Storie di Leader

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Storie di Leader
I N T ROD U ZI O N E
Napoleone Bonaparte, Nelson Mandela, Steve Jobs, Anita Roddick, Michael Jordan…
Cosa hanno in comune?
L’attributo di leader. Ognuno, a suo modo, ha realizzato i propri sogni, si è posto obiettivi sfidanti, li
ha perseguiti con costanza e determinazione. Questo fa di essi dei modelli a cui ispirarsi.
Nelle prossime pagine riportiamo una selezione dei migliori articoli pubblicati finora nella newsletter Leader di te
stesso dedicati a chi, per ragioni diverse, rappresentano un modello di leadership.
Vi racconteremo la loro storia anche attraverso le loro parole.
Pensiamo che non vi sia nulla di meglio che raccontare delle storie per parlare di leadership perché, come dice
Tom Peters,
Le storie sono ciò che anima il “ragionamento”.
Le storie ci “autorizzano” ad agire.
Le storie sono fotografie di chi vorremmo essere.
Le storie provocano risposte emotive.
Le storie mettono in relazione.
Le storie siamo noi.
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N A P OL E ON E B O N APA RT E
Un piccolo uomo, un grande leader
Quando lo incontrò per la prima volta
l'aristocratico principe Von Metternich
rimase colpito ed anche deluso da
quell'aspetto tanto lontano dall'immagine
di un imperatore. Il principe si trovò di
fronte un uomo basso, piuttosto goffo e
che pareva non conoscere l'etichetta.
Nonostante ciò Napoleone Bonaparte fu
un grande leader e riuscì a guidare non
solo un esercito, ma un intero popolo.
Dotato di un carattere forte e
determinato, della capacità di prendere
decisioni fulminee e di uno spirito
strategico, Napoleone Bonaparte
costituisce ancora oggi un esempio di
leadership e le sue parole contengono
insegnamenti preziosi e ci permettono di
conoscerlo meglio di quanto non abbiamo
fatto studiando su libri di scuola le sue
grandi gesta.
"L'apprendere non è vergogna, ma maestria".
La capacità e l'umiltà di imparare è ciò che
permette al leader di adattarsi alle
situazioni e di trarre anche dalle sconfitte
gli insegnamenti per fare sempre meglio in
futuro.
"Non sono un dio, non potevo fare tutto da
solo: avrei potuto salvare la nazione soltanto
con l'aiuto della nazione"
Il vero leader sa di non essere un eroe
solitario, ma sa che non si compiono grandi
opere senza il contributo di coloro che lo
circondano.
"In ogni tempo, il coraggio e lo spirito hanno
moltiplicato le forze fisiche e continueranno a
farlo."
La forza fisica è senza dubbio una
componente fondamentale per un uomo
di guerra, eppure Napoleone non ne era
particolarmente dotato e dimostrò che
questa carenza poteva essere colmata con
una straordinaria forza di carattere.
"Per giungere alla testa di un esercito, devi
avere una gran capacità di conoscere gli
uomini."
Per guidare un esercito, una nazione o
semplicemente un gruppo di persone è
necessario possedere una profonda
sensibilità e acuta conoscenza delle varie
pieghe dell'animo umano.
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V E RO N E. J OR DAN , JR
Sfr utta al massimo ciò che hai
Vernon E. Jordan, Jr è una personalità di
spicco della società americana, avvocato e
leader del movimento per i diritti civili,
consigliere di presidenti, senior managing
director della società di investimenti Lazard
Freres & Co. Nel 2002 ha pubblicato un
libro dal titolo "Vernon Can Read! A
Memoir" (Vernon sa leggere! Una
memoria), dove racconta come, pur
muovendo da una situazione non certo
favorevole, riuscì ad avere successo e ad
affermarsi nella società, soprattutto grazie
alla tenacia e determinazione della madre
Mary Belle Jordan.
viaggiare fosse il modo migliore per
imparare e non voleva privare i propri figli
di questa opportunità.
Era il suo progetto quello che contava. La sua
strategia per tirare su i figli neri durante
l’infanzia nel Sud segregato derivava dal suo
approccio generale alla vita: sfrutta al
massimo ciò che hai, fai del tuo meglio
quando la posta è alta e aspettati un
buon risultato dai tuoi sforzi.
Dopo il secondo anno all’università, Vernon
iniziò a lavorare come autista alle
dipendenze di Robert Maddox, figura di
spicco nell’élite bianca cittadina: Direttore
della First National City Bank di Atlanta ed
ex presidente dell’American Bankers
Associations.
Ogni giorno Vernon, alla guida di una
Caddillac blu quattro porte, conduceva
Maddox all’ufficio alla First national City
bank e successivamente al Capital City
Club, dove Maddox prendeva l’aperitivo e
pranzava. Poi, si tornava a casa per il
sonnellino pomeridiano.
Alle 18.00 poi Vernon vestiva i panni del
maggiordomo, ma, avendo a disposizione
tutto il pomeriggio, che trascorreva
prevalentemente nella biblioteca privata di
Maddox.
Una bella sfida per un ragazzo nero, come
Vernon, che viveva in Georgia poco dopo
l’abolizione della schiavitù legalizzata.
La maggior parte dei neri non poteva
votare. Erano tempi duri per un sognatore.
Ma così era mia madre: una donna nera,
illetterata, senza istruzione, ma con una
laurea a pieni voti alla scuola della vita ,
venuta dalla campagna georgiana nella
grande città di Atlanta a cercarsi un posto
migliore. Per lei era un vertiginoso atto di
coraggio sognare e aspettarsi che i figli si
facessero strada in un mondo che non era
stato costruito per loro.
La madre di Vernon fece tutto ciò che era
possibile per garantire ai propri figli
un’istruzione solida e tale da offrire chance
di crescita, anche se si trattava di assumere
la presidenza del consiglio d’istituto o
sborsare 70 dollari per una gita scolastica a
Washington. Una bella somma nel 1946
ma Mary Belle Jordan era convinta che
Quello fu il primo viaggio in treno e il primo
a Washington. Percorsi Pensylvania Avenue,
salii sul monumento a Washington e vidi tutti
i luoghi famosi che il Distretto i Columbia
aveva da offrire. Alla sera i bambini bianchi
rimasero in albergo e i bambini neri
dormirono in cuccetta in un vecchio studio.
Ma per me fu un’esperienza favolosa. E
come mia madre aveva predetto, m’insegnò
moltissimo. Inoltre, sapevo che un giorno
sarei tornato.
Shakespeare, Emerson Thoreau, ma anche i
discorsi più importanti dell’epoca: quella
meravigliosa libreria aveva tutto. Giorno dopo
giorno, sedevo à circondato dai libri,
dall’atmosfera creata dai volumi e dalle
poltrone. Lo stile di vita simboleggiato da
quella stanza – la dedizione alla conoscenza
e la possibilità di acquistarla – toccò in me
una corda che risuona ancora adesso. Mi
ricordo di aver pensato: a questo serviva
andare all’università, a diventare un membro
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della comunità in grado di apprezzare un
luogo simile. Sentivo di appartenervi. E lo
volevo per me e la mia famiglia.
Un pomeriggio Maddox sorprese Vernon
in biblioteca e gli chiese cosa facesse in
quel luogo. Vernon rispose che stava
leggendo ed il ricco signore ne fu stupito.
Vernon aggiunse che andava all’Università e
lo stupore di Maddox crebbe quando
seppe che non si trattava di una scuola per
persone nere, ma della Depauw
University di Greencastle, nell’Indiana
notoriamente frequentata da ragazzi e
ragazze bianchi.
“Studi per diventare insegnante o
predicatore?” chiese nuovamente l’anziano
signore.
“In realtà farò l’avvocato, signor Maddox.”
Questi rispose seccamente che non era
previsto che i neri facessero l’avvocato.
Vernon rispose solo: Io lo farò”.
Nonostante ciò iIl vecchio permise a
Vernon di proseguire la propria lettura.
Quella sera, mentre cenava con i figli e le
nuore e Vernon serviva , Maddox disse: “ho
un annuncio da fare… Vernon sa leggere”
Tutti restarono in silenzo. “E va all’università
V ERON E. J ORDAN , JR
Sfr utta al massimo ciò che hai
con i ragazzi bianchi”. Di nuovo silenzio. Poi
commentò: “Sapevo che tutto questo
sarebbe accaduto, ma sono contento
perché non ci sarò quando succederà”.
Anche se ero seccato per il comportamento
di Maddox, allora non pensai, né lo penso
adesso, che sarebbe servito a qualcosa
rimbeccarlo per il suo aggressivo
conservatorismo. Ognuno di noi deve
decidere quante assurdità può sopportare
nella vita e da chi è disposto ad accettarle.
Tutto dipende, naturalmente dalla situazione
e dalle persone coinvolte.
Vernon continuò a lavorare per Maddox
anche durante la scuola di diritto. Nel
frattempo latteggiamento di Maddox era
lievemente mutato, ora l’anziano efacoltoso
uomo cil Il carattere dei miei rapporti con
Maddox subì un lieve mutamento, una
volta che seppe chi io ero realmente. Ogni
tanto faceva commenti su un problema di
attualità e ne discuteva con me. La cosa
durò per tutto il tempo che lavorai per lui
durante gli anni dell’università e alla scuola
di diritto che frequentai soprattutto perché
mia madre pensava che potessi farlo.
Anni dopo scortai Charlaune Hunter in
mezzo alla folla alla University of Georgia
per liberare quell’istituzione dalla
segregazione razziale. Un domestico mi
desse che lo stesso Maddox stava
guardando alla televisione l’evento,
accompagnato da una vasta pubblicità. La
prima studentessa nera all’università della
Georgia.
Ora mi rendo conto che quanto
desideri nella vita è in funzione di ciò
che pensi di meritare e puoi
raggiungere. Nonostante le previsioni del
mondo banco per me, mia madre aveva
voluto che compissi grandi cose perché
sentiva che ne ero in grado. E mi fece
sempre capire che ero destinato ad
un’esistenza più piena di quella in cui ero
nato. Il suo messaggio per me fu di insistere
sempre. Usa al meglio ciò che hai
contro difficoltà apparentemente
insormontabili. E mentre vai avanti,
trasmetti il tuo ottimismo e la tua fede
alla generazione successiva.
Oggi consigliere di presidenti.
Vernon E. Jordan, Jr
Selezione marzo 2003
Da Vernon can read a memory 2001
La sua infermiera mi riconobbe e gli
domandò: “Signor Maddox, sa chi è
quell’avvocato di colore?”
“Non credo” rispose lui
“È il suo autista Vernon”.
Maddox guardò fisso lo schermo poi
commentò: “Lo sapevo che quel negro non
avrebbe combinato niente di buono”.
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M A RT I N LU T E R KI N G
I have a dream
Per coloro che hanno smesso di sognare,
perché "tanto i sogni non si realizzano mai",
per chi ha perso la forza di credere in un
destino migliore, per tutti noi è ancora vivo
e risuona come un monito il messaggio di
Martin Luter King, l'uomo passato alla
storia grazie ad un grande sogno.
Nato nel 1929 in una famiglia dalla lunga
tradizione pastorale, dopo le lauree in
sociologia e teologia diviene pastore. La
partecipazione attiva al movimento per i
diritti civili costa a King l'incarcerazione,
multe e persecuzioni di vario genere, che
giungono fino all'attentato. A queste
provocazioni King risponde invocando la
non violenza. La battaglia non violenta
porta i primi frutti: nel 1956 King è uno dei
primi passeggeri a salire sugli autobus non
più sottoposti al regime segregazionista. Il
28 agosto, di fronte ai partecipanti alla
marcia di Washington per l'occupazione e
la libertà, Martin Luter King pronuncia uno
dei discorsi più celebri della storia. Da esso
e dal discorso pronunciato in occasione
della consegna del premio nobel,
assegnatogli nel dicembre del 1964, sono
tratti i seguenti brani.
"Non possiamo camminare da soli. E mentre
camminiamo, dobbiamo impegnarci con un
giuramento: di proseguire sempre avanti. Non
possiamo voltarci indietro."
"Credo ancora che noi vinceremo : questa
fede ci può dare il coraggio di affrontare le
incertezze del futuro. Potrà dare nuovo vigore
ai nostri piedi affaticati, mentre continuiamo
ad avanzare verso la città della libertà".
"Amici, fratelli, ho un sogno. Un Sogno grande,
un sogno immenso. E sono pronto a morire
per vedere realizzato questo Sogno".
"I sogni non sempre si realizzano, è vero. Ma
non perché siano troppo grandi o impossibili.
Perché si smette di crederci."
"La grandezza nella vita sta nella grandezza
del Sogno in cui si è deciso di credere."
"Mi rifiuto di accettare l'idea che l'uomo
com'è, nella sua natura presente, sia per ciò
stesso moralmente incapace di elevarsi a
raggiungere l'eterno uomo come dovrebbe
essere che in eterno lo interpella. Mi rifiuto di
accettare l'idea che l'uomo sia un semplice
relitto e rifiuto, abbandonato alla corrente del
fiume della vita in cui è immerso".
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N E L SO N M A ND E L A
La fede del leader
La nostra paura più profonda, non è quella
d'essere inadeguati.
La nostra paura più profonda è d'esser
potenti oltre misura.
E' la nostra luce, non le tenebre che più di
tutto ci spaventa.
Chiediamo a noi stessi "Chi sono io per
essere brillante, formidabile,
pieno di talento e risorse?"
Ma di fatto chi siamo noi per non esserlo?
Siamo figli e figlie di Dio.
Il nostro giocare "al ribasso" non serve al
mondo.
Non c'è niente d'illuminato nel ridurre noi
stessi per far sì
che gli altri non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo nati per rendere manifesta la gloria di
Dio che è dentro di noi.
Non è che sia solo in alcuni di noi è in
ognuno di noi.
Quando permettiamo alla nostra Luce
propria di risplendere inconsciamente,
accordiamo il permesso ad altre persone di
fare lo stesso.
Nel liberarci dalle paure, la nostra presenza,
automaticamente, libera gli altri.
Queste parole suonano come un vero e
proprio atto di fede e non potevano che
essere pronunciate da un grande leader
come Nelson Mandela.
Nelson Rolihlahla Mandela nasce il 18
Luglio del 1918, figlio di un capo della tribù
Thembu, dimostra fin da giovane un
temperamento forte e volitivo. Nel 1944,
dopo la laurea in giurisprudenza, diviene
membro dell'ANC, African National
Congress, il movimento contro
l’"Apartheid".
Nel 1960 si verifica un evento che segnerà
profondamente la sua vita, "il massacro di
Shaperville", dove vengono uccisi 69
militanti dell'ANC. Nelson Mandela decide
di dare vita ad una frangia militarista
dell’ANC, che si propone di sovvertire il
regime e di difendere i diritti della
popolazione nera con le armi. Nel 1963
viene rinchiuso in prigione con la condanna
all’ergastolo, ma questo non gli impedisce
di diventare il simbolo della lotta contro la
segregazione razziale e di scuotere
l’opinione pubblica internazionale con
l’affermazione che “più potente della paura
per l'inumana vita della prigione è la rabbia
per le terribili condizioni nelle quali il mio
popolo è soggetto fuori dalle prigioni”.
Nel febbraio del 1985, sentendo la
pressione di vasti strati dell'opinione
internazionale, l'allora presidente
sudafricano Botha gli offre la libertà, purché
rinneghi la guerriglia. Mandela rifiuta, ma
cinque anni più tardi per lui si aprono le
porte del carcere e con suo stupore viene
accolto da una folla festante, non solo di
neri, ma anche di bianchi. L’Africa è
cambiata. E questo anche grazie a lui. Nel
1991 è eletto presidente dell'ANC e nel
1993 è insignito del premio Nobel per la
pace, mentre l'anno dopo, durante le
prime elezioni libere del suo paese (le
prime elezioni in cui possono partecipare
anche i neri), viene eletto presidente della
Repubblica del Sudafrica e capo del
governo, restando in carica fino al 1998. La
vita di Nelson Mandela è la prova più
evidente del potere della fede espressa nel
passo soprariporatto. Egli seppe trascinare
la popolazione nera, convincendola a
lottare per i propri diritti, ma toccò anche il
cuore dell’opinione pubblica internazionale
e dei grandi della terra, cambiò l’aspetto di
un’intera nazione, si liberò dal carcere, uscì
vincitore da una battaglia contro le
multinazionali farmaceutiche… Come può
un uomo fare tutto questo senza la forza
derivante da una grande fede?
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DA LE C AR N E GI E
A lezioni di socievolezza
Dale Carnegie nacque da una famiglia di
agricoltori nel Missouri. Venne educato al
Warrensberg State Teachers College. Da
venditore e aspirante attore, cominciò ad
insegnare comunicazione a New York, nel
1912, e all’età di 24 anni tenne le sue
prime lezioni di parlare in pubblico.
Erano lezioni volte a mettere delle
persone adulte in grado di pensare e
immediatamente comunicare ad un
pubblico il loro pensiero con la massima
chiarezza espositiva, incisività ed equilibrio.
Man mano che le classi gli sfilavano davanti,
si rendeva conto che quelle persone, più
che di lezioni di retorica, necessitavano di
imparare l’arte di convivere col prossimo
nelle situazioni quotidiane e comprese che
relazionarsi con le persone era (e resta
ancora oggi) un problema per tanti.
I risultati positivi sia nella sfera personale
che in quella professionale dipendono più
da doti umane come la personalità e la
capacità di farsi seguire dalla gente, che
non da capacità e conoscenze puramente
tecniche. All’epoca non esisteva ancora un
manuale “pratico” da seguire in merito a
come trattare le persone. Fu così che, nel
1936, venne pubblicato il suo primo libro
“Come trattare gli altri e farseli
amici”, ancora oggi uno dei libri più letti e
tradotti nel mondo.
Dalla fase di preparazione alla stesura del
libro, Carnegie lesse tutto il materiale
possibile: rotocalchi, quotidiani, riviste,
resoconti giudiziari, opere di antichi filosofi
e moderni psicanalisti, articoli, biografie.
Tutto per comprendere come i grandi
personaggi si comportavano con gli altri.
Intervistò molte persone famose, cercando
di capire la tecnica che questi usavano nei
rapporti interpersonali.
Da tutto questo materiale, Carnegie creò
30 principi comportamentali che inserì nel
suo famoso libro. Riguardo a ciò ha sempre
ripetuto: “Può sembrare incredibile, ma
l’applicazione di queste regole ha spesso
rivoluzionato la vita della gente. Se si pensa
alla nostra potenzialità effettiva, noi facciamo
uso di una piccola parte delle nostre risorse
fisiche e mentali. Per dirla molto chiaramente,
l’essere umano vive molto, ma molto al di
sotto delle sue possibilità. Possiede risorse alle
quali non ricorre mai”.
Ora vediamo alcuni dei 30 principi di Dale
Carnegie per diventare una persona più
socievole:
1. Non criticate, non condannate,
non recriminate.
Nove volte su dieci la gente non accetta
critiche sul proprio modo di comportarsi,
per quanto sbagliato possa essere.
La critica è inutile perché pone le persone
sulla difensiva e le induce immediatamente
a cercare una giustificazione. È pericolosa
perché ferisce l’orgoglio della gente, la fa
sentire impotente e suscita risentimento.
Il risentimento per le critiche ricevute può
demoralizzare i propri collaboratori, i
familiari, gli amici, senza contribuire in alcun
modo a migliorare la situazione.
Invece di condannare l’operato della gente,
cercate piuttosto di capirla. Cercate di
immaginare perché la gente fa quello che
fa. È molto più utile e interessante che
criticare, senza contare che genera
simpatia, tolleranza e gentilezza.
Come dice il dottor Johnson: “Dio stesso
non giudica nessun uomo prima che sia
arrivata la fine dei suoi giorni”. Perché
dovremmo essere più precipitosi noi?
2. Siate prodighi di apprezzamenti
onesti e sinceri.
John Dewey, uno dei più profondi filosofi
degli Stati Uniti, sosteneva che “il bisogno
più sentito della natura umana è il desiderio
di essere importanti”. Una delle virtù più
rare, ma più importanti, è proprio quella di
saper gratificare la gente, spesso
trascuriamo di lodare i nostri figli per la
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buona pagella, o incoraggiare le ragazze nei
loro tentativi di cucinare.
Nei nostri rapporti interpersonali non
dobbiamo mai dimenticare che i nostri
compagni di vita o di lavoro sono esseri
umani e in quanto tali avidi di gratificazioni.
Il segreto è di manifestare un po’ di
gratitudine, sprizzare scintille di simpatia
nella vostra vita quotidiana; vi sbalordirà
constatare quante fiammelle di amicizia si
accenderanno intorno a voi.
Smettiamo per un momento di pensare ai
nostri successi, ai nostri desideri.
Cerchiamo di notare anche i pregi altrui. E
niente adulazione. L’apprezzamento deve
essere onesto e sincero. Siate pieni di
calore nell’approvare l’operato altrui, siate
prodighi di lodi meritate e la gente si godrà
ogni vostra parola, ne farà tesoro e la
ricorderà per tutta la vita, anni e anni dopo
che voi avrete scordato anche che faccia
aveva.
3.Suscitate negli altri un desiderio
intenso di fare ciò che proponete.
Ciascuno prova interesse per ciò che
desidera, anche se agli altri non importa
niente. Viceversa gli altri sono come noi, e
ciascuno s’interessa di quel che piace a lui.
La sola via sicura per influenzare una
persona consiste nel conversare di quanto
le interessa.
Se domani vi succederà di dover
DAL E C ARN EGI E
A lezioni di socievolezza
convincere qualcuno a fare qualcosa,
chiedetevi: “Come posso fare in modo che
questa persona arrivi a desiderare la stessa
cosa che voglio io?”. Questa domanda ci
impedirà di cacciarci in situazioni senza
sbocco e di perderci in futili e
controproducenti chiacchiere sui nostri
desideri. Un giorno Henry Ford disse: “Se
esiste un segreto per il successo, direi che sta
tutto nel riuscire a vedere dal punto di vista
dell’altra persona, ad uniformarsi all’angolo di
visuale altrui”.
4. Interessatevi sinceramente agli
altri.
Per essere ben accolti ovunque, basta
studiare la tecnica del più grande
conquistatore di amici che il mondo abbia
mai conosciuto. Lo si può incontrare
facilmente lungo le vie delle nostre città. Se
ti avvicini, comincia a scodinzolare, se ti
fermi e lo accarezzi quasi salterebbe fuori
dalla pelle per mostrarti quanto gli piaci. E
sappiamo che dietro questa dimostrazione
d’affetto non si nascondono bieche
motivazioni: non vuole venderci niente e
neppure ci vuole sposare.
I cani ci insegnano che ci si fa più amici in
due mesi mostrandosi sinceramente
interessati agli altri, che non in due anni
tentando di indurre gli altri a interessarsi a
noi.
Se volete che gli altri vi apprezzino, se
volete sviluppare veramente delle amicizie,
se volete aiutare gli altri e nello stesso
tempo aiutare voi stessi, allora nutrite un
sincero interesse per le altre persone.
5. Sorridete.
Non sorrisi falsi, stereotipati, che non
ingannano nessuno. Ma un sorriso
semplice, spontaneo, cordiale, che
conquista i cuori.
Se volete che la gente sia contenta di stare
con voi, bisogna che anche voi dimostriate
che siete contenti di trovarvi in loro
compagnia.
Tutti cercano la felicità e questo è il modo
certo di trovarla: controllando i propri
pensieri. La felicità non dipende dalle
condizioni esterne, ma dal proprio stato
interiore. Non è quello che abbiamo o che
siamo o dove siamo o che cosa stiamo
facendo che ci può rendere felici o infelici.
È quello che pensiamo. Un antico
proverbio cinese recita: “Un uomo che non
sa sorridere non dovrebbe mai aprire un
negozio”. Il sorriso è un messaggio di buona
volontà. Il vostro sorriso illumina la vita di
tutti quelli che vi vedono. Per qualcuno che
ha incontrato un sacco di gente cupa,
scorbutica, o che ha girato la testa dall’altra
parte, il vostro sorriso è come un raggio di
sole tra le nuvole. Specie se questo
qualcuno è già sotto pressione per
problemi di capoufficio, clienti, professori,
genitori o figli, il sorriso può aiutarlo a
rendersi conto che niente è perduto, che
c’è tanta positività al mondo. Perché
nessuno ha più bisogno di un sorriso di chi
non ne ha più da dare.
6. Ricordate che per una persona, in
qualsiasi lingua, il suo nome è il
suono più dolce e più importante
che esista.
Le persone di solito sono più interessate al
proprio nome che non a tutti gli altri che
esistono sulla terra. Ricordate quel nome e
ripetetelo appena vi si presenta l’occasione
e avrete fatto un efficacissimo
complimento.
Molta gente non si ricorda i nomi
semplicemente perché non fa alcuno
sforzo per tenerli a mente e si scusa
dicendo che non ha buona memoria.
Cinquanta volte su cento, quando
incontriamo uno sconosciuto, gli parliamo
per pochi minuti e non riusciamo
nemmeno a ricordarci il suo nome quando
ci congediamo.
Dovremmo essere consci del magico
potere nascosto in un nome. E capire che
questa singola particolarità è di proprietà
esclusiva del suo possessore. I nomi
distinguono gli individui. Li rendono unici
fra tutti gli altri. Le informazioni che
forniamo e le richieste che facciamo
assumono importanza particolare se
accompagnate dal nome di un individuo.
Dalla cameriera al più alto dirigente, il
nome è una formula magica, quando
dobbiamo trattare con gli altri.
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7. Siate buoni ascoltatori.
Incoraggiate gli altri a parlare di se
stessi.
Qual è il segreto, il mistero, per uscire
vittoriosi da un colloquio d’affari? Prestare
la massima attenzione alla persona che
parla. Con un ascolto attivo, guardando
l’interlocutore come se ascoltaste anche
con gli occhi, rispondendovi mentalmente
e man mano valutando quello che state
ascoltando. Alla fine la persona che ha
parlato avrà quasi l’impressione che siete
stati voi a parlare.
Chiaro e semplice, eppure quanti
commercianti pagano affitti da favola,
spendono migliaia di euro in pubblicità,
preparano vetrine bellissime e non hanno il
buon senso di assumere commessi che
sappiano ascoltare il cliente con un minimo
di garbo, senza interromperlo, contraddirlo,
irritarlo e indurlo ad andarsene a mani
vuote?
Anche la persona più brutale, più litigiosa,
più criticona del mondo si calma e si
tranquillizza alla presenza di qualcuno che
la ascolta con pazienza e simpatia, che
rimane silenzioso mentre lei va su tutte le
furie e sprizza veleno da tutti i pori.
Molta gente non riesce a fare buona
impressione perché non ascolta con
attenzione, sono così preoccupati di quello
che stanno per dire che non si
preoccupano certo di ascoltare. Le
persone preferiscono avere a che fare con
buoni ascoltatori piuttosto che con buoni
oratori. Ma la capacità di ascoltare sembra
più rara di qualsiasi altra cosa.
Così, se volete diventare dei buoni
conversatori, siate prima di tutto degli
ascoltatori attenti. Per interessare,
mostratevi interessati. Fate domande che
sapete fanno piacere al vostro
interlocutore. Incoraggiatelo a parlare di sé
e dei propri successi.
E non dimentichiamoci che ascoltare è
importante anche in famiglia, almeno
quanto sul lavoro.
DAL E C ARN EGI E
A lezioni di socievolezza
8. Parlate di ciò che interessa agli
altri.
Come suscitare l’interesse della gente? La
strada maestra per arrivare al cuore delle
persone è quella di parlare delle cose che
più le interessano. E Theodore Roosevelt
conosceva questo segreto; infatti, tutti
coloro che sono stati suoi ospiti, hanno
avuto modo di stupirsi per l’enciclopedica
cultura del presidente. Che il suo visitatore
fosse un cow-boy, un politico di New York
o un diplomatico, Roosevelt sapeva di cosa
parlare. Come faceva? La risposta è
semplice. Se attendeva un ospite, la sera
prima stava sveglio fino a tardi, per leggersi
l’essenziale su un soggetto che sapeva
sarebbe stato gradito al suo visitatore.
Parlare tenendo conto degli interessi
dell’altra persona è utile ad entrambi gli
interlocutori.
La certezza che ogni persona è in grado di
crescere personalmente e
professionalmente, se riesce ad utilizzare
maggiormente le capacità e i talenti
naturali che possiede, portò Dale Carnegie
a sviluppare uno dei più significativi
programmi formativi mai creati, il “Dale
Carnegie Course”.
Quando fondò la sua società nel 1912,
sognava di influenzare positivamente e in
modo significativo la vita delle persone
adulte per mezzo di training in aula.
Dall’iniziale visione del suo fondatore La
Dale Carnegie Training ha avuto uno
sviluppo tale da diventare ormai un
simbolo nel business della formazione.
Oggi l’azienda è presente in tutti i 50 stati
dell’Unione e in 90 Paesi nel resto del
mondo tra cui l’Italia.
9. Fate sentire importanti gli altri e
fatelo sinceramente.
C’è una legge molto importante che regola
i rapporti con i nostri simili. Se seguiamo
questa legge, non avremo mai problemi, ci
porterà amici in abbondanza e felicità
duratura. La legge dice: date sempre agli
altri la certezza d’essere importanti.
Il più grande desiderio della natura umana
è quello di essere apprezzati. Si sente
bisogno dell’approvazione di coloro con i
quali si viene in contatto, si vuole vedere
riconosciuta la propria dignità, si vuole la
consapevolezza di sentirsi importanti nel
nostro piccolo mondo. Niente adulazione
falsa, ma approvazione espressa con la
massima naturalezza e sincerità. E
risulterete subito simpatici alle persone.
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E N Z O FE R R AR I
Un sogno tutto italiano
"Sono i sogni a far vivere l'uomo. Il destino è
in buona parte nelle nostre mani, sempre che
sappiamo chiaramente quel che vogliamo e
siamo decisi ad ottenerlo".
Sembra una delle tante frasi che
provengono da oltreoceano, magari di un
personaggio come Martin Luter King, Steve
Jobs, Walt Disney, prodotti della mentalità
tipica americana per cui tutto è possibile,
basta crederci veramente.
Eppure, come dimostra la storia dell’autore
di questa frase, i sogni non si realizzano
solo in America, possono avverarsi anche
in una piccola cittadina italiana devastata
dalle guerra.
Lui è Enzo Ferrari, un grande genio uno dei
più grandi esempi di leadership che l’Italia
abbia mai conosciuto.
Enzo Ferrari nacque a Modena nel 1898.
Fin da giovane provò una forte attrazione
per il mondo delle corse automoblistiche,
di cui entrò a far parte al termine della
prima guerra mondiale, prima come
collaudatore e poi, dal 1919, come pilota,
ottenendo anche una serie di successi con
cui attrasse l'attenzione dell'Alfa Romeo.
Ma Enzo Ferrari era molto più che un
pilota; si occupava anche dello sviluppo e
della messa a punto delle macchine e
progressivamente questa occupazione
prese il sopravvento sulla prima.
“Per me le corse sono una passione disse in un’intervista - per altri sono solo
affari".
E da questa passione per le corse nacque il
suo grande sogno, che si realizzò nel 1929
con la fondazione della propria scuderia
simbolicamente rappresentata dal cavallino
rosso.
Come i grandi leader del passato Enzo
Ferrari amava la battaglia.
Così lo ricorda Mauro Forghieri, ingegnere
capo dal 1959 al 1987: “Era più forte nei
momenti difficili che nella vittoria, era
più forte nella sconfitta, perché amava le corse”.
Enzo Ferrari combatté con tutte le proprie
forze nel 1944, quando la sua officina
venne distrutta dai bombardamenti.
In quell’occasione disse: “Se riesco a salvare
qualcosa, sono sicuro che un giorno potrò
dedicarmi esclusivamente alla costruzione
delle macchine da corsa e ogni domenica le
mie macchine correranno
contemporaneamente in uno o due paesi nel
mondo. Non vi sembra importante vincere
una o due volte lo stesso giorno?”
E combatté perfino quando la Ford
realizzò il motore crosword, finché tornò a
vincere nel 1964 con la 158, considerata
come un monumento alla sua tenacia.
A tal riguardo un giornalista disse: "Ferrari si
è arrabbiato e la rabbia l'ha ringiovanito di
dieci anni”.
Per la verità nel petto di quest’uomo
continuò a battere fino alla fine il cuore di
un giovane, mai sazio di ciò che poteva
riservargli la vita.
Durante un'intervista fatta quando ormai
avrebbe potuto, data l’età, ritirarsi
dall’attività, alla domanda: "Qual'è la
macchina più importante che ha
costruito?" Enzo Ferrari rispose senza
alcuna esitazione: “Quella che devo
ancora costruire".
Il suo pensiero era sempre proiettato in
avanti, più avanti degli altri, correva più
veloce della realtà. Ogni giorno avrebbe
voluto inserire nelle proprie macchine una
novità. Seguire i suoi ritmi era spesso
un’impresa alquanto ardua per i suoi
collaboratori.
Negli ultimi istanti di vita si dichiarò
onorato di tutti i riconoscimenti ricevuti
nel corso della propria carriera, ma disse
che la soddisfazione vera era data dalla
constatazione di aver realizzato il proprio
sogno e riconobbe parte del merito di
questo ai suoi collaboratori, che erano
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riusciti a capire i suoi desideri.
Egli scelse i propri collaboratori tra coloro
che erano dei veri e propri leader nel
proprio settore, i migliori piloti e progettisti
presenti sul mercato e pretese da essi
sempre il meglio.
E di nuovo Ferrari rivive in questo ricordo
di Forghieri: “Sapeva infondere una grande
carica a tutta la squadra. Spingeva tutti a
credere nel risultato... Era un sicuro punto di
riferimento. Dopo una corsa andata male
magari si sfogava, ma subito dopo era come
un padre che ci dava la forza per continuare,
per fare del nostro meglio”.
Idee chiare, determinazione, tenacia e
spirito di squadra, queste sono alcune delle
doti principali di un leader, che Enzo Ferrari
seppe declinare in modo tutto italiano, con
vivacità ed ironia.
A N I TA RO DD I C K
Il lato femminile della leader ship
Siamo soliti pensare che la leadership sia
una prerogativa maschile, quasi alla donna
sia destinato esclusivamente il ruolo della
compagna del leader o della grande donna
che però, non si sa perché, sta “sempre
dietro un grande uomo”.
In realtà esistono molti esempi di
leadership al femminile, a cui anche gli
uomini possono ispirarsi, come quello di
Anita Roddick, una delle donne più ricche
d’Inghilterra, fondatrice della catena The
Body Shop e nota per l’impegno sociale.
Eppure ammette la Roddick: “Non ho mai
frequentato una business school, né mi sono
mai occupata di questioni finanziarie… per
la verità non ho mai neppure letto un libro di
economia”.
Ma in fondo ciò non l’ha mai preoccupata
perché sostiene che “Il business non è una
scienza finanziaria, ma ha a che fare con il
commercio: comprare e vendere. Riguarda la
produzione di prodotti o servizi talmente
buoni che le persone sono disposte a pagarli
per averli”.
Il vero segreto del successo di Anita?
Forse è espresso in questa sua frase.
“Considero il business non solo come un
lavoro ma come un modo onorevole di vivere
dove puoi, usando la tua immaginazione,
sviluppare lo spirito umano”.
Anita Roddick ha sempre avuto ben chiara
la propria mission: “fare prodotti che
funzionano e che nulla hanno a che fare con
le menzogne raccontate alle donne
dall’industria cosmetica… Assicurandoci di
ridurre al minimo l’impatto ambientale nel
processo di produzione, di eliminare le scorie,
di restituire qualcosa alla nostra comunità…
andiamo là dove il business non andrebbe
mai, perché crede che quella non sia la
direzione”.
Oggi The Body Shop è un’azienda quotata
in borsa con oltre 1900 negozi in tutto il
mondo. La sua fondatrice viene spesso
premiata per il suo impegno a difesa
dell’ambiente ed il sostegno di
organizzazioni come Greenpeace, Friends
of the heart ed Amnesty International.
La filosofia di Anita?
Se fai una cosa bene, falla meglio.
Osa, sii il primo, sii diverso, sii
onesto.
Come è nato The Body Shop?
A questa domanda Anita risponde
candidamente: “Avevo bisogno di
guadagnare di più per poter mantenere i
miei figli mentre mio marito era in Sud
Africa”.
Anita Roddik nasce nel 1942 da una
famiglia di immigranti italiani che gestiscono
un caffè a Littlehampton.
Dopo il college Anita lavora
all’International Herald tribune a Parigi, fa
l’insegnante in Inghilterra, lavora per le
nazioni unite a Ginevra e poi parte per
l’Africa da cui viene espulsa per aver
violato le leggi sull’apartheid.
Anita torna così nel proprio paese dove si
sposa, ha due figli ed insieme al marito
decide di aprire un ristorante.
Un bel giorno il marito le comunica
l’intenzione di prendere parte ad una gara
a cavallo dal Sudamerica a New York, che
lo terrà lontano per due anni.
Anziché farsi abbattere da questa
situazione Anita ne trae uno stimolo per
costruire qualcosa di veramente
importante.
Le viene l’idea di creare un’attività nel
campo dei cosmetici, ma diversa dalle altre
per il fatto di impiegare soltanto ingredienti
naturali. Inoltre pensa di vendere i prodotti
in confezioni piccole e convenienti per
indurre nelle clienti la tentazione di
provarli.
Anita riesce ad ottenere un prestito
bancario, usando il ristorante come
garanzia. Il primo negozio sorge a Brighton
vicino ad un’impresa di pompe funebri. Le
pareti del negozio vengono dipinte di
verde, non tanto per una scelta stilistica ma
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per coprire delle macchie di umidità ed il
packaging è ridotto al minimo con materiali
riciclabili ed etichette scritte a mano dalla
stessa Anita. In fondo qualcuno deve aver
pensato che faceva tanto minimal chic.
“Avevo solo una scatola con 700 bottiglie ricorda Anita - così chiedevo alle clienti di
tornare con la confezione vuota per
ricaricarla”.
Il negozio di Brighton va molto bene, così
la Roddick decide di aprirne un altro e non
si ferma neppure quando la banca le rifiuta
un finanziamento. Si rivolge ad un uomo
d’affari della zona, Ian Mc Glinn, che diviene
suo socio al 50% in cambio di un
investimento di 4000 sterline.
In pochi anni sorgono altri negozi,
dapprima affidati in gestione a parenti ed
amici finché la Roddick ed il marito
decidono di intraprendere la via dl
franchising.
“The Body Shop non è un “one-womanshow”. È un’operazione che coinvolge
migliaia di persone che lavorano insieme per
raggiungere obiettivi comuni e trasmettere
valori comuni”, quei valori che sul sito the
body shop sono introdotti dalla formula
made with passion!
Concludiamo con una delle frasi preferite
di Anita, riprodotta sui camion di The Body
Shop.
“Se pensi di essere troppo piccolo per
provocare qualcosa, prova ad andare a
letto con una mosca”.
S T E VE J O B S
Siate affamati, siate folli
A soli 20 anni, insieme a Stephen Wozniak,
fondò la Apple che ebbe la sua prima sede
nel garage dei genitori e in soli dieci anni
divenne una compagnia da due miliardi di
dollari con oltre quattromila dipendenti.
Già questo renderebbe la storia di Steve
Jobs straordinaria. Ma il meglio viene
adesso...
A trent'anni paradossalmente Jobs venne
licenziato dalla società da lui stesso fondata.
Così fondò una nuova società, la Next e
poi la Pixar, la casa produttrice del primo
film di animazione interamente creato al
computer, Toy Story, e che oggi è lo studio
di animazione di maggior successo nel
mondo.
Successivamente Apple comprò NeXT e
Jobs ritornò a dirigere la Apple, dove, negli
ultimi anni ha intrapreso l'avventura degli
IPod, l'ultima dimensione in fatto di musica.
Cosa gli permise di ottenere simili risultati?
Possiamo intuirlo leggendo un discorso
pronunciato il 12 giugno del 2005 in
occasione della cerimonia annuale per il
conferimento delle lauree all'università di
Stanford.
Sono onorato di essere qui con voi oggi,
nel giorno della vostra laurea presso una
delle migliori università del mondo. Io non
mi sono mai laureato. A dir la verità, questa
è l’occasione in cui mi sono di più
avvicinato ad un conferimento di titolo
accademico. Oggi voglio raccontarvi tre
episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di
speciale. Solo tre storie.
La prima storia parla di “unire i puntini”.
Ho abbandonato gli studi al Reed College
dopo sei mesi, ma vi sono rimasto come
imbucato per altri diciotto mesi, prima di
lasciarlo definitivamente.
Allora perchè ho smesso?
Tutto è cominciato prima che io nascessi.
La mia madre biologica era laureanda ma
ragazza-madre, decise perciò di darmi in
adozione. Desiderava ardentemente che io
fossi adottato da laureati, così tutto fu
approntato affinché ciò avvenisse alla mia
nascita da parte di un avvocato e di sua
moglie. All’ultimo minuto, appena nato,
questi ultimi decisero che avrebbero
preferito una femminuccia. Così quelli che
poi sarebbero diventati i miei “veri”
genitori, che allora si trovavano in una lista
d’attesa per l’adozione, furono chiamati nel
bel mezzo della notte e venne chiesto loro:
“Abbiamo un bimbo, un maschietto, ‘non
previsto’; volete adottarlo?”. Risposero:
“Certamente”. La mia madre biologica
venne a sapere successivamente che mia
mamma non aveva mai ottenuto la laurea
e che mio padre non si era mai diplomato:
per questo si rifiutò di firmare i documenti
definitivi per l’adozione. Tornò sulla sua
decisione solo qualche mese dopo, quando
i miei genitori adottivi le promisero che un
giorno sarei andato all’università.
Infine, diciassette anni dopo ci andai.
Ingenuamente scelsi un’università che era
costosa quanto Stanford, così tutti i
risparmi dei miei genitori sarebbero stati
spesi per la mia istruzione accademica.
Dopo sei mesi, non riuscivo a
comprenderne il valore: non avevo idea di
cosa avrei fatto nella mia vita e non avevo
idea di come l’università mi avrebbe aiutato
a scoprirlo. Inoltre, come ho detto, stavo
spendendo i soldi che i miei genitori
avevano risparmiato per tutta la vita, così
decisi di abbandonare, avendo fiducia
che tutto sarebbe andato bene lo
stesso. OK, ero piuttosto terrorizzato
all’epoca, ma guardandomi indietro credo
sia stata una delle migliori decisioni che
abbia mai preso. Nell’istante in cui
abbandonai potei smettere di assistere alle
lezioni obbligatorie e cominciai a seguire
quelle che mi sembravano interessanti.
Non era tutto così romantico al tempo.
Non avevo una stanza nel dormitorio,
12
perciò dormivo sul pavimento delle
camere dei miei amici; portavo indietro i
vuoti delle bottiglie di coca-cola per
raccogliere quei cinque cent di deposito
che mi avrebbero permesso di comprarmi
da mangiare; ogni domenica camminavo
per sette miglia attraverso la città per avere
l’unico pasto decente nella settimana
presso il tempio Hare Krishna.
Ma mi piaceva. Gran parte delle cose
che trovai sulla mia strada per caso
o grazie all’intuizione in quel
periodo si sono rivelate inestimabili
più avanti. Lasciate che vi faccia un
esempio:
il Reed College a quel tempo offriva
probabilmente i migliori corsi di calligrafia
del paese. Nel campus ogni poster, ogni
etichetta su ogni cassetto, erano scritti in
splendida calligrafia. Siccome avevo
abbandonato i miei studi ‘ufficiali’ e
pertanto non dovevo seguire le classi da
piano studi, decisi di seguire un corso di
calligrafia per imparare come riprodurre
quanto di bello visto là attorno. Ho
imparato dei caratteri serif e sans serif, a
come variare la spaziatura tra differenti
combinazioni di lettere, e che cosa rende la
migliore tipografia così grande. Era
bellissimo, antico e così artisticamente
delicato che la scienza non avrebbe potuto
‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante.
S TEVE J OBS
Siate affamati, siate folli
Nulla di tutto questo sembrava avere
speranza di applicazione pratica nella mia
vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo
progettando il primo computer
Machintosh, mi tornò utile. Progettammo
così il Mac: era il primo computer dalla
bella tipografia. Se non avessi abbandonato
gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli
caratteri e font spazialmente
proporzionate. E se Windows non avesse
copiato il Mac, nessun personal computer
ora le avrebbe. Se non avessi abbandonato,
se non fossi incappato in quel corso di
calligrafia, i computer oggi non avrebbero
quella splendida tipografia che ora
possiedono. Certamente non era
possibile all’epoca ‘unire i puntini’ e
avere un quadro di cosa sarebbe
successo, ma tutto diventò molto
chiaro guardandosi alle spalle dieci
anni dopo.
Vi ripeto, non potete sperare di
unire i puntini guardando avanti,
potete farlo solo guardandovi alle
spalle: dovete quindi avere fiducia
che, nel futuro, i puntini che ora vi
paiono senza senso possano in
qualche modo unirsi nel futuro.
Dovete credere in qualcosa: il vostro
ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il
vostro destino, chiamatelo come volete...
Questo approccio non mi ha mai lasciato a
terra, e ha fatto la differenza nella mia
vita.
La mia seconda storia parla di amore e di
perdita.
Fui molto fortunato - ho trovato cosa mi
piacesse fare nella vita piuttosto in fretta. Io
e Woz fondammo la Apple nel garage dei
miei genitori quando avevo appena
vent’anni. Abbiamo lavorato duro, e in dieci
anni Apple è cresciuta da noi due soli in un
garage sino ad una compagnia da due
miliardi di dollari con oltre quattromila
dipendenti. Avevamo appena rilasciato la
nostra migliore creazione - il Macintosh un anno prima, e avevo appena
compiuto trent’anni... quando venni
licenziato. Come può una persona
essere licenziata da una Società che ha
fondato? Beh, quando Apple si sviluppò
assumemmo una persona - che
pensavamo fosse di grande talento - per
dirigere la compagnia con me, e per il
primo anno le cose andarono bene. In
seguito però le nostre visioni sul futuro
cominciarono a divergere finché non ci
scontrammo. Quando successe, il nostro
Consiglio di Amministrazione si schierò
con lui. Così a trent’anni ero a spasso. E in
maniera plateale. Ciò che aveva
focalizzato la mia intera vita adulta
non c’era più, e tutto questo fu
devastante.
Non avevo la benché minima idea di cosa
avrei fatto, per qualche mese. Sentivo di
aver tradito la precedente generazione di
imprenditori, che avevo lasciato cadere il
testimone che mi era stato passato. Mi
incontrai con David Packard e Bob Noyce
e provai a scusarmi per aver mandato
all’aria tutto così malamente: era stato un
vero fallimento pubblico, e arrivai
addirittura a pensare di andarmene dalla
Silicon Valley. Ma qualcosa cominciò a farsi
strada dentro me: amavo ancora quello
che avevo fatto, e ciò che era successo alla
Apple non aveva cambiato questo di un
nulla. Ero stato rifiutato, ma ero
ancora innamorato. Così decisi di
ricominciare.
Non potevo accorgermene allora, ma
venne fuori che essere licenziato dalla
Apple era la cosa migliore che mi
sarebbe potuta capitare. La pesantezza
del successo fu sostituita dalla soavità di
essere di nuovo un iniziatore, mi rese
libero di entrare in uno dei periodi
più creativi della mia vita.
Nei cinque anni successivi fondai una
Società chiamata NeXT, un’altra chiamata
Pixar, e mi innamorai di una splendida
ragazza che sarebbe diventata mia moglie.
La Pixar produsse il primo film di
animazione interamente creato al
computer, Toy Story, ed è ora lo studio di
animazione di maggior successo nel
mondo. In una mirabile successione di
accadimenti, Apple comprò NeXT, ritornai
in Apple e la tecnologia che sviluppammo
13
alla NeXT è nel cuore dell’attuale
rinascimento di Apple. E io e Laurene
abbiamo una splendida famiglia insieme.
Sono abbastanza sicuro che niente di tutto
questo mi sarebbe accaduto se non fossi
stato licenziato dalla Apple. Fu una
medicina con un saporaccio, ma presumo
che ‘il paziente’ ne avesse bisogno. Ogni
tanto la vita vi colpisce sulla testa
con un mattone. Non perdete la
fiducia, però. Sono convinto che l’unica
cosa che mi ha aiutato ad andare
avanti sia stato l’amore per ciò che
facevo. Dovete trovare le vostre
passioni, e questo è vero tanto per il/la
vostro/a findanzato/a che per il vostro
lavoro. Il vostro lavoro occuperà una parte
rilevante delle vostre vite, e l’unico modo
per esserne davvero soddisfatti sarà fare un
gran bel lavoro. E l’unico modo di fare un
gran bel lavoro è amare quello che fate. Se
non avete ancora trovato ciò che fa
per voi, continuate a cercare, non
fermatevi, come capita per le
faccende di cuore, saprete di averlo
trovato non appena ce l’avrete
davanti. E, come le grandi storie d’amore,
diventerà sempre meglio col passare degli
anni. Quindi continuate a cercare finché
non lo trovate. Non accontentatevi.
La mia terza storia parla della morte.
Quando avevo diciassette anni, ho letto
una citazione che recitava: “Se vivi ogni
giorno come se fosse l’ultimo, uno di questi
c’avrai azzeccato”.
Mi fece una gran impressione, e da quel
momento, per i successivi trentatrè anni, mi
sono guardato allo specchio ogni giorno e
mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo
giorno della mia vita, vorrei fare
quello che sto per fare oggi?”. E ogni
volta che la risposta era “No” per
troppi giorni consecutivi, sapevo di
dover cambiare qualcosa.
Ricordare che sarei morto presto è stato
lo strumento più utile che abbia mai
trovato per aiutarmi nel fare le scelte
importanti nella vita. Perché quasi tutto tutte le aspettative esteriori, l’orgoglio, la
S TEVE J OBS
Siate affamati, siate folli
paura e l’imbarazzo per il fallimento - sono
cose che scivolano via di fronte alla morte,
lasciando solamente ciò che è davvero
importante. Ricordarvi che state per
morire è il miglior modo per evitare la
trappola rappresentata dalla convinzione
che abbiate qualcosa da perdere. Siete già
nudi. Non c’è ragione perché non seguiate
il vostro cuore.
Un anno fa mi è stato diagnosticato un
cancro. Effettuai una scansione alle sette e
trenta del mattino, e mostrava chiaramente
un tumore nel mio pancreas. Fino ad allora
non sapevo nemmeno cosa fosse un
pancreas. I dottori mi dissero che con ogni
probabilità era un tipo di cancro incurabile,
e avevo un’aspettativa di vita non superiore
ai tre-sei mesi.
Il mio dottore mi consigliò di tornare a
casa ‘a sistemare i miei affari’, che è un
modo per i medici di dirti di prepararti a
morire. Significa che devi cercare di dire ai
tuoi figli tutto quello che avresti potuto nei
successivi dieci anni in pochi mesi. Significa
che devi fare in modo che tutto sia a
posto, così da rendere la cosa più semplice
per la tua famiglia. Significa che devi
pronunciare i tuoi ‘addio’.
Ho vissuto con quella spada di Damocle
per tutto il giorno. In seguito quella sera ho
fatto una biopsia, dove mi infilarono una
sonda nella gola, attraverso il mio stomaco
fin dentro l’intestino, inserirono una sonda
nel pancreas e prelevarono alcune cellule
del tumore. Ero in anestesia totale, ma mia
moglie, che era lì, mi disse che quando
videro le cellule al microscopio, i dottori
cominciarono a gridare perché venne fuori
che si trattava una forma molto rara di
cancro curabile attraverso la chirurgia.
Così mi sono operato e ora sto bene.
Questa è stata la volta in cui mi sono
trovato più vicino alla morte, e spero lo sia
per molti decenni ancora. Essendoci
passato, posso dirvi ora qualcosa con
maggiore certezza rispetto a quando la
morte per me era solo un puro concetto
intellettuale:
Nessuno vuole morire. Anche le persone
che desiderano andare in paradiso non
vogliono morire per andarci. E nonostante
tutto la morte rappresenta l’unica
destinazione che noi tutti condividiamo,
nessuno è mai sfuggito ad essa. Questo
perché è come dovrebbe essere: la Morte
è la migliore invenzione della Vita. E’
l’agente di cambio della Vita: fa piazza pulita
del vecchio per aprire la strada al nuovo.
Ora come ora ‘il nuovo’ siete voi, ma un
giorno non troppo lontano da oggi,
gradualmente diventerete ‘il vecchio’ e
sarete messi da parte. Mi dispiace essere
così drammatico, ma è pressappoco la
verità.
Il vostro tempo è limitato, perciò
non sprecatelo vivendo la vita di
qualcun’altro. Non rimanete intrappolati
nei dogmi, che vi porteranno a vivere
secondo il pensiero di altre persone. Non
lasciate che il rumore delle opinioni altrui
zittisca la vostra voce interiore. E, ancora
più importante, abbiate il coraggio di
seguire il vostro cuore e la vostra
intuizione: loro vi guideranno in
qualche modo nel conoscere cosa
veramente vorrete diventare.Tutto
il resto è secondario.
Quando ero giovane, c’era una
pubblicazione splendida che si chiamava
The whole Earth catalogé, che è stata una
delle bibbie della mia generazione.
Fu creata da Steward Brand, non molto
distante da qui, a Menlo Park, e costui
apportò ad essa il suo senso poetico della
vita. Era la fine degli anni Sessanta, prima
dei personal computer, ed era fatto tutto
con le macchine da scrivere, le forbici e le
fotocamere polaroid: era una specie di
Google formato volume, trentacinque anni
prima che Google venisse fuori. Era idelista,
e pieno di concetti chiari e nozioni speciali.
Steward e il suo team pubblicarono diversi
numeri di The whole Earth catalog, e
quando concluse il suo tempo, fecero
uscire il numero finale.
Era la metà degli anni Settanta e io avevo
pressappoco la vostra età.
Nella quarta di copertina del numero
finale c’era una fotografia di una strada di
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campagna nel primo mattino, del tipo che
potete trovare facendo autostop se siete
dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti
parole:
“Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio,
e ho sperato sempre questo per me. Ora,
nel giorno della vostra laurea, pronti nel
cominciare una nuova avventura, auguro
questo a voi.
Siate affamati. Siate folli.
L A R RY PAG E , S ER G E Y B RI N
Google stor y
Avevano 25 anni quando, nel 1998, Larry
Page e Sergey Brin fondarono la società
che non solo avrebbe rivoluzionato
Internet, ma avrebbe lasciato un segno
profondo nella cultura del nostro tempo.
Ne è prova il fatto che il nome di quella
società, GOOGLE, sia diventato un verbo
di uso piuttosto comune nella lingua
inglese, tedesca ed in altre, con il significato
di “ricercare un’informazione”.
Un sano sprezzo dell’impossibile
Questo è il titolo del primo capitolo di
Google Story, un libro, scritto dal premio
Pulitzer David Vise e da Mark Malseed, un
libro che ripercorre la storia di questo
strepitoso successo aziendale.
La storia di Google ha inizio proprio con
l’idea folle maturata da Larry Page di
scaricare l’intero web sul suo computer e
di fare di questo progetto la sua tesi di
laurea. Disse al suo relatore che ci sarebbe
voluta solo una settimana, ma dopo un
anno ne aveva scaricato solo una parte.
Commentando questo racconto con gli
allievi di una scuola israeliana che accoglie
le più promettenti menti in campo
matematico disse: “Quindi l’ottimismo è
importante. Dovete essere un pò
spregiudicati quando pensate ai
traguardi che volete porvi. C’era un detto
al College che diceva: ‘avere un sano sprezzo
dell’impossibile’. Questa è davvero una bella
frase. Dovete provare a fare le cose che
la maggior parte della gente non
tenterebbe di fare”.
Questo spirito permise a Brin e Page di
trasformare in soli cinque anni una ricerca
di dottorato in un’impresa multimiliardaria
di portata globale.
Quando l’ambiente conta
I creatori di Google sono cresciuti usando
il computer negli anni delle scuole
elementari, agevolati dal fatto che i genitori
usassero il computer e la matematica più
avanzata sia a casa che a lavoro.
I padri erano stimati professori universitari,
la madre di Page era consulente sui
database con un master in informatica e
Brin proviene da una famiglia che vanta una
lunga tradizione di laureati in matematica e
microbiologia.
Il primo computer in casa Page arrivò nel
1978 e Larry lo ricorda così: “era enorme
e costava un sacco di soldi e dopo
quell’acquisto quasi non potevamo più
permetterci di mangiare”.
Larry seguì le orme del padre e del fratello
frequentando la University of Michigan ad
Ann Arbor, dove studiò ingegneria
informatica e frequentò corsi di economia
aziendale.
Una tappa molto importante della
formazione personale di Page è stato
anche il programma di sviluppo di
leadership offerto agli studenti
undergraduate. “Il programma LeaderShape
- dice Page - fu un’esperienza affascinante.
Un programma di tutta l’università
finalizzato a dare agli studenti della
University of Michigan la capacità di cui
avevano bisogno per diventare leader nella
società”.
Page e Brin provengono entrambi da
famiglie in cui la formazione rivestiva un
ruolo di primo piano, era un valore
fondamentale, dove la curiosità veniva
sollecitata e premiata.
A Stanford i due trovarono pane per i loro
denti, “un vero e proprio festival di
opportunità intellettuali per i curiosi”. “Più
me ne andavo in giro a zonzo - ricorda
Sergey - e più incontravo qualcosa di
valido”.
La mission
“Non erano partiti con l’intenzione di metter
su una società, ma di migliorare la ricerca sul
web”. Così un testimone inizia il racconto
della nascita di Google.
La sua mission è, per certi versi, espressa
dal nome, che è l’errata trascrizione di un
15
termine matematico, googol, che significa il
numero 1 seguito da 100 zeri.
Il sogno di Brin e Page è raccogliere tutto il
sapere e le informazioni prodotte
dall’umanità e renderli disponibili per
chiunque. Questa mission ha caratterizzato
il loro particolare approccio al mercato e li
ha guidati fino al successo.
Fin dalla nascita, infatti, Google non ha mai
dato l’idea di voler vendere qualcosa, come
dimostra l’inconfondibile pagina bianca,
priva di banner e pop up, ma di voler
fornire un servizio all’umanità ed è per
questo che la gente si appropriò presto di
questo motore di ricerca.
Google aprì i battenti (di un garage) nel
settembre del 1998. A dicembre PC
Magazine lo nominò uno dei 100 principali
Siti e Motori di Ricerca dell’anno.
La sua crescita si deve essenzialmente al
passaparola. La dedizione di Brin e Page ad
una importante, quanto ambiziosa causa è
stata così premiata.
Dedizione, grande ambizione e
leadership: ecco gli ingredienti cruciali del
successo di Google.
M I C HA E L J OR DAN
Non posso accettare di non tentare
Posso accettare di fallire.
Chiunque fallisce in qualcosa.
Ma io non posso accettare di non tentare.
È uno dei passi più significativi di un piccolo
saggio, pubblicato nel 1994, dal titolo I can’t
accept not trying - Michael Jordan on the
pursuit of the excellence. Lì è contenuto il
credo di colui che viene ormai
unanimemente considerato non solo una
leggenda del basket americano, ma anche
una delle stelle più luminose del firmamento
sportivo a livello mondiale.
Michael “Air” Jordan nasce il 17 febbraio
1963 a New York, nel quartiere di Brooklin
in una famiglia di umili origini.
È un ragazzo molto timido, ma con una
grande passione per lo sport, dove dimostra
di possedere doti eccezionali, che lo portano
a primeggiare non solo nel basket, ma anche
nel football americano (come quarterback)
e nel baseball (come lanciatore).
Nonostante ciò non viene ammesso a far
parte della squadra di basket di quella che in
America equivale alla scuola media.
Ma Michael non ha mai permesso al
fallimento di arrestare la propria marcia
verso il successo, anzi in quest’occasione,
come in molte altre, egli ha saputo trovare
proprio nel fallimento un nuovo stimolo per
andare avanti e perseguire l’obiettivo che si è
posto. Così, dopo un anno di duro lavoro,
viene inserito in prima squadra e diventa
subito uno dei migliori giocatori del
campionato scolastico dello stato.
Da qui il percorso è tutto in salita con
alcune tappe significative come la vittoria
dell’oro alle Olimpiadi di Los Angeles, la
rigenerazione di una squadra considerata di
basso profilo, i Chicago Bulls, fino
all’assunzione del soprannome “Air”,
assegnato a Michael Jordan per la sua
grandiosa capacità di volare a canestro. Un
percorso che ha anche conosciuto battute
d’arresto come l’infortunio del 1985 ed il
calo di motivazione che portò Michael
Jordan al temporaneo ritiro dal basket nel
1993.
In ogni caso Michael Jordan è stato fedele al
motto “I can’t accept not trying” ed al
proprio credo che l’ha portato a diventare
ciò che ha sempre voluto essere: un grande
campione.
Ecco alcuni passi di questo credo:
Passo dopo passo. Non vedo altro
modo per ottenere qualcosa.
Il mio obiettivo finale è sempre stato essere
il migliore, ma ho fatto tutto passo dopo
passo.
Ho sempre stabilito obiettivi a breve
scadenza. Se mi guardo indietro ciascuno di
questi passi e successi conduce a quello
successivo.
Ogni volta ho visualizzato dove volevo
andare, quale tipo di giocatore volevo
diventare.
Sapevo esattamente dove volevo andare e
mi sono focalizzato sul raggiungimento di
quella meta. E quando avevo realizzato
quegli obiettivi, me ne ponevo altri.
Non mi preoccupa dover chiedere a
qualcuno ciò che non so. Non c’è nulla di
male nel chiedere aiuto o la direzione giusta.
La paura è un illusione.
Non ho mai pensato alle conseguenze
derivanti dal mancato raggiungimento di una
meta. Perché? Perché quando pensi alle
conseguenze, pensi sempre ad un risultato
negativo.
Se mi lancio in una situazione, penso di avere
successo e non penso a cosa accadrà se
fallisco.
Ho capito che se voglio ottenere qualcosa
nella vita devo essere aggressivo. Non credo
che si possa ottenere qualcosa con un
atteggiamento passivo. So che la paura è un
ostacolo per alcune persone, ma per me è
un’illusione.
Io penso che la paura provenga da una
mancanza di focus e di concentrazione,
soprattutto nello sport.
Se tutte le volte che mi sono trovato sulla
16
linea dei tiri liberi avessi pensato ai 10 milioni
di persone che mi stavano guardando, non
avrei potuto fare nulla.
Quindi cercavo di pensare di essere in un
contesto a me familiare. Pensavo a tutte le
volte che ho realizzato dei tiri liberi e
cercavo di riprodurre la stessa emozione e la
stessa tecnica che avevo utilizzato centinaia
di volte. Così sapevo che stavo facendo la
cosa giusta.
Il talento fa vincere una partita, ma il
lavoro di squadra e l’intelligenza
fanno vincere il campionato.
In ogni sport ci sono molte squadre che, pur
avendo i giocatori migliori, non hanno mai
vinto un titolo. Nella maggior parte dei casi
questi giocatori non sono disposti a
sacrificarsi per il bene della squadra. La cosa
strana è che alla fine è proprio questa
incapacità di sacrificio a rendere più difficile il
raggiungimento dei propri obiettivi personali.
La cosa che ho compreso nel Nord Carolina
e in cui credo è che se pensi ed ottieni
risultati come un team, ognuno si prenderà
cura dell’altro reciprocamente.
I can’t accept not trying è l’ennesima
conferma del fatto che nello sport, come
nella vita, non basta avere talento per essere
un grande campione. È necessario avere
credenze di successo!
A M B ROG I O F OG A R
L’avventura di vivere
Chi non ricorda Johnatan Dimensione
Avventura? La trasmissione che ha
affascinato e fatto sognare alcune
generazioni di telespettatori negli anni ’80.
Alcuni trentenni forse ricorderanno di aver
giocato all’esploratore, immedesimandosi in
lui, Ambrogio Fogar, un uomo che ha fatto
delle imprese straordinarie la propria
mission.
Probabilmente molti al posto suo si
sarebbero fermati dopo il primo grave
incidente con il paracadute o dopo il
naufragio che costò la vita al proprio
amico, ma lui no. Paradossalmente la sua
passione per la vita lo spinse ad affrontare
sfide sempre più al limite della
sopravvivenza.
Una passione che venne messa a dura
prova quando nel 1992, durante il raid
Parigi-Mosca-Pechino la macchina su cui
viaggiava si capovolse e Ambrogio Fogar si
ritrovò con la seconda vertebra cervicale
spezzata e il midollo spinale tranciato. Da
allora ha vissuto per anni su una sedia a
rotelle ed attaccato ad una macchina.
In un’intervista al Corriere della Sera
disse:"All'inizio ho pensato molte volte di
morire, ho pregato le mie sorelle di portarmi
in Olanda per farla finita. È difficile accettarsi
quando non sei più quello di prima: ogni
impulso è una frustata, ogni desiderio una
ferita, nelle mie condizioni devi chiedere aiuto
anche per grattarti il naso".
Ma una notte in cui non riusciva a
prendere sonno ed osservava il soffitto,
ripensando ad alcuni bei momenti della
propria gioventù: fece una scoperta
importante: stava sorridendo. Allora capì
che se avesse voluto avrebbe potuto
tornare a sorridere e provare di nuovo
belle emozioni.
Negli ultimi anni Ambrogio Fogar non ha
mai perso la sua passione per la vita e
soprattutto la speranza. In questi giorni si
stava preparando per affrontare la sua
ennesima avventura, un viaggio in Cina
dove si sarebbe sottoposto ad un trapianto
di cellule staminali.
“Non mollo.- diceva - Spero un giorno di
tornare a camminare con le mie gambe, non
accetto che si arrenda chi ha la vita in pausa
e non voglio credere di morire così,
immobile”.
Nulla avrebbe potuto fermare il suo spirito
indomito, tranne la morte che l’ha colto
poco prima dell’inizio di questa sua ultima
avventura.
A noi oggi piace ricordare quelle da lui
compiute durante questi anni vissuti
intensamente.
Ambrogio Fogar nasce a Milano il 13
agosto del 1941. Fin da giovane dimostra di
possedere una grande passione per la
natura e l’avventura. A soli diciotto anni
attraversa le Alpi con gli sci.
Poi scopre il volo: effettua più d 50 lanci
con il paracadute e neppure un grave
incidente gli impedisce di ottenere il
brevetto di pilota per piccoli aerei
acrobatici.
Un’altra grande passione, quella per il
mare, lo porta nel 1972 ad attraversare in
solitario l'Atlantico del Nord per buona
parte senza l'uso del timone. Nel gennaio
1973 partecipa alla regata Città del Capo Rio de Janeiro.
Per più di un anno (da novembre del 1973
a dicembre del 1974) è impegnato in una
delle imprese per lui più significative: il giro
del mondo in barca a vela in solitario,
navigando da Est verso Ovest contro le
correnti e il senso dei venti.
Nel 1978 mentre, con l'amico giornalista
Mauro Mancini, cerca di circumnavigare
l'Antartide, la sua imbarcazione viene
17
affondata da un'orca e naufraga al largo
delle isole Falkland. Per ben 74 giorni la vita
dei due navigatori resta appesa ad una
zattera fino a che vengono tratti in salvo.
Profondamente debilitato dall’avventura
Mancini (ha perso ben 40 kg) muore poco
dopo il salvataggio.
Fogar porterà sempre con se il ricordo
dell’amico ed il senso di colpa aggravato da
accuse a lui rivolte dalla stampa.
Altre critiche piovono a seguito della
spedizione al Polo Nord non
perfettamente riuscita, compiuta in
compagnia del suo fedele cane Armaduk;
ma per un uomo abituato ad affrontare le
forze della natura è un gioco superare il
polverone sollevato da un pugno di
delatori.
Neppure il successo della trasmissione
televisiva Johnatan Dimesione Avventura lo
infiacchisce e lo convince a “prendersela un
po’ con comodo”. Partecipa a tre edizioni
della Parigi-Dakar oltre a tre Rally dei
Faraoni e poi al raid Parigi-Mosca-Pechino,
dove accade il tragico incidente che cambia
letteralmente la sua vita.
Ora si tratta di compiere la più difficile
delle imprese, la traversata in solitario
della propri anima alla ricerca della forza
AM BROG I O F OGAR
L’avventura di vivere
per continuare a vivere e non
semplicemente vegetare.
L’impresa riesce. Fogar, nonostante tutto
riprende a vivere. Collabora con
Greenpeace per la difesa delle balene,
pubblica articoli e libri. Il mio Atlantico e La
zattera hanno vinto il Premio Bancarella
Sport e ancora ricordiamo Quattrocento
giorni intorno al mondo, Il Triangolo delle
Bermude, Messaggi in bottiglia, L'ultima
leggenda, Verso il Polo con Armaduk, Sulle
tracce di Marco Polo e Solo - La forza di
vivere.
subire, ma ho imparato a gestire le emozioni
e non mi faccio più schiacciare dai ricordi.
Non mi arrendo, non voglio perdere".
Ed anche ora che se n’è andato, l’ha fatto
da vincente, lasciandoci il ricordo delle
proprie imprese ed una piccola stella che
porta il suo nome: Ambrofogar Minor
Planet 25301, a lui dedicata dagli astronomi
che l’hanno scoperta. Una stella che brilla
come facevano i suoi occhi quando ci
parlava dei suoi viaggi e delle sue grandi
avventure.
Da quest’ultimo è tratto il seguente passo:
"In queste pagine ho cercato di mettere tutto
me stesso. Soprattutto dopo essere stato così
duramente ferito dal destino.Tuttavia ho
ancora un ritaglio di vita. E' strano scoprire
l'intensità che l'uomo ha nei confronti della
voglia di vivere: basta una bolla d'aria rubata
da una grotta ideale, sommersa dal mare,
per dare la forza di continuare quella lotta
basata su un solo nome: Speranza. Ecco, se
leggendo queste pagine qualcuno sentirà la
rinnovata voglia di sperare, avrò assolto il mio
impegno, e un altro momento di questa vita
così affascinante, così travagliata e così
punita si sarà compiuto. Una cosa è certa:
nonostante le mie funzioni non siano più
quelle di una volta, sono fiero di poter dire
che sono ancora un uomo."
Ma non è finita. Nell'estate del 1997
compie un giro d'Italia in barca a vela su di
una sedia a rotelle basculante. Nei porti
dove si ferma il giro, Battezzato
"Operazione Speranza”, Fogar promuove
una campagna di sensibilizzazione nei
confronti delle persone disabili, destinate a
vivere su una carrozzella.
Un vero esempio di forza d’animo, a cui
Fogar si aggrappato con le unghie e con i
denti da quando è venuta meno la forza
fisica. In un’intervista spiega:
"È la forza della vita che ti insegna a non
mollare mai anche quando sei sul punto di
dire basta. Ci sono cose che si scelgono e
altre che si subiscono. Nell'oceano ero io a
scegliere, e la solitudine diventava una
compagnia. In questo letto sono costretto a
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Leader di te stesso di Roberto Re, Mondadori.
Come ottenere il meglio da sé e dagli altri di Antony Robbins, Bompianti.
Il milionario di Mark Fisher, Bompianti.
Scopri il leader che è in te di Dale Carnagie, Bompianti.
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e i propri obiettivi e trovare lo scopo della propria esistenza.
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Emotional Fitness con le serate del Personal Leadership Training, per dare
ai partecipanti strumenti semplici e concreti che facciano raggiungere,
senza tensione e stress, gli obiettivi personali e professionali. Il tutto
affiancato da un programma di coaching personale che aiuti veramente a
liberare il leader che è dentro di noi.
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