfavillante luce del miglior liceo del paese. Aveva visto che in quella luce si
nascondeva il buio assoluto.
Ma dalle tenebre era rinata. Aveva guardato negli occhi la verità e l’aveva accettata,
ascendendo da quell’infimo stato di cadaveri ambulanti, fino a spalancare le sue ali
dannate. Il porco, il piccolo maniaco asiatico che l’aveva accompagnata verso la sua ascesa,
era stato il suo primo schiavo che aveva liberato: forse lui, emarginato da tutti, aveva già
intravisto oltre la menzogna e per questo aveva obbedito ai suoi ordini senza mai chiedere
niente. Lei gli aveva dato ciò che aveva sempre desiderato, dannandosi l’anima. Sperò di
rivederlo quando i suoi accompagnatori l’avessero trovata. Li sentiva in lontananza e
aveva deciso di andargli incontro. Ormai aveva fatto a pezzi l’ultimo sigillo che la teneva
prigioniera là dentro, lasciando una scena che nessuno sarebbe stato in grado di vedere
senza perdere qualcosa di sé. Mentre stringeva la spada nella destra e la testa del suo
carceriere nella sinistra, si chiese cosa sarebbe successo se, quando aveva avuto l’ultima
crisi e si era nascosta nel ripostiglio, nel momento in cui la sirena aveva i niziato a gridare,
si fosse suicidata come aveva pensato nel buio profondo. La prigione sarebbe continuata
ad esistere per secoli e tante anime innocenti come la sua sarebbero andate perdute
nell’oblio. Era stato quando aveva schiacciato la testa di Freddy contro il vetro antincendio
che aveva capito: piuttosto che cadere nel vuoto era meglio bruciare all’inferno. Così era
fuggita.
La sua ultima porta. L’ingresso. Sorrise, felice. Fuori l’aspettavano i cacciatori, con le loro
pistole puntate e i lampeggianti accesi. Non si aspettavano che uscisse e si spaventarono
alla sua vista. Ne godette. Gridarono qualcosa, ma ormai lei non li sentiva più: era quasi
da un’altra parte, le serviva solo una spinta. Lasciò cadere la testa e fece per lanciarsi
contro i macellai del suo porco. Un centinaio di colpi attraversarono il suo corpo,
distruggendo completamente il suo ultimo involucro, la sua ultima prigione. Libera fra le
fiamme, libera nell’oscurità. L’anima dannata della cheerleader cadde. E rise.
La sirena tacque.