qui - Liceo Canossa

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Evariste N. 15 anni, in carcere al momento dell’intervista
Intervista a Judith, 79 anni, sopravvissuta al genocidio
CRONOLOGIE
Il genocidio cambogiano
Il genocidio rwandese
Genocidio ed epurazione etnica nella ex-Jugoslavia
DOCUMENTI
Convenzione internazionale dei diritti umani (1948)
Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di
genocidio (1948)
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
ISTITUTO SUPERIORE LICEALE “MATILDE DI CANOSSA”
Via Makallè, 18 - 42124 Reggio Emilia - Distretto Scolastico n. 11
Tel. 0522/271223 - 271353 Fax 0522/271627
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Linee guida introduttive
I GENOCIDI NEL SECOLO DEL GENOCIDIO
Cosa si intende col termine genocidio?
Percorso di accompagnamento testuale e documentale
per il Giorno della Memoria 2016
Il termine “genocidio” viene introdotto dal giurista di origine ebraica
Raphael Lemkin nel 1944 in un breve testo pubblicato negli Stati Uniti: Axis
Rule in Occupied Europe, Washington D.C.
Dopo la conclusione della guerra stimola le Nazioni Unite perché venga
approvato un provvedimento su questo specifico argomento.
Nel 1948 viene approvata dalle Nazioni Unite la Convenzione per la
Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio.
Secondo la Convenzione il genocidio consiste in “atti connessi con
l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico,
razziale o religioso”.
Fra gli altri avrebbero dovuto comparire anche i “gruppi politici e sociali”.
Questi ultimi furono eliminati su proposta del membro polacco (portavoce
del blocco sovietico) con motivazioni connesse alla eccessiva genericità dei
termini “politici” e “sociali”.
In realtà si intendeva prevenire eventuali attacchi alle politiche imperialiste
tipiche dei regimi comunisti. Ma la proposta accolse anche i favori
americani preoccupati di non essere accusati di genocidio per gli
atteggiamenti razziali manifestati nei confronti degli afroamericani e dei
nativi americani.
Progetto a cura di Lino Rossi in collaborazione col gruppo di lavoro sulla
celebrazione del Giorno della Memoria (D. Spallanzani, R. Guberti, C. Iotti)
LINEE GUIDA INTRODUTTIVE, a cura di L. Rossi
Cosa si intende col termine genocidio?
I tribunali internazionali
Parole chiave del genocidio
Gli indicatori di Staub
TESTIMONIANZE
Il genocidio in Cambogia
Come sono riuscito a sopravvivere ai khmer rossi?
di Youk Chhang
Chey Sopheara racconta la storia delle fosse comuni
dietro a Tuol Sleng
di Pongrasy Pheng
Sogno o realtà, di Sidney L. Liang
Il genocidio in Rwanda
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Uno degli strumenti utilizzati per valutare l’attuazione di un progetto
genocidi ario è rappresentato dai cosiddetti “indicatori” di Staub.
Lo psicologo statunitense Ervin Staub, ebreo di origini ungheresi, viene
internato nel 1944 con tutta la sua famiglia ad Auschwitz. Miracolosamente
scampato alla detenzione nel campo, è uno dei bambini salvati dall’armata
rossa il 27 gennaio 1945. L’esperienza vissuta indirizza i suoi interessi
scientifici maturati una volta emigrato negli Stati Uniti grazie un programma
di assistenza internazionale. Attualmente è professore emerito di psicologia
sociale alla University of Massachusetts Amherst, e ha recentemente
pubblicato un volume in cui raccoglie gli esiti delle sue numerose ricerche
sul tema del genocidio (Overcoming evil: Genocide, violent conflict and
terrorism, 2011. New York: Oxford University Press).
Nel 1989 elabora una serie di dati relativi alle tipologie fenomenologiche dei
diversi genocidi del Novecento: da quello armeno ai più recenti del BurundiRuanda e de Congo.
La sua teoria evidenzia come gli indicatori psico-sociali e politico-economici
che preparano e accompagnano un genocidio siano sempre i medesimi.
All’origine si trova una condizione di vita piuttosto drammatica; le persone
hanno grande difficoltà ad affrontare i problemi quotidiani a causa di scarse
disponibilità economiche.
Il un quadro politico di riferimento è caotico; si assiste a una carenza di
leadership
e
di
democrazia
effettiva.
Su questo si innesta una serie di fattori più specifici per cui un gruppo
comincia a stigmatizzarne un altro, a de-umanizzarlo, quindi ad iniziare a
addossare a questo gruppo la responsabilità della condizione di grave
malessere sociale accusato dalla popolazione.
In molti casi, a questi indicatori si aggiunge un quarto, collegato all’utilizzo
della comunicazione di massa a scopi politici di repressione e aggressione.
Il concetto di genocidio ha quindi una storia direttamente collegata al diritto
internazionale e nasce dalla coscienza critica maturata dall’analisi di due
fatti particolari:
- le gravi violenze e gli eccidi di massa perpetrati nei confronti del popolo
armeno;
- la Shoah.
I tribunali internazionali
La possibilità d’intervenire sul piano internazionale nei confronti dei crimini
di genocidio ha dovuto attendere l’istituzione a l’Aia dei Tribunali Penali
Internazionali per i casi della Ex Jugoslavia e del Ruanda (fine anni
Novanta) e della Prima Corte Penale permanente nel 2002.
Il processo di Norimberga a carico dei gerarchi nazisti ha infatti una storia
particolare:
- è stato un processo militare per reati contro l’umanità;
- celebrato dalle forze politiche uscite vittoriose dalla guerra mondiale e
quindi estraneo al diritto internazionale.
Tuttavia è evidente il nesso storico e morale con il quale la Convenzione sul
genocidio delle Nazioni Unite è legata ad Auschwitz.
Lemkin aveva voluto e ottenuto di criminalizzare e perseguire coloro che
avevano attuato un programma deliberato di “epurazione” sulla scorta di
pregiudizi, mirati a colpire aggregati etnici, religiosi o razziali.
L’azione repressiva è rivolta nei confronti di chi manifesta “l’intenzione di
distruggere o di neutralizzare permanentemente un gruppo umano. Gli atti
sono rivolti contro i gruppi come tali, e gli individui sono destinati alla
distruzione per la sola ragione che appartengono a questi gruppi”
Parole chiave del genocidio
A. Deliberato obiettivo di distruzione e annientamento;
B. Conclusione dell’azione nella definitiva eliminazione di tutti o di parte
degli appartenenti alla classe individuata;
C. Eliminazione degli individui in quanto appartenenti al gruppo.
Gli indicatori di Staub
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Cambogia. Negli ultimi tempi, con l’avvicinarsi del trentesimo anniversario
della presa del potere da parte dei khmer rossi, mi è capitato spesso di
pensare alla risposta.
Il 17 aprile 1975 avevo quattordici anni. Mio padre era un architetto, in
seguito arruolato nell’esercito di Lon Nol. Anche se all’inizio degli anni
settanta stavamo meglio di tanti altri, i prezzi salivano di giorno in giorno e
quindi dovevamo usare una certa cautela visto l’esiguo salario di mio padre.
Tra l’altro diversi nostri parenti si erano trasferiti da noi a Phnom Penh per
evitare la guerriglia nelle campagne. A casa nostra, ogni banana, ogni chicco
di riso erano razionati. I miei erano sempre preoccupati che accadesse
qualcosa di brutto alle mie sorelle, e dedicavano gran parte della loro
attenzione a proteggerle. E la mia scuola chiudeva quasi ogni settimana. Per
via di tutto ciò, imparai a fare molte cose da solo (per esempio, costruirmi
gli aquiloni con la carta da giornale) e a stare per conto mio. In qualche
modo diventare autosufficiente contribuì a prepararmi per la vita sotto i
khmer rossi.
Quando i khmer rossi cominciarono a evacuare Phnom Penh, ero a casa da
solo; mia madre e un altro membro della famiglia erano partiti il giorno
prima per un luogo più sicuro, dicendo che sarebbero tornati a prendermi.
Ma le strade erano bloccate e il 18 aprile i khmer rossi mi dissero che
dovevo andarmene. Uscii di casa, ma non avevo idea di dove andare perché
il nostro quartiere era completamente abbandonato. Così cominciai a
camminare. Lungo la strada sentii alcune persone dire che tornavano alloro
villaggio natale, per cui decisi di dirigermi verso il paese di mia madre, nella
provincia di Takeo. Visto che non avevo da mangiare, chiesi ai soldati dei
khmer rossi di darmi qualcosa e loro mi diedero qualche biscotto di zucchero
di palma. Dopo qualche settimana di cammino arrivai al villaggio. Nel
frattempo mia madre aveva cercato di varcare il confine ed entrare in
Vietnam, ma era stata fermata. Circa quattro mesi dopo, arrivò anche lei al
villaggio e potemmo riabbracciarci.
In seguito, la mia famiglia fu evacuata nella provincia di Battambang.
Qualche mese dopo il trasloco, fui separato da loro e mandato a scavare
canali in un’unità mobile di adolescenti. Per quasi un anno, di notte riuscivo
a fare una capatina a casa per vedere la mia famiglia, ma più tardi la nostra
unità cominciò a lavorare troppo lontano. Ero sempre più isolato, e mi
sentivo più solo che mai. Da ragazzino di città, non avevo molte risorse di
sopravvivenza, ma la fame può insegnarti un sacco di cose. Per esempio
imparai a nuotare, così riuscivo a tuffarmi e a tagliare le dolci canne da
TESTIMONIANZE
IL GENOCIDIO IN CAMBOGIA*
Il Centro di documentazione della Cambogia (DC-Cam, Documentation
Center of Cambodia) è sorto sulla base del Cambodian Genocide Justice Act
approvato dal congresso statunitense nell’aprile 1994. Tale legislazione
istituì, presso l’Ufficio per gli affari dell’Asia orientale e del Pacifico del
Dipartimento di stato americano, l’Ufficio per le indagini sul genocidio
cambogiano (Office of Cambodian Genocide Investigations), incaricato di
indagare sulle atrocità del regime dei khmer rossi (1975- 1979).
Nel dicembre 1994 l’ufficio stanziò i finanziamenti che consentirono la
creazione di un programma accademico, il Cambodian Genocide Program
(CGP) presso la Yale University, che si occupasse di ricerche, formazione e
documentazione sul regime dei khmer rossi, al fine di raccogliere prove per
determinare se e in che misura il governo della Kampuchea democratica
avesse violato le norme penali internazionali contro il genocidio, i crimini di
guerra e i crimini contro l’umanità. Tra gli obiettivi principali del CGP;
diretto da Ben Kiernan: 1) preparare un indice e una valutazione ragionata
della documentazione, 2) intraprendere un’indagine storiografica, 3) offrire
formazione giuridica. In vista di tali obiettivi nel gennaio 1995 il CGP creò il
DC-Cam come filiale “sul campo” a Phnom Penh, affidato alla guida di
Youk Chhang, un sopravvissuto dei campi di sterminio. Nel gennaio 1997 il
DC-Cam divenne un istituto di ricerca indipendente cambogiano (non
governativo e no profit) e da allora continua la sua intensa attività di ricerca
e documentazione. Le testimonianze che seguono provengono dal suo
archivio.
Come sono riuscito a sopravvivere ai khmer rossi?
di Youk Chhang
È questa la domanda più frequente che i giornalisti mi hanno rivolto nei
dieci anni in cui ho lavorato per il Centro di documentazione della
*
Tratte dal sito del Centro di documentazione della Cambogia (www.dccam.org),
traduzione dall’inglese di Teresa Albanese.
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zucchero che crescevano nelle risaie allagate. E imparai a rubare il cibo, a
uccidere e mangiare serpenti e topi, a trovare foglie commestibili nella
giungla.
Durante il regime, il cibo diventò il mio dio. Sognavo cibi di ogni genere, in
continuazione. Mi aiutava ad addormentarmi e mi dava la forza necessaria
per tornare ogni giorno a lavorare nei campi. Ancora oggi, quando vedo per
le strade bambini affamati, la cosa mi sconvolge. Non riesco a capire come
mai non abbiano abbastanza da mangiare ora che non viviamo più sotto i
khmer rossi. In quelle facce affamate vedo me stesso.
In quel periodo ero pieno di rabbia, il che mi creò qualche difficoltà con i
capi del villaggio e dell’unità. Ma scampai sempre all’uccisione grazie a
molte persone e ai loro piccoli gesti di solidarietà. Una volta i khmer rossi
mi chiusero nell’ufficio di sicurezza del sottodistretto, dove mi picchiarono e
mi torturarono. Un uomo che era cresciuto nel villaggio di mia madre andò
dal capo del sottodistretto per dirgli che ero ancora molto giovane e lo
implorò di risparmiarmi. Due settimane dopo mi fecero uscire di prigione. In
seguito quell’uomo fu accusato di avere parenti nelle zone nemiche e
nessuno sa che fine abbia fatto. Un uomo della “base”* di nome Touk portò
cibo alla nostra famiglia nel momento del bisogno. Trapeang Vang, il
villaggio dove abitavamo a Battambang, aveva un capo che veniva dalla
Zona occidentale; era una donna di nome Comrade Aun e aveva solo dodici
anni. Mia madre la pregò di non mandarmi a lavorare nei campi e le portò in
dono un paio di lucenti forbici cinesi. Mia madre quelle forbici le aveva
sempre conservate perché erano un regalo del suo fratello minore, ma le
sacrificò per me. Le forbici mi salvarono per qualche giorno, finché Angkar
non ordinò ad Aun di mandarmi nell’unità mobile.
Alla fine del 1978, in tutta la Cambogia cominciarono a circolare voci sulla
grande quantità di persone che stavano morendo (a Trapean Vang vivevano
1200 famiglie, ma solo dodici sopravvissero alla Kampuchea democratica) e
la gente iniziò a rubare e a vivere di espedienti. In quel periodo un uomo
della “base” disse a mio zio di fuggire in Thailandia perché aveva lavorato
per la Banca nazionale della Cambogia: se fosse rimasto, l’avrebbero
sicuramente ucciso. Il mio fratellastro partì poco dopo. Dopo qualche giorno
di cammino, tornò indietro perché aveva nostalgia della moglie. E mi disse
di non scappare. Io accettai, cosa che forse mi impedì di fare la stessa fine di
mio zio. Lui continuò il viaggio verso la Thailandia, ma nessuno ebbe più
sue notizie. Ho il sospetto che sia saltato in aria su una mina.
È probabile che queste iniziative da parte di famigliari, ma anche di
sconosciuti, mi abbiano salvato la vita più di una volta. Quelle persone
capivano il valore della vita e facevano del loro meglio per difendere la
propria umanità in tempi in cui la cosa risultava assai difficile. Mi diedero
una ragione per sperare. I giornalisti e altre persone mi chiedono spesso se
continuo ad avere incubi sui khmer rossi. La mia vita a quell’epoca era un
incubo divenuto realtà, ma oggi non mi capita più di sognare il regime.
Invece mia madre fece un sogno su di me. Ero seduto in cima alla Montagna
dell’Occhio di Buddha, e guardavo lontano. Lei lo interpretò come un segno
che sarei sopravvissuto, e mi diede speranza.
Quindi durante la Kampuchea democratica non pensai mai di morire,
nemmeno una volta. Invece speravo che un giorno avrei dormito bene e
avrei avuto abbastanza da mangiare. Questa speranza è rimasta sempre con
me, incoraggiandomi a lottare per restare in vita.
I khmer rossi hanno cambiato la mia vita per sempre.
Il bisogno di trovare risposte al perché ho dovuto sopportare tutta quella
sofferenza e perdere tanti membri della mia famiglia durante il regime mi ha
portato alla mia professione di ricercatore sulla Kampuchea democratica.
Volevo sapere perché è stata assassinata mia sorella, perché io sono stato
incarcerato e torturato dopo aver cercato di trovare un po’ di verdura per una
delle mie sorelle che era incinta e stava morendo di fame, e perché mia
madre non ha potuto fare nulla per me quando mi torturavano. E volevo
anche la vendetta.
Le risposte a queste e altre domande le sto ancora cercando, ma ormai non
ho più un desiderio così forte di vendetta. Visitare la casa dove sono
cresciuto mi è stato di conforto; fa riemergere le speranze che avevo da
bambino sulla mia educazione, e tiene vivi i ricordi dei miei amici e dei miei
cari. Quando ero piccolo in quella casa coltivavo fiori: orchidee e altri fiori
tropicali. Oggi coltivo le stesse piante al Centro di documentazione della
Cambogia. Mi ricordano dove sono stato e dove sto andando.
17 aprile 2005
*
“Base” (in inglese base people, base person) era il termine generalmente usato dai
khmer rossi per riferirsi ai contadini cambogiani.
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seguito la sua squadra prese una larga lastra di vetro per coprire la fossa e
mise una recinzione attorno alla tomba perché altri delegati stranieri e
giornalisti potessero vedere. La sua squadra era convinta che il vetro potesse
anche proteggere i resti dall’essere divorati dagli animali o ricoperti dalla
terra.
Nel 1993, la tendenza politica cambiò, la fossa fu coperta di terra (sopra il
vetro) e la recinzione abbattuta. Poco tempo fa, preparandosi a costruire
un’estensione della sua villa, Ay Siphal ha disseppellito la fossa con
l’intenzione di portare i resti in una pagoda. Sopheara ha affermato che
alcune delle ville costruite dietro al Museo del Genocidio Tuol Sleng devono
essere state erette sopra le fosse. I proprietari delle ville lo sapevano ma
hanno continuato a costruire e a vivere lì. Il vetro che ora vede in frantumi
era quello che la sua squadra aveva usato per coprire le ossa alla fine del
1979, e non apparteneva alla struttura originaria della fossa.
Sopheara ha parlato del recente rinvenimento della fossa comune dietro a
Tuol Sleng come di una vecchia storia. “Il signor Ay Siphal in realtà sapeva
della fossa sotto casa sua e non ha toccato le ossa finché non è stato pronto a
costruire una estensione della casa. Prima ha dovuto dissotterrare la fossa
comune e portare i resti alla pagoda per una cerimonia religiosa secondo la
tradizione khmer. Quindi la cosa non deve stupirvi più di tanto” ha detto
Chey Sopheara. “È una storia vecchia.”
Chey Sopheara racconta la storia delle fosse comuni dietro a Tuol
Sleng
di Pongrasy Pheng
Il signor Chey Sopheara, cinquantun anni, è l’attuale direttore del Museo del
Genocidio Tuol Sleng. Sopheara ha detto che la fossa comune scoperta di
recente nel cortile di una villa abitata, a pochi passi dalla recinzione del
museo, è legata a quanto successe nel museo dopo la liberazione.
Sopheara era una delle guide al Tuol Sleng tra il 1979 e il 1980, quando lo
stato (lo stato rivoluzionario del popolo della Kampuchea) istituì un
tribunale popolare per processare il regime dei khmer rossi, al quale
avrebbero preso parte molti delegati delle nazioni socialiste. Nel 1979,
durante il processo ai khmer rossi, alla sua squadra fu ordinato di riesumare
la fossa per dimostrare alle delegazioni quante persone i khmer rossi
avevano ucciso nel complesso dell’ufficio S-21 durante il loro governo dal
1975 al 1979.
Sopheara era al corrente dell’esistenza di fosse comuni dietro a Tuol Sleng
perché glielo aveva raccontato un soldato pochi giorni dopo la liberazione.
Aveva però dimenticato il nome di quel soldato. “Nel 1979-1980, ovunque
la squadra scavasse, trovavamo ossa umane” ricorda. La sua squadra decise
di portare alla luce le fosse, che oggi si trovano nel cortile del signor Ay
Siphal, un calzolaio. All’epoca dietro il museo non c’erano residenze private
come oggi. Dietro al famigerato S-21, vicino alla fossa, c’erano i resti di una
casa in rovina e molti alberi di banano. La fossa era collocata presso un
gruppo di alberi. Quando la sua squadra la disseppellì, lui vide lacci, ossa,
teschi... Il ministro della salute e le autorità competenti accorsero sul posto e
si unirono alla squadra di Sopheara nel processo di riesumazione, che fu
bloccato qualche tempo dopo a causa del tremendo fetore emanato dai corpi.
Le ossa furono bollite in una grande pentola e su alcuni teschi era ancora
visibile qualche capello. Alcuni teschi, dopo essere stati bolliti e puliti,
furono disposti insieme a formare una specie di mappa e lasciati lì in mostra.
Sopheara ha detto che la sua squadra continuava a sospettare che i grossi
teschi e le ossa lunghe fossero le spoglie di qualche straniero.
Sopheara ha detto che proprio lui fu incaricato di portare alcune delle ossa
dalla provincia di Svay Rieng e dal cimitero di Tuol Kok (stazione radio
situata a nord della città). Stimava che nella tomba ci fossero dieci corpi. In
Sogno o realtà
di Sidney L. Liang
A volte nell’ombra mi appare una fugace visione nella forma di una vecchia
signora, ma non so di chi si tratti. Mi sveglio nel cuore della notte,
sentendomi circondato da altre presenze che svaniscono subito nel buio.
Attraverso la vita puntando verso il futuro, al tempo stesso sconvolto dalla
vaga sensazione di affetti sconosciuti, che vengono dal passato.
Oggi vivo in Massachusetts. Il mio nome di battesimo è Leap; il nome di
mio padre era Liang e quello di mia madre Pak. Sono nato in una famiglia di
contadini a Phoum Tatok, Srok Mong Russey, provincia di Battambang, nel
1970. Purtroppo non ho ricordi precisi degli anni precedenti al 1975. È tutto
mischiato con la tristezza, come lampi che illuminano ogni cosa durante un
uragano, e sconvolto da tornado che possono solo essere paragonati a un giro
sulle montagne russe.
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Essere costretto a diventare adulto all’età di nove anni è stato estremamente
difficile. Facevo del mio meglio per procurare un po’ di cibo alla mia
famiglia. Ero bravo a pescare rane e a catturarle nella stagione secca.
Ricordo che una volta presi una grossa rana in uno stagno privato e la
proprietaria dello stagno si avvicinò e mi chiese: “Mio marito sta morendo,
ha bisogno di mangiare, potrei avere una delle tue rane?”. Risposi di sì e le
diedi la rana più piccola che avevo preso quel giorno. Lei rifiutò, voleva
quella più grossa; la situazione mi mise tristezza e finii per darle la rana che
desiderava. Lei e il marito sopravvissero al regime e oggi vivono in Virginia.
Sono felice di avere ancora qualche bel ricordo come questo. A volte, a
occhi chiusi, sentivo fuori i passi di qualcuno che trascinava una vittima con
la bocca imbavagliata, incapace di produrre suoni a parte quelli della sua
lotta per la sopravvivenza. Nella fitta oscurità delle risaie sentivo rumori e
gemiti, e poi il silenzio. Era il suono delle persone picchiate a morte? Non lo
sapevo, ma dal mio villaggio di Ro Luos la gente sembrava sparire nel nulla.
Avevo paura. Come se non bastasse, ogni notte si sentivano i versi dei lupi
che ululavano in tutto il villaggio. Quei suoni si fermavano quando la luce
dell’alba copriva la terra. Non era una grande consolazione. Vedevo i miei
genitori solo di tanto in tanto, perché dovevano lavorare.
Mi misero in un gruppo di bambini miei coetanei (sei o sette anni);
potevamo vedere i nostri genitori solo una volta al mese. Non ci era
consentito mostrare alcun tipo di emozione. Non potevamo piangere, ridere
o agitarci quando incontravamo o salutavamo i genitori. Ogni giorno il capo
ci portava al lavoro: raccoglievamo letame e piante acquatiche alla fattoria.
La nostra normale giornata di lavoro iniziava attorno alle sei e trenta del
mattino e si rientrava alle sette di sera, ma non potevamo dormire prima di
aver partecipato alla riunione prevista dal programma, che terminava verso
le nove. Alcuni la definivano “sessione di lavaggio del cervello”.
Anno dopo anno, i genitori tengono i figli per mano, danno loro preziosi
consigli di vita: è così che dovrebbe andare. Mi rattrista tanto non ricordare
il viso di mio padre, che cosa faceva, chi era. E, cosa ancora peggiore,
l’unico ricordo che ho di lui è l’immagine di un lenzuolo bianco steso sul
suo corpo. È tragico, ma è l’unico ricordo che mi resta.
Le mattine erano insolitamente fredde nel novembre del 1976. Vedevo il
fumo che usciva dai camini e la foschia del mattino. La mia sorellina di
cinque mesi piangeva. Mia madre era molto indaffarata, e aveva il viso
segnato dal pianto. Sembrava sfinita. Io non capivo, mi sentivo smarrito in
quella confusione. Mio padre era morto; il suo corpo era steso di fronte alla
casa perché la gente potesse rendergli omaggio e rimase lì per tutta la
giornata. Le persone andavano e venivano, senza fermarsi a lungo per paura
di violare il coprifuoco imposto dai khmer rossi.
Verso la fine della giornata tutto era tranquillo, le persone tornavano alle
loro case. Quando il sole tramontò, tramontò anche un capitolo della mia
famiglia e della mia vita. La foschia del tramonto si posò sul nostro
villaggio, mentre mio fratello maggiore ansimava. Perché? Il calar della sera
consumò tutto il fiato di mio fratello. I muscoli del suo corpo si contrassero e
si indurirono. Morì quella stessa notte. Non capivo perché fosse morto ma
alla fine di quella gelida giornata di novembre vidi due corpi avvolti nei
lenzuoli bianchi, corpi che non avrei rivisto mai più. Mio padre morì al
mattino e mio fratello alla sera. Ero rimasto solo io a prendermi cura di mia
madre e della mia sorellina. A volte la vita è ingiusta e crudele.
Da quel giorno, la morte non mi fece più paura. Ricordo che una volta mia
madre mi chiese di svegliare la nonna per la cena. Quando arrivai da lei,
sentii un odore che ormai mi era familiare. Non potei svegliare la nonna
perché era morta nel sonno. Era morta da quasi un giorno. Non provavo
niente, ma restai seduto accanto a lei per un po’.
Anche se eravamo contadini, alcuni dei miei zii avevano studiato nei templi
della Cambogia, in Francia e in altri paesi stranieri. Uno dei miei zii, Pu
Tok, ricevette un’educazione impeccabile in khmer e francese. Un giorno
alcuni tizi vestiti di nero si presentarono a casa sua e gli dissero di prepararsi
perché sarebbero venuti a prenderlo e lo avrebbero portato a studiare
all’estero. Prima di uscire, uno di loro disse a mia zia: “Guardalo bene ... è
l’ultima volta che lo vedi”. Non tornò mai più a casa da sua moglie e sua
figlia. Un mesetto dopo, un uomo del villaggio disse a mia zia di aver visto
Pu Tok impiccato a un albero. Mesi dopo presero anche sua moglie. A oggi
non so cosa accadde alla loro figlia, che rimase sola.
Ricordo con grande chiarezza questi episodi; non riesco a togliermeli dalla
testa. A volte era così doloroso che per la frustrazione mi ritiravo in un
angolo e scoppiavo a piangere. A volte vedo luoghi, eventi e momenti, ma
non sono sicuro di cosa siano. Sono sogni o realtà? Con mia madre non
posso parlarne: temo di farla ripiombare nel dolore e nella tristezza. L’anno
scorso (2000) durante un’intervista ho scoperto che mia madre ha perso
diciassette parenti all’epoca dei khmer rossi. Per oltre vent’anni si è tenuta
dentro quello strazio. Il rumore di un petardo, uno pneumatico che esplode,
la gente che bussa la terrorizzano e riportano a galla tanti ricordi. Io e mia
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IL GENOCIDIO IN RWANDA*
madre siamo cittadini americani, ma non potremo festeggiare come tutti gli
altri il 4 luglio (festa dell’Indipendenza).
Mia madre è la donna più forte che abbia mai conosciuto. Si è presa cura di
entrambi nell’epoca più crudele e terribile. Abbiamo lottato, con fede
incrollabile, camminando di notte e dormendo di giorno nel viaggio che ci
portò ad attraversare la Cambogia per giungere in Thailandia. Lungo la via
abbiamo visto gente uccisa dalle mine antiuomo, dalla fame e dalla
spossatezza. Grazie alla sua grande forza di volontà e determinazione, siamo
arrivati al campo Khao I Dang, dove sono iniziate le nostre nuove vite. Oggi
sono triste e arrabbiato. Mi hanno rubato le esperienze della giovinezza e
dell’infanzia e mi hanno praticamente spinto in un viaggio pieno di
incertezze. Non sono l’unico ad aver subito questi eventi che ti cambiano la
vita. I capi di quel periodo dovrebbero essere chiamati a rispondere davanti a
tutti i miei parenti, alla gente del mio popolo, e alla mia patria. Non c’è vita
che sia più preziosa di un’altra!
Evariste N. 15 anni, in carcere al momento dell’intervista
Yolande: Tu hai ucciso all’età di 10 anni?
Evariste: Sì. Ero solo a casa, mio fratello era in viaggio d’affari. Mio padre
stava vendendo della birra. Mia madre era nei campi a lavorare. I miei due
fratellini, uno era al pascolo con le mucche e l’altro era fuori casa.
Innanzitutto ho dovuto spiegare dov’erano i miei famigliari. Mi hanno detto
che dovevo seguirli, per mostrarmi un lavoro da fare. Se non fossi andato,
mi avrebbero picchiato, perché significava che mia madre era complice del
*
Da: Yolande Mukagasana e Alain Kazinierakis, Le ferite del silenzio.
Testimonianze sul genocidio del Rwanda, Bari: Edizioni La Meridiana, 2008, p. 44 e
p. 72.
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FPR e quindi mi avrebbero ucciso. Mia madre è una Tutsi. Quello che mi
parlava era una persona terrificante, bisognava ubbidirgli. Quando siamo
arrivati nel luogo in cui c’erano dei bambini da assassinare, non li abbiamo
trovati. Però Jean Damascane li ha scovati e ha gridato:
“Eccoli qua!” I bambini erano nascosti in una casa abbandonata. Li abbiamo
portati a casa loro e un Burundese ha iniziato ad ammazzarli. Però i bambini
non morivano ed il capo allora ha detto: “Non voglio che sia lei ad
ammazzarli, voglio che sia questo bambino a farlo”. Ha puntato il dito verso
di me. Mi hanno dato un machete, mi sono rifiutato di prenderlo e un uomo,
di forza, me lo ha messo fra le mani. Ho cercato di resistere e quest’uomo mi
ha dato un ceffone. Ho preso il machete e ho cominciato a colpirli. Non
avevo scelta.
Yolande: A casa, prima di essere arrestato, com’era la tua vita?
Evariste: La mia vita era piena di incubi. Era il prezzo da pagare. I bimbi
che ho ammazzato erano i miei vicini di casa, venivano a mangiare a casa
mia ed io andavo a mangiare a casa loro.
Yolande: Adesso come sono i rapporti con i loro genitori?
Evariste: Sono loro che mi hanno fatto arrestare. I rapporti fra i miei
genitori e la loro madre si sono deteriorati. Io capisco questa donna, è troppo
duro da accettare. Credo che anche i miei genitori dovrebbero chiedere
perdono a questa donna, perché hanno un figlio assassino e perché è la
nostra famiglia che ha fatto loro del male.
Yolande: Qual è la decisione del tribunale?
Evariste: Devo andare in un centro di rieducazione. Recentemente siamo
stati sulla mia collina per un sopralluogo. I giudici si sono resi conto che non
avevo nascosto nulla. Io invece mi sono accorto che mia madre è andata
fuori di testa. In ogni caso anch’io sono morto.
Yolande: Se tu dovessi tenere una lezione a dei bambini cosa diresti loro?
Evariste: Direi di non commettere mai il peccato che ho commesso io,
assassinare. Direi loro che dovrebbero preferire la morte, poiché adesso è
come se fossi morto, esattamente come lo sarei se fossi stato assassinato.
Mia madre, quando piangeva, mi diceva: “Fatti coraggio. Spiega per bene
ciò che hai fatto e, soprattutto, che te lo hanno fatto fare”.
Yolande: E a te capita di piangere?
Evariste: lo non piango più, perché non sono più un bambino. Sono un
assassino. La mia infanzia è finita.
Intervista a Judith, 79 anni, sopravvissuta al genocidio
Judith: Mio marito era morto prima del genocidio, avevo sei figli, dodici
nipoti e non so quanti pronipoti. Sono stati tutti uccisi. Non mi restano che
una figlia e una nipote.
Yolande: Quando sei venuta a conoscenza della morte del presidente?
Judith: Il giorno dopo, dal sindaco Hategekimana. Lui ha trasmesso la
notizia ai consiglieri che a loro volta l’hanno trasmessa ai responsabili della
cellula e così di seguito. Si diceva che il presidente fosse stato ucciso dai
Tutsi. Siamo scappati tutti insieme verso il Burundi. I miei figli ed i loro
8
sono stati tutti uccisi, l’uno dopo l’altro. Scavalcavamo i loro cadaveri e
proseguivamo. Ma sono molto triste quando penso a mia nuora, che aveva
dei bambini molto piccoli. I nostri vicini Hutu le avevano fatto credere che
l’avrebbero protetta. L’hanno uccisa. Ma questo odio dei vicini era iniziato
già prima dell’aprile 1994. Ci rubavano tutto, saccheggiavano le nostre
coltivazioni, solo per provocarci o per terrorizzarci. Ma ciò che più mi ha
addolorato maggiormente non è il fatto che abbiano ucciso mia nuora e i
suoi bambini, ma che li abbiano buttati nelle latrine. Quando siamo arrivati
al confine con il Burundi ho incontrato due uomini. Mi hanno preso tutto ciò
che avevo. Hanno iniziato a spogliarmi. Altri due passavano di là e hanno
detto: “Lasciate almeno a questa vecchia i suoi stracci”. Mi hanno lasciata
andare. Ho corso. Non potete immaginare quanto si possa amare la vita. I
soldati del Burundi mi hanno aiutata ad attraversare il ponte. I miei nipoti
erano passati da un’altra parte e i membri del FRODEBU li hanno uccisi. In
seguito ho vissuto in una paura senza fine. Non sopporto più né il rumore né
la folla. Penso in continuazione al machete. Tutte le volte che vedo dei
bambini penso ai miei. Vivo insieme a loro, pur sapendo che sono morti.
Yolande: Tu credi in Dio. Se tu lo vedessi, cosa gli diresti?
Judith: Lo sgrido in continuazione. Quando sono gentile con lui gli chiedo
perché non muoio e che cosa ci faccio ancora in questo mondo. Ma poi mi
dico che non voglio morire. Cosa ne sarebbe della mia nipotina senza di me?
Non ho di che vestirmi, ho difficoltà a trovare di che nutrire mia nipote e
non ho più forze. Mia figlia che è sopravvissuta è vecchia quanto me e
profondamente segnata dal genocidio: le sono stati uccisi il marito e tutti i
suoi bambini. Non ama più nessun rwandese, non c’è più amore in Rwanda e
tutti i sopravvissuti sono dei morti ambulanti. E tutto ricomincerà. Fino a
quando i Bianchi trasporteranno dei machete sui loro aerei e li daranno agli
Hutu ... Io odio i machete. Dalla morte del nostro re Rudahigwa incombe sul
Rwanda una notte senza fine. Non è mai più diventato giorno in Rwanda.
Yolande: Se qualcuno ti desse un machete cosa faresti? Ti vendicheresti?
Judith: Maledetto sia il machete. Pensi che saresti capace, tu, di prendere un
bambino e tagliarlo a pezzi? Mio Dio, che coraggio che hanno avuto questi
assassini!
Yolande: Che desiderio hai nella vita?
Judith: Desidero che mia nipote cresca, sia sana e possa continuare i suoi
studi. E anche che io trovi degli abiti, perché non ne ho ed ho paura di
restare nuda. Ma non mi piace parlare delle mie miserie. Dio ha creato la
morte. Ma ha creato anche l’uomo in grado di procreare, che è l’unico modo
per lottare contro la morte. Ma l’uomo ha creato la morte col machete, che è
al di sopra della morte creata da Dio. Una volta era Dio che decideva della
morte, ma oggi sono gli uomini.
CRONOLOGIE
Il genocidio cambogiano*
1945
1950
1953
1954
*
9
Re Norodom Sihanouk proclama l’indipendenza della Cambogia
dall’impero coloniale francese (in cui il regno di Cambogia, antica
patria del popolo khmer, era stato incorporato nel 1887).Il re si accorda
in seguito con i francesi e il paese entra nell’Union française (sorta. di
Commonwealth). Una parte dei nazionalisti cambogiani dà vita a una
resistenza armata.
I comunisti cambogiani si alleano ai vietnamiti contro il colonialismo
francese.
Ottobre-novembre: indipendenza della Cambogia. I francesi cedono a re
Sihanouk l’autorità sulle forze armate, il sistema giudiziario e la politica
estera, tuttavia mantengono intatto il loro controllo sull’economia del
paese (in particolare nei lucrativi settori dell’import-export e delle
piantagioni di gomma).
Conferenza di Ginevra: i francesi si ritirano da Vietnam, Laos e
A cura di Benedetta Tobagi.
1955
1960
1962
1963
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1969
1970
1975
1976
Cambogia.
Re Sihanouk abdica in favore del padre e fonda il Sangkum (Partito
della comunità socialista popolare), ispirato a ideali socialisti e
neutralisti, che vince le elezioni.
Alla morte del padre, Sihanouk diventa capo di stato, ma rifiuta la
successione al trono.
Scomparso il leader comunista cambogiano Tou Samouth, Saloth Sar
(nome di battaglia Pol Pot) ascende ai vertici della gerarchia comunista.
Sihanouk avvia una campagna di arresti dei comunisti rivoluzionari; Pol
Pot entra in clandestinità.
Escalation dell’impegno militare statunitense in Vietnam. Le forze
comuniste vietnamite (Viet Cong) cercano sempre più spesso rifugio in
Cambogia. Sihanouk interrompe le relazioni con gli Usa, mentre
all’interno continua la repressione contro i comunisti e le altre forze
dissidenti. Pol Pot visita il Vietnam e la Cina.
Insurrezione comunista contro Sihanouk nella
Cambogia
nordoccidentale. L’ideologia dei comunisti cambogiani fonde il
marxismo-leninismo ortodosso con un’esplicita difesa dell’etnia khmer,
da cui la denominazione “khmer rossi”, impiegata dallo stesso
Sihanouk.
Inizio dei bombardamenti dei B-52 statunitensi sulle postazioni Viet
Cong in territorio cambogiano (si calcola che dal 1969 al 1973 abbiano
causato dai 50 ai 150.000 morti tra la popolazione civile).
Un colpo di stato guidato da LonNol, con l’appoggio dei conservatori e
dei servizi segreti statunitensi, rovescia il governo del principe
Norodom Sihanouk. I khmer rossi si oppongono sia all’azione
statunitense che al nuovo governo; si scatena una guerra civile. Nel
frattempo si costituisce il Funk (Fronte unito nazionale khmer) che dà
vita a un governo clandestino in esilio in Cina, presieduto da Sihanouk.
Le truppe di Lon Nol trattano la resa con il Funk, ma di fatto sono i
khmer rossi a prendere il potere, non qualificandosi come “comunisti”,
bensì con la denominazione di Angkar (organizzazione), che
manterranno anche in seguito.
17 aprile: i khmer rossi marciano su Phnom Penh e iniziano a evacuare
la popolazione della capitale. Viene proclamata la Repubblica
democratica di Kampuchea, il cui presidente è Sihanouk. Pol Pot entra a
far parte del governo.
Sihanouk si dimette; Pol Pot, il “Fratello Numero Uno”, diviene primo
ministro. I khmer rossi assumono il pieno dominio sulla Cambogia,
volto a instaurare un primitivo egualitarismo sociale, attraverso
l’evacuazione delle città, l’abolizione della moneta corrente, la chiusura
1977
1978
1979
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1991
1993
1994
10
dei confini, la collettivizzazione delle terre, l’eliminazione delle
persone collegate al precedente regime e di qualsiasi forma di
opposizione al regime, una serie di feroci purghe interne al partito. I
trasferimenti in massa della popolazione e la mancanza di
organizzazione nelle campagne provocano terribili carestie. Il regime
dei khmer rossi in quattro anni (1975- 1978) compie un vero e proprio
genocidio della popolazione cambogiana (le stime variano da uno e
mezzo a tre milioni di vittime).
Le purghe sono estese alle campagne. La Cambogia mantiene relazioni
amichevoli con la Cina, mentre assume atteggiamenti d’ostilità (che
sfociano a volte nell’attacco militare) verso Thailandia, Laos e
Vietnam. Gli Usa e la Cina supportano i khmer in opposizione al
Vietnam, che gode dell’appoggio sovietico.
Gli oppositori al regime di Pol Pot si rifugiano in Vietnam e chiedono
l’appoggio militare di Hanoi. In seguito a ripetute incursioni khmer nel
territorio vietnamita, a fine anno scoppia la guerra.
7 gennaio: Phnom Penh presa dai vietnamiti; il regime di Pol Pot cade,
inizia l’occupazione vietnamita, che appoggia l’ascesa di Heng Samrin
alla presidenza della Kampuchea democratica.
L’ex campo di prigionia S-21 diventa Museo del Genocidio.
Disimpegno militare vietnamita dal paese. Nel paese continua la guerra
civile; Hun Sen, leader del Pcc (Partito comunista cambogiano),
filovietnamita, diventa primo ministro e proclama lo stato di Cambogia.
Con la fine della Guerra fredda i khmer rossi perdono il loro valore
strategico agli occhi degli Usa.
Le quattro fazioni in lotta (capeggiate rispettivamente da Sihanouk, Pol
Pot, Hun Sen e Son Sann) firmano gli accordi di pace di Parigi
(“Accordo sulla composizione politica complessiva del conflitto
cambogiano”), che però resteranno sulla carta. 'Onu avvia la sua più
vasta e costosa operazione di peacekeeping mai condotta fin ad allora.
Elezioni generali, boicottate dai khmer rossi. Vittoria del partito realista
del Funcinpec (acronimo di “Front Uni National pour un Cambodge
Indépendant, Neutre, Pacifique, et Coopératif”), seguito dal Pcc di Hun
Sen. Ripristinata la monarchia.
Il movimento dei khmer rossi, che hanno ripreso la guerriglia, è
dichiarato fuori legge.
Aprile: negli Usa (amministrazione Clinton), nonostante l’iniziale
opposizione del Dipartimento di stato, il Congresso approva il disegno
di legge del senatore Charles Robb per il “Cambodian Genocide Justice
Act” (22 U.S.c. 2656, Part D, sections 571-574), che afferma:
“È politica degli Stati Uniti supportare gli sforzi per consegnare alla
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2001
giustizia membri dei khmer rossi per i loro crimini contro l’umanità” e
“invita il presidente a raccogliere, o assistere apposite organizzazioni o
individui nella raccolta di dati rilevanti riguardo il genocidio in
Cambogia [...] a incoraggiare l’istituzione di una corte penale nazionale
o internazionale per giudicare gli accusati di genocidio”.
Pol Pot scioglie formalmente il movimento dei khmer rossi, ormai
irrimediabilmente indebolito: i militanti passeranno dalla lotta armata a
quella parlamentare (una soluzione che aveva rifiutato solo tre anni
prima); parte delle forze della defunta organizzazione si raccoglie
attorno al nuovo regime. La corona garantisce l’amnistia all’ex ministro
degli Esteri della Kampuchea democratica, Ieng Sary, in cambio
dell’appoggio al nuovo governo. Circa 4000 soldati, quasi la metà delle
truppe dei khmer rossi, vengono integrati nell’esercito reale.
Istituita in Cambogia un’apposita task force per il processo ai khmer
rossi, al fine di creare strutture legali e giudiziarie per processare i
superstiti leader dell’organizzazione per crimini di guerra e contro
l’umanità. La task force si insedia in due edifici del quartier generale
delle forze armate reali di Cambogia (Rcaf), nella provincia di Kandal,
presso Phnom Penh. Riceve assistenza tecnica e legale da esperti pro
venienti da Onu, Francia, India, Russia, Australia. I progressi nella sua
attività sono lenti ed esitanti (anche per carenza di fondi). Il vicepremier
chiede all’Onu assistenza per organizzare il processo contro i khmer
rossi.
Vittoria del Pcc alle elezioni; si forma un governo di unità nazionale
guidato da Hun Sen. 15 aprile: Pol Pot muore nel campo khmer rosso di
Anlong Veng, sul confine con la Thailandia, dove era detenuto già
dall’estate precedente (un processo sommario nel luglio 1997 l’aveva
condannato al carcere a vita), a seguito di dissidi interni al movimento.
Dicembre: resa degli ultimi leader dei khmer rossi sopravvissuti (Khieu
Samphan e Nuon Chea).
6 marzo: arrestato Ta Mok, “il macellaio”.
9 maggio: arrestato Duch, ex direttore dell’S-21.
Su proposta Onu, il governo cambogiano approva la legge per
l’istituzione dell’Ecce (acronimo di “Extraordìnary Chambers in the
Courts of Cambodia”), una corte internazionale speciale per giudicare i
crimini compiuti dai khmer rossi nel periodo della Kampuchea
democratica, firmata il 10 agosto da re Norodom Sihanouk.
L’istituzione di una corte internazionale mista viene incontro alle gravi
difficoltà in cui versa il sistema giudiziario cambogiano, gravemente
compromesso dalla politica di sterminio dell’intellighenzia condotta dai
khmer rossi.
2006
2007
11
Muore in carcere Ta Mok. Duch, accusato di genocidio, resta l’unico tra
gli ex leader khmer rossi in carcere. Si trovano ancora a piede libero: il
“Fratello Numero Due” Nuon Chea, ottant’anni, luogotenente di Pol
Pot, il più alto in grado tra i superstiti; Ieng Sary, età ignota, ministro
degli Esteri dal 1976 al ‘78, malato di cuore; Khieu Samphan,
settantaquattro anni, capo di stato dal 1976 al ‘79, imparentato con Pol
Pot e Ieng Sary.
Marzo: il segretario generale dell’Onu Kofi Annan nomina i giudici per
il processo dei leader khmer rossi.
4 maggio: il ministro della Giustizia cambogiano, Ang Vong Vathana,
annuncia che il consiglio supremo dei magistrati ha finalmente
approvato una giuria mista per l’Ecce, formata da dodici giudici
internazionali da dieci diversi paesi (Australia, Austria, Canada,
Francia, Giappone, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Polonia, Sri Lanka e
Usa), e diciassette cambogiani, che presiederà il lungamente atteso
tribunale per i crimini di genocidio dei leader khmer rossi.
Luglio: i giudici prestano giuramento. L’inizio del processo è atteso per
la metà dell’anno (data da definire).
1988
Il genocidio rwandese
Genocidio
1993-94
4 agosto
1993
14° sec.
1959
1963
5 ottobre
I tutsi arrivano nella regione, già abitata da twa (pigmei) e hutu
(bantu). 17° sec. Il re tutsi Ruganzu Ndori sottomette il paese. Fine
1800: re Kigeri Rwabugiri crea uno stato unificato, militarmente
centralizzato. 1858: l’esploratore britannico Hanning Speke è il
primo europeo a visitare il territorio. 1890: Il territorio diventa
parte dell’Africa Orientale Tedesca. 1916: le forze belghe
occupano il paese. 1923: la Lega delle Nazioni affida al Belgio il
mandato di governare il Rwanda-Burundi (indirettamente
attraverso i re tutsi). 1946: il Rwanda-Burundi diventa un territorio
fiduciario delle Nazioni Unite, governato dal Belgio. 1957: la
maggioranza hutu pubblica un manifesto in cui chiede una più
giusta ripartizione del potere (proporzionata alla consistenza
numerica dei gruppi etnici); nasce il Partito del movimento di
emancipazione hutu (Parmehutu).
Gli agricoltori hutu si ribellano contro la monarchia; Kigeri VI e
decine di migliaia di tutsi fuggono in esilio. 1961: il Rwanda
diventa repubblica. 1962: dopo una sanguinosa guerra civile, il
Belgio abbandona il territorio; il Parmehutu vince le elezioni; 1°
luglio: il Rwanda diventa indipendente, separandosi dal Burundi;
Gregoire Kayibanda, un hutu, è eletto presidente; molti tutsi
fuggono.
Nuova guerra civile; 20.000 tutsi sono uccisi e 160.000 espulsi dal
23 ottobre
28 dicembre
21 febbraio
6 aprile
7 aprile
9 aprile
16 aprile
21 aprile
Da: http://www.nigrizia.it/atlante/rwanda
12
paese. 1973, luglio: il col. Juvénal Habyarimana rovescia il
governo di Kayibanda. 1978: nuova costituzione; Habyarimana è
eletto presidente.
50.000 hutu burundesi si rifugiano in Rwanda per sfuggire a
violenze etniche. 1990, ottobre: 600 militari del Fronte popolare
del Rwanda (Fpr) invadono il paese dall’Uganda, ma sono respinti.
1991: promulgata la nuova costituzione che consente il
multipartitismo. 1992, marzo: circa 300 tutsi sono massacrati; altri
15.000 si rifugiano nella regione di Mugesera.
Il presidente Juvénal Habyarimana, l’opposizione parlamentare e i
guerriglieri tutsi del Fronte patriottico rwandese (Fpr) firmano ad
Arusha (Tanzania) un accordo di pace che prevede la spartizione
del potere in un governo provvisorio; dal 1990 l’Fpr, muovendo
dall’Uganda, ha compiuto azioni militari in territorio rwandese; il
regime di Habyarimana, espressione della maggioranza hutu ma
non certo un esempio di democrazia, ha il sostegno della Francia.
Nasce la Missione Onu in Rwanda (Minuar), con 2.500 uomini,
operativi da metà dicembre.
Melchior Ndadaye, di etnia hutu, primo presidente burundese
democraticamente eletto, è assassinato da ufficiali tutsi golpisti.
Secondo quanto previsto dagli accordi di pace, un battaglione
dell’Fpr (600 uomini) si installa a Kigali, a protezione dei propri
uomini nel governo di transizione.
1994, 5 gennaio: il presidente Habyarimana presta giuramento
quale presidente del governo provvisorio a base allargata, che deve
essere varato.
È assassinato a Kigali il ministro dei lavori pubblici e dirigente del
Partito socialdemocratico (opposizione hutu); nella notte sono
uccise 70 persone, tutsi o hutu pro-Fpr.
L’aereo del presidente Habyarimana, di ritorno da un vertice
regionale in Tanzania, è abbattuto da un missile poco prima
dell’atterraggio all’aeroporto di Kigali; con lui viaggiava il
presidente burundese Cyprien Ntaryamira.
Cominciano i massacri nella capitale; sono uccisi, tra gli altri, la
primo ministro Agathe Uwilingiyimana e dieci caschi blu belgi che
tentano di proteggerla.
Francia e Belgio intervengono per evacuare i propri connazionali.
Il Belgio, che ha sempre tenuto un atteggiamento filo-tutsi, ritira la
proprie truppe (780 uomini) dalla Minuar.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu riduce a 270 gli effettivi della
Minuar; il rappresentante speciale Onu in Rwanda, Jacques-Roger
12 maggio
17 luglio
1994
1995
1996
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1998
2000
2001
2002
Booh, ha chiesto invano l’invio di una forza di interposizione di
almeno 5.000 uomini.
L’Alto commissariato Onu per i diritti umani definisce “genocidio”
le uccisioni in corso nel paese.
4 luglio: i guerriglieri dell’Fpr conquistano Kigali.
L’Fpr di Paul Kagame ha il controllo del paese e dichiara “la fine
della guerra”; le milizie hutu cercano scampo in Zaire (oggi Rd
Conto), portandosi dietro 2 milioni di rifugiati hutu; le stime più
prudenti ritengono che, in poco più di tre mesi, siano state uccise
500mila persone (in gran parte tutsi, ma anche hutu oppositori di
Habyarimana); c’è anche chi parla di 800mila morti e chi si spinge
fino al milione.
I campi profughi in Zaire cadono sotto il controllo delle milizie
hutu responsabili dei massacri in Rwanda.
Estremisti hutu e forze governative zairesi attaccano i tutsi
banyamulenge (di origine tutsi) che vivono in Zaire; Kinshasa tenta
di forzare i rifugiati a rientrare in Rwanda; un tribunale
internazionale, nominato dalle Nazioni Unite, comincia a giudicare
i responsabili delle atrocità.
Le forze rwandesi attaccano i campi profughi in Zaire, nel tentativo
di sterminare le milizie hutu e costringere i rifugiati a rimpatriare.
Sostenuti dalle forze governative rwandesi e ugandesi, i ribelli
zairesi depongono Mobutu Sese Seko; Laurent Kabila diventa
presidente dello Zaire (rinominato Repubblica democratica del
Congo).
Kabila non mantiene la promessa di espellere gli estremisti hutu e
il Rwanda si allea con nuovi gruppi di ribelli zairesi; ha inizio il
coinvolgimento militare rwandese nell’Rd Congo.
Marzo: in seguito a una sconfitta nella formazione del nuovo
governo, il presidente rwandese Pasteur Bizimungu, un hutu, si
dimette;
Aprile: i ministri e il parlamento eleggono presidente Paul Kagame
(già vicepresidente).
Ottobre: iniziano le elezioni per formare i tribunali tradizionali,
denominati gacaca, per giudicare i “genocidari”;
Dicembre: nuova bandiera e nuovo inno nazionale per promuovere
l’unità e la riconciliazione.
Aprile: l’ex presidente Bizimungu è accusato di attività contro la
sicurezza dello stato e arrestato;
Luglio: Kagame e Kabila firmano un accordo di pace, in virtù del
quale Kigali s’impegna a ritirare le proprie truppe dall’Rd Congo;
2003
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2005
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Kinshasa promette di aiutare a disarmare gli hutu accusati del
genocidio del 1994;
Ottobre: il Rwanda dichiara di aver completato il ritiro delle sue
truppe (ritorneranno 4 anni dopo per sostenere i ribelli congolese
contro il governo di Kabila).
Maggio: si vota la bozza di una nuova costituzione;
Agosto: Kagame vince le elezioni presidenziali;
Ottobre: alle prime elezioni parlamentari multipartitiche il Fpr
ottiene la maggioranza assoluta in parlamento; gli osservatori
europei denunciano irregolarità e frodi;
Dicembre: tre direttori di mezzi di comunicazione, incolpati di
incitare gli hutu a uccidere i tutsi durante il genocidio, sono
condannati all’ergastolo.
Marzo: Kagame rigetta il rapporto francese che lo accusa di aver
ordinato l’abbattimento dell’aereo presidenziale;
Giugno: l’ex presidente Bizimungu è condannato a 15 anni di
prigione.
Marzo: le Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr–
hutu), accusate di aver creato instabilità nell’Rd Congo e di aver
preso parte al genocidio, dichiarano di voler cessare le ostilità;
luglio: il governo libera 36.000 prigionieri accusati di aver preso
parte al genocidio.
Gennaio: le tradizionali 12 province sono rimpiazzate da regioni
più piccole con lo scopo di creare aree amministrative diverse dal
punto di vista etnico;
Novembre: il Rwanda rompe le relazioni diplomatiche con la
Francia, dopo che il giudice francese Jean-Louis Bruguière ha
spiccato un mandato di cattura contro Kagame, ritenendolo
colpevole dell’abbattimento dell’aereo presidenziale;
Dicembre: don Athanase Seromba è il primo prete cattolico a
essere condannato per aver partecipato al genocidio; la Corte
penale internazionale (Cpi) lo condanna a 15 anni di prigione.
Febbraio: altri 8.000 accusati di genocidio sono liberati;
Aprile: l’ex presidente Bazimungu è perdonato e liberato da
prigione;
Ottobre: inizio dell’inchiesta sull’abbattimento dell’aereo
presidenziale;
Novembre: il Rwanda firma un accordo di pace con l’Rd Congo;
secondo l’accordo, il governo di Kinshasa consegnerà a Kigali e
alla Cpi i responsabili del genocidio rifugiatisi nell’Rd Congo.
Gennaio: la polizia francese arresta Marcel Bivugabagabo, ex
2009
ufficiale militare rwandese, il cui nome è sulla lista dei ricercati dal
governo di Kigali;
Febbraio: un giudice spagnolo spicca mandati di cattura contro 40
ufficiali dell’esercito rwandese, accusandoli di genocidio,
terrorismo e crimini contro l’umanità, ma Kagame risponde che il
giudice «può andare all’inferno»;
Maggio: Callixte Kalimanzira, ex ministro, è processato dalla Cpi
per genocidio;
Agosto: il Rwanda accusa la Francia di aver avuto un ruolo diretto
nel genocidio e spicca mandati di cattura nei confronti di 30 alti
ufficiali francesi, ma Parigi nega le accuse; settembre: il Fronte
patriottico rwandese di Kagame ottiene la maggioranza alle
elezioni politiche; l’ex viceprocuratore, Simeon Nshamihigo, è
condannato all’ergastolo da un tribunale Onu per il ruolo da lui
svolto nel genocidio (arrestato nel 2001, mentre lavorava come
investigatore per la difesa sotto falso nome);
Ottobre: il governo decide che la lingua usata nelle scuole è
l’inglese, non più il francese;
Novembre: Rose Kabuye, assistente del presidente Kagame, è
arrestata in Germania, perché ritenuta implicata nell’abbattimento
dell’aereo presidenziale; il Rwanda espelle l’ambasciatore tedesco
e richiama il suo ambasciatore da Berlino;
Dicembre: Simon Bikindi, noto cantante burundese, è condannato a
15 anni di prigione per genocidio; un rapporto Onu accusa il
Rwanda e l’Rd Congo di sostenere i ribelli tutsi nell’est dell’Rd
Congo; Kigali nega di fornire loro le armi e di arruolare bambini
soldato; Theoneste Bagosora (“il colonnello della morte”) è
condannato all’ergastolo per genocidio dal tribunale Onu di Arusha
(Tanzania).
Gennaio: l’ex ministro della giustizia, Agnes Ntamabyariro, è
condannata all’ergastolo per cospirazione, pianificazione del
genocidio e incitamento alla popolazione a prendervi parte;
Febbraio: le truppe rwandesi, dopo essersi spinte nell’Rd Congo
per attaccare ribelli hutu, si ritirano; la Corte condanna a 25 anni
l’ex cappellano militare Emmanuel Rukundo per genocidio e
stupro;
Marzo: Beatrice Nirere, parlamentare e membro del governo, è
giudicata colpevole di genocidio e condannata all’ergastolo da un
tribunale tradizionale (gacaca);
Novembre: il Rwanda è ammesso al Commonwealth; Francia e
Rwanda ristabiliscono le relazioni diplomatiche, dopo 3 anni di
2010
2011
14
interruzione;
Dicembre: il Rwanda è dichiarato “paese libero da mine”; il
presidente Kagame si vede assegnare il premio “Abolizionista
dell’anno” dall’associazione italiana radicale “Nessuno tocchi
Caino”; scoppia la polemica (si accusa Kagame di aver abolito la
pena di morte per indurre gli stati presso cui i molti ricercati
accusati di genocidio si sono rifugiati a restituirgli al Rwanda).
Febbraio: il presidente francese Sarkozy visita Kigali, come segno
di riconciliazione, dopo anni di reciproche accuse sul genocidio;
Marzo: Agathe Habyarimana, vedova del presidente assassinato nel
1994, è fermata nell’Essonne, dipartimento alle porte di Parigi, su
richiesta di Kigali, che ne chiede l’estradizione con l’accusa di
coinvolgimento nella pianificazione del genocidio rwandese;
Aprile: la leader dell’opposizione, Victoire Ingabire Umuhoza, che
s’è detta pronta di competere contro Kagame nelle elezioni di
agosto, è arrestata; poco dopo, anche il suo avvocato finisce in
prigione; due alti ufficiali dell’esercito sono arrestati, pochi giorni
dopo un rimescolamento del governo;
Giugno: Faustin Kayumba Nyamwasa, ex alleato di Kagame ma
divenuto suo oppositore, è ferito in una sparatoria in Sudafrica,
dove vive in esilio; Bernard Ntaganda, candidato del Partito
socialista Imerakuri, e André Kagwa Rwisereka, leader dei Verdi,
sono arrestati; ucciso il giornalista Jean-Léonard Rugambage;
Luglio: ancora arresti e omicidi; arrestata Agnes Uwimana Nkusi,
che ha chiesto chiarezza sulla morte di Rugambage sul suo
giornale; l’opposizione decide il boicottaggio delle presidenziali;
9 agosto: Kagame vince con il 93% dei voti;
Settembre: una fitta rete di organizzazioni non governative
spagnole lancia una campagna che mette nel mirino il presidente
del Rwanda: chiedono che gli sia tolta la copresidenza del gruppo
di sostegno agli Obiettivi del Millennio, fino a che tribunali
francesi e spagnoli non chiariscano le sue responsabilità
sull’attentato che ha innescato il genocidio del 1994 e su recenti
assassini e detenzioni arbitrarie; ottobre: un rapporto dell’Onu
dichiara che gli attacchi delle forze rwandesi contro i civili hutu
rifugiati nell’Rd Congo, se confermati, sarebbero da considerare
“genocidio”; ufficiali militari esiliati, il gen. Kayumba Nyamwasa
e il col. Patrick Karegeya, formano un nuovo partito, il Congresso
nazionale del Rwanda.
Febbraio: Bernard Ntaganda, leader dell’opposizione, è accusato di
2012
2013
fomentare le tensioni etniche e condannato a 4 anni di prigioni;
gruppi per i diritti umani criticano la sentenza;
Giugno: l’ex ministro per la famiglia, Pauline Nyiramasuhuko, è la
prima donna a essere giudicata colpevole di genocidio da una corte
internazionale; settembre: l’ex candidata presidenziale Victoire
Ingabire è portata in corte, accusata di negare il genocidio e di
essere in contatto con un gruppo terroristico;
Novembre: il Rwanda restituisce all’Rd Congo 82 tonnellate di
metalli preziosi rubati dalle sue forze militari;
Dicembre: la Corte penale internazionale libera il leader hutu
Callixte Mbarushimana per insufficienza di prova (è il primo
sospettato a essere liberato da una corte).
Giugno: il Rwanda chiude i gacaca (tribunali tradizione) dopo 10
anni di attività; gruppi per i diritti umani ritengono che queste corti
non hanno mai raggiunto gli standard internazionali richiesti; il
governo dichiara che il 65% dei circa 2 milioni di persone
processate sono state giudicate colpevoli; luglio: Usa, Gran
Bretagna e Olanda bloccato i loro aiuti al Rwanda, dopo che l’Onu
ha accusato il governo di Kagame di fomentare la ribellione
nell’Rd Congo offrendo addestramento alle milizie ribelli (Kigali
nega);
Ottobre: una corte condanna Victoire Ingabire a 8 anni di prigione,
con l’accusa di aver minacciato la sicurezza dello stato; dicembre:
la Corte internazionale per il Rwanda (Ictr), voluta dall’Onu,
condanna Augustin Ngirabatware, ex ministro e ritenuto
organizzatore chiave del genocidio, a 35 anni di prigione.
Febbraio: la Ictr annulla le condanne per genocidio inflitte nel
2011 agli ex ministri Justine Mugenzi e Prosper Mugiraneza,
provocando lo sdegno dei procuratori.
Genocidio ed epurazione etnica nella ex-Jugoslavia
Lo Stato jugoslavo nasce nel 1918 e nel 1945, in seguito alla guerra di
liberazione dal nazifascismo guidata dal comunista Josip Broz, ‘Tito’,
diviene una Repubblica federale formata dalle sei repubbliche di Serbia,
Montenegro, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Croazia e Macedonia, oltre alle
province autonome del Kosovo e della Vojvodina. Dopo la scomparsa di
Tito (maggio 1980), che per circa 40 anni aveva garantito la coesione
pacifica di una realtà fortemente eterogenea dal punto di vista etnico,
politico, religioso e culturale, si apre una fase di instabilità determinata da
un’inflazione crescente, da un forte indebitamento estero e da un farraginoso
sistema decisionale legato alla rappresentanza etnica. Nel 1990 si dissolve la
Lega dei comunisti, il partito unico, dal 1945 punto di riferimento della
Federazione. Da allora cominciano a manifestarsi interessi economici
divergenti, contrasti politici e forti spinte nazionaliste.
Nel 1992 la Slovenia e la Croazia dichiarano la loro indipendenza mentre la
minoranza serba presente nella Croazia si dichiara a sua volta indipendente
Da Daniela Caravaggi, La guerra civile nell’ex-Jugoslavia (1991-95), Treccani.it,
14,06,2006.
15
con l’appoggio militare della Serbia, scatenando il conflitto serbo-croato
(1991-92), che vede il cessate il foco grazie a un intervento dei caschi blu
dell’ONU nel febbraio 1992. La Serbia, alla guida del comunistanazionalista Milosevic, è lo Stato più potente dell’area, difende le sue
prerogative politico-economiche e, con l’obiettivo di una ‘Grande Serbia’,
vuole tutelare i 2 milioni di serbi che vivono al di fuori della repubblica.
Così nel 1992 il fronte si sposta in Bosnia-Erzegovina (con la popolazione
per il 44% musulmana, per il 31% serba, per il 17% croata) dove i serbi si
oppongono all’indipendenza voluta dai musulmani e dai croati. I serbobosniaci e l’esercito federale occupano il 70% della Bosnia, bombardano la
capitale Sarajevo, effettuano operazioni di pulizia etnica e religiosa, stuprano
le donne bosniache. La comunità internazionale dimostra sostanzialmente la
sua impotenza di fronte al conflitto che è terminato nel 1995 grazie
all’imponente intervento armato della Nato, con un bilancio di 250.000
morti ed oltre 2 milioni di profughi. Gli accordi di Dayton (Usa) firmati il 21
novembre 1995 da Milosevic per i serbi, da Tudjman per i croati e da
Izetbegovic per i bosniaci stabiliscono che la Bosnia è un unico stato
composto però da due diverse entità: una Federazione musulmano-croata ed
una repubblica serbo-bosniaca.
DOCUMENTI
CONVENZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI (1948)
Preambolo
Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri
della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il
fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;
Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell’uomo hanno
portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che
l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godono della libertà di parola
e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la
più alta aspirazione dell’uomo;
Considerato che è indispensabile che i diritti dell’uomo siano protetti da
norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere,
come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione;
Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo dei rapporti
amichevoli tra le Nazioni;
Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto
la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore
della persona umana, nell’eguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed
hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un migliore tenore di vita
in una maggiore libertà;
Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in
cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali;
Considerato che una concezione comune di questi diritti e di queste libertà è
della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni;
L’Assemblea Generale proclama
la presente Dichiarazione Universale dei Diritti Dell’Uomo come ideale da
raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo
e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa
Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione,
il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure
progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo
16
riconoscimento e rispetto tanto fra popoli degli stessi Stati membri, quanto
fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.
Art. 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono
dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito
di fratellanza.
Articolo 2
1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella
presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di
colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere,
di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico,
giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona
appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad
amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra
limitazione di sovranità.
Art. 3
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria
persona.
Art. 4
Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; La
schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.
Art. 5
Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli,
inumani o degradanti.
Art. 6
Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua
personalità giuridica.
Art. 7
Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna
discriminazione, ad un’eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto
ad un’eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente
Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.
Art. 8
Ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso a competenti
tribunali nazionali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui
riconosciuti dalla costituzione o dalla legge.
Art. 9
Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.
Art. 10
Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e
pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine
della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della
fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.
Art. 11
1. Ogni individuo accusato di reato è presunto innocente sino a che la sua
colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel
quale egli abbia avuto tutte le garanzie per la sua difesa.
2. Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od
omissivo che, al momento in cui sia stato perpetrato, non costituisse reato
secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del
pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in
cui il reato sia stato commesso.
Art. 12
Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua
vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a
lesioni del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad
essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.
Art. 13
1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i
confini di ogni Stato.
2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e
di ritornare nel proprio Paese.
Art. 14
1. Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle
persecuzioni.
2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente
ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle
Nazioni Unite.
Art. 15
1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza.
2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua
cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.
Art. 16
1. Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una
famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi
17
hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto
del suo scioglimento.
2. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno
consenso dei futuri coniugi.
3. La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto
ad essere protetta dalla società e dallo Stato.
Art. 17
1. Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà privata sua personale o
in comune con gli altri.
2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.
Art. 18
Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione;
tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di
manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la
propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel
culto e nell’osservanza dei riti.
Art. 19
Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il
diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare,
ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza
riguardo a frontiere.
Art. 20
1. Ogni individuo ha il diritto alla libertà di riunione e di associazione
pacifica.
2. Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione.
Art. 21
1. Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio Paese, sia
direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti.
2. Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai
pubblici impieghi del proprio Paese.
3. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale
volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni,
effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una
procedura equivalente di libera votazione.
Art. 22
Ogni individuo in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza
sociale nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la
cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse
di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua
dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.
Art. 23
1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste
e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la
disoccupazione.
2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione
per eguale lavoro.
3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e
soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza
conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, ad altri mezzi di
protezione sociale.
4. Ogni individuo ha il diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la
difesa dei propri interessi.
Art. 24
Ogni individuo ha il diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una
ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite.
Art. 25
1. Ogni individuo ha il diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la
salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo
all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi
sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione,
malattia, invalidità vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei
mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.
2. La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i
bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa
protezione sociale.
Art. 26
1. Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita
almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione
elementare deve essere obbligatoria.
L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e
l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base
del merito.
2. L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità
umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza,
18
l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire
l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
3. I genitori hanno diritto di priorità nella scelta di istruzione da impartire ai
loro figli.
Art. 27
1. Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale
della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico
ed ai suoi benefici.
2. Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali
derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia
autore.
Art. 28
Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i
diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere
pienamente realizzati.
Art. 29
1. Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è
possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.
2. Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere
sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per
assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e della libertà degli altri e
per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del
benessere generale in una società democratica.
3. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati
in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni Unite.
Art. 30
Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di
implicare un diritto di qualsiasi Stato gruppo o persona di esercitare
un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle
libertà in essa enunciati.
CONVENZIONE PER LA PREVENZIONE
E LA REPRESSIONE DEL DELITTO DI GENOCIDIO (9 dicembre 1948)
Adottata dalla Risoluzione 260 (III) A dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite il 9 dicembre 1948. Entrata in vigore il 12 gennaio 1951.
Le Alte Parti Contraenti
- considerando che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella
Risoluzione 96 dell’11 dicembre 1946 ha dichiarato che il genocidio è un
crimine di diritto internazionale, contrario allo spirito e ai fini delle Nazioni
Unite e condannato dal mondo civile;
- riconoscendo che il genocidio in tutte le epoche storiche ha inflitto gravi
perdite all’umanità;
- convinte che la cooperazione internazionale è necessaria per liberare
l’umanità da un flagello così odioso,
- convengono quanto segue:
Art. I -: Le Parti Contraenti confermano che il genocidio, sia che venga
commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è
un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire e a
punire.
Art. II - Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli
atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un
gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
(a) uccisione di membri del gruppo;
(b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
(c) il sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a
provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
(d) misure miranti a impedire le nascite all’interno del gruppo;
(e) trasferimento forzato di bambini del gruppo a un altro gruppo.
Art. III - Saranno puniti i seguenti atti:
(a) il genocidio;
(b) la cospirazione mirante a commettere genocidio;
(c) l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio;
(d) il tentativo di commettere genocidio;
(e) la complicità nel genocidio.
Art. IV - Le persone che commettono il genocidio o uno degli atti elencati
nell’articolo III saranno punite, sia che rivestano la qualità di governanti
costituzionalmente responsabili o che siano funzionari pubblici o individui
privati.
19
Art. V - Le Parti Contraenti si impegnano a emanare, in conformità alle loro
rispettive Costituzioni, le leggi necessarie per dare attuazione alle
disposizioni della presente Convenzione, e in particolare a prevedere
sanzioni penali efficaci per le persone colpevoli di genocidio o di uno degli
altri atti elencati nell’articolo III.
Art. VI - Le persone accusate di genocidio o di uno degli altri atti elencati
nell’articolo III saranno processate dai tribunali competenti dello Stato nel
cui territorio l’atto è stato commesso, o dal tribunale penale internazionale
competente rispetto a quelle Parti Contraenti che ne abbiano riconosciuto la
giurisdizione.
Art. VII - Il genocidio e gli altri atti elencati nell’articolo III non saranno
considerati come reati politici ai fini dell’estradizione.
Le Parti Contraenti si impegnano in tali casi ad accordare l’estradizione in
conformità alle loro leggi e ai trattati in vigore.
Art. VIII - Ogni Parte Contraente può invitare gli organi competenti delle
Nazioni Unite a prendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, ogni
misura che essi giudichino appropriata ai fini della prevenzione e della
repressione degli atti di genocidio o di uno qualsiasi degli altri atti elencati
all’articolo III.
Art. IX - Le controversie tra le Parti Contraenti, relative all’interpretazione,
all’applicazione o all’esecuzione della presente Convenzione, comprese
quelle relative alla responsabilità di uno Stato per atti di genocidio o per
uno degli altri atti elencati nell’articolo III, saranno sottoposte alla Corte
internazionale di Giustizia, su richiesta di una delle parti impegnate nella
controversia.
Art. X - La presente Convenzione, di cui i testi cinese, inglese, francese,
russo e spagnolo fanno ugualmente fede, porterà la data del 9 dicembre
1948.
Art. XI - La presente Convenzione sarà aperta fino al 31 dicembre 1949 alla
firma da parte di ogni Stato membro delle Nazioni Unite e di ogni Stato non
membro al quale l’Assemblea Generale abbia rivolto un invito a tal fine.
La presente Convenzione sarà ratificata, e gli strumenti di ratifica saranno
depositati presso il Segretario generale delle Nazioni Unite.
Dal gennaio 1950, alla presente Convenzione potranno aderire qualsiasi
Stato membro delle Nazioni Unite e qualsiasi Stato non membro che abbia
ricevuto l’invito summenzionato. Gli strumenti di adesione saranno
depositati presso il Segretario generale delle Nazioni Unite.
Art. XlI - Ogni Parte Contraente potrà, in qualsiasi momento, mediante
notificazione indirizzata al Segretario generale delle Nazioni Unite,
estendere l’applicazione della presente Convenzione a tutti i territori o a uno
qualsiasi dei territori riguardo ai quali abbia la responsabilità dei rapporti
con l’estero.
Art. XIII - Nel giorno in cui i primi venti strumenti di ratifica o di adesione
saranno stati depositati, il Segretario generale redigerà un processo verbale
e trasmetterà una copia di esso a ciascuno Stato membro delle Nazioni
Unite e a ciascuno degli Stati non membri previsti nell’articolo XI.
La presente Convenzione entrerà in vigore il novantesimo giorno successivo
alla data del deposito del ventesimo strumento di ratifica o di adesione.
Qualsiasi ratifica o adesione effettuata posteriormente a quest’ultima data
avrà effetto il novantesimo giorno successivo al deposito dello strumento di
ratifica o di adesione.
Art. XIV - La presente Convenzione avrà una durata di dieci anni a partire
dalla sua entrata in vigore.
In seguito essa rimarrà in vigore per successivi periodi di cinque anni fra
quelle Parti Contraenti che non l’avranno denunciata almeno sei mesi prima
della scadenza del termine.
La denuncia sarà effettuata mediante notificazione scritta indirizzata al
Segretario generale delle Nazioni Unite.
Art. XV - Se, in conseguenza di denunce, il numero delle Parti firmatarie
della presente Convenzione diverrà inferiore a sedici, la Convenzione
cesserà di essere in vigore dalla data in cui l’ultima di tali denunce avrà
efficacia.
Art. XVI - Una domanda di revisione della presente Convenzione potrà
essere formulata in qualsiasi momento da qualsiasi Parte Contraente,
mediante notificazione scritta indirizzata al Segretario generale.
L’Assemblea Generale deciderà le misure da adottare, se del caso, in ordine
a tale domanda.
Art. XVII - Il Segretario generale delle Nazioni Unite notificherà a tutti gli
Stati membri delle Nazioni Unite e agli Stati non membri previsti
nell’articolo XI i seguenti atti:
(a) le firme, ratifiche e adesioni ricevute in applicazione dell’articolo XI;
(b) le notificazioni ricevute in applicazione dell’articolo XII;
(c) la data in cui la presente Convenzione entrerà in vigore, in applicazione
dell’articolo XIII;
(d) le denunce ricevute in applicazione dell’articolo XIV;
20
(e) l’abrogazione della Convenzione, in applicazione dell’ articolo XV;
(f) le notificazioni ricevute in applicazione dell’articolo XVI.
Art. XVIII - L’originale della presente Convenzione sarà depositato
nell’archivio delle Nazioni Unite.
Una copia certificata conforme sarà inviata a tutti gli Stati membri delle
Nazioni Unite e a tutti gli Stati non membri previsti nell’articolo XI.
Art. XIX - La presente Convenzione sarà registrata dal Segretario generale
delle Nazioni Unite alla data della sua entrata in vigore.
che offre una panoramica completa sull’argomento, a partire dal genocidio
armeno, per arrivare ai giorni nostri, passando in rassegna la Cambogia di
Pol Pot, il genocidio rwandese e le violenze etniche verificatesi nel corso
delle guerre balcaniche degli anni Novanta.
Interessanti e sconvolgenti sono anche le raccolte di testimonianze delle
vittime e dei perpetratori.
Nel vasto numero di libri sul tema si segnala in particolare per l’efficacia dei
racconti riportati:
MASSIMO NAVA, Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace, Roma: Fazi,
2005.
Un libro che raccoglie interventi di sopravvissuti di tutti i genocidi e le
violenze collettive del Novecento con l’intento di creare una nuova “cultura
di rappacificamento”.
SVEN LINDQUIST, Sterminate quelle bestie, Albert Bonniers Förlag AB,
Stoccolma, 1992, trad. it., Milano: Ponte alle Grazie, 2000.
Dedicato all’analisi delle ideologie genocidiarie che hanno generato l’odio
razziale e la cultura dell’eliminazione del “diverso” concepito come
“nemico”, attraverso l’ascolto dei protagonisti delle stragi.
In particolare sul genocidio rwandese di consiglia la consultazione di:
YOLANDE MUKAGASANA, ALAIN KAZINIERAKIS, Le ferite del silenzio.
Testimonianza sul genocidio del Rwanda, Parigi: Atelier graphique Actes
Sud, 2001, trad. it. Bari: Edizioni La Meridiana, 2008.
Sulla Cambogia è utile la lettura dei diario di Peeuw, una bambina
sopravvissuta, che consegna alla stampa i suoi ricordi delle violenze viste e
vissute. N. Ginzburg, autrice di una bella introduzione al libro, paragona il
testo di Peeuw a una sorta di “Diario di Anna Frank”, per fortuna concluso
in modo meno tragico:
MOLYDA SZYMUSIAK, Il racconto di Peeuw bambina cambogiana, Parigi:
Editions La découverte, trad. it., Torino: Einaudi, 1986.
Sulla Ex-Jugoslavia infine si veda:
NEDAL VELICKOVIC, Diario di Maja. Un’adolescenza a Serajevo, Roma:
Editori Riuniti, 1995.
Infine; per comprendere il significato psicologico della violenza sociale può
essere interessante il breve, ma denso, volumetto:
WOLFGANG SOFSKY, Il paradiso della crudeltà. Dodici saggi sul lato
oscuro dell’uomo, Torino: Einaudi, 2001.
Bibliografia ragionata
Sulla tematica del genocidio sono stati pubblicati numerosi studi di carattere
storico relativi ai diversi contesti geografici dove si sono verificate violenze
e stragi di massa qualificate all’interno di questa etichetta giuridica.
L’ambito più dibattuto è ovviamente quello della Shoah, da cui lo stesso
concetto di genocidio è stato elaborato, a partire dalle riflessioni e dalle
azioni di Lemklin.
Su questa ampia tematica può essere utile la lettura di:
GEORGES BENSOUSSAN, Storia della Shoah, trad. it. Firenze: Giuntina,
2013.
Si tratta di un libro agile, di facile comprensione, ma molto documentato e
soprattutto scritto da uno degli storici contemporanei più esperti
sull’argomento, direttore scientifico del Memorial de la Shoah di Parigi, il
primo istituto e archivio mondiale per la storia dello sterminio ebraico.
Dello stesso autore si raccomanda la consultazione del recentissimo volume:
La Shoah in 100 mappe, Gorizia: LEG Edizioni, 2016.
L’opera infatti analizza l’intero arco temporale in cui si è realizzata la
distruzione degli ebrei in Europa tramite una ricca raccolta di immagini e
mappe geografiche che illustrano in modo efficace e chiaro le tappe del
processo storico e gli effetti che hanno prodotto sulla popolazione ebraica.
Un’ampia ricostruzione storica dei genocidi del XX secolo è presentata dal
testo di:
ROBERT GELLATELY, BEN KIERNAN (a cura di), Il secolo del genocidio,
trad. it., Milano: Longanesi, 2005.
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