Schiele - Relazione

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Schiele - Relazione
L’IMAGO DELLA MADRE MORTA
Il lavoro del lutto nella vita e nell’opera di Egon Schiele.
Dott. Marcello Pedretti
Egon Schiele allo specchio
1915
Rudolph Leopold, direttore artistico del Leopold Museum di Vienna, ha scritto per la mostra del
2010 a Milano “Schiele e il suo tempo” queste parole: “Punto nodale dell’arte di Schiele è
l’introspezione psicologica: la figura e il volto dell’individuo sono il luogo della espressione e del
sentimento con la stessa intensità; Schiele ha anche creato paesaggi trasformati in visioni
cosmiche di rara forza espressiva”.
Egon Schiele nasce a Tullin, cittadina vicino a Vienna nel 1890 da madre casalinga, il padre è un
direttore delle ferrovie regie. È il quinto di sei figli, i primi due morti durante il parto. La sorella più
grande Elvira muore quando lui ha tre anni. Il padre muore nel 1905, quando Schiele ha 15 anni,
dopo tre anni di disturbi neurologici con paralisi progressiva e demenza. Nel 1915 gli restano due
sorelle. Con la madre trattiene da anni un rapporto pieno di contrasti. Egon Schiele non accetta un
ruolo subalterno, si sente al di sopra della madre, artefice della sua vita e responsabile delle scelte
familiari.
Da un punto di vista artistico Schiele è uno degli esponenti di spicco della Secessione viennese,
movimento che si oppone alle convenzioni accademiche che avevano dominato l’ottocento.
All’inizio affascinato dall’opera e dalla personalità di Gustav Klimt si stacca però fin dall’inizio dallo
Jugendstil, il corrispettivo viennese dell’Art Nouveax e del Liberty, dando più importanza alla
espressione dei vissuti emotivi che ai materiali e alla decorazione. Pittore espressionista egli però
non si lascia rinchiudere nell’espressionismo e verso la fine della sua vita la sua poetica vira verso
una maggiore attenzione alla realtà.
Rudolf Leopold scrive nel 1984 in occasione della mostra a Venezia “Le arti a Vienna. Dalla
Secessione alla caduta dell’Impero asburgico”:
“[I dipinti di Schiele] sono dipinti in cui l’impressione soggettiva viene sublimata a un valore
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universale. L’autunno diventa in lui simbolo della transitorietà degli uomini e delle cose. Gli stati
d'animo e i sentimenti si trasformano in immagini visionarie cariche di significati universalmente
umani e che riescono a coinvolgere lo spettatore con assoluta immediatezza. Anche ai soggetti più
abituali Schiele riesce a conferire un nuovo contenuto. La sua vita e la sua sofferenza, che
trapassano sulle tele, sono quelle di un eletto che riesce a vedere là dove altri non vedono, che
compie ciò che ad altri non riesce. Proprio nel passaggio senza rotture dallo Jugendstil (viennese)
all'espressionismo consiste 1'importanza di Schiele nella storia dell' arte. Otto Benesch, che fin
dall'infanzia, e attraverso il padre, ebbe familiarità con i lavori di Schiele, lo ha definito, con ragione, «uno dei più geniali disegnatori di tutti i tempi». Pochi artisti dopo di lui sapranno riprodurre
elementi sia formali che emozionali servendosi del solo disegno, e spesso esclusivamente del
contorno. II suo registro espressivo era talmente ricco che avrebbe potuto benissimo rinunciare al
colore senza farcene sentire la mancanza. Schiele però non fu soltanto un geniale disegnatore, fu
anche un importante maestro del colore al quale si farebbe un grave torto se si considerasse
l'aspetto pittorico quale semplice riempitivo di aree delimitate dal disegno o come pura
manifestazione di qualità emozionali. Se la rispondenza emotiva del colore ha un'importanza
decisiva, non va comunque trascurata la sua funzione strutturale nella composizione.
Precursore dell' espressionismo, e non solo di quello viennese, uno dei suoi membri più
rappresentativi, già dal 1916 si orienta verso un gusto più naturalistico, e se come espressionista
ha dato il meglio di sé nel periodo dal 1910 al 1915, anche allora non volle legarsi a nessuna
tendenza, precludersi alcuna possibilità. Le strade percorse e i mutamenti di rotta stanno a
confermare la vitale maturità della sua arte. A Schiele non interessava l'appartenenza a un
determinato gruppo, interessava solo l'arte, esprimersi”.
Schiele, parlando degli artisti, di sé come artista, dice: “Gli artisti colgono abili la grande luce
vibrante, il calore, il respiro degli essere viventi, quel che appare e scompare. Intuiscono la
somiglianza delle piante con gli animali, e degli animali con l’uomo, e la somiglianza dell’uomo con
Dio. […] la religione è per loro un grado di percezione. […] riescono a superare la pena,
esteriormente, ma essa dentro scava e duole inquietante. […] La loro lingua è quella degli dei e qui
essi vivono in paradiso. Questo mondo è il loro paradiso. Tutto è canto e immagine di Dio”.
Il lavoro presente, pur concentrandosi sulla vita e sull’opera di Schiele e ipotizzando il percorso
intimo dell’artista, si distanzia nettamente da un percorso psicoanalitico, percorso che pone al
centro la relazione terapeutica e i vissuti transferali e controtransferali. È infatti all’interno delle
risonanze profonde tra lo psicoanalista e il suo paziente che si apre progressivamente una
possibilità di senso. Qualsiasi lavoro di tale tipo richiederebbe la presenza attiva dell’artista, una
sua richiesta di aiuto per un malessere interiore e/o relazionale, oppure la richiesta di sostegno a
un percorso di autoconoscenza. I vincoli del segreto professionale renderebbero inoltre Schiele
stesso l’unico autorizzato a diffondere gli esiti di tale lavoro.
Questo lavoro si presenta quindi come una riflessione sui temi della rappresentazione artistica,
sulla presa di distanza da angosce profonde attraverso il contenimento dato dalle opere, sui
percorsi della sublimazione, come riorganizzazione dei conflitti profondi attraverso la scelta di
mete e ruoli socialmente condivisibili, sull’opera artistica come possibile momento trasformativo
oltre che sensibile indicatrice delle trasformazioni in corso.
Lavoro da molti anni come psicoterapeuta, con pazienti spesso difficili e con storie di lutti
personali o familiari non elaborati, e negli ultimi anni come facilitatore in un gruppo di auto
mutuo aiuto dedicato all’elaborazione di lutti difficili dal nome “Affrontare le prove della vita”.
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Lavoro da molti anni come psicoterapeuta, con pazienti spesso con lutti irrisolti nel loro passato, e
negli ultimi anni come facilitatore in gruppo di auto mutuo aiuto dedicato all’elaborazione di lutti
difficili. Egon Schiele mi è venuto incontro un po’ alla volta mentre cercavo immagini che
potessero tradurre e rappresentare emozioni che si erano accumulate in me, immagini che
potessero sostenere il pensiero, possibilità di comunicazione.
Presento in particolare tre opere: Amicizia (1913), Colui che vede sé stesso (1911), La madre morta
(1910), nell’ordine in cui mi si sono presentate, ricche di suggestioni.
Guardando Amicizia (1913) è riemerso in me il racconto di una donna del gruppo: “Avevo deciso
di suicidarmi e una vicina mi ha fermata sulle scale e mi ha invitata a entrare a casa sua e a
prendere un caffè. A un certo punto mi ha detto: - Ho visto nei tuoi occhi lo stesso sguardo che
percepivo nei miei il giorno che ho tentato di suicidarmi - ”.
Con Colui che vede sé stesso (1911), è riemerso un altro racconto pieno di dolore: “Cammino,
parlo, faccio tutto quello che devo fare, che mi hanno insegnato a fare, ma dentro sono morta”.
L’incontro con la morte interiore è una evenienza spesso presente nei gruppi di elaborazione del
lutto e l’elaborazione della stessa richiede un dolorosissimo accesso al proprio essere rimasti vivi,
sentito come tradimento per l’oggetto morto, un oggetto a cui era stato affidato il compito di
riempire i “buchi” della propria mente, un oggetto mai percepito come completamente separato
da sé.
Il quadro La madre morta (1910) ha significato per me una serie di domande:
• Cosa succede a un bambino quando si confronta con una madre apparentemente viva, ma
assente affettivamente, dentro di sé morta, tutta presa in un altrove?
• Quale immagine della madre il bambino mentre cresce poterà dentro di sé e come questa
immagine interagirà con la sua vita, con le sue relazioni?
André Green, nel suo saggio del 1980 “La madre morta”, descrive cosa comporta per una persona
portare dentro di sé, a livello inconscio, l’immagine di una madre affettivamente assente, perché
impegnata in un proprio lutto, una madre che in quanto viva e presente non può essere lasciata
andare e in quanto affettivamente morta non è di sostegno.
Al centro non sono gli aspetti depressivi, ma quelli narcisistici, con un iperinvestimento
compensatorio dell’Io. Il bambino privo di un adeguato investimento affettivo da parte della
madre cercherà di compensare la carenza attraverso una esagerata valorizzazione del proprio
sentire e del proprio agire.
Il contrario dell’odio e dell’amore è infatti la tendenza a “zero”, come destrutturazione dell’Io,
esperienza di vuoto. Ciò che è importante è che la perdita di amore si associa a una perdita di
senso che il bambino tenterà per tutta la vita di riparare.
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Nuovi oggetti possono essere scelti per occupare tale vuoto, ma ogni ferita da parte dell’oggetto o
cedimento dell’Io, in rapporto a una frustrazione, si manifesta con l’allucinazione affettiva della
madre morta, cioè come assenza sostanziale, gabbia di dolore.
André Green descrive come, in questa circostanza, tutta la vita si organizzi in tre direzioni:
• Tenere vivo l’Io. Questa direzione può manifestarsi sia come iperinvestimento dell’Io a
scapito dell’oggetto, sia come ricerca di piacere eccitato, erotizzazione dei corpi, sia come
ricerca di senso, tentativo di dare significato a quelle che nell’esperienza personale si
presentano come aree prive di senso.
• Rianimare l’oggetto morto: interessarlo, distrarlo, farlo ridere, coinvolgerlo
• Competere con l’oggetto del lutto nella triangolazione precoce, all’interno di una fantasia
in cui la capacità di amore della madre è assorbita da un oggetto non morto, ma vivo e
idealizzato.
L’opera artistica di Schiele, opera che inizia a presentare una sua autonomia dal 1910, all’età di soli
20 anni, riprende come potremo vedere molte di queste tematiche e anche se, con il passare del
tempo alcuni tratti sembrano affievolirsi, permane una malinconia di fondo.
Il lavoro presente, pur concentrandosi sulla vita e sull’opera di Schiele e ipotizzando il percorso
intimo dell’artista, si distanzia nettamente da un percorso psicoanalitico, percorso che pone al
centro le risonanze emotive profonde tra lo psicoanalista e il suo paziente. Si presenta invece
come una riflessione sui temi della rappresentazione artistica, sulla presa di distanza da angosce
profonde attraverso il contenimento dato dalle opere, sui percorsi della sublimazione, come
riorganizzazione dei conflitti profondi attraverso la scelta di mete e ruoli socialmente condivisibili,
sull’opera artistica come possibile momento trasformativo oltre che sensibile indicatrice delle
trasformazioni in corso.
Vediamo ora alcune brevi sequenze, in cui le opere sono disposte per tematiche e in senso
temporale.
Per primo riprendiamo le rappresentazioni della madre.
Se riprendiamo “La madre morta” del 1910 possiamo vedere il contrasto tra la
luce in cui è avvolto il feto, una luce che più che essere una qualità
dell’ambiente sembra essere una proprietà del feto stesso, una capacità di
illuminare anche gli spazi più oscuri, e l’ombra in cui è immersa la madre.
Osserviamo anche gli occhi aperti del bambino e quelli chiusi della madre.
Notiamo infine come il feto si presenta all’interno di uno spazio chiuso,
affacciato al mondo senza esserne parte, la mano quasi staccata dal corpo, di
un altro colore, sproporzionata, forse alludendo alla mano dell’artista, alla sua
capacità di dare rappresentazione a ciò che si muove e appare nel profondo, e
nello stesso tempo quasi appoggiata a un invalicabile vetro. Di fronte a questo quadro come non
pensare ai lutti della madre di Schiele: i due figli morti alla nascita, la figlia maggiore morta quando
Schiele aveva tre anni? Come non pensare al mare di dolore che attraversa la sua vita?
Propongo ora una breve sequenza di rappresentazioni della madre e in particolare: Madre e
bambino (1910), Madre cieca (1914), Madre con due figli III (1917).
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Possiamo nel primo quadro, sempre del 1910, vedere come il tema della madre morta si declina
come rifiuto, malevolenza, un tema presente anche in altri quadri. Al tentativo di aggrapparsi del
bambino, corrisponde il corpo girato della madre, il rifiuto del seno, uno sguardo pieno di astio.
All’assenza di un affetto positivo corrisponde l’erotizzazione del contatto, una erotizzazione che si
estende a tutto il corpo della donna. Ciò che non si può amare, ma neanche lasciare, viene
erotizzato.
Nel 1914 la rappresentazione cambia, il bambino può succhiare il seno, il corpo della madre è
disponibile, e la distanza è qui segnata dalla cecità. Tutta la scena, avvolta nella penombra di una
stanza, parla di solitudine, di isolamento, un isolamento a cui si contrappone solamente la
concretezza dei corpi.
Il quadro del 1917 presenta una madre accudente, che tiene vicino a sé due bambini piccoli: ciò
che colpisce in questa scena è la dimensione di autosufficienza e isolamento delle relazioni madrebambino, se la madre era prima in un altrove, ora sembra riprendere vita e vigore nel rapporto
con i propri figli. Vedremo più avanti come questo processo si completi con la comparsa della
figura dell’uomo, del padre, nel quadro “La famiglia” del 1918.
È un processo lento in cui l’imago della madre, la rappresentazione interna della stessa, va
incontro a un processo di trasformazione. È un processo che si accompagna da punto di vista
pittorico al passaggio da rappresentazioni prevalentemente interiori a rappresentazioni che
tengono maggior conto della realtà esterna.
Prima di approfondire il tema della influenza della imago della madre sulla vita e le opere di
Schiele desidero portare l’attenzione su un momento particolarmente delicato della vita affettiva
di Schiele: la morte del padre dopo una lunga e invalidante malattia.
Una lirica di Schiele, che ci parla della sua infanzia e adolescenza, un breve commento al quadro
Gli eremiti del 1912 e un frammento di una lettera del 1913, ripresi dalle sue lettere, ci
introducono al tema.
Schizzo per uno autoritratto
Da paesaggi pianeggianti con viali primaverili e da furiose tempeste ho assorbito le impressioni
dell’infanzia che si perpetuano nell’immaginario. In quei primi giorni era come se già sentissi e
odorassi
i fiori prodigiosi,
i giardini muti,
gli uccelli, nei cui occhi lucenti mi vedevo rispecchiato
in sfumature rosa.
Spesso mi si inumidivano gli occhi all' arrivo dell' autunno.
Quand'era primavera sognavo la musica universale della vita,
poi mi rallegravo della splendida estate e ridevo, immaginando il bianco inverno nel suo pieno
fulgore.
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Fino ad allora vissi felice, in una felicità mutevole, ora serena, ora malinconica,
poi iniziarono i giorni del dovere e le scuole senza vita, scuola elementare a Tulln, ginnasio a
Klosterneuburg. Giunsi in città sconfinate che sembravano morte e mi compiansi.
In quel tempo assistetti alla morte di mio padre.
I miei rozzi insegnanti mi furono sempre nemici. Loro e altri non mi capivano. Il sentimento più alto
è quello della religione e dell’arte. La natura è funzione; ma Dio è là, e io lo sento intensamente,
molto intensamente, con la massima intensità. Credo che non esista un'arte «moderna»; c'è solo
un'arte, che non conosce interruzioni.
A proposito del quadro Gli eremiti, Schiele scrive il 7/02/1912: “Non è un quadro che sono riuscito
a dipingere dall’oggi al domani, ma nasce dalle vicende di alcuni anni, a cominciare dalla morte di
mio padre; ho dipinto più una visione che immagini riprese da disegni. Se tu sapessi ….. quanta
falsità ….. devo dipingere quadri del genere che hanno valore soltanto per me. È nato solo dalla
mia interiorità”.
In una lettera alla madre del 12/07/1913 scrive ancora: “Mi addolora ricevere rimproveri in tale
misura, senza che si conoscano le mie tristi esperienze. - Per questo ti scrivo; anche Gerti non sa,
sebbene si possa credere che la mia esistenza sia delle più liete, quante dure sofferenze morali io
debba sopportare. Non so se ci sia veramente qualcuno che ricordi con altrettanta malinconia il
mio carissimo padre; non so chi può capire perché io vada in cerca proprio dei luoghi dov'e stato
mio padre, e dove rivivo dentro di me il dolore in ore di grande tristezza. - Credo all'immortalità di
ogni essere, credo che un ornamento sia solo esteriorità, il ricordo, intessuto con maggior o minor
forza, lo porto in me. - Perche ho dipinto delle tombe? e molti quadri analoghi? - perché è qualcosa
che continua a vivere nella mia interiorità”.
Possiamo da questi scritti e dall’opera Gli Eremiti intuire alcuni movimenti
dell’animo di Schiele. Un orientamento precoce verso la natura, la madre
ambiente, con caratteristiche di partecipazione fusionale, un profondo
dolore per la morte del padre, un padre idealizzato, che contrasta con le
figure dei maestri e degli insegnanti, percepiti come ostacolo alla sua
relazione privilegiata con la madre ambiente.
L’autore rappresentandosi in primo piano, con Klimt accanto in secondo
piano, rappresentando entrambi come eremiti, ci parla a della
idealizzazione di sé e del padre, in questo caso Klimt. Propongo qui che il lutto per la morte del
padre vada a risvegliare un lutto molto più antico, il lutto per la presenza di una madre
affettivamente assente, almeno in alcuni momenti della sua infanzia. La psicoanalisi per altro ci
insegna che ove prevalgano gli investimenti compensatori sulla madre natura e l’idealizzazione del
padre ha a sua volta caratteri compensatori, è più difficile l’accesso a una immagine realistica di
sé.
Tematiche presenti nell’opera di Schiele e compatibili con l’imago inconscia della madre morta
sono la grandiosità e l’aspetto oscuro, malinconico.
Come esempio di grandiosità, di superinvestimento compensatorio dell’Io, presento i quadri: Il
Profeta (1911), La sacra famiglia (1914), Manifesto per la Galleria Arnot (1915).
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Ne Il Profeta il tema della grandiosità si coniuga con il tema melanconico, il
personaggio di luce in primo piano si confronta con un doppio di morte.
Evidenti sono i collegamenti formali con Colui che vede sé stesso (1911),
chiamato anche L’uomo e la morte, ma anche al quadro Gli eremiti.
Su un piano più superficiale il collegamento va alla morte del padre, al padre
idealizzato e oramai morto, doppio tenuto in vita attraverso l’idealizzazione di
sé, ma su un piano più profondo la grandiosità è collegata alla fusione con la
madre natura idealizzata, fusione necessaria per contrastare il potere
mortificante dell’imago della madre morta.
La grandiosità si presenta come compenso, unica possibilità di vita. L’artista diviene così il profeta,
colui a cui è affidata la responsabilità di indicare una strada ai comuni mortali, in grazia di un
sentire e di una potenza espressiva particolari.
Il secondo quadro (1914), rappresentazione della Sacra Famiglia, segna una
profonda trasformazione del tema madre-bambino. La triangolazione padre –
madre – bambino, qui presente, sembra immersa in una dimensione tragica: la
madre deve allontanarsi dal padre per proteggere il proprio bambino. Le mani
del padre, pur nella loro funzione di indirizzare lo sguardo verso la madre,
presentano dita rigide come pugnali e sono accompagnate da uno sguardo
duro. La madre sembra spaventata, in fuga, con una mano si difende, con
l’altra cerca di contenere e proteggere un feto, per sua natura un “non ancora
nato”, ma qui rappresentato come il futuro Salvatore del mondo. Mentre il tema messianico
continua il tema della grandiosità, il contrasto tra la figura del padre e quella della madre sembra
alludere a una rappresentazione primitiva in cui la madre o è del padre, e quindi indisponibile al
figlio, o è del figlio, e quindi indisponibile al padre.
L’ultimo quadro scelto per rappresentare il tema della grandiosità è il
manifesto per l’esposizione delle sue opere alla Galleria Arnot di Vienna,
effettuata nel 1915.
Il tema della grandiosità è qui associato al tema della persecuzione, del
martirio. L’artista si raffigura come un novello San Sebastiano, come un santo,
che dona la sua vita per amore in un mondo dove l’amore non è accettato,
dove prevale l’aridità del cuore, la chiusura delle menti, dove la vita è sentita
come pericolo, in quanto destabilizza ogni equilibrio basato sulla
conservazione del potere.
A differenza dei quadri di San Sebastiano in cui generalmente il santo è rappresentato legato a un
palo o a un albero, le braccia aperte ricordano Cristo in croce.
Come esempio del lato oscuro ho scelto due quadri: uno del 1911, Colui che vede sé stesso,
chiamato anche L’uomo e la morte, e uno del 1912, Albero dietro barriera.
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Il primo è caratterizzato da una immagine in primo piano quasi tenuta ferma da una mano e dietro
e accanto a questa figura, altre immagini devitalizzate. È qui presente un senso di blocco che si
traduce in una progressiva mortificazione e nello stesso tempo un disperato tentativo di sfuggire
alla stessa.
Mi viene invece spontaneo associare il secondo quadro con alcune parole tratte dagli scritti di
Schiele: “Nel più profondo dell’animo, con tutto il proprio essere e il proprio cuore si percepisce un
albero autunnale in estate; vorrei dipingere questa malinconia”.
Andrè Green associa il tentativo di tenere vivo l’Io, in presenza dell’imago della madre morta,
oltre che all’iperinvestimento dell’Io a scapito dell’oggetto, alla ricerca di un piacere eccitato e alla
ricerca di senso.
La ricerca di senso, nell’opera di Schiele, investe all’inizio i corpi più che le persone: il proprio
corpo, innumerevoli sono gli autoritratti, il corpo della donna. Dove l’anima è impedita, il corpo
diviene padrone, il garante della vita. Sono corpi erotizzati, dinamizzati,nella maggior parte dei casi
privi di rapporti con altre immagini. Possiamo notare che i corpi, all’inizio semplici
rappresentazioni, acquistano con il passare degli anni una maggiore pienezza come a volere
lasciare spazio alla persona.
Osserviamo ora più nel dettaglio alcuni autoritratti.
Inizio con due autoritratti del 1910. Nel primo il corpo si staglia sul
foglio bianco, privo di relazioni, in una dimensione assoluta, senza
storia e disponibile a ogni storia. È un corpo incompleto, la mancanza
dei piedi rimarca la mancanza di appoggio, il capo è reclinato in
avanti, le braccia sono ripiegate come a protezione, non si vedono le
mani come ad alludere a una impossibilità di contatto. È un corpo
sessuato, ma privo di ogni possibilità, anche ove i desideri sessuali
fossero presenti la totale assenza di relazioni ne impedirebbe una
realizzazione se non in fantasticherie private.
È un disegno pieno di angoscia, quella angoscia sempre presente ove
manca una base sicura, un appoggio affettivo che funzioni da specchio al
proprio esistere, il sostegno di una mente che si presti a dare senso alle
frustrazioni, ai distacchi, alle percezioni perturbanti che accompagnano la spinta
del bambino verso una esperienza di vita e di identità personale, dove manca
uno spazio relazionale, di gioco, in cui possa realizzarsi contemporaneamente
l’illusione di essere uno con l’altro e l’esperienza del diverso.
Nel secondo centrale è il tema della masturbazione conseguenza da un lato
della povertà di relazioni, dall’altro espressione di un tentativo di compenso
eccitato al senso di solitudine. L’erotizzazione del proprio corpo diventa l’unica
risorsa disponibile. Il corpo diventa oggetto, un oggetto che dona piacere, viene
a occupare il posto dell’oggetto che si è sottratto alla relazione, divenendo per contrasto un
oggetto sempre disponibile e usabile.
Tutto ciò si scontra però, come dice Schiele stesso, con i tabù sociali, i quali non vogliono che si
parli di sesso e ancor meno di mancanza di relazioni. Possiamo quindi capire come questo
autoritratto turbasse i suoi contemporanei. Anche in un tempo come il nostro dove la sessualità è
esibita, perdura un senso di fastidio, il fastidio collegato con il dolore collegato all’assenza di
relazioni,alla frustrazione dei desideri.
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Presento ora due autoritratti, uno del 1913 e uno del 1917.
Nel primo, Schiele emerge come un lottatore. Tutto in lui è movimento, come a contrastare un
senso di morte profondo: movimento del corpo, mani pronte alla presa, gioco dei muscoli, un
gioco di linee colorate, che più che rappresentare la realtà, rimanda a movimenti profondi,
vorticosi dell’animo. È questa un’altra strada che può prendere l’erotizzazione del corpo, il corpo
diventa il depositario della vita, a lui viene affidato il tentativo di contrastare la forza dell’oggetto
morto.
Nel secondo che riprende molte delle tematiche precedenti come l’incompletezza della figura, il
dinamismo della stessa, possiamo per altro notare il comparire di una base, il lenzuolo bianco,
tema ricorrente nelle opere di questo periodo, e una migliore definizione della persona, che
contrasta con il precedente prevalere dei moti interni dell’animo.
Possiamo notare l’erotizzazione dei corpi anche in questi tre disegni di figure femminili e, anche in
questi, un processo evolutivo e trasformativo parallelo a quello degli autoritratti. Presento qui
Ragazza dai capelli neri (1911), Ragazza in posizione seduta (1914), Nudo femminile (1917).
Porto l’attenzione in particolare sul primo disegno, quello del 1911. Una figura che sembra quasi
cadere all’indietro, priva di appoggio, priva di mani per difendersi o aggrapparsi, priva di punti di
riferimento, e, in questa assenza, la gonna rialzata e il rosso dei genitali, aperta a ogni possibile
abuso. Anche qui l’erotizzazione, copre una mancanza, il corpo diventa il depositari di tutte quelle
verità che la povertà delle relazioni ha reso inaccessibili.
Nel disegno del 1914 e nella figura del 1917, osserviamo il passaggio dalla centralità dei genitali
esibiti e del seno parzialmente protetto, sottratto allo sguardo erotizzante, alla centralità di una
persona dotata di un corpo sessuato .
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In questa ricerca di senso, che trova il suo appoggio nell’osservazione del proprio corpo, del corpo
della donna, sono presenti anche rappresentazioni relazioni eterosessuali e omosessuali femminili.
Presento alcuni quadri e disegni: Uomo e donna (1914), Due ragazze in posizione intrecciata
(1915), Abbraccio (1917).
Nel quadro del 1914 prevale il tema mortifero, completa è l’assenza di relazione, i colori sono
spenti, ciò che viene rappresentato è una possibile, ma non certa soddisfazione dei sensi, sia
l’uomo che la donna sono più oggetti che persone. Le due donne avvinghiate riprendono il tema
del movimento, un movimento in cui erotismo e lotta per la vita si confondono. Nel quadro del
1917 centrale è invece la relazione, la passione amorosa, e i corpi appaiono ben definiti. Un tema
di luce dato dalla coperta chiara, che sostiene la coppia, contrasta i colori più malinconici dello
sfondo.
Osservando le opere di Schiele, a partire dalle risonanze emotive che suscitano in me, mi è
sembrato di potere cogliere tre svolte importanti, all’interno di una progressiva trasformazione del
piano profondo emotivo. Mostro due quadri del 1913, due del 1915, e uno dei suoi ultimi quadri,
del 1918.
Nel 1912 Schiele viene arrestato con l’accusa di violenza su minori, accusa poi ritirata. Rimane in
carcere 24 giorni e viene infine rilasciato con la condanna, già abbondantemente scontata, a tre
giorni di carcere per disegni immorali.
Riporto due brevi brani dal Diario di Neulenbach.
19 aprile 1912 – “Ho dipinto il giaciglio della mia cella. Al centro del grigio sporco delle coperte
sfavilla un arancia che mi ha portato V., unica luce ad illuminare l’ambiente. La piccola macchia di
colore mi ha fatto indicibilmente bene”.
27 aprile 1912 – “Cosa farei se non avessi l’arte? – Come erano spaventose le ore prive di
comprensione – strappato brutalmente da sogni eterni dove non esistono brutture, solo cose
meravigliose, e sentirsi trascinato dentro una rozzezza senza senso, alla quale manca tutto quello
che abbellisce, quanto può essere forza”.
Schiele sente che il suo essere stato messo in carcere, non solo come una vicenda spiacevole sul
piano personale, ma come una offesa all’Arte e a Dio.
In una lettera del 1/09/1911 aveva scritto: “Anche l’opera d’arte erotica ha una sua sacralità”, nel
Diario di Neulengbach scrive ancora: “Avrei corrotto dei bambini. È una menzogna! – Tuttavia so
che ci sono molti bambini corrotti. Ma cosa significa poi corrotti? – Gli adulti hanno dimenticato
quanto essi stessi erano corrotti da bambini, cioè stimolati e eccitati dall’istinto sessuale? – hanno
dimenticato come il terribile impulso li bruciava e li tormentava quando erano ancora bambini? –
Io non l’ho dimenticato, perché mi ha fatto soffrire tremendamente”.
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Apparentemente il periodo del carcere non lascia strascichi, ma appartengono al 1913 alcuni
disegni, presento qui Amicizia e Amanti, in cui gli aspetti erotici, collegati alle rappresentazioni,
sembrano regredire a favore di aspetti empatici relazionali, in cui i rapporti tra le persone segnano
l’inizio di una trama nella quale il tema malinconico, pur trovando rappresentazione, può iniziare a
diluirsi in uno spazio relazionale.
Il 19 aprile 1912, Wally gli aveva portato un’arancia e Schiele ha scritto nel suo diario di prigionia:
“Ho dipinto il giaciglio della mia cella. Al centro del grigio sporco delle coperte sfavilla un arancia
che mi ha portato V., unica luce ad illuminare l’ambiente. L apiccola macchia di colore mi ha fatto
indicibilmente bene”.
Nel 1915, Schiele rompe la relazione, durata quattro anni,con Wally Neuzil e sposa Edith Harms,
una giovane di modesta, ma buona famiglia. In un primo momento Schiele non sembra in grado di
fare una scelta netta, dice infatti a Wally che sposerà Edith, ma le propone di restare la sua
amante e di passare un periodo di vacanza con lei ogni anno. Sarà la netta opposizione di
entrambe le donne a obbligarlo a un nuovo passo sul piano emotivo.
Evidenzio come significativi di questo momento due quadri del 1915, Morte e ragazza e Egon ed
Edith.
In “Morte e ragazza” Schiele assume su di sé la figura della madre morta e affida a Wally il dolore
della perdita, un dolore che Wally cercherà di compensare partendo come crocerossina volontaria
per la guerra. La figura della morte rimasta sempre sullo sfondo, ora può ora giungere in primo
piano e questo porta a un allargamento di coscienza, di senso, in direzione relazionale.
L’abbandono non è più un qualcosa in sé stesso insensato, ma frutto della competizione con un
oggetto non presente nella rappresentazione, ma invincibile in quanto assorbe in sé tutta l’energia
e la vitalità dell’oggetto presente. Per Wally l’oggetto assente che assorbe tutte le energie di
Schiele, mortificandolo, è Edith. Nella storia di Schiele l’oggetto non rappresentabile che ha
assorbito tutte le energie della madre è l’oggetto al centro del lutto della stessa.
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Qui si evidenzia con chiarezza ciò che dice André Green, cioè che dietro l’imago della madre morta
si presenta una immaginaria competizione con un oggetto sentito non assente, perduto, ma
presente e pieno di forza, una vera e propria triangolazione precoce in cui l’oggetto assente viene
percepito come invincibile.
Nella seconda opera, “Egon ed Edith” sembra emergere un altra delle direzioni in cui si può
riorganizza la vita quando centrale è il tema della imago della madre morta: “Rianimare l’oggetto
morto: interessarlo, distrarlo, farlo ridere, coinvolgerlo”, competere con l’oggetto non presente.
L’immagine di Schiele è qui iperinvestita di energia e sembra volere strappare Edith da un destino
di vuoto e solitudine.
Lo spazio relazionale che già si delineava nei due quadri del 1913, in questi due quadri trova una
sua maggiore compiutezza e definizione. Se nei primi due prevaleva la tematica del contatto e
dell’appoggio come difesa dal vuoto, in questi trova piena espressione il tema della triangolazione
precoce in cui essere divisi è morte ed essere assieme è vita.
Gli anni successivi sono anni di guerra, anche se Schiele non andrà mai al fronte e potrà continuare
a frequentare la moglie. Mai si lascerà attirare dalle retoriche di regime e dal fascino della vittoria,
addetto a un campo per ufficiali russi prigionieri anzi si troverà a solidarizzare con l’umanità del
nemico.
Sono anni in cui il percorso dalla figura alla persona va sempre più delineandosi e in ciò sembra
importante il rapporto con la moglie Edith sessualmente disponibile e interessata, ma meno
incline di Wally alla erotizzazione delle relazioni. Un rapporto in cui Schiele stesso si ritrova sempre
più come persona.
Il 1918 rappresenta per Schiele un nuovo inizio in tutti i sensi: la fine della guerra e l’impegno per
la ripresa culturale della nazione, la successione a Klimt come capo della Secessione viennese,
l’annuncio di Edith che sta aspettando un bambino. È in questo contesto che viene dipinto il
quadro “La Famiglia”.
La famiglia – 1918
È presente una evidente evoluzione delle tematiche profonde dell’autore. II corpi erotici sono ora
corpi pienamente umani, il lato oscuro è solo lo sfondo della scena, la grandiosità è sostituita dalla
protettività, il figlio gioca accanto ai suoi genitori, curioso esploratore di un mondo relazionale
prima sconosciuto.
Egon Schiele muore pochi mesi dopo, il 31 0ttobre 1918, due giorni dopo la morte della moglie
Edith in stato di avanzata gravidanza, entrambi vittime dell’epidemia di Spagnola che imperversa
in Europa.
Gli sopravvive la fatica di tutta la sua vita: esplorare le profondità dell’umano, svelare le ipocrisie
dell’amore, dare nuovo vigore all’umanità ferita attraverso un processo di elaborazione, che va
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oltre la sublimazione per aprirsi alla creazione di nuovi modi di vivere e sentire. La lotta con
l’imago della madre morta, una lotta mai vinta completamente, ci lascia patrimoni di pensiero e di
rappresentazioni, in parte ancora inesplorati.
Bibliografia psicoanalitica
Opere principali di riferimento
André Green (1983), La madre morta, in Narcisismo di vita e di morte, Borla, 2005
Heinz Kohut (1971), Narcisismo e analisi del sé, Bollati Boringhieri,1976
Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Bollati Boringhieri, 2009
Opere di interesse per lo sviluppo di alcune delle tematiche trattate
 Daniela Gariglio, Daniel Lysek, Creatività benessere. Trasformazioni creative in analisi,
Armando Ed., 2007
 Graziella Magherini, Mi sono innamorato di una statua. Oltre la sindrome di Stendhal,
Nicomp, 2007
Bibliografia – Schiele
Egon Schiele.Ritratto di artista. Lettere, liriche, prose e diario di Neulengbach, SE, 1999
Eva Di Stefano, Schiele, Giunti, 1992
Eva Di Stefano, Schiele. Gli autoritratti, Giunti, 2003
Reinhard Steiner, Schiele, Taschen, 2005
Rudolf Lepold, dal catalogo della mostra “Le arti a Vienna. Dalla Secessione alla caduta dell’Impero
asburgico”, Venezia, Palazzo Grassi, 20 maggio- 16 settembre 1984, Ed. Mazzotta
Rudolf Lepold, dal catalogo della mostra “Schiele e il suo tempo”, Milano, Palazzo Reale, 24
febbraio – 6 giugno, Ed. Skira
Catalogo visivo delle opere di Schiele
http://commons.wikimedia.org/wiki/Egon_Schiele
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