Scarica un estratto del libro

Transcript

Scarica un estratto del libro
i saggetti
9
Vania Lucia Gaito
Il genocidio del Rwanda
Il ruolo della Chiesa cattolica
© 2014 L’Asino d’oro edizioni s.r.l.
Via Saturnia 14, 00183 Roma
www.lasinodoroedizioni.it
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6443-254-0
ISBN ePub 978-88-6443-255-7
ISBN pdf 978-88-6443-256-4
Copertina: disegno di Massimo Fagioli
A Massimo, per avermi insegnato
che la verità viene prima della giustizia
Indice
Premessa
ix
Capitolo 1. Un regno camitico nel cuore dell’Africa
3
5
10
14
17
21
1.1.
1.2.
1.3.
1.4.
1.5.
La colonizzazione
I Padri bianchi
«Divide et impera»
Il vescovo Perraudin
Il ‘piccolo genocidio’
Capitolo 2. La diaspora e la guerra
2.1.
2.2.
2.3.
2.4.
2.5.
La guerriglia
La fine dei massacri
I misteri
Il Tribunale penale internazionale per il Rwanda
Lettera dal Rwanda: 14 dicembre 2003
Capitolo 3. «Odierai il tuo fratello tutsi»
3.1.
3.2.
3.3.
3.4.
3.5.
3.6.
3.7.
3.8.
3.9.
Padre Athanase Seromba
Emmanuel Uwayezu
Padre Hormisdas Nsengimana
Suor Gertrude e suor Kisito
La croce e il machete di padre Rukundo
Il vescovo Augustin Misago
Guy Theunis, il giornalista dei Padri bianchi
Lettera dal Rwanda: 27 dicembre 2003
Il negazionismo
25
30
35
40
49
51
55
57
62
63
68
71
73
76
78
82
3.10.Lettera dal Rwanda: 18 dicembre 2003
3.11.Giovanni Paolo II
Capitolo 4. Sopravvivere
4.1.
4.2.
4.3.
4.4.
Lettera dal Rwanda: 24 dicembre 2003
Il rapporto degli esperti
Lettera dal Rwanda: 9 aprile 2004
«Levis sit tibi terra»
Capitolo 5. Il futuro del Rwanda
5.1. Intervista a Michela Fusaschi
5.2. Rwanda 2020
Bibliografia
89
94
97
104
110
115
119
121
124
146
151
Premessa
La prima volta che parlai del Rwanda, di cosa era accaduto in Rwanda, fu una sera d’inverno del 2008, a Trento. Ero stata invitata a tenere un convegno sulla genesi
della pedofilia e della pederastia nella Chiesa cattolica.
Mi avevano detto che ci sarebbe stato freddo, invece
trovai una temperatura mite, quasi primaverile. Forse fu
per quello che la sala messa a disposizione degli organizzatori dalla Regione si riempì in fretta. A un certo punto,
accennai alle responsabilità della Chiesa anche in altre
situazioni vergognose, non solo nelle migliaia di vicende
di abusi sessuali sui bambini. Parlai dei danni procurati
dalle cosiddette missioni caritatevoli. Presi ad esempio
il Rwanda, sottolineando il ruolo che avevano giocato la
Chiesa e i missionari nella genesi delle teorie razziali, nei
genocidi. Mi guardarono sorpresi. Genocidi? Al plurale? Perché al plurale?
Così raccontai. Raccontai quello che non sapevano.
Vicende, meccanismi, motivazioni. Guardavo le facce
e leggevo stupore, annichilimento e come una sorta di
affascinato raccapriccio. Io raccontavo e loro ascoltavano, dritti, tesi sulle sedute delle poltroncine imbottite
ix
Il genocidio del Rwanda
x
che improvvisamente diventavano scomode. E il tempo
gocciolava via. Ogni tanto mi fermavo, chiedevo se fossero stanchi. Scuotevano le teste e basta, solo gli occhi
chiedevano di andare avanti. Gli altri relatori ascoltavano con lo stesso interesse, muti, dimentichi del tempo
che stavo rubando ai loro interventi. Alle undici salì un
usciere, fece cenno a uno degli organizzatori: si stava
facendo tardi. Provai a chiudere. Mi sommersero di domande.
Alle undici e mezzo fece capolino di nuovo l’usciere.
Con la faccia seccata, questa volta. Era stanco e voleva
andare a casa. Si fermò sulla soglia, come a ricordarci
con la sua presenza che era ora di andare via. Dopo un
poco fece due passi nella sala, e dopo un poco ancora si
sedette. Dimenticando l’ora.
A mezzanotte ne salì un altro, più determinato. E
praticamente ci sgomberò. Restarono tante cose non
dette, tante domande a cui non avevo avuto il tempo di
rispondere. Un discorso lasciato in sospeso e quella voglia di capire, di conoscere. Non erano tanto gli agghiaccianti dettagli di stupri, omicidi a colpi di machete e
stermini a interessarli. Era il perché, era il comprendere
i meccanismi che avevano portato a quella cieca volontà
di distruzione. Perché certi meccanismi, che coniugano
il potere con il fanatismo, sono sempre gli stessi, uguali
in qualunque parte del mondo, soprattutto quando il
potere si rende forte con la fede, che sia cattolica o musulmana, ebraica o buddista. Era il meccanismo di quel
trinomio che erano interessati a capire, potere-fedefanatismo.
La strumentalizzazione della fede, di qualsiasi fede,
per ottenere e mantenere il potere. La strumentalizzazione della fede, di qualsiasi fede, per istigare un uomo
Premessa
contro un altro uomo ad annientarlo, massacrarlo a colpi di machete e mazze chiodate. Ecco, quella strumentalizzazione è la stessa ovunque.
È in nome di una ricompensa promessa dalla fede divenuta fanatismo cieco che un musulmano si imbottisce
di esplosivo e si fa saltare in aria come un pacco di stracci
su un autobus, in una scuola, in un centro commerciale.
È in nome di quella fede che i palestinesi di Gaza vengono bombardati da Israele con il fosforo bianco che li
cuoce vivi, corrode le carni, fa morire in un’agonia straziante e fa desiderare che la morte arrivi presto, presto,
con il suo pietoso sudario d’oblio.
È in nome di quella fede che si aizzano uomini contro
altri uomini, li si spinge a ucciderli tutti, uomini, donne, bambini, perché di quella razza bisogna distruggere
perfino le radici.
Perché proprio il Rwanda, quindi? Altri genocidi, fin
troppo vicini, fin troppo benedetti dalla Chiesa, ce n’erano. La ex Jugoslavia, alle porte di casa nostra, ricordi
di tempi non lontani. Il genocidio del Kosovo, portato avanti dai militari serbi, figlio delle politiche razziali
di Pavelić e del regime ustaša appoggiati dal cardinale
Stepinac, beatificato da Giovanni Paolo II. Un regime
che usava continuamente termini come Dio, religione,
papa, Chiesa, per attuare i suoi stermini. Vescovi e preti
sedevano nel Sabor, il parlamento ustaša. Religiosi fungevano da ufficiali della guardia del corpo di Pavelić. I
cappellani ustaša giuravano obbedienza dinanzi a due
candele, un crocifisso, un pugnale e una pistola. I gesuiti, ma più ancora i francescani, comandavano bande
armate e organizzavano massacri. Affermavano che non
era «più peccato uccidere un bambino di 7 anni, se questo infrange la legge degli ustaša».
xi
Il genocidio del Rwanda
xii
O anche la dittatura militare in Argentina, con l’allora nunzio apostolico, amico intimo di Emilio Massera,
Pio Laghi, denunciato dalle Madres di Plaza de Mayo
al governo italiano perché «collaborò attivamente con i
membri sanguinari della dittatura militare e portò avanti
personalmente una campagna volta a occultare, tanto verso l’interno quanto verso l’esterno del paese, l’orrore, la
morte e la distruzione. Monsignor Pio Laghi lavorò attivamente smentendo le innumerevoli denunce dei familiari delle vittime del terrorismo di Stato e i rapporti di organizzazioni nazionali e internazionali per i diritti umani».
E ancora, la dittatura spagnola del generalissimo
Franco, che rovesciò la repubblica spagnola armato di
fucili e crocifisso. Il sodalizio con la Chiesa, già durante
la guerra civile, aveva portato il vescovo di Salamanca,
Enrique Pla y Daniel, a scrivere in una lettera pastorale
che lo scontro cruento fra i cittadini spagnoli «riveste sì
l’aspetto esteriore di una guerra civile, ma è in realtà una
crociata» e ancor più «una crociata per la religione, per
la patria e per la civiltà».
Perché dunque proprio il Rwanda?
Perché in Rwanda quei meccanismi, quelle commistioni, quelle manipolazioni della fede, quella brama di
potere erano particolarmente ‘nudi’, evidenti a chiunque volesse dare un’occhiata più da vicino, soffiando via
la polvere.
Perché quello del Rwanda sarebbe dovuto essere l’ultimo genocidio, quello che fa dire a un uomo, a ogni
uomo: mai più.
Perché in Rwanda non c’erano sovrastrutture ideologiche e culturali a coprire l’infamia.
Perché in Rwanda non si è consumata una lotta tribale, come tentarono di farci credere.
Premessa
Perché il Rwanda può essere la Grecia, la Spagna,
l’Italia. Sì, l’Italia.
Perché il potere usa sempre Dio e l’odio, in una combinazione letale.
Perché mai come in Rwanda la Chiesa cattolica ha
fatto scempio della sua stessa dottrina, dei suoi
princìpi
fondamentali,
del
suo
primo
comandamento: ama il prossimo tuo...
xiii
Il genocidio del Rwanda
Il ruolo della Chiesa cattolica
Ringraziamenti
Grazie a Federica, per avermi concesso di utilizzare le sue lettere. E grazie a Federico. Lui sa perché.
Capitolo 1
Un regno camitico nel cuore dell’Africa
Quando arrivò l’uomo bianco, noi possedevamo la terra
ed egli portava la Bibbia. Ci ha insegnato a pregare e ci ha
detto: «Chiudete gli occhi e pregate». Quando abbiamo
aperto gli occhi, noi portavamo la Bibbia e lui possedeva
la terra.
Mwalimu Julius Nyerere,
padre dell’indipendenza della Tanzania
«Erano le 17 e 43 minuti del 6 aprile 1994. Fino a quel
momento, era stato un mercoledì come gli altri a Kigali.
All’Hôtel des Milles Collines, rendez-vous della crema
cittadina, i cooperanti belgi e canadesi si affollavano
attorno alla piscina vociando con i loro orrendi accenti mentre ingurgitavano birra Primus o Mateus Rosé.
Benché non fossero ancora le sei del pomeriggio, per la
maggior parte erano già brilli e in fregola.
«In tutto il tempo che ho passato da quelle parti, non
sono mai riuscito a capire che cosa facessero i cooperanti, salvo mangiare i soldi della Banca mondiale e dare la
caccia alle puttane. I soldi non mancavano mai, le puttane nemmeno. Erano ancora più numerose dei coope-
3
Il genocidio del Rwanda
4
ranti. Anche la barmaid era una puttana, benché avesse
soltanto 17 anni. Lo so perché la conoscevo, si chiamava
Mado. In circostanze normali, le tutsi sono le donne più
fiere del mondo, ma in certe circostanze anche le donne
più fiere diventano puttane. Tutti sanno quello che è
successo in Italia e in Francia all’arrivo degli americani
durante l’ultima guerra. Perfino le Figlie di Maria si vendevano per una tavoletta di cioccolata. Almeno, quelle
del Milles Collines costavano più care.
«Pur essendo le donne più fiere del mondo, in quelle circostanze erano puttane, perché quelle circostanze
non erano normali. E non erano normali perché le donne in questione erano tutsi mentre l’etnia dominante
era hutu. In Rwanda gli hutu avevano tutti i diritti, i
tutsi nessuno. E sui passaporti c’era scritto tutsi oppure
hutu».
Lui si chiama in un altro modo, ma i ruandesi lo chiamano Dragor. È italiano ma il Rwanda lo conosce bene:
gli ha dato molto e gli ha preso altrettanto. Forse più di
quanto gli abbia dato. E, sebbene adesso viva a Nizza,
l’Africa gli è rimasta dentro, incancellabile. Di quell’Africa, di quel Rwanda, di quella tragedia, ogni tanto parla. Per non dimenticare.
«Mado stava piangendo perché un grosso commerciante hutu, appena tornato da Parigi, le aveva ordinato
un Pernod e lei aveva risposto che il bar era sprovvisto
di quel liquore. ‘Sei una selvaggia’ aveva sbraitato l’hutu
in francese per far capire a tutti che era appena tornato
da Parigi, cercando goffamente d’imitare l’accento parigino. ‘Una contadina’ aveva aggiunto alzando ancora
di più la voce: in Rwanda paysanne, contadina, è un insulto. ‘Come fai a non avere il Pernod? Non sei... non
sei...’. Una pausa in cerca della parola giusta, poi scandì
1.1. La colonizzazione
Geograficamente, il Rwanda è poco più grande della Sicilia. Un pugno di terra stretto tra i confini dei colossi
centroafricani: la Tanzania, il Congo, l’Uganda. Ma non
assomiglia alla Sicilia, assomiglia alla Svizzera: colline
verdi, terrazzate fino in cima per permettere le coltivazioni, e un clima eccezionalmente mite e secco dove
l’inverno non esiste. Lo chiamano «il paese delle mille
colline». A guardarlo dall’aereo il verde invade gli occhi,
mangia ogni ritaglio di terra.
A Kigali non sembra neppure che vi sia stata la guerra. Manciate di case basse sparpagliate per le colline, la
terra rossa disegna lunghi serpenti tra il verde brillante. All’arrivo in aeroporto, tutti i sacchetti di plastica
vengono sequestrati. Fa parte del programma per l’ambiente: i sacchetti di plastica sono inquinanti, e quindi
proibiti. Formano grandi montagne in un angolo. Che
cosa ne facciano, poi, come se ne liberino, non si sa.
Un regno camitico nel cuore dell’Africa
le sillabe come fanno gli africani ignoranti quando pronunciano una parola difficile: ‘Ci-vi-li-sée’.
«Ci-vi-li-sée. Non scorderò mai quella parola e quella pronuncia. Ci-vi-li-sée. Perché in quel momento, da
lontano, venne un rumore che fece tremare leggermente
i bicchieri e le bottiglie sui tavoli. Un rombo di tuono,
un colpo di fucile. Si sarebbe potuto scambiare per l’uno o per l’altro. Invece era il rumore di un aereo che si
disintegrava in una palla di fuoco. L’aereo del presidente
dittatore del Rwanda, Juvénal Habyarimana. E quel rumore segnò il confine. Da quel momento il Rwanda non
sarebbe più stato lo stesso».
5
Il genocidio del Rwanda
6
I bianchi sono m’zungu, stranieri. E i loro pregiudizi
su di noi sono tanti quanti sono i nostri su di loro. Essere
m’zungu, in Rwanda, significa essere oggetto di richieste
continue: bambini che si attaccano ai vestiti, alle gambe, tendono le mani in un perpetuo chiedere. Vogliono
qualche spicciolo, qualche dolce. Ma non solo i bambini.
Per i ruandesi, per gli africani, un m’zungu significa denaro, opportunità, tecnologia, ricchezza. Non immaginano neppure che anche tra i bianchi c’è la miseria, la più
grande delle disgrazie. Non immaginano quante persone,
proprio nella terra che credono ricca e felice, facciano la
fila alle mense dei poveri per un pasto caldo, per un letto.
Qui è considerato maleducato scattare foto alle persone senza aver chiesto prima il permesso. Ed è considerato maleducato chiedere a quale etnia appartengano.
Nella nuova Costituzione ruandese si legge che lo Stato
si impegna a «combattere l’ideologia del genocidio e
tutte le sue manifestazioni, sradicare divisioni etniche,
religiose o di altro tipo e promuovere l’unità». E dopo quello che è accaduto qui, parlare di etnia, di hutu,
di tutsi, significa farsi guardare con sospetto. Non solo
dalle istituzioni, ma anche dalla gente. Hanno paura. E
nei loro occhi c’è sempre una domanda non espressa,
una richiesta che non sa tradursi in parole: tu da che
parte stai, tu a chi credi? Perché anche qui la verità è
fatta di tante verità differenti e a cercarne una sola, a
volerne trovare una sola, si finisce con il dimenticare da
quanto lontano venga la fiamma dell’odio e chi la accese.
E invece non bisogna dimenticarlo. Perché chi accese
quella fiamma non era un hutu, non era un tutsi, non era
ruandese. Era bianco. Era m’zungu.
A portare in Rwanda il concetto di razza furono i
bianchi, i colonizzatori. Lo esportammo così come oggi
Un regno camitico nel cuore dell’Africa
pretendiamo di esportare il concetto di democrazia. In
nome di una presunta missione civilizzatrice, i colonizzatori europei portarono in Africa i propri preconcetti
e li imposero a un intero popolo. Un popolo che condivideva la stessa lingua e lo stesso dio, Imana, l’essere
supremo, il creatore, il dispensatore di tutti i benefici.
Un popolo che aveva una storia, prima che gli imponessimo la nostra. Una storia fatta di secoli di convivenza.
Una storia che non comprendeva il concetto di razza,
quanto semmai quello di casta. Una storia che i ruandesi
non avevano scritto mai: si erano affidati ai miti, alle
leggende, ai racconti passati di bocca in bocca. È sempre facile sostituire la storia scritta alla storia raccontata.
Le parole sembrano più vere quando si condensano in
gocce d’inchiostro sulla carta.
E la storia del Rwanda scritta dai colonizzatori raccontava di tre popolazioni diverse, arrivate in tempi
diversi nel paese. I primi erano stati i twa, molti secoli
prima della nascita di Cristo: piccoli di statura – non
arrivavano al metro e mezzo –, gli uomini cacciavano
e le donne pescavano. I bianchi, millenni più tardi, li
ribattezzarono pigmei.
Poi arrivarono gli hutu, più o meno duemila anni fa.
Si strutturarono in piccoli regni, spesso in rivalità gli uni
con gli altri. Sapevano coltivare la terra ed erano appena
un poco più alti dei twa: una quindicina di centimetri
in più. E furono forse quei quindici centimetri in più a
farli sentire migliori, superiori. O forse fu il fatto che i
twa fossero rimasti così ‘primitivi’: facevano i cantanti,
gli indovini, gli stregoni; tuttavia, nei loro confronti, gli
hutu nutrivano una sorta di inspiegabile rispetto, un timore superstizioso, e ritenevano che l’uccisione di un
twa provocasse le ire degli spiriti maligni.
7
Il genocidio del Rwanda
8
Centinaia di anni più tardi, nel XV secolo, arrivarono
i tutsi. Provenivano dall’Etiopia, e si portavano appresso
la propria cultura, le proprie tradizioni, i propri costumi. Erano alti, più degli hutu. Nei primi anni Sessanta,
in Italia, spopolava una canzone di Edoardo Vianello,
I watussi, che rimase a lungo in testa alle classifiche e
tuttora è una delle più popolari tra le hit di quegli anni.
La suonavano i jukebox dei bar sulle spiagge, la ballavano le maggiorate nei primi, scandalosi, bikini, sul
ritmo dell’hully gully. I tutsi, però, avevano ben poco
in comune con gli «altissimi negri» cantati da Vianello.
Erano un popolo di pastori: avevano enormi mandrie di
bovini, e queste costituivano la loro grande ricchezza.
Non impiegarono troppo tempo a prendere il potere,
annettendo un po’ alla volta tutti i piccoli regni degli
hutu in un unico Stato, governato dal mwami, il re. E
sebbene al mwami fosse riconosciuto ogni potere per
diritto divino, nelle decisioni di governo si avvaleva
anche degli abiiru, un gruppo di consiglieri composto
esclusivamente da hutu. Agli hutu, infatti, erano attribuiti poteri sovrannaturali che, associati alla potenza militare dei tutsi, costituivano il cuore dello Stato. Gli abiiru
stabilivano le regole di governo: pur non governando
essi stessi, suggerivano se fare una guerra oppure no,
designavano l’erede legittimo e la famiglia dalla quale
doveva provenire.
Nella storia scritta dai colonizzatori, influenzati dalle
teorie razziali assai diffuse in Europa nella seconda metà
dell’Ottocento, si esagerarono le differenze tra hutu e
tutsi e si minimizzarono le somiglianze. Il significato
stesso dei termini ‘hutu’ e ‘tutsi’, anche se originariamente riferiti a due differenti etnie, nel corso del tempo
si era evoluto: soprattutto i matrimoni misti avevano
Un regno camitico nel cuore dell’Africa
sfumato le differenze etniche, se pure ve ne erano state,
e alla fine i termini hutu e tutsi erano essenzialmente etichette di classe e di casta. A differenza di quanto si può
presumere leggendo la storia scritta dai colonizzatori,
il 90 per cento dei tutsi apparteneva alle masse di contadini poveri e non alla classe aristocratica, e non tutti
gli hutu erano servi della gleba. I termini hutu e tutsi
indicavano quindi differenti classi sociali: i primi erano
i poveri, i secondi erano i ricchi. Ma una tale organizzazione della società non era immutabile: quando il figlio
di un hutu si arricchiva entrava nel novero dei potenti,
quando il figlio di un tutsi si impoveriva diveniva nulla
più che un popolano. Esistevano diversi meccanismi di
condivisione del potere. Le funzioni di capo non erano ereditarie e, in linea di principio, erano accessibili a
tutti. Il re poteva nominare capo anche una persona di
origini modeste, come riconoscimento della sua lealtà,
del suo coraggio o per importanti servigi resi. Non era
insolito che un hutu avesse particolare influenza sul re
nelle questioni di governo. Gli abiiru, del resto, avevano
un grande ascendente.
I primi europei che arrivarono in Rwanda furono i
tedeschi, alla fine del XIX secolo, e ci rimasero per una
ventina d’anni. Forse l’unico vero elemento di civiltà che
esportarono nel «paese delle mille colline» fu l’abolizione della schiavitù, ma si dimostrarono subito molto più
interessati allo sfruttamento economico del paese che
alla diffusione di valori etici e culturali. E, subito dopo,
giunsero i missionari: i Padri bianchi.
9