SILVANA LA VALLE ALHAMBRA RACCONTO 1
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SILVANA LA VALLE ALHAMBRA RACCONTO 1
SILVANA LA VALLE ALHAMBRA RACCONTO 1 Dedico questo racconto ai miei cari nipoti Sofia e Jacopo 2 PROLOGO Sono quasi cieco, ma riesco a vedere nell’intimo di chi mi parla grazie agli spiriti dei miei avi che, dal luogo delle ombre profonde, mi consigliano, aiutano e dirigono i miei passi. Sono un vecchio tutt’ossa, nervi, qualche muscolo e vene che formano sentieri e disegni a fior di pelle. Mi siedo sempre su una panca di pietra accanto all’ulivo saraceno che amo tanto. So che questa è la via di casa e riposo un pochino. Verso quest’ora inizia il concerto di grilli e cicale e chissà di quale altro insetto, ma io non sono un attento ascoltatore delle voci della natura per cui fisso il mio pensiero su un viso che si perde nel ricordo, quello bellissimo di Margherite. Intorno alla panca crescono piccoli cespugli e piante odorose, quest’angolo romantico mi ricorda un tempo ormai lontano. Riesco ancora ad udire la sua voce melodiosa che chiede:” A cosa pensi, Pietro?” Mi alzo a fatica e, tenendomi stretto al muretto, arranco per la stradina polverosa talvolta seguendo le orme lasciate dai carichi di verdure e spezie da vendere al mercato. Mio nipote Giulio vorrebbe accompagnarmi, ma io sono testardo e voglio invece farcela da solo. Non vedo più i pappagalli variopinti, le camicie colorate dei venditori ed i copricapo di tela sgargiante delle donne cui i raggi del sole calante donano infinite e sempre nuove sfumature. Ero un bell’uomo allora con la barba scura e folta striata di peli color rame, il fisico scattante di un ventenne, il viso abbronzato dal sole. Mi vantavo di 3 essere diventato il patriarca di una famiglia la cui ricchezza poteva rivaleggiare con quella delle più agiate della zona. Ormai novantenne, nonostante le mie disavventure, i miei continui viaggi da e per l’Italia alla ricerca di un sempre maggior profitto, i lunghi periodi di malattia e di sconforto, ringrazio Dio per avermi dato figli adorabili e nipoti affettuosi che si prendono cura di me ora che la mia amata mi ha lasciato. Sono vissuto in due mondi lontani e diversi tra loro: prima nell’amata Firenze e poi a Granada, ultimo baluardo del regno musulmano della Penisola Iberica ove sbarcai fuggendo dalla peste dopo la morte di mia moglie e della mia figlioletta Lucia. Susanna è sepolta a Firenze, la mia bambina di tre anni riposa invece in fondo al mare. Meglio non ricordare, meglio dimenticare! Mi gratto i peli radi che mi crescono imperterriti sul mento quasi a farmi dispetto ed allevio così il prurito causato dalla polvere. Devono essere uccellini quelli che mi volano intorno dirigendosi sicuramente verso una fonte d’acqua in cui mi immergerei volentieri. Come sono stanco! Le palpebre mi diventano pesanti e sono costretto a tornare sui miei passi, mi risiedo, chiudo gli occhi e mi addormento. 4 LA TEMPESTA Pietro corse in coperta aggrappandosi al corrimano per sorreggersi mentre avanzava a gran fatica verso la sua cabina piccola come una tana. Il viaggio per mare lo rendeva confuso non avendo dimestichezza con vascelli e marinai, adesso però gli era diventato chiarissimo che doveva salvare se stesso e sua figlia dalla furia delle onde. Aprì con un calcio la porta della cabina ed entrò: in una culla di vimini dormiva Lucia ignara di ciò che accadeva intorno. Con un rapido movimento le si avvicinò e la sollevò con cautela per non svegliarla. La nave stava per affondare e gli restava poco tempo per agire. Con una mano aprì un armadietto e ne estrasse qualche indumento della piccola insieme ad una copertina di lana gialla, fatta dalla sua mamma, che le avvolse intorno al corpo. Lucia ebbe un sussulto e sgranò i begli occhi azzurri meravigliata, vedendo però che era il suo papà a stringerla forte tra le braccia, li richiuse con un sorriso beato. Ma perché non l’aveva lasciata a Firenze con la balia? Per egoismo, per non rimanere solo o per troppo affetto? In seguito se lo sarebbe chiesto mille volte non trovando che una sola risposta: il destino aveva voluto così! I marinai si erano riversati sul ponte, esasperati dalle onde assassine, imprecando contro la loro violenza e la malasorte. In pochi minuti la poppa fu coperta dai marosi, lo scafo parve disintegrarsi ed ora tra la poppa affondata e la prua c’era solo il vuoto. Udendo le voci concitate che gridavano aiuto Pietro uscì dalla cabina ad affrontare la burrasca, ma mentre stava per raggiungere una piccola canoa di salvataggio rimasta miracolosamente montata sulla plancia, un’ondata gigantesca si abbattè su di lui strappandogli con violenza dalle braccia l’involto umano che era tutto ciò che di più caro aveva al mondo. Il corpo di Lucia scomparve nell’acqua nera come la pece per non ricomparire più. 5 Assediato dai fantasmi della morte e da un terribile senso di colpa, Pietro tentò di liberarsi dal l’acqua che gli era penetrata in corpo e fortuna volle che riuscisse a vomitarla tutta così da poter lanciare un urlo straziante e disperato. Si avvicinava una gelida alba e le onde andavano perdendo gradatamente la loro forza. L’oscurità della notte cedeva il passo al grigiore della prima luce in un cielo ancora coperto da nuvole scure. Protetto dal vestiario indossato a strati, anche se zuppo, Pietro riuscì a sopravvivere al freddo. Si teneva aggrappato ad un filo di speranza che qualcuno lo avrebbe soccorso e rimase avvinghiato insieme a pochi altri ai resti del vascello. Negli intervalli tra la veglia vigile e l’incoscienza a qualcuno sembrò di avvistare in lontananza una spiaggia su cui svettavano palme agitate dal vento. Sebbene la sua vista fosse offuscata dalla pioggia che cadeva fitta, Pietro si mise a scrutare l’orizzonte. Poi anche lui mise a fuoco una striscia di terra su cui erano sparsi grandi massi. Non poteva essere lontana e, con un po’ fortuna, raggiungibile a nuoto posto che le poche forze avessero assistito sia lui che gli altri naufraghi. Gli venne l’idea di togliersi l’unico stivale rimasto, subito imitato da altri che usarono qualche calzatura come pagaia. I muscoli intorpiditi cominciarono a scaldarsi tanto che la fatica si mutò in euforia e certezza della salvezza. Si avvicinarono dunque lentamente alla riva e, proprio quando le forze li stavano abbandonando, urtarono contro scogli sommersi. Allora li aggirarono aggrappati e, nuotando piano, raggiunsero la spiaggia barcollando. Caddero distesi, inebetiti per chissà quanto tempo mentre le nuvole, da scure, cominciavano ad assumere forme bizzarre e distinte tendenti al bianco. I resti dell’imbarcazione furono trasportati dalla corrente verso acque profonde. Pietro alzò lo sguardo smarrito a scrutare il mare ormai calmo che gli aveva rapito Lucia e pianse sconsolato. Era trascorso poco tempo, ma sembrava un’eternità. Con gli altri superstiti arrancò verso una capanna tra gli alberi che trovarono vuota, ma che offrì protezione e consentì loro il recupero di un po’ di forze. 6 Due giorni dopo il capitano di un vascello, che faceva rotta verso la Spagna, avvistò i detriti galleggianti sulle acque e le braccia dei naufraghi che facevano continui segnali concitati. Furono tratti a bordo sporchi, laceri, assetati, affamati e trasportati a Granada. Durante il viaggio, relativamente breve, furono curati e rifocillati. Le giornate erano serene ed il cielo costellato di tonde nuvole bianche. Il ricordo della tempesta cominciava ad assumere contorni sfuocati ed i più si domandavano se avevano davvero vissuto quei momenti terribili o se invece si era trattato solo di un incubo notturno. La loro misera condizione era però reale e non dava adito a dubbi, ma cosa avrebbe riservato loro il futuro? Pietro apriva bocca solo per scambiare poche parole con un mozzo italiano di nome Orso, anche lui scampato alla tempesta dato che la ciurma dell’imbarcazione era formata da un’accozzaglia d’uomini raccolta da luoghi totalmente sconosciuti a Pietro e che parlavano prevalentemente Castigliano. Il Fiorentino fissava con odio cupo il mare e non vedeva l’ora di calpestare il suolo. Intanto il vascello aveva oltrepassato un lungo corteo di barche da pesca destinate a restare in acque poco profonde per pescare gamberi ed ostriche. I loro ponti erano poco più alti della superficie dell’acqua del porto e pieni di molluschi gettati sulle assi di legno consunte e levigate dal passaggio dei piedi dei pescatori. Una forte brezza soffiava gonfiando le vele bianche e spingendo in avanti le barche che scivolavano sulla cresta delle onde. C’erano golette a gabbiola ferme all’ancora che attendevano da ore il loro piccolo equipaggio ed ai naufraghi tutto sembrava nuovo ed interessante. Il Fiorentino si era appollaiato sul bordo del parapetto e fissava affascinato l’andirivieni dei marinai. Alcuni erano bianchi con le facce arrossate dal sole e grondanti sudore, altri neri con la pelle lucida come l’ebano e c’era anche qualche muso giallo, chissà da dove veniva e dove era diretto! Quei marinai non soffrivano certo di vertigini, avvezzi com’erano ad arrampicarsi come scimmie sugli alberi delle imbarcazioni. Quell’umanità indaffarata caricava e scaricava casse di merce, balle di cotone, spezie, stoffe finissime, ninnoli femminili d’ogni genere, gabbie con volatili 7 esotici e galli da combattimento, salendo sulle imbarcazioni uno alla volta con velocità sorprendente. Agilissimi e disinvolti portavano alla vita fusciacche colorate che nascondevano coltelli dalla lama affilata, indossavano logori calzoni ed avevano piedi nudi e mani incallite, mettevano in mostra bicipiti forti e robusti. Alcuni erano calvi e le loro teste lisce e lucide scintillavano al sole, altri portavano capelli lunghi, folti e neri e lunghe barbe che scendevano sui petti possenti. Col passare del tempo Firenze sarebbe diventata un ricordo lontano sempre più sbiadito, languido, malinconico, ma ancora molto caro. La perdita della moglie e della figlioletta sarebbe invece rimasta a lungo come una spina conficcata nel cuore, non le avrebbe mai dimenticate! Il comandante del vascello abbaiò pochi, secchi ordini che furono prontamente eseguiti. Era difficile capire se gli occhi di Pedro, così si chiamava, fossero attraversate da venuzze color sangue per l’eccesso di alcol oppure per mancanza di riposo. Aveva capelli neri piuttosto lunghi ed unti e denti irregolari e giallastri. Bicipiti ed avambracci erano tesi, muscolosi e dipinti con fantasiosi tatuaggi. Non c’era dubbio che potesse stendere con un pugno ben assestato un avversario di grosso calibro, ma non era di temperamento irascibile o violento, quindi tutti lo rispettavano. A Pietro faceva un certo ribrezzo poiché gli sembrava un omone vecchio e sporco con quella barba lunga, gialliccia ed incolta. Si chiedeva se il comandante non avesse per caso capi di biancheria di ricambio, articoli per la toilette, camicie e pantaloni decenti. Comunque lo ammirava molto e gli era grato per avere salvato la vita a lui ed agli altri naufraghi. Di conseguenza Pietro pensò che per il comandante l’eleganza fosse un dettaglio inutile. Lui invece avrebbe speso le prime monete guadagnate in camicie, pantaloni e biancheria intima. Si sentiva bruciare di vergogna perché sarebbe sbarcato a Granada proprio come uno straccione mentre Orso sembrava divertito e a sua agio in abiti logori e troppo stretti per la sua stazza. 8 LA TAVERNA Il comandante scrutò il viso dei naufraghi in fila davanti a lui. Li guardò soddisfatto con l’occhio destro di dimensioni normali e quello sinistro molto più piccolo e gli uomini si avvidero che il suo viso era segnato da parecchie cicatrici riportate chissà dove e quando e che il naso deviava di molto verso la guancia destra, chiaro segno che si era rotto più di una volta. Fermò con un gesto della mano i due italiani e gli altri per poterli salutare singolarmente prima che scendessero a terra. Scese poi anche lui e presentò Orso ed un altro marinaio ad un proprietario di barche e trafficante del porto che era suo amico, raccomandandoli per un lavoro ed un alloggio sicuri. Rimase interdetto sulla collocazione del Fiorentino, poi gli venne l’idea di indirizzarlo alla taverna grande: lì avrebbe certamente trovato qualcuno pronto ad ingaggiarlo con una paga decente. Pietro seguì le indicazioni del comandante e si avviò alla taverna peraltro molto vicina. L’uomo di guardia alla porta si potrebbe definire l’antenato inflaccidito del moderno buttafuori. Era infatti un gigante sfatto e trasandato, tutto pancia, senza dubbio un gran lottatore in tempi andati, ma che aveva perso grinta e ferocia e che poteva incutere paura tuttalpiù a mingherlini ubriachi. Davanti alla taverna correva un viottolo polveroso che, quando pioveva forte, diventava tutto fango. In fondo ad esso, in un buco di due camere sopra una bottega sgangherata gestita da ebrei, abitava una donna anziana dal viso magro e rugoso, la proprietaria della taverna. A metà del viottolo si apriva una rivendita di vino vecchia di secoli presso la quale stazionava un gruppetto di mendicanti e derelitti che, strisciati fuori dagli angoli delle case, rimanevano sul posto anche per ore ad intercettare ogni 9 nuovo potenziale elargitore d’elemosina. Alcuni di loro erano davvero poveri in canna, malaticci, denutriti, altri invece avevano scelto l’accattonaggio come stile di vita, erano ben conosciuti e pochi li aiutavano. Guardandoli Pietro pensò quanto fosse ingiusta la vita e duri quei tempi per tutti. Quella mattina la vecchia padrona era dietro al bancone insieme al marito, anch’egli anziano, ma ancora attivo e svelto, sempre pronto agli ordini di quella donna arcigna e taccagna che lo comandava a bacchetta fin dai tempi della giovinezza. Ling, così lo chiamavano, portava una benda sull’occhi destro. Dicevano che gli era stato cavato da un capobanda per vendicarsi di uno sgarro ed aveva una vistosa cicatrice che dall’occhio mancante gli arrivava fino al naso. A detta degli assidui frequentatori della bettola la moglie era stata una giovane molto attraente, lo si poteva dedurre dalla chioma ancora folta e dai suoi occhi grandi e vivaci. Da giovane Ling era stato un grande attaccabrighe che aveva aperto quel punto di ristoro col danaro guadagnato in attività illecite se non proprio criminali. Prima di entrare nel locale fumoso e piuttosto sporco Pietro alzò lo sguardo al cielo luminoso del mattino schermato dalle fronde delle palme che crescevano altezzose sul retro della bettola costruita con robuste travi di legno. Entrato che fu cominciò a guardare con apparente noncuranza le pareti tutte incrostate di sudore umano e di fumo. Una calca di corpi riempiva il locale tra un gran frastuono di voci d’uomini con in mano boccali colmi di vino ed altre bevande che tracannavano subito. I tavoli erano stati ricavati da assi di vecchie barche e tutte le sedie di legno, oltre che sporche, erano tante sgangherate da sembrare messe insieme con lo sputo e portavano gloriosi segni di anni di risse furiose. “ Ma in che luogo mi ha indirizzato il comandante?!” Pensò Pietro tutto confuso e stava per voltare le spalle ed uscire all’aria aperta quando la sua attenzione venne catturata da individui che discutevano animatamente seduti ad un tavolo d’angolo. Gli sembrò che parlassero di lavoro ed aveva subito drizzato le orecchie perché, anche in mezzo a tutto quel frastuono, gli era 10 sembrato di percepire qualche parola in Italiano. Uno in particolare , quello che interrompeva spesso gli altri, aveva tutta l’aria di essere non solo il capo, ma anche un connazionale. Era di statura media, grassoccio con capelli sale e pepe ed occhi castano scuro leggermente sporgenti, fronte alta e naso aquilino. Pietro si avvicinò di molto facendosi largo a spallate e notò anche che l’uomo anziano aveva dita affusolate e stranamente curate e che quindi non poteva essere un rozzo scaricatore del porto, ma certamente si trattava di persona istruita che lavorava d’ingegno. Parlava con calma e disinvoltura intercalando alle parole spagnole alcune parole italiane con accento veneziano. A Pietro non sembrava vero d’aver tanta fortuna al primo colpo, una manna insperata caduta dal cielo e proprio quando aveva bisogno di trovare un lavoro! Detestando l’essere invadente si fermò in piedi vicino al tavolo e si rivolse al capo con deferenza e rispetto. Raccontò d’essere un costruttore edile fiorentino sbarcato da poco e d’aver perso tutto ed abbandonato la sua città scampando alla peste. Si metteva subito a disposizione per qualsiasi lavoro onesto. Il capomastro gli tese la mano e si presentò come messer Giuseppe De’ Guidi arrivato molti anni prima dalla Serenissima, valente disegnatore e tanto abile nel dirigere i lavori di squadra che il sultano Alhamar lo teneva in grande considerazione e si avvaleva del suo talento per dirigere una nutrita schiera di artisti che stavano ultimando la zoccolatura della sala del Mexuar con piastrelle a disegni geometrici. Beppo( lo chiamavano amichevolmente in molti modi), dava indicazioni precise poi lasciava agli artigiani libertà nella messa in opera. Era sempre disposto ad ascoltare le critiche, ma le contestava quando gli sembravano infondate e non serbava alcun rancore verso chi gliele aveva mosse. Sapeva comunque che tutti profondevano grandi energie e lavoravano instancabilmente da mane a sera. Il capomastro ispezionava giornalmente il lavoro svolto ed era molto meticoloso, avaro di complimenti, ma imparziale e di buon cuore. Ammetteva alle sue dipendenze solo chi lavorava con zelo senza lamentarsi e rivelava loro 11 i segreti del mestiere. Allontanava dalla squadra gli altezzosi ed in genere chi avversava i suoi ordini e non seguiva i suoi consigli. Giuseppe spiegò a Pietro che l’oratorio che stavano abbellendo era orientato verso la Mecca ed offriva una vista sublime sull’Albaicin. Stavano allestendo una nicchia, chiamata nirhab, nella parete in cui doveva essere posto il Corano e costruendo archi a ferro di cavallo ed una bella fontana al centro del cortile del Mexuar. “ Non startene lì in piedi, amico, se così posso chiamarti e bevi qualcosa con noi! Ho bisogno di abili falegnami, carpentieri, posatori di azulejos, scultori, stuccatori, cesellatori, giardinieri esperti di botanica e gente davvero in gamba per allestire i bagni pubblici. Vuoi essere dei nostri?” A Pietro sembrava di sognare e non vedeva l’ora di imparare tecniche nuove. Voleva mettersi all’opera per non pensare, per dimenticare, quindi senza esitazione rispose:” Messer Giuseppe, sono pronto e lieto di lavorare per voi!” Il giorno dopo gli fu dato un alloggio che poggiava su un basamento di pietra sopra cui erano stati edificati i muri di mattoni crudi coperti di intonaco e di vari strati di latte di calce. Dato che non aveva famiglia Pietro usufruiva di quaranta metri quadrati scarsi suddivisi in tre locali da pareti interne più sottili fatte di mattoni tenuti insieme da malta. Il minuscolo terrazzo di tronchi di palma squadrati dava su un giardino. La circolazione dell’aria era garantita da un’apertura sul tetto da cui usciva il fumo del focolare e due bifore facevano entrare la luce. L’arredamento, molto spartano, era costituito da due sgabelli, un tavolino, recipienti di terracotta, un cofano per il vestiario e due panieri di giunco. Il letto era provvisto di solide traverse di canne intrecciate con sopra una stuoia. In cucina troneggiavano una giara per l’olio, una per il vino, un pentolone ed un armadietto di legno per riporre qualche prodotto alimentare. Per l’igiene personale non mancavano un pettine ed una boccettina con una sostanza profumata. I bisogni si facevano in una buca comune sul retro, coperta da assi di legno e nascosta da un paravento di canne. 12 Pietro doveva accontentarsi e ringraziare Dio, ma rimpiangeva le comodità della sua bella casa di Firenze. Il lusso era solo appannaggio del sultano, delle sue figlie, delle concubine, di qualche alto dignitario di corte e delle famiglie illustri della zona che disponevano di abitazioni principesche con acqua corrente, bagni privati, alcove, cucine fornitissime, splendide fontane e giardini. Quello di Pietro era un semplice alloggio fornito solo dell’essenziale come quello di Giuseppe e di altri membri dello staff. Appoggiando l’orecchio ad una parete interna Pietro poteva udire i movimenti nell’alloggio di Giuseppe e, quando batteva forte le nocche contro il muro, il capomastro gli chiedeva ad alta voce cose volesse e così i due potevano conversare brevemente, cosa che sarebbe tornata molto utile in caso di necessità urgente. 13 PIETRO VA A TROVARE ORSO Pietro lavorava già da qualche mese ed aveva girato per Granada e dintorni e visitato anche luoghi parecchio distanti dall’abitato camminando per viottoli polverosi, attraversando ponticelli e boschi. Da gran conoscitore di funghi qual’era sapeva bene che si raccolgono al mattino molto presto, prima dell’alba, poichè crescono durante la notte e gli scoiattoli se ne impossessano subito. Quel mattino era festa e, come per incanto, i funghi erano spuntati belli ed in gran numero per la gioia degli occhi e del palato dei raccoglitori. Il boschetto, in cui Pietro si era addentrato, era poco lontano da una mulattiera tutta sassi e polvere non troppo lontana dalla città. Dopo un paio d’ore il cestino che aveva portato con sé era pieno fino all’orlo ed il sole stava spuntando in un cielo terso con tante nuvole bianche. Fece una piccola deviazione per attraversare un bosco di belle mimose dalla corteccia sottile e rami carichi di soffici fiori gialli. La terra era coperta da erba soffice e muschio odoroso che davano un raro senso d’ebbrezza ed energia. Pietro inspirò a piene narici quella fragranza prima di tornare al caldo della città. Si sedette con la schiena contro un albero ed ascoltò i grilli intonare il loro canto trillante salutandosi l’un l’altro ed il frinire delle cicale. Il loro concerto di tutti i giorni! Stancatosi di oziare decise di far visita all’amico Orso per spartire il bottino con lui e tornò indietro quasi di corsa. Percorse una passerella di legno che attraversava il piccolo cantiere dove si riparavano le barche e vide l’amico che stava applicando uno strato di pece sullo scafo di una barca da pesca poggiata su di un rudimentale cavalletto. Il nome Orso si attagliava perfettamente a quel mozzo alto, con spalle e petto villosi, testa calva e lucida come una biglia, braccia nerborute, mani grandi e forti. Era stato ingaggiato con una buona paga dal proprietario di quel cantiere 14 ed alloggiava in una baracca che aveva ridipinto di un verde smeraldo un po’ troppo brillante. Le finestre e le imposte erano visibili anche da lontano perché erano giallo canarino, il colore preferito da Orso. L’inquilino doveva convivere nella casupola con tante merci ed attrezzi stipati in poco spazio. Sembrava proprio un mini emporio pieno di pezzi di ricambio in parte arrugginiti, cordame, reti e vari articoli per la pesca nel mare e nel fiume. Il marinaio asseriva di viverci bene e la chiamava “ la mia vera casa” forse perché lui amava il mare e le barche e loro amavano lui. “ Ma chi si vede! Come mai sei qua, non lavori pigrone?” Lo accolse così, ma era felicissimo di rivedere l’amico. Orso aveva uno strano carattere: era capace di grandi slanci e dimostrazioni d’affetto, talvolta però si chiudeva in un mutismo immotivato e gli si dovevano cavare le parole di bocca. “ Oggi è festa in città, penso che tu sia l’unico a lavorare ! Pensavo infatti di trovarti disteso sulla tua branda a russare”. “ Il riposo non fa per me, amico! Mia annoio qui senza un’anima viva con cui parlare e poi lavorare non mi pesa.” Quel giorno l’umore di Orso era ottimo ed a Pietro sembrò insolitamente allegro. Dopo averlo fatto accomodare nella sua “reggia” gli strappò letteralmente il cestino dalle mani esclamando tutto eccitato:” Sei grande Pietro! Ti ringrazio di aver pensato a me e suppongo che una parte dei funghi sia mia, o no?” “ Esatto! Spero solo che tu li sappia cucinare!” “ Puoi starne certo. Ho imparato da mia madre, una vera artista in fatto di prelibatezze! Quelli che preparava lei si scioglievano in bocca, erano saporitissimi, davvero squisiti e che profumino! Ora siediti su questa botte ed assaggia questo pesce affumicato che ho preparato con cura. Quando voglio cucino meglio di una provetta massaia. Ho anche dell’ottima frutta ed un vino che è come il nettare degli dei, si fa per dire….Bevi, bevine quanto vuoi!” Seduto di fronte all’amico Pietro mangiò il pesce affumicato, addentò una grossa melagrana dai grani color rosso rubino e ne assaporò il succo rinfrescante e gradevole e bevve mezzo boccale di vino, solo mezzo, perché temeva d’ubriacarsi. 15 I due parlarono a lungo delle reciproche aspirazioni e del lavoro ed Orso affermò, con una punta d’orgoglio, che cominciava a comprendere lo Spagnolo ed aveva imparato anche qualche espressione in Arabo. “ La lingua di Maometto è veramente ostica, non mi piace e non cambierò mai idea anche se comincio a capirci qualcosa, poco però!” affermò Pietro con voce triste. “ Bada a non manifestarlo apertamente. I seguaci di Allah sono parecchio suscettibili al riguardo. Per i musulmani noi siamo gli infedeli, i nemici, gli intrusi anche se tollerano la nostra presenza qui. Non resisteranno comunque a lungo all’assedio economico dei re cattolici cui dovranno pagare tributi”. “ Sarà!”, sospirò Pietro, “ Il regno musulmano mi sembra potente ed avanzato sia culturalmente che scientificamente. Non è bello il porto con i suoi traffici? Tutte le volte che lo guardo resto incantato. C’è anche tanta gente povera e sfaccendata, ma in quale luogo della terra non esistono povertà e fannulloni? Ho potuto ammirare il Canale Reale che irriga vastissime zone di terreno coltivato, l’Alhambra, la Torre dell’Acqua. Sin dal mio arrivo sono stato soggiogato dallo splendore del Castello Rosso. Che mi dici dell’ingegnosità e dell’arte profusa nel costruirlo?” “ Hai proprio ragione Pietro! Il castello è un gran colpo d’occhio e poi Granada è una delle città più belle che io, povero mozzo ignorante, abbia mai visto e le risorse naturali della zona sono a disposizione di tutti e vengono esportate anche fuori dal regno”. “ Granada è bella sì, ma mai come Firenze!” affermò Pietro con una certa grinta. “ Ma che paragoni mi fai, Pietro! Sono civiltà, culture e costumi diversi e poi anche a Firenze, se non vado errato, regnano confusione, intrigo,insicurezza, guerre e rivalità tra i nobili, proprio come qui. Hai dimenticato i carretti stracolmi di corpi devastati dalla peste e non tutti già morti?” A queste parole che rievocavano ricordi amari e riaprivano ferite non ancora rimarginate, Pietro tacque, si alzò e, trattenendo a stento le lacrime, guardò Orso con aria di rimprovero:” Avrai ragione tu, ma non è da amico rigirare il 16 coltello nella piaga. Sai bene quanto ho sofferto e quanto soffro ancora!” Detto questo e dopo aver salutato senza ringraziare però, gli voltò le spalle ed uscì in fretta. 17 LE FIGLIE DEL SULTANO Zaida, la minore delle figlie del sultano, era una giovane molto bella e fiera, amava la sua gente e la legge di Maometto ma, al tempo stesso, desiderava varcare le porte della reggia per vedere un po’ di mondo, non solo quello racchiuso nella città di Granada, ma il mondo nell’accezione più vasta del termine con tutto ciò che esso può offrire. Era romantica, affettuosa e di temperamento esuberante. Aveva due sorelle maggiori di lei: Zorayda e Zorahaida, anch’esse molto attraenti ed anche colte. A tutte e tre piacevano gli abiti sontuosi che arrivavano quasi fino a terra lasciando scoperta solo la punta all’insù dei sandali dorati. I capelli di un nero corvino erano attorcigliati all’indietro e fermati da spilloni con la capocchia impreziosita da topazi e smeraldi di notevoli dimensioni. Zaida aveva il volto color miele mentre le altre due erano di carnagione più scura, somigliavano infatti più al padre che alla madre. Portavano sempre un velo che copriva loro il volto dal naso fino al mento lasciando intravedere solo gli occhi grandi ed espressivi. Zorahaida esibiva spesso una splendida collana d’oro che terminava in un medaglione e le arrivava fino alla vita sottile. Zaida e Zorayda preferivano ornarsi con vistosi braccialetti colorati e lunghi orecchini di perle. Le tre sorelle, d’età compresa tra i sedici ed i vent’anni, vivevano nella loro lussuosa residenza fornita di tutte le comodità. Per accedervi si dovevano attraversare due cortili: uno era denominato cortile dell’Escabalgamiento( cioè l’atto di smontare da cavallo), poiché il sultano, che arrivava a cavallo, smontava in prossimità di questo cortile dove c’erano stalle ed abbeveratoi, l’altro cortile era davvero splendido, vi crescevano intorno aranci ed aveva una fontana al centro. Il sultano andava a trovare le figlie passando per una porta rettangolare con l’architrave ornata da piastrelle verdi e nere su sfondo bianco, una vera opera d’arte. 18 Quando vi andava di giorno incontrava spesso le tre ragazze che passeggiavano nella parte più suggestiva della dimora cioè nei giardini dove, a nord ed a sud, si ergevano splendidi padiglioni. Al centro scorreva l’Acequia Real( il Canale Reale) che trasformava il silenzio nel mormorio costante e perpetuo dell’acqua. Verso sera invece le principesse passeggiavano per una galleria di archi che permetteva loro di ammirare il paesaggio circostante dopo una giornata passata a dirigere la loro scuola di istruzione e ricamo per le ragazze delle famiglie nobili della zona. Zaida e sorelle insegnavano alle giovinette lettura, scrittura, computo, pittura e ricamo. In una vasta sala venivano srotolate pezze di tessuto di varia lunghezza e dimensioni che venivano poi dipinte o ricamate con fiori, foglie ed alberelli stilizzati oppure con linee serpeggianti e sinuose. Vendevano le stoffe alle nobili per i loro abiti ed il ricavato copriva i costi delle attrezzature e della scuola. L’istruzione era gratuita ed a tutte le ragazzine veniva offerto giornalmente un pasto buono ed abbondante. Tutte le bimbe, dai sei anni in su, erano contente d’apprendere e le più grandi ed esperte aiutavano le più piccole sotto gli occhi attente delle principesse, solitamente molto dolci e materne verso le loro allieve. Si arrabbiavano solo quando alcune di loro non preparavano bene i fili per il ricamo, dipingevano senza attenzione e non riponevano ordinatamente gli strumenti usati per il lavoro. Era quello il mondo delle principesse che raramente si spostavano dalla loro residenza che era una gabbia dorata, ma pur sempre una gabbia. Il sultano alloggiava dove meglio credeva. Di solito dormiva nel padiglione nord del cortile che aveva un portico ad archi con alcune alcove adiacenti. La profusa e densa decorazione degli stucchi del padiglione rifletteva l’importanza della persona che vi dimorava. Alhamar aveva avuto molte mogli e concubine e la preferita era stata un tempo la madre delle tre sorelle. La regina però non gli era fedele perché non lo amava, lo temeva soltanto. Si era innamorata invece di una cavaliere appartenente ad una potente famiglia amica ed aveva iniziato con lui quella che oggi si potrebbe definire una “ love story” veramente appassionata. I due 19 amanti erano soliti incontrarsi vicino ad un cipresso che cresceva in un vasto cortile adiacente alla dimora della regina. Scoperta la tresca il sultano aveva ordinato l’uccisione del cavaliere ed aveva fatto trucidare tutta la sua famiglia. Da allora le figlie di cui una, Zorahaida, era stata promessa in sposa al fratello del cavaliere ucciso, si allontanarono dalla corte e vollero trasferirsi nella gabbia dorata di cui ho parlato. La più astiosa e piena di risentimento nei confronti del sultano era naturalmente Zorahaida che non gli perdonò mai di averle ucciso il promesso sposo e di aver distrutto la nobile famiglia di lui. Zaida, pur amando ancora il padre, sognava già di abbandonare la reggia e di fuggire lontano con il cavaliere della sua vita. 20 ORSO ED ADELAID Orso aveva l’abitudine d’alzarsi di primo mattino e di uscire dalla casupola a respirare aria pura. Aveva trovato una piattaforma naturale ed una panca di scura roccia sotto i lunghi rami di un bell’albero dover poteva starsene seduto a pensare e ad ammirare il cielo e l’ampia distesa del mare fino al lontano profondo blu. La visuale da là era davvero bella: grandi uccelli si libravano nelle correnti ascensionali dell’aria, uccellini cantavano tra gli alberi e nei lontani campi, che si stendevano intorno, tutto il mondo, nella calma, sembrava perfetto. I suoi pensieri viaggiavano trasportati lontano dalla brezza marina. Pur non amando il mistero Orso intesseva spesso storie fantastiche ed impossibili, un modo come un altro per tenere compagnia a se stesso. Dalla nebbiolina, che andava diradandosi gradatamente, sbucò un’imbarcazione che prese a scivolare verso il porto.“Chissà da dove viene!” pensò. Sulla prua c’era uno stemma non distinguibile chiaramente e sul ponte di coperta sembravano sistemati dei sedili. Intanto un falco pescatore volteggiava in cerchio in cerca della colazione del mattino. Toccò l’acqua e sparì per un attimo schizzando poi verso l’alto con un pesce tra gli artigli. Cibo assicurato! Orso pensò al povero pesce finito nel gargarozzo del falco ed alla crudeltà della lotta per la sopravvivenza. Magari fino a poco tempo prima il pesce nuotava tranquillo nell’acqua e poi……. Riflettè sulla sua situazione di quarantenne solo e lontano dalla patria e si persuase ch’era ora di trovarsi una moglie. Dato che il giorno precedente aveva eseguito un buon numero di verifiche e riparazioni alle barche, pensò di concedersi qualche ora di libertà. Chiamò un 21 amico, anche lui mattiniero e che gironzolava senza far nulla, e lo pregò di sostituirlo nella baracca per un po’. Quindi si allontanò vagabondando senza meta per un luogo dover c’erano case tipiche molto belle con i loro giardini alberati e sorgenti d’acqua. Attraversò un agglomerato di altre abitazioni più modeste interrotte qua e là dal verde degli orti dell’antica città musulmana. Si stava avviando verso la collina ed il fiume Darro sulle cui sponde gli alberi crescevano più alti e più verdi. A circa metà della salita s’imbattè in due donne che scendevano verso casa nella zona dell’Albaicin in cui abitava una popolazione composta da una interessante mescolanza di cristiani e di moriscos che vivevano in pace lavorando e trafficando. Delle due donne quella più giovane era poco più di una ragazzina con uno sguardo bello e luminoso che lanciò da lontano ad Orso per manifestare, senza parole, ma in modo inequivocabile, la sua ammirazione per quel colosso tutto muscoli, sicuramente uno straniero, che non aveva mai visto prima. Era come se dicesse:” Mi piaci”. L’altra donna, secca e stagionata, dritta come un fuso e dalla pelle scura e grinzosa, era la madre. La giovinetta era davvero splendida: incedere flessuoso, vita sottile, lunghi capelli neri coperti da un velo trasparente, pelle olivastra, viso ovale, occhi espressivi e labbra carnose. Orso ne fu subito colpito e decise di tornare indietro verso l’agglomerato di casupole più in basso. Prima di arrivare in fondo alla strada, le donne piegarono per una laterale stretta e polverosa che costeggiava un muro bianco e scrostato ed entrarono in una piccola abitazione con annesso orticello. Quel giorno Orso lasciò là il suo cuore di uomo rude ed avvezzo ad ogni sorta di avventure. Cominciò a pensare:” Cosa m’importa se è cristiana o musulmana? Non ho mai professato alcuna 22 religione e credo solo in me stesso. In questo momento l’unica cosa che mi preme veramente è conoscere la ragazza, frequentarla e farne la compagna della mia vita. Mai più solo, mai più vagabondo! Desidero una casa allietata da figli, una famiglia normale come tante! La ragazza mi sembra però tanto giovane, troppo giovane per me! Ma non sarà una di quelle che adescano gli stranieri per carpire loro denaro e poi lasciarli in braghe di tela come è successo ad Alì, quello che faceva lo spaccone e che poi ho visto piangere sconsolato? Sarò cauto, non intendo fidarmi troppo! Tenterò comunque di rivederla e di parlarle chiaramente e, se possibile, lontano dagli occhi della donna anziana che le è attaccata come una cozza allo scoglio”. Rimuginando tra sé i pro e contro e facendo progetti, entrò nella prima bettola che trovò perché gli era venuta sete e gli piacevano il chiacchierio e la confusione dei locali affollati poi, dato che erano già trascorse diverse ore, corse al lavoro. 23 LE PRINCIPESSE DECIDONO DI AGIRE In quel periodo la principessa Zorahaida era irritabile, nervosa , d’umore tetro e se la prendeva spesso con le sorelle che, secondo lei, non sorvegliavano e correggevano abbastanza le bimbe della scuola. “ Non vi accorgete che studiano poco, sono svogliate e lavorano male? E’ nostro compito tenerle d’occhio ed istruirle, mostrare loro come dipingere e ricamare bene. Che figura ci facciamo con i loro genitori se non imparano? Invece voi chiacchierate e non vi accorgete neppure che rovinano le pezze di stoffa e le rendono invendibili con disegni malfatti!” Zaida, che era stanca di tanti brontolamenti, le rispondeva per le rime:“ Cara sorella, sono solo delle bambine e ci vuole molta calma e pazienza con loro! Devono ancora imparare e migliorare molto! Convengo con te che alcune sono davvero maldestre e svogliate e le abbiamo riprese più volte, ma cosa ci vuoi fare se le loro madri si fidano di noi e ce le mandano? Da’ tempo al tempo e concedi loro fiducia. E poi bada bene, anche se sei la più grande, Zorayda ed io non tollereremo più d’essere chiamate “ chiacchierone”. Semmai sei tu che non sorvegli e stai seduta con le mani in mano!” Visto che la sorella minore aveva alzato di molto il tono della voce che di solito era poco più che un sussurro e non volendo litigare, Zorahaida pensò bene di trovare un argomento interessante per stemperare la palpabile tensione tra loro e disse:” Ho saputo da una nostra scolara, la figlia del capo delle guardie, che nostro padre ha ingaggiato un folto gruppo di operai scelti per abbellire il patio ed il Salone degli Ambasciatori. Il sultano è proprio un fanatico della bellezza architettonica, vuole che tutto sia splendido, sorprendente, magnifico, ma a noi cosa regala? Riconosco la sua genialità come uomo d’arme che ha 24 fatto molte conquiste importanti come Algeciras, persa dal nostro caro nonno, ma mi sembra fin troppo munifico, direi quasi spendaccione! E la nostra dote, care? Quella che ci spetta e di cui non parla mai? Se ne sta sul trono in cima alla scalinata ad ascoltare i suoi sudditi, a dirimere liti, a decidere su questioni di giustizia, a dare ordini ed a ricevere in udienza ambasciatori stranieri e viene a trovarci solo per controllare quello che facciamo, non siamo amate, ma solo sorvegliate. E non venitemi a dire che il sultano può fare ciò che vuole!. Vorrei proporre ad una di voi, la più coraggiosa, di andare a vedere come procedono i lavori di abbellimento. Sapete, ci sono operai stranieri nella squadra, uno dei quali è un Italiano di nome Pietro che viene da Firenze!” “Uhm!”, fece Zorayda per nulla convinta dal lungo discorso della sorella,” Mi sembri più velenosa del solito nei confronti di nostro padre, non approvi forse il suo agire per la gloria musulmana? E’ meglio che qualcuna di noi esca da qui per vedere cosa succede fuori e si porti dietro Fatima ed il muto”. “ Ma che vai dicendo, Zorayda! Passi per Fatima alla quali si può inventare una scusa qualsiasi come quella di accompagnarmi al mercato per acquistare delle nuove pezze di tessuto da utilizzare a scuola, ma il muto? Questa poi ci mancava, la compagnia del muto! Sei forse uscita di senno, bella mia? Non ti sei ancora accorta che quello ci spia? E’ muto sì, ma non stupido! Magari fosse anche cieco! Posso sembrarti cinica, ma è che non lo sopporto. Non hai notato come lancia sguardi d’intesa alle guardie ammiccando verso di noi, come ride sguaiatamente con la bocca spalancata, piena di denti marci? Mi deludi cara sorella, ti credevo più perspicace!”, le rispose Zorahaida con voce acida. “ Voglio tentare io, sono certa di farcela! Il mio desiderio più grande è quello di trovare il modo di contattare la nostra mamma e non voglio perdere le speranze. La presenza di uno straniero mi intriga molto, lo confesso, ma non farò passi falsi. State tranquille! Non sapete forse che sono sempre stata prudente e riflessiva? Conto sul fatto d’essere la più giovane e la figlia prediletta, quindi il sultano si dovrebbe fidare di me!” tagliò corto Zaida. “ Sappiamo bene che sei coraggiosa. Allora, va pure! Non ci deludere, prediletta e soprattutto non nasconderci nulla!” 25 Zaida scese con passo svelto dalla splendida abitazione che le era diventata una prigione soffocante. Quando c’erano in visita stranieri le donne musulmane dovevano rimanere nelle loro stanze, quando invece non ce n’erano, potevano muoversi liberamente in tutta la casa, occuparsi dei lavori domestici e dell’educazione dei figli. Non tutte le donne però rimanevano nascoste: domestiche e schiave( e ce n’erano tante!) servivano gli ospiti con il viso scoperto e non dovevano rispettare le regole di moralità imposte alle donne libere. Zaida aveva scelto una mattinata calma: nessun ospite si aggirava nel palazzo e lei, con il volto coperto, aveva attraversato il cortile, ambizione di tutti i cittadini dell’emirato musulmano, ed insieme a Fatima, attraverso una porta nascosta tra il verde, era uscita all’aperto tra la gente vociante. Rientrate inosservate per un’altra porta che dava sul Cortile dei Mirti, proseguirono verso la Sala della Barca ed il Salone degli Ambasciatori dove una nutrita squadra di operai ed artisti era intenta al lavoro. La bellezza mozzafiato di quel salone esaltava l’origine divina del potere del sultano. Le due donne non avanzarono, ma si nascosero in un angolo da cui potevano ammirare le ricche decorazioni policrome che lo ricoprivano tutto dal pavimento al soffitto. Esperti stuccatori stavano lavorando ai pannelli abbellendoli con svariati motivi ornamentali( foglie, conchiglie, stelle), tanto ben fatte da sembrare vive e palpitanti, quasi che le si potesse afferrare allungando una mano. E le scritture cubica e corsiva? Erano anch’esse un motivo ornamentale. La cufica, di origine araba, aveva un andamento rettilineo ed angolato. Era denominata cufica perché originaria della città di Kufa in Iraq ed era stata la prima a comparire nella decorazione architettonica. Quella corsiva, con caratteri legati ed andamento circolare e flessibile, era apparsa quando si stava già diffondendo l’uso della scrittura per i documenti ufficiali ed amministrativi. Era conosciuta dalla maggior parte della gente istruita che sapeva leggere e scrivere come appunto Zaida e le sorelle. 26 Le due ragazze erano così intente ad ammirare quello splendido gioco di geometrie alternate a vegetali e strisce di epigrafi e gli azulejos che ornavano la parte bassa delle pareti, che avevano quasi dimenticato lo scopo della sortita. Fatima era stata edotta da Zaida sul motivo dell’uscita. Ragazza alta e ben fatta, nonchè colta ed intelligente, non aveva sollevato obiezioni e sorrideva dolcemente alla giovane che, più che padrona, era un’amica sincera. Fatima aveva ricevuto molte proposte di matrimonio, ma non ne voleva proprio sapere. Desiderava rimanere libera e viveva volentieri all’ombra delle principesse. Non aveva più i genitori, assassinati, si diceva per vendetta, da sicari assoldati da una famiglia rivale. Quel giorno indossava un morbido abito di seta con cordoncini sul davanti e bracciali ad anello sulle braccia scure e ben tornite. Portava anche vistosi anelli alle dita affusolate, regalo di Zaida che non le faceva mancar nulla. Era veramente bellissima! Gli artigiani, lavoratori instancabili degni di plauso, non avevano neppure notato le due ragazze entrate con passo felpato che guardavano ammirate la maestosa cupola di legno realizzata da veri maestri dell’intarsio. I legni, di diverso colore, davano l’idea della profondità del cielo, delle stelle e del Paradiso musulmano. Le sette corone concentriche di stelle rappresentano i sette cieli che l’anima deve attraversare per arrivare alla cupola centrale, l’ultimo livello che è il Paradiso. E che Paradiso per chi ci credeva e ci crede! Infatti non tutti i musulmani erano e sono pii osservanti della Legge. Molti non credevano neppure ai quattro alberi e quattro fiumi di quell’ambito Paradiso, né che esso fosse un eden o giardino terrestre. Zaida si rivolse a Fatima dicendo:” Per me l’Italiano è quel giovane là, quello con la barba corta che osserva come lavorano gli altri. Forse cerca d’imparare da loro. Vedi, è anche vestito come si conviene e, a prima vista, mi sembra un cristiano, uno di quelli i cui re ci combattono. Ho buon fiuto per certe cose!” Poi aggiunse:” Non possiamo passargli accanto senza farci notare e poi per oggi abbiamo già visto abbastanza da poterlo raccontare alle altre. Quello, e non mi 27 sbaglio, è un giovane colto ed intelligente. Penso sia opportuno affidarci a lui ed a Giuseppe per scoprire dove si trova nostra madre. Ora andiamocene!” Pietro aveva capito che, se voleva farsi degli amici ed intrattenere buoni rapporti con loro, doveva imparare la lingua del posto. Si era riproposto di parlarne a Giuseppe che lo avrebbe certamente incoraggiato ed aiutato. In quel palazzo di gesso cesellato, tra le innumerevoli colonne che lo cingevano, Pietro avrebbe incontrato una presenza femminile con cui stringere amicizia. Non poteva certo prevederlo, ma un incontro in particolare avrebbe dato una svolta decisiva alla sua vita. Intanto Zaida e Fatima erano rientrate nella loro residenza e Pietro continuava a concentrarsi sulle tecniche da apprendere per diventare abile, anzi abilissimo, nell’allestimento dei mocarabes, prismi e poliedri di legno o stucco, intagliati in forme concave nella loro parte inferiore. Nulla di simile aveva visto nella sua Firenze, né nelle chiese, né nei palazzi della città. Quei muqarna venivano utilizzati per decorare soffitti, mensole ed archi. Gli era venuto in mente di idearne alcuni di foggia nuova e fantasiosa così da poter salire nella considerazione del vero capo, Giuseppe. 28 SAVINIO ED EMANUELE, DUE SIMPATICI CAVALIERI Il capomastro Giuseppe, per gli amici Beppo, che sovrintendeva, tre l’altro, ai lavori di abbellimento della Sala del Trono, del Cortile dei Leoni e del patio del Mexuar, era soprannominato “exacto” poiché pretendeva la perfezione nell’esecuzione dei lavori e spesso faceva seguire la sua approvazione da un cenno affermativo del capo e dall’esclamazione “exacto!”. Giuseppe aveva due cari amici italiani, una coppia a dir poco originale. Erano costoro Savinio ed Emanuele che si vantavano d’esser stati prodi cavalieri cristiani. Vestivano con pantaloni a righe grigio e marrone un poco rigonfi ai lati. Portavano un gilet damascato sulla camicia con le maniche a sbuffo e scarpe nere e lustre con tacchetto. Il capo era coperto da un turbante nero chiuso sul davanti da una falsa pietra preziosa dietro cui spiccava una piuma variopinta d’uccello. Savinio era figlio di madre veneziana, di cui parlava il dialetto, e di padre francese che, a suo dire, era un nobile decaduto. Emanuele era suo nipote, figlio del fratello, anch’egli veneziano e poco più che un ragazzo. I due raccontavano con entusiasmo le loro avventure di cavalieri gonfiando a dismisura le loro gesta valorose, confessavano però d’essere dei disertori. Naturalmente coraggio e diserzione non vanno a braccetto e pochi li prendevano sul serio. Visto che vivevano bene a Granada non si erano mai pentiti d’aver disertato, anzi giustificavano ampiamente la loro fuga avendone avuto abbastanza di morti decapitati e sbudellati, di cavalli azzoppati, del sangue che intrideva la terra dei campi di battaglia, di tanta ferocia, di tutta quella carneficina, dell’efferatezza dei mori e di quella ancor maggiore dei cavalieri cristiani. Le 29 due fazioni erano spinte solo da un sentimento: l’odio. Uccidevano donne e bambini nel nome del Signore e si fregiavano dell’appellativo di “cristiani”, mentre erano solo individui assetati di vendetta, di ricchezza, di gloria, veri satana in carne ed ossa. Le loro imprese non erano dettate dalle fede nell’Agnello immolato per la nostra salvezza, ma da una sfrenata sete di conquista e di bottino. Molti erano mercenari ignoranti assoldati solo per gonfiare gli eserciti. Giuseppe aveva presentato i due veneziani a Pietro dicendo che si poteva contare su di loro in caso di bisogno e quello li aveva ascoltati a bocca aperta incerto se credere loro o meno. I due gli fecero simultaneamente un profondo inchino quasi a toccare col capo fino a terra e poi gli dissero che la loro fortuna derivava da una piccola attività: erano allevatori ed addestratori di piccioni viaggiatori e falconi. Avevano iniziato allevando galli da combattimento, ma con scarso successo perché ci voleva una grande pazienza e troppa fatica. Avevano poi smesso con quelle creature indocili, combattive e crudeli ed iniziato ad allevare piccioni viaggiatori, lavoro molto più bello e gratificante. “ Ti danno una gran soddisfazione, sono intelligenti, affidabili, volitivi. Volano a gran velocità ed impiegano molto meno tempo dei cavalli per coprire grandi distanze. Galoppare è una cosa, volare è ben altro!” Emanuele continuava a parlare come se si rivolgesse ad un gran pubblico invece che a Pietro e Giuseppe. Savinio aggiunse:” Che bello aprire una finestra per far volar via il piccione con il messaggio legato ad una zampetta e sapere che verrà consegnato. Quali altri messaggeri sono così celeri?” Alla fine di quel discorso pieno di enfasi Savinio si grattò la pancia prominente molto soddisfatto di se stesso ed aggiunse:” Amico, se in futuro avessi bisogno dei nostri servigi, sappi che siamo gli unici nella zona a poterti procurare subito un bel volatile a prezzo accessibile”. 30 Detto questo, il grassoccio bonario e lo smilzo pallido ed allampanato , salutarono e si congedarono battendo i tacchi in modo comico, come marionette. Quando si furono allontanati, Pietro proruppe in una sonora risata, si teneva stretta la pancia ed aveva le lacrime agli occhi. Non mancò di fare un commento scherzoso chiedendo al capomastro:” Ma che tipi! Parola d’onore non ho mai incontrato due personaggi così buffi in vita mia!” Giuseppe si era offeso dato che li reputava non solo amici buoni e fidati, ma persone davvero in gamba che gli avevano reso molti favori in passato, comunque non lo diede a vedere perché non voleva bisticciare con Pietro. 31 ORSO SI DECIDE Mentre Pietro aiutava a rivestire una vasta superficie del muro con pezzi di piastrelle smussate, tagliate e limate alla perfezione, Orso usciva dalla sua casupola-magazzino dopo aver frizionato a dovere le braccia nerborute, il torace e le gambe con dell’olio profumato che rendeva la pelle lucida ed elastica. Lo aveva acquistato al mercato da una vecchia andalusa con lunghi pendagli dorati alle orecchie, avvolta in uno scialle variopinto che sedeva su uno sgabello decantando i suoi prodotti erboristici buoni, ma cari. Dopo l’incontro con Adelaid Orso curava molto di più il suo aspetto cercando di tenersi pulito ed in ordine.” Anche l’aspetto conta”, pensava e quindi evitava di girare sciatto e trasandato. “ Ho più di quarant’anni e quella fanciulla ne ha si e no diciotto. Sembra gradirmi, ma cosa spero?” Quella mattina la Sierra Nevada si stagliava bianca contro il cielo grigio. Il mozzo rientrò nella baracca e ne uscì poco dopo coperto da una giacca di pelle, di non so quale animale, per proteggersi dall’umidità, poi si stiracchiò, flettè le gambe e fece qualche piegamento per scaldare i muscoli. Fatto questo si avviò a passo sostenuto verso la collina proprio dal lato della residenza del sultano. Voleva ritrovare la stradina laterale che portava alla casa delle due donne e, dato che era giorno di festa, pensava che la ragazza, che lo faceva sognare ed alimentava le sue speranze di un focolare domestico, fosse in casa. Ad Orso non faceva certo difetto la costanza per raggiungere lo scopo che si era prefisso e, giunto a destinazione, si appoggiò con noncuranza al muro scalcinato adiacente alla casetta che presto gli sarebbe stata familiare. 32 Stava appostato da lungo tempo bilanciandosi ora su un piede, ora sull’altro dato che uno gli formicolava e voleva togliersi quel fastidio, quando le due donne uscirono di casa dirigendosi verso di lui. Orso le aveva a malapena notate perché stava fissando la punta di una scarpa. Quando alzò lo sguardo e le vide avvicinarsi sorridenti, ebbe un tuffo al cuore. “ Forse è meglio che vada loro incontro!” pensò accennando un timido saluto. Le due, che non aspettavano altro, lo invitarono, con fare ossequioso, ad entrare nella loro casa. Era un’abitazione modesta, ma pulita: un piccolo tavolo quadrato e poche sedie di legno vicino al focolare. L’alcova, posto sul lato destro della camera, era chiusa da una tenda vecchia e scolorita che un tempo doveva esser stata di un bel rosso vivo. Povertà sì, ma ordine e pulizia. Né fontana, né porticato colonnato, ma solo un orticello con fiori e qualche albero ormai spoglio. La casa prendeva luce da una finestrella e dal cortiletto. Orso, che era stato invitato a sedersi, notò che le due ospiti non erano affatto impacciate, ma liete di essere in compagnia di un forestiero. Lui invece si sentiva alquanto imbarazzato. Sfruttando quel poco che aveva imparato dell’idioma locale chiese alla donna anziana come mai vivevano sole e lei, che si chiamava Aisha, gli raccontò la loro storia. Era vedova da molti anni e lavorava insieme alla figlia come serva nel palazzo della sorella del re moro, donna grassa, altezzosa e talvolta crudele. Era duro per loro guadagnarsi la vita così, non avendo né aiuto, né protezione dai loro parenti che abitavano lontano da Granada. Fino a quel momento la giovane Adelaid era rimasta ad ascoltare la madre ad occhi bassi in rispettoso silenzio ma poi, ansiosa di dire la sua, accennò al fatto d’essere già in età da marito, ma che nessuno si faceva avanti perché non aveva dote. Orso, volgendo lo sguardo ora verso una, ora verso l’altra, raccontò succintamente ed il più chiaramente possibile, d’essere un Italiano scampato ad un naufragio e tratto in salvo dal comandante di un vascello insieme ad altri superstiti. Aggiunse che lavorava per un padrone 33 esigente riparando barche e le reti da pesca. Le impietosì dicendo di essere solo, di non aver né moglie, né figli che lo aspettavano in Italia e che gli sarebbe piaciuto metter su famiglia a Granada. Anche se non lo avevano detto esplicitamente Orso comprese che quelle erano interessate alla sua condizione di scapolo e che lui poteva corteggiare e forse anche sposare Adelaid, quindi mangiò e bevve con piacere ciò che le donne gli offrirono con gentilezza e fu invitato a tornare tutte le volte che voleva. Il mozzo pensò:” E’ chiaro come il sole che si aspettano un aiuto economico da me”. Quindi si alzò, mise sul tavolo un gruzzoletto di monete, non molte, ma sufficienti per fare una bella spesa, si inchinò con un sorriso aperto e benevolo e promise loro che presto sarebbe tornato. Adelaid, visibilmente compiaciuta e col canto nel cuore, lo accompagnò alla porta. “ Le piaccio, i suoi begli occhi me lo dicono!” pensò Orso varcando la soglia e si allontanò. In quella calle, come in altre, mura, porte e finestre avevano occhi ed orecchie, captavano suoni, parole, sguardi ed atteggiamenti inconsueti. Fu quindi palese al vicinato che Adelaid stava conquistando l’amore dello straniero e comari ed amiche curiose, chiacchierone ed invidiose, cominciarono ad assediare Aisha con domande indiscrete. Alcune, senza ritegno, la fermavano per la strada e le chiedevano con sfrontatezza:” Ma il forestiero fa sul serio con tua figlia? Come farai a darle una dote? Non sarebbe meglio maritarla con un ragazzo del posto? Sai che tipo è e da dove viene?” ed avanti di questo passo. Aisha rispondeva a tono:” E chi vi dice che mia figlia desidera sposarlo? Ci vuole tempo per conoscersi bene ed il matrimonio è un passo che va ponderato! Tu Alina, dovresti saperlo meglio di chiunque altra, dato che il tuo sposo ti ha piantato due anni fa e non è più tornato!” Così dicendo volgeva le spalle ai pettegolezzi. 34 Per metter fine alle chiacchiere Orso chiese formalmente ad Aisha la mano di Adelaid la quale, manco a dirlo, accettò con gioia. La parentela lontana seppe dell’unione a cose fatte, ma non se ne rallegrò un po’ per invidia ed un po’ perché Adelaid continuava a vivere con la madre ed Orso nella baracca, comunque la loro era una situazione regolare agli occhi di tutti. Si sposarono, ma la lune di miele che Orso volle trascorrere in una bella abitazione messagli a disposizione da un amico ricco che trafficava al porto, fu amareggiata dal fatto che lo sposo scoprì che Adelaid non era vergine. Montò su tutte le furie tanto che la povera ragazza, terrorizzata e temendo di venir malmenata, si prosternò ai piedi del marito tutta lacrime e singhiozzi. “ Avresti dovuto dirmelo subito, puttanella! Che brutta sorpresa mi hai riservato! Perché mi hai trattato come un estraneo, perché ingannarmi così? Mi sento talmente umiliato che, se non fosse per il rispetto che porto a tua madre, ti abbandonerei immediatamente!” La ragazza capì poco delle parole dette con furia ed in italiano, ma il loro tono non lasciava adito a dubbi, si azzardò quindi a dire con voce flebile:“ Nessuno lo sa, neppure mia madre! Marito mio, ho tanto sofferto per questo! Non poterlo raccontare a nessuno, non poter sfogare la mia rabbia ed il mio dolore è stato il mio maggior tormento! Non ho colpa di nulla. Ho subito violenza da un cavaliere che bazzicava nella casa dove lavoro e mi vergognavo troppo per dirlo alla padrona e poi, cosa ne avrei ricavato? Chi dà credito alle parole di una povera sguattera? Ti chiedo umilmente perdono per non avertelo confidato prima del matrimonio, ma temevo che non mi avresti più sposata”. Orso comprese e, seppur a malincuore, la fece alzare, la strinse a sé con tenerezza e le raccomandò di non tenergli nascosto nulla in futuro. Ora lui era suo marito, aveva il diritto di sapere ed il sacro dovere di proteggerla. La loro vita doveva procedere in pace e le assicurò quindi che l’aveva perdonata e non ritornò più sull’argomento. 35 Le giornate si erano allungate, era arrivata la calura ed il sole feriva gli occhi quando, una sera, nacque Tommaso, il figlio di Orso, poi Tommasino per gli amici. L’unica finestra della casetta faceva entrare la pallida luce lunare ed una candela ardeva sul tavolo. “ Andrà tutto bene e metterai al mondo una splendida creatura!” diceva la voce incoraggiante della levatrice. Una nuova contrazione e un grido, seguito dalle parole di incitamento di Aisha, scosse il silenzio notturno. Poco dopo: “ Ecco, vedo già la testina, continua a spingere cara che sta uscendo!” Un vagito vigoroso fendette l’aria: “ E’ un maschio vispo e sano, Adelaid! Brava, brava , ci hai messo poco. Che fortuna, sono davvero felice!” Tommasino succhiava avidamente dalle mammelle turgide della mamma mentre Orso contemplava la scena più orgoglioso che mai. Quello era il vero legame che lo inchiodava alla terraferma dato che al lavoro al porto che non gli piaceva più. Quando l’omone lo prendeva tra le braccia, il piccolo ruttava e scoreggiava sonoramente e lui si sentiva un Dio in terra, pronto a sacrificare tutto per il bene del figlio. Adelaid rideva di cuore ai rutti ed alle scoregge del piccolo affamato ed esclamava battendo le mani divertita:” Proprio uguale al suo papà!” e, quando lo aveva in braccio, sembrava una bambina col suo bambolotto. Aisha continuava a lavorare nel palazzo della sorella del sultano ed Orso, che aveva proibito ad Adelaid di lavorare là, provvedeva ampiamente ai bisogni di mamma e bambino riparando le imbarcazioni con maggior lena. Ma Orso era veramente innamorato di Adelaid? Diciamo che nutriva per lei affetto e tenerezza, ma amore era una parola grossa. Gli piacevano la dolcezza degli occhi neri della ragazza, i suoi sorrisi, la sua voce, ma non il suo servilismo ed il modo che aveva di adularlo e di assentire in ogni cosa solo per fargli piacere. L’aveva presa in moglie però, nessuno l’aveva costretto a quel passo e quindi avrebbe dovuto accettarla così com’era con pregi e difetti. 36 Certamente Adelaid amava il suo uomo più di quanto lui amasse lei e non avrebbe mai pensato che non fosse del tutto sincero nelle sue manifestazioni d’affetto. 37 LA RICCHEZZA A PORTATA DI MANO I moti dell’animo umano sono spesso strani, variabili, inspiegabili, incomprensibili : odiamo, amiamo, mostriamo avversione o stima; talvolta quello che ci appariva bello, interessante, degno di ammirazione, a distanza d’anni o anche di poco tempo, ci diventa noioso se non addirittura insopportabile. Orso, come ogni altro essere umano, era soggetto al cambio d’umore, di interessi e purtroppo anche di sentimenti. Il mozzo era entrato nella bettola d’angolo perché aveva la gola secca. Ciò era dovuto probabilmente al cibo piccante ,anche se ottimo, preparato da Aisha. Seduto ad un tavolo in penombra aveva ordinato subito un bicchiere di sidro e pensava ai casi suoi. Alzati gli occhi dal tavolo su cui tamburellava con due dita della mano destra, notò un giovane vestito elegantemente che l’osservava. Poteva avere trent’anni, viso attraente e portamento da vero gentiluomo , non sembrava del posto. Non molto educatamente Orso lo apostrofò così: “ Perché mi fissate con insistenza, che cosa volete da me?” Il giovanotto tese la mano ad Orso che la strinse con una certa riluttanza. “ Non voglio apparire impertinente, né seccarvi, ma desidero tanto parlare con qualcuno disposto seriamente ad ascoltarmi poiché fino ad ora nessuno mi ha preso sul serio”. “ Ma perché vi rivolgete proprio a me, cosa vi fa pensare che voglia ascoltarvi?” “ Ho un sesto senso, in voi riconosco i tratti di un vero uomo e capisco che posso fidarmi”. “ Sedetevi e raccontatemi! Se è cosa davvero interessante avrete tutta la mia attenzione!” replicò Orso lusingato e tutto ringalluzzito per quel complimento inaspettato, nonché incuriosito dalle parole del gentiluomo o supposto tale. “ Posso offrirvi un bicchiere di buon vino? Il sidro è come acqua e non rinfranca l’animo!” gli disse il giovane. 38 “ No, grazie. Un bicchiere tira l’altro e non vorrei rincasare brillo. Ho una moglie giovane ed un bimbo nato da poco che mi aspettano”. Orso parlava in uno spagnolo stentato intercalando qualche frase in italiano eppure lo sconosciuto lo capiva perfettamente. “|Siete quindi uno straniero come tanti in questa città e sposato qui. E siete italiano, non è vero? Motivo in più per esporvi il mio progetto. Suppongo che, avendo già una famiglia da mantenere, vogliate guadagnare molto per offrirle una certa agiatezza, una bella casa per esempio, il futuro assicurato per il bambino….e, come si chiama vostro figlio?” “ Tommaso!” “ Bel nome davvero!” “ Oh, sono proprio sbadato! Non mi sono ancora presentato: Josè Maria Ruiz( il Barone per gli amici). Mi chiamano così perché vesto in modo raffinato ed amo circondarmi di cose belle ed anche di belle donne! Provengo da una ricca e nobile famiglia portoghese, ho viaggiato in lungo ed in largo per il mondo e parlo molte lingue tra cui lo Spagnolo e l’Italiano, come ben vedete!” Ad Orso quel Ruiz cominciava a piacere e, dopo aver già bevuto tutto il suo sidro ed essersi asciugato la bocca col dorso della mano, lo pregò di raccontargli tutto. “ E’ un affare straordinario quello che propongo, una cosa seria. Premetto che non sto inseguendo un bel sogno e non racconto frottole. So perfettamente che in un luogo non troppo lontano da qui è sepolto un tesoro di inestimabile valore ed ho la mappa per poterlo trovare. Ci vuole si e no una settimana di viaggio, ma non me la sento d’avventurarmi da solo quindi cerco qualcuno che venga con me.”. Detto questo trasse da una tasca interna della giubba una pergamena sgualcita e sbiadita con il disegno, ancora abbastanza visibile, dei resti di una fortezza nelle cui vicinanze era segnalato un quadrato di terra contrassegnato da una piccola croce. Lo mostrò ad Orso che, presolo in mano, lo rigirò da ogni lato 39 facendo segni d’approvazione col capo, borbottando come se avesse capito tutto e poi glielo restituì Questo tesoro venne sepolto da cavalieri portoghesi prima che la fortezza fosse presa ed incendiata. Per arrivarci bisogna attraversare la Sierra Morena e poi giungere in Estremadura che è molto vicina ad Portogallo dove sono nato. Cosa singolare è che in quel luogo c’è anche una piccola cappella in onore di Maria Vergine, rimasta inviolata durante una lunga guerra mossa ad un califfo musulmano. Un cavaliere, che conosce bene le vicende di quel luogo, mi ha assicurato che il tesoro esiste davvero, ma non è stato dissotterrato a causa di una leggenda che incute terrore superstizioso in tutti i ricercatori ed avventurieri che ho incontrato fino ad ora. “ Ditemi dunque che cosa si racconta di tanto terrificante al riguardo!”, esclamò Orso ridendo divertito. Poi proseguì : “ Non credo ai fantasmi e neppure alla iattura!” “ Non c’è nulla di cui ridere, amico! Dicono semplicemente che chi si avvicina al tesoro trova morte certa. Ecco perché nessuno vuole partire con me! Gli uomini con cui ho parlato sono tutti cacamiracoli e spavaldi senza coraggio. Voi mi sembrate diverso ed è per questo che vi confido tutto. Non pretendo che decidiate su due piedi se diventare ricco sfidando il destino e sfatando la leggenda, oppure continuare a lavorare al porto spaccandovi la schiena. Posso darvi tre settimane di tempo per riflettere bene. Quindi vi aspetterò qui con la risposta, diciamo, tra ventun giorni esatti da oggi alla stessa ora.” “ Questo mi sembra un crudele prendere o lasciare! E come giustificherò io una lunga assenza dal lavoro col mio padrone che è già incazzoso per natura e se la prende per un nonnulla? Cosa dirò a mia moglie ed a mia suocera? Come spiegherò che le abbandono?” protestò Orso alzandosi e facendo segno di volersene andare. Josè lo afferrò subito per la manica della giacchetta e lo pregò di risedersi e di ascoltarlo. “ Calma, calma, amico! Se chiedo la vostra collaborazione è segno che posso aiutarvi. E’ meglio dire alla moglie la verità subito e tutta intera senza 40 nasconderle nulla. Alle donne non piace essere prese per il naso. Per quanto riguarda il Vostro padrone…ma come si chiama?” “Pablito el Gordo”. “ Ah quello là, lo conosco bene. E’ uno sbruffone iracondo, ma gli parlerò e sistemerò tutto. Naturalmente avremo a disposizione tutto ciò che occorre per il viaggio, danaro, due cavalcature e provviste d’acqua e di cibo ed anche delle armi nel caso fossimo costretti a difenderci!” Il cuore di Orso era dilaniato da sentimenti contrastanti che facevano a pugni tra loro, l’accenno alle armi gli mise i pensieri in gran subbuglio e la testa prese a girargli. Comunque promise che avrebbe meditato sulla proposta, ma affermò che non era poi tanto certo che avrebbe accettato. Uscito dalla bettola nulla riuscì a calmarlo e fugare la sue perplessità, né il vento che gli soffiava in faccia ululando, né il fatto che si rendeva ben conto che quello che gli era stato prospettato rimaneva il suo sogno, ma pur sempre un sogno, che quel sogno di ricchezza avrebbe potuto anche realizzarsi solo se avesse avuto il coraggio di sfidare l’ignoto. Poi, come per incanto, sorse in lui, al disopra di ogni dubbio, la certezza che finalmente la sua fortuna sarebbe cambiata. Mentre gli scrosci di pioggia lo inzuppavano da capo a piedi e un soffio di vento lo investiva sgarbatamente, d’un tratto, la sua fiducia svanì. E se poi si fosse sbagliato, se si fosse trattato solamente delle parole di un venditore d’illusioni? Concluse che aveva tutto il tempo per riflettere e si quietò assaporando il bel calduccio che avrebbe trovato a casa. Ci mise due giorni per decidere se confidarsi o meno con Adelaid ed alla fine pensò che era suo dovere spiegarle tutto e dirle la verità. Adelaid reagì molto diversamente di come si aspettava. Andò su tutte le furie, protestò, pianse sfoderando una grinta che Orso non le conosceva. A lei non importava nulla di una futura ricchezza, era paga della vita semplice di ogni giorno, voleva accanto il suo uomo, esigeva il suo amore per lei e per il figlioletto. Orso non poteva, non doveva abbandonarli e, vista l’impassibilità e la durezza di lui che si era illusa li amasse, cominciò ad urlare e ad 41 avventarglisi contro di lui come una furia, colpendolo il petto con pugni e graffi. Orso avrebbe dovuto desistere e comprendere che Adelaid era disperata, che lo amava davvero, invece si incaponì, dichiarò che voleva fare di testa sua , diventare ricchissimo, vivere senza i problemi dei comuni mortali, felice e beato senza dover più lavorare per una paga che reputava misera, che un buon marito deve poter mantenere la moglie nella bambagia. Sarebbe tornato da lei carico d’oro e di gemme preziose, le avrebbe costruito un gran palazzo fornito d’ogni comodità, con serve e servi ai suoi ordini. Lei avrebbe sfoggiato splendidi vestiti e gioielli e sarebbe stata invidiata da quelle vicine che l’avevano criticata per averlo sposato. A sentire tutti quei sogni di gloria, tutti quei progetti di rivalsa, Adelaid capì che non c’era più niente da fare e addolorata, tenendo Tommasino tra le braccia e singhiozzando forte, si ritirò in camera accasciandosi sul letto. Erano sogni di grandezza i suoi! Pietro aveva voluto mostrarsi tutto d’un pezzo davanti alla moglie, ma in realtà non era poi tanto sicuro d’agire onestamente. Venne il giorno dell’appuntamento e Josè, che lo stava già aspettando, lo vide avvicinarsi al tavolo un poco triste e con passo lento. “ Hai deciso amico? Siediti e beviamoci un bicchiere del migliore!” gli disse il Portoghese. “ Sì, ho deciso. Accetto, verrò con te e poi sarà quel che sarà!” Quella sera, nonostante i suoi buoni propositi, Orso si ubriacò, non tornò da Adelaid e si coricò nella baracca solo come lo era sempre stato. 42 LA TORRE La primavera veniva considerata dalle principesse la stagione più gradevole. Il sole era sì caldo, ma l’effetto dei suoi raggi era attenuato dalle frescura della terra , dell’erba dei prati che era già alta e gli alberi portavano foglie tenere e nuove. Dal Paseo de las Torres si potevano vedere una costruzione biancastra, un cubo alto e brutto con la sommità piatta e,un poco più sotto, due grandi bifore da cui prendeva luce. Era un vero e proprio palazzo dentro una torre, poco attraente esteriormente, ma splendido all’interno come le tipiche costruzioni dell’Alhambra con il piano superiore a terrazza, sale riccamente decorate, pannelli in stucco ed iscrizioni in ceramica. Quella torre, che si staccava dalla altre e sembrava voler sfidare il cielo, era invisa alle figlie del sultano. Guardandola da lontano rabbrividivano per un misto di terrore ed odio. Chi guardava dalle bifore in alto? Chi vi abitava, o meglio, chi era rinchiuso là dentro? Si raccontavano tante storie, come quella di una gentildonna cristiana, figlia di un certo Sancho Jimenez de Solis. La ragazza si chiamava Isabella, era stata catturata in una zona di frontiera e portata al precedente sultano che prima la fece rinchiudere nella torre e poi se ne innamorò perdutamente dato che la ragazza era bellissima. Isabella si convertì all’islamismo con il nome di Soraya ( che significa “ luce dell’alba “) e sposò il sultano. Questi però, prima di contrarre matrimonio, aveva una favorita che, per gelosia, aizzò il popolo contro di lui che aveva sposato una ex-cristiana e lo costrinse ad abdicare in favore del fratello, el Zagal, molto più popolare. Non rimase al sultano altra soluzione che andare in esilio con la moglie ed i figli. 43 Le principesse conoscevano quella storia, forse una favola, ma la scomparsa della loro mamma anni addietro faceva loro pensare che fosse tutto vero e passavano ore a discutere su come venire a conoscenza della sorte toccata alla regina. Né le dame di compagnia, né Fatima ne parlavano, anzi evitavano di farne accenno per non rattristare le ragazze che, sebbene vivessero circondate dal lusso e non mancasse loro nulla, si reputavano molto sfortunate. “ Possiamo avvalerci dell’aiuto di Giuseppe e dell’altro straniero, quel Pietro che lavora per lui. L’ho visto solo da lontano, ma mi sembra persona affidabile e spero di non sbagliarmi. Pensate che valga la pena di fare un tentativo con l’aiuto della vecchia Zelina e di Fatima? , chiese Zaida con noncuranza. Zorayda emise un profondo sospiro e pensosa rispose:” Naturalmente potremmo anche gettarci a capofitto nell’impresa! Quei due sono Dimmi( si chiamavano così ebrei e cristiani che, come cittadini non musulmani, erano “protetti” in uno stato retto dalla legge islamica). E chi potrebbe sospettare di loro o far loro del male?” “ Non conosci nostro padre, allora!”, la interruppe Zorahayda in tono aspro. “ Sarebbe capace di farli uccidere e poi far passare la loro morte come accidentale. Ma quando capirai che il sultano sa anche essere crudele?” “ Un tentativo dobbiamo farlo e presto. Troppi anni sono passati da quando la mamma ci è stata strappata e non l’abbiamo più rivista”, ribattè stizzita Zaida alla quale non garbava temporeggiare. Poi continuò:“ Abbiamo il dente avvelenato con nostro padre, lo temiamo a ragione, ma perché non riflettiamo con calma e prendiamo in poco tempo una decisione unanime dopo aver architettato un piano che funzioni veramente?” Le tre ragazze sedevano su un muretto del giardino che odorava di fiori. Getti d’acqua limpida sgorgavano dalla grande fontana tra magnolie, cipressi, cedri, mirti, gelsomini e rose. Erano scese per la suggestiva scalinata dell’acqua, un capolavoro d’arte nasride. L’acqua scendeva, 44 gorgogliando come un piccolo torrente, attraverso i concavi corrimano decorati da piastrelle smaltate e rallegrava le belle piante di alloro e nocciole con la sua canzone dolce e antica. Le giovani erano abituate a quel superbo rigoglio e non facevano più caso allo splendore che le circondava. Dopo circa un’oretta si alzarono dal muretto avviandosi di malavoglia verso la sala delle lezioni: era l’ora di richiamare al lavoro le allieve. Avevano confabulato sul modo di far pervenire un messaggio agli artisti italiani, ma non avevano ancora trovato un accordo, quando Zaida esclamò :” Affidiamolo a Taqi che è coraggioso e fedele, così non correremo alcun rischio!” “ Brava ed astuta, la nostra sorellina!”, esclamarono le altre due battendo le mani. In quel preciso momento ebbero la certezza che avrebbero rivisto la madre e salvato sia lei che loro stesse. Un versetto del Profeta aveva dato loro ispirazione e coraggio:” Un’arma è più desiderabile dell’acqua fresca in un rovente giorno d’estate”. Si ripromisero quindi di agire di concerto e senza tentennamenti, ma dovevano neutralizzare le difese del sultano. Il re moro, vestito sontuosamente, sedeva su un trono rialzato nel salone dove aveva appena impartito secchi ordini ad uno dei suoi muquaddam in cotta di maglia. Intorno a lui c’erano mamelucchi in abito giallo, stretto alla vita con una cintura da cui pendeva la scimitarra; questi erano incaricati della sua protezione personale. Quel giorno il sultano era d’umor nero, aveva detto solo poche parole e spostava nervosamente lo sguardo dall’una all’altra delle sue babbucce ricamate d’oro. Battè tre volte le mani: a quel segnale gli si avvicinarono i servitori con boccali pieni di vino, di sidro, coppe traboccanti di miele, e grandi piatti su cui facevano bella mostra datteri, pistacchi, mandorle, uva passa, noci e fichi di cui andava ghiotto. Battè ancora le mani: segno che desiderava essere allietato dalla musica. Entrarono subito musici con un buon insieme di strumenti: un’arpa, un flauto, 45 un liuto, un tamburello, ( c’era anche un provetto suonatore di arghoul) che attaccarono un motivo gioioso, il preferito del sultano. Quei musici erano dei veri artisti, quanto di meglio si poteva trovare sulla piazza. Si distingueva per la sua particolare maestria un giovane che, da uno strumento ad otto corde, ricavava suoni tremuli. “ Tutto qui?” tuonò con la sua voce profonda rivolgendosi ai servitori. “ Dov’è la mia provetta danzatrice?” “ Attendete solo un attimo, mio signore, è già pronta ed entrerà subito”, gli sussurrò all’orecchio un uomo alto quasi due metri. Il colosso, che si chiamava Kunar, aveva il raro dono di calmare il sultano ed era il terrore della servitù, degli amici ed ancor più dei nemici. Nero, con la testa pelata e lucida, le braccia muscolose su cui erano tatuati versetti del Corano, due occhi arrossati e fiammeggianti come quelli di un demonio, agile e scattante nonostante la sua mole, intimidiva tutti giocando con le armi come fossero birilli in mano ad un giocoliere. Fendeva l’aria con la sua scimitarra e sapeva lanciare con grande abilità coltelli kandjar dalla lama ricurva senza mai sbagliare la mira. Sembrava una pantera nera pronta a colpire, aveva infatti lo sguardo ferino del predatore. Era guardia personale ed al contempo alter ego del sultano e sapeva essere molto crudele. Si diceva che, dietro ordine del suo signore, avesse dato in pasto alle pantere individui sospettati di tradimento. Le pantere del sultano erano trattate come dee e, ben pasciute ed amate, si aggiravano dentro un’enorme gabbia nell’angolo più remoto e nascosto del palazzo. Il re si atteggiava a grande restauratore della potenza musulmana, l’eletto di Allah.. Padre-padrone di Zaida e sorelle era anche superstizioso ed arrogante. Si circondava di mistici famosi che prevedevano il futuro, erano pieni di saggezza e gli avevano assicurato la loro assoluta fedeltà e la loro costante protezione. Uno in particolare era il suo prediletto, il chiaroveggente in assoluto, una perla rara. Alto, di carnagione bruna e con una fluente barba bianca ed un turbante bianco in testa, sempre vestito 46 elegantemente con lunghi abiti di seta, anelli a tutte le dita ed una massiccia collana d’oro che gli arrivava fino alla cintola, non aveva mai azzeccato una previsione, ciononostante Alhamar si fidava ciecamente di lui. Mentre pensava che avrebbe presto consultato i quattro saggi, una magnifica fanciulla uscì dal paravento e, dopo essersi inchinata graziosamente davanti al sultano, iniziò a danzare. I suoi occhi scuri, le braccia e le gambe tornite e belle, i piccoli seni appuntiti e le sue movenze ammaliavano anche i suonatori ed il sovrano non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. La giovinetta si muoveva con la grazia disinvolta e la leggerezza di una ninfa. Era una ballerina ed attrice consumata nonostante la giovanissima età. Purtroppo Alhamar passava spesso e repentinamente dal grande interesse alla noia mortale ed anche quel giorno non fece eccezione. Posizionando meglio ora una natica, ora l’altra per star seduto più comodamente, mollò un peto tonante che sconcertò gli astanti, ballerina compresa, i quali dovettero fare sforzi sovrumani per trattenere le risate che avrebbero irritato l’eletto, il grande. “ Lui si può permettere questo ed altro!” , fu la loro unanime, ma taciuta considerazione. Con lo sguardo perso in lontananza, il sovrano non ascoltava più la musica, né guardava la danzatrice, poi improvvisamente urlò:” Idioti! Ne ho abbastanza, andatevene!” Dato che non era raro che ciò succedesse, tutti si congedarono in silenzio. Egli si alzò e si guardò intorno impensierito: “ Cosa mai gli era successo? Perché quel moto improvviso di stizza e subito dopo quell’apprensione e quella tristezza immotivate?” Inservienti dalla pelle d’ebano, che indossavano un semplice perizoma, gli si inchinarono profondamente dinanzi e gli chiesero, sfidando la sua ira, se non gradisse essere sventolato o massaggiato. Serio e disgustato Alhamar scacciò anche loro. 47 Quel malcontento lo impensieriva molto, un sovrano non deve cedere a debolezze! Forse troppi pesi gravavano da tempo sulle sue spalle, troppe vite dipendevano dalle sue decisioni! Pensò che ricchezza, fama, potere, gloria immortale, meravigliose conquiste fatte o ancora da realizzare, non potevano riempire completamente e dare un senso di appagamento alla propria esistenza, potevano invece schiacciarla e renderla insostenibile. Nel suo cuore c’era un vuoto totale, una grande carenza d’affetto, una solitudine difficile da colmare. Come poteva pretendere lui che d’amore non ne aveva mai dato, di riceverlo adesso quando ne sentiva maggiormente il bisogno? Ripassò nella mente tutte le volte che lo aveva rifiutato e si era dimostrato inflessibile verso chi lo amava. Era solo, non era rimasto nessuno nel salone ed anche il fedele Kunar se l’era svignata. Faceva sempre così perché le esplosioni d’ira del suo padrone lo infastidivano. Non poteva essere quello il frutto di una mente senile, poiché lui non era affatto vecchio! Erano senza dubbio le preoccupazioni e le tensioni a cui i re cattolici lo sottoponevano da tempo. Mentre il sultano faceva tristi considerazioni, un messo frettoloso entrò nel salone a capo chino. Recava una richiesta d’udienza della principessa Zaida che quel padre terribile non poteva negarle, quindi, molto meravigliato ed incuriosito, rispose che poteva riceverla anche subito. Zaida, ben truccata e splendidamente vestita, entrò a passo sostenuto e si accostò al trono su cui 48 Egli sedeva. Come segno di rispetto verso l’augusto genitore, la ragazza si prosternò e gli cinse i piedi con le braccia, ma non glieli baciò come aveva sempre fatto da bambina e figlia prediletta. “ Chissà cosa avrà da chiedermi e proprio oggi che sono di pessimo umore!”, pensò l’uomo accarezzandosi la barba corta, ricciuta e folta e lisciandosi poi i capelli crespi che doveva ungere per tenerli in ordine. Rialzatasi la ragazza gli disse seria:” Padre mio, come state? E’ un bel pezzo che non venite a trovare le vostre figlie ed è anche per questo che ho chiesto udienza!” La parola “anche” cominciò a preoccuparlo, Zaida voleva qualcosa di concreto e quando mai si era preoccupata della sua salute? La giovane continuò:”Ho da chiedevi un favore, anzi meglio un permesso, ancor meglio un dono, roba da poco però, e so che, se volete, potete accontentarmi”. “.Parla, Zaida, che richiesta hai mai? Ti ho sempre concesso tutto quello che mi hai chiesto, purchè non si tratti di cosa troppo costosa!” Zaida pensò tra sé :” Magari! Invece di darci tutto ci hai privato di tutto togliendoci nostra madre, per non parlare poi della dote……”. Questo le diceva il cuore mentre le sue labbra rispondevano invece: “ Desidero imparare a suonare l’ud e so di poter diventare brava perché ho orecchio e la musica mi piace”. A quella richiesta il sultano proruppe in una sonora risata e le rispose:” Questa poi! Una principessa che suona l’ud, non l’ho mai vista, è una novità! E dimmi da quando ti piace la musica?” “ Da sempre, padre, ma a voi non l’ho mai confessato!”, gli rispose lei speranzosa. “ E’ invero un dono da poco quello che chiedi. Ma poi chi ti darà lezioni di ud? Non pretenderai di prenderle da un musico esterno al palazzo o da uno dell’orchestrina da quattro soldi che si esibiva prima! Per Allah, ma perché non l’arpa dal suono melodioso che meglio si adatta ad una donna? L’ud è uno strumento odioso, dal suono lamentoso e deprimente! Sei proprio sicura di voler imparare?”, le chiese il sultano dubbioso. 49 “ Certamente e so anche chi potrebbe darmi delle lezioni. Non ricordate come suonano bene Taqi e Rashid, le nostre fedeli guardie del corpo? Suonano d’incanto, specialmente Taqi è un vero artista! Vi prego, gran sovrano, ordinate loro di darmi delle lezioni al cospetto delle mie sorelle e delle bimbe della scuola! Le loro orecchie si delizieranno all’udire quel suono dolce che per voi è lamentoso, ma per me è proprio adatto a rallegrare il cuore. Sapete, spesso siamo tristi e qualche concerto sarebbe un diversivo per noi!” Zaida fece quel discorso tutto d’un fiato temendo che, altrimenti, il suo entusiasmo non sarebbe perso autentico e lei avrebbe perso slancio e coraggio nell’avanzare la richiesta. Quando la ragazza accennò alla tristezza sua e delle sorelle, il sultano chinò il capo evitando di guardarla negli occhi poiché si sentiva colpevole e poi girò intorno al trono magnifico, tutto intarsiato ed impreziosito da decorazioni in oro zecchino, come per trarre ispirazione e si interrogò con grande calma:” Devo dire di sì o di no?” Prevalse il sì, tanto quel piccolo favore non gli costava nulla ed una volta tanto avrebbe fatto felici le figlie. Quindi rispose: “ Va bene, prenderai le tue lezioni di ud. Taqi te ne procurerà uno, il migliore in commercio. Prendi direttamente accordi con le due guardie sull’ora ed il giorno. Adesso va, però, perché non ho altro tempo da perdere in stupidaggini!” Poi, brontolando e borbottando parole incomprensibili, pensando forse a nuove armi, tattiche militari, tecniche balistiche, fortificazioni, si dimenticò della presenza di Zaida. Probabilmente andava rimuginando sulle difficoltà in cui i re cattolici stavano mettendo il suo regno, sulla loro continua ostilità e sete di conquista di quella terra che sentiva sua da sempre, sulla loro astuta politica militare e sui pesanti tributi che avrebbero dissanguato le casse granadine in caso di sconfitta. Visto che il padre non si curava più di lei, anzi sembrava totalmente assente, Zaida corse via dopo averlo ringraziato col sorriso sulle labbra. 50 PIETRO VA DA ORSO A Pietro piaceva moltissimo passare per un sentiero dove la vegetazione lussureggiante si congiungeva in alto sopra di esso formando un bell’arco, quasi un tunnel dove regnava spesso un gran silenzio, nessun uccello cantava, nessun insetto passava ronzando e non si vedevano in giro né lucertole né salamandre. L’uomo fece un salto per attraversare un rigagnolo d’acqua verdastra, uscì dal tunnel e piegò verso il porto. Quella mattina Pietro aveva indossato la kefyah rossa e l’aveva avvolta, oltre che sulla testa, anche sul naso per proteggersi dalla polvere. Dovette fermarsi più volte e rallentare l’andatura dato che si sentiva stanco. La notte non aveva dormito a causa degli incubi e di un forte vento che aveva ululato fino all’alba tenendolo sveglio. Era già arrivato al mare nei pressi della tana di Orso, era salito su per la scaletta di legno sconnessa e picchiato alla porta. Fu grato alla kefyah che quella volta, oltre a proteggerlo dalla polvere sottile che si alzava dai viottoli e dal sole, lo proteggeva anche dal puzzo di pesce marcio misto a salsedine che gli dava il voltastomaco. Orso gli venne ad aprire come al solito coperto da una maglia corta e leggera e lo invitò ad entrare, ma gli chiese di aspettare solo un attimo, giusto il tempo di lavarsi le mani unte e la faccia così da rendersi presentabile. “ Ho lavorato fino ad ora a sistemare reti e corde nella baracca e dimmi, caro Pietro, a che debbo la tua visita?” Esclamò l’omone sorridendo meravigliato e tenendo stretto l’amico in un poderoso abbraccio, poi lo invitò a sedersi sulla botte che era sempre servita come sedia. 51 Dopo qualche attimo di esitazione, non sapeva infatti se confidarsi o no con Pietro, Orso si battè un pugno sulla coscia destra e disse tutto d’un fiato: “ Ho messo al mondo un mostro!” Pietro lo guardò interdetto non comprendendo se scherzasse o dicesse sul serio, poi gli chiese:” Ma di che mostro parli? Sei ammattito o hai alzato un poco il gomito?” Orso emise un gemito e rispose:” Il mostro di cui parlo è mio figlio Tommaso, colui di cui andavo fiero!” “ Ma dimmi, come può un bimbo di soli sette mesi essere un mostro?, gli chiese Pietro sinceramente preoccupato. “ Sai, mi sono accorto che ha un piede con sei dita, sei dita capisci?” “ E con ciò, vecchio imbecille? Se per caso non lo sai ancora, ignorante che sei, le sei dita rappresentano il possesso della vita spirituale per discernere la verità dalla menzogna. E’ un buon segno, porta bene, Tuo figlio diventerà un grand’uomo!” Orso guardò Pietro con la bocca spalancata per la sorpresa e si arrischiò a chiedere: “ E tu, come lo sai?” L’amico gli rispose benevolmente e col sorriso sulle labbra: “ Lo so perché ho studiato l’argomento e so anche che tre incisivi hanno invece un significato negativo. Denotano una persona con poco equilibrio, falsa e crudele”. Non ancora convinto Orso tornò a chiedere perplesso: “ Ne sei proprio sicuro o mi stai prendendo in giro?” “ Ne sono certo, anzi certissimo, come è vero che sono qui che ti parlo!” Affermò Pietro con entusiasmo. Orso si alzò finalmente rasserenato ed offrì all’amico un boccale di buon vino rosso, che quello bevve a piccoli sorsi per gustarne meglio il sapore, tanto era buono, poi chiese :” Ti fa piacere la mia visita, Orso? Non mi chiedi perché sono venuto?” “ Pensavo che tu volessi accertarti che sto bene e che tutto procede per il meglio, non è così forse? 52 “Se devo esserti sincero non è unicamente per vederti che sono venuto. Desideravo sfogarmi un poco e confidarti che, da qualche tempo, sono ricominciati gli incubi notturni e gli spettri del mio sventurato passato tornano a tormentarmi. Tu cosa ne pensi?” Orso si rattristò in volto o forse finse di essere preoccupato per far piacere a Pietro, poi rispose:” Io cercherei di curarmi i nervi. La solitudine e la mancanza d’affetto possono giocare brutti scherzi. Nel tempo libero dovresti passeggiare, svagarti, incontrare amici, studiare la lingua del posto per allacciare contatti. Questo è il mio consiglio e, se fossi in te, lo seguirei!”. Chiacchierarono ancora, poi Orso accompagnò Pietro per un buon tratto di strada verso le abitazioni degli operai e degli artisti che stavano abbellendo il palazzo. Ai lati della salita crescevano bacche grosse come noci che, volendo, si potevano cogliere semplicemente allungando una mano. I due amici presero una scorciatoia coperta d’erba alta, fiancheggiata da alberi e qualche cespuglio e, piano, piano, prendendosela comoda, arrivarono a destinazione. Pietro espresse un pensiero affettuoso per rassicurare Orso:” Non preoccuparti delle sei dita di Tommasino e goditi l’amore della tua Adelaid. Reputati fortunato d’avere ora una famiglia, io so cosa significa non averla più!” Orso obiettò:” Puoi sempre trovarti una moglie e rifarti una vita, sei ancora giovane e guadagni benino! Se diventerai abile come posatore, intagliatore e progettista, crescerai nella stima di tutti. Cosa spetti allora? Mi hai accennato agli incubi odiosi. E tu che credi in Dio perché non preghi per l’anima di tua moglie e di tua figlia? Ti sarà di conforto ed anche di aiuto, almeno così ho sentito dire da certi religiosi in Italia! Quando troverai una compagna gentile ed affettuosa, gli incubi spariranno, te lo assicuro!” “ Fosse proprio cosa facile!, rispose Pietro aggrottando le sopracciglia cespugliose che si congiungevano un poco sul naso e passandosi una mano sulla fronte mentre i suoi occhi dolci ed espressivi si velavano di tristezza. Orso non rispose nulla e, non sapendo come consolarlo, gli battè una pacca di incoraggiamento sulla spalla, gli strinse forte la mano e tornò indietro. 53 ISABEL OVVERO MARGUERITE La giovane Marguerite era figlia di una cantante e ballerina tunisina e di un prestigiatore, funambolo e gran ladro genovese. La coppia non aveva fissa dimora e campava facendo spettacoli e talvolta borseggiando con gran destrezza passanti e frequentatori di taverne ubriachi. Misero al mondo una bella bambina che chiamarono Margherite in ricordo della nonna materna. Il giocoliere funambolo morì ancor giovane a seguito delle ferite riportate durante una rissa e la moglie restò sola a provvedere alla piccola. Essendo caduta in miseria e non potendo quindi provvedere alle necessità di Margherite, la vendette, cosa molto frequente a quei tempi, ad Alì al Sufi, ricco mercante di spezie, tappeti e tessuti pregiati. Costui divenne il padre adottivo di Margherite che crebbe bellissima, vivace ed intelligente, l’orgoglio di Alì che la ribattezzò Isabel a ricordo dell’unica figlia deceduta alcuni anni prima Isabel era alta, snella, con gambe lunghe, denti bianchi come porcellana, capelli lunghi, fluenti e del color del sole con riflessi ramati, in più i suoi occhi erano del colore del caramello e la sua pelle ambrata. Ancor giovanetta cavalcava con l’abilità di una cavallerizza provetta e galoppava molto velocemente e con una disinvoltura prettamente maschile. Aveva una tal gran voglia d’apprendere ed una mente così pronta e sintetica che Alì pagò un precettore che la istruisse permanentemente seguendola negli spostamenti e da cui apprese a leggere, scrivere ed a far di conto, cosa a cui il mercante teneva particolarmente in quanto la reputava all’altezza di sostituirlo 54 nel trattare le compravendite quando lui sarebbe diventato tanto vecchio e rimbecillito da farsi fregare nelle contrattazioni. Pioveva fitto, la notte era umida ed afosa, si avvertiva una certa vibrazione nell’aria e nel suolo, sembrava che la terra stessa pulsasse, poi improvvisamente il rumore degli zoccoli di tanti cavalli in arrivo e la carovana fu assalita ed accerchiata da Kharsa del deserto capeggiati da un certo Omar. I predoni uccisero tutti e razziarono la merce pregiata risparmiando solo Isabel ed altre due giovani che andarono ad infoltire il numero delle donne dell’asà. Per Isabel,intelligente e scaltra, non fu difficile adattarsi alla vita del deserto e, per aver salva la vita e vivere in modo confortevole, restò fedele ad Omar che, cosa straordinaria per un capo crudele, si avvaleva talvolta dei suoi consigli che reputava saggi. Omar, al pari di altri guerrieri, era stato stregato dal fascino della fanciulla, dai suoi grandi occhi ed ancor più dai suoi capelli d’oro. L’amava pazzamente ma, da uomo altero e sprezzante, non glielo confessò mai. Isabel si confidava raramente e solo con le altre due ragazze che come lei vivevano in una blanda prigionia e che chiamava “ sorelle di schiavitù”. Ciò è in sintesi tutto quello che ci è dato sapere di Isabel e Pietro non avrebbe potuto certo immaginare che quell’autentica bellezza avrebbe giocato un ruolo importante nella sua vita 55 UN INCUBO RICORRENTE Pietro era a Granada da più di due anni e gli piaceva vivere in quella città fervente d’attività e tutta colore. Ultimamente però l’entusiasmo iniziale per il lavoro ed il suo morale erano alquanto calati Aveva messo molto impegno ad assimilare le tecniche della maiolica applicata alla decorazione architettonica ed appreso quasi tutto sull’arte della falegnameria in cui i musulmani erano autentici maestri. Nelle gronde dei tetti, gelosie, porte, finestre ed anche soffitti ,l’uso del legno come elemento decorativo aveva raggiunto risultati stupefacenti e Pietro si meravigliava di tanta maestria. Anche lui ora sapeva lavorare il legno di cedro, materiale assai duttile e resistente che non veniva intaccato dai tarli. Gli dispiaceva solo che non gli fosse permesso di progettare edifici come aveva spesso fatto a Firenze. Non era affatto sereno e non si sentiva per nulla appagato. Dava la colpa del suo stato d’animo ad un incubo ricorrente che gli guastava il sonno da parecchio tempo e non voleva cessare. Aveva considerato l’opportunità di acquistare qualche pozione calmante contro quel demone scatenato che lo tormentava, però non si fidava degli intrugli che i ciarlatani vendevano al mercato né del responso di qualche fattucchiera. Dopo una notte tormentata si alzava stanco ed abbattuto, consumava svogliatamente una leggera colazione non gustandola neppure dato che si sentiva la testa pesante. Che fosse la conseguenza d’aver visto giustiziare molti infami ed assassini ed anche qualche vecchia accusata di malefici? Quasi tutti i giustiziati morivano lentamente per strangolamento, scalciavano, si dibattevano e non uscivano dalle loro labbra che urla mute. Non erano certo spettacoli per lui che ne rimaneva terrorizzato e si ripromise di evitarli. Con Giuseppe e gli operai si sforzava di apparire allegro e disinvolto, ma faticava ogni giorno di più a fingere. 56 L’incubo era sempre lo stesso: si sentiva debole, spaventato ed apriva gli occhi in una stanza in penombra che era la sua camera da letto nella bella casa di Firenze. Si vedeva macchie rosso violaceo sulla pelle, sul petto e sulle braccia e sentiva un dolore acuto sotto un’ascella. Sudava, sudava tanto che le lenzuola erano bagnate fradice. Aveva certamente la febbre, tossiva e vomitava sangue. Un’arsura mai provata prima lo tormentava ed allora perché non moriva? Lui voleva morire. Questo era l’incubo terribile! Rivivere la pestilenza lo riportava indietro nel tempo insieme alla consapevolezza di un’immane tragedia. I suoi parenti e gli operai, che lavoravano nei cantieri fatti allestire da lui, erano morti quasi tutti. Il morbo aveva mietuto migliaia di vittime, lui però era rimasto vivo. Ricordava chiaramente d’essersi seduto sul letto con la testa che gli girava ma, fattosi forza, era riuscito a gran fatica ad alzarsi in piedi. Il palazzo in cui viveva e di cui aveva diretto i lavori di costruzione, la casa che amava tanto era ora immersa in uno sgradevole silenzio. Non si sentiva nessuna voce e neppure il rumore degli zoccoli dei cavalli nel cortile. Aveva chiamato Susanna, la moglie, con tutto il poco fiato che aveva in gola, ma lei non aveva risposto. Dov’era? E Lucia? Come riuscire a salire le scale per raggiungere il piano di sopra? Alla fine ce l’aveva fatta, ma che pena, che dolore a tutte le ossa! Entrò passo, passo nella stanza della figlioletta di due anni e trovò il lettino vuoto. A quella vista il terrore gli attanagliò le viscere, poi udì un rumore provenire da un angolo della vasta camera. Lucia stava giocando con una bambola fatta di pezza e legno, la sua preferita, quella che le aveva fatto lui con tanto amore. La piccola sembrava un angioletto biondo tutto vestito di bianco. Le si avvicinò e la prese piano tra le braccia attento a non spaventarla e a non farla cadere, si sentiva infatti debolissimo! Seppur perplessa ed intimorita nel vedere in quella figura d’uomo solo l’ombra del suo papà di prima, gli si avvinghiò al collo. Giovanna, la balia, entrò subito dopo, ma si fermò in disparte e visibilmente commossa a guardare la scena. Poi avvicinatasi a Pietro, lo invitò a sedersi, a 57 calmarsi e ad ascoltarla poiché, prima di portargli qualcosa da mangiare e da bere, voleva raccontargli brevemente tutto quello che era successo: Susanna le era spirata tra le braccia sussurrando il nome del marito e della bambina. La balia gli confidò che anche lei era stata male ma, grazie a Dio, aveva superato tutto. Confessò d’essere stata presa da un grande sconforto quando si era accorta che anche lui, l’amato padrone, aveva contratto la peste. Lo aveva curato con affetto pregando ogni giorno la Vergine Maria per la sua salvezza e quella della piccola e la Madonna l’aveva esaudita. “ E’ stata davvero una grazia della Vergine che non siete morto, signor mio!” esclamò Giovanna tra i singhiozzi che ora erano di pura gioia e commozione. Pietro era rimasto senza fiato come se avesse appena ricevuto un pugno nello stomaco. Sollevò il viso che teneva abbassato sul mento e disse:” Ti ringrazio infinitamente per le tue cure, Giovanna ed ancor più ringrazio la Madre di noi tutti, la Santa Vergine. Con il suo aiuto ed il vostro conto di rimettermi presto in salute e tornare quello di un tempo. Mi è rimasta solo Lucia, quindi che motivo ho di restare in una casa piena di tristezza? Rifletterò bene sul da farsi”. Avendo sempre lavorato sodo, Pietro aveva accumulato una piccola fortuna che aveva nascosto in una cassetta a prova di ladro incassata all’interno di una parete della Sala delle Riunioni di cui solo lui aveva le chiavi e, se la memoria mon gli faceva difetto, sapeva anche dove l’aveva riposta. Ritrovò il gruzzolo tutto intero come lo aveva depositato e diede una bella somma di danaro a Giovanna perché potesse tornare a casa dai suoi in campagna sperando che la ragazza trovasse qualche congiunto ancora vivo. Giovanna gli baciò le mani fredde e smagrite con grande gratitudine, ma non volle lasciare la casa prima che Pietro avesse recuperato tutte le forze. In realtà quella era una scusa: il pensiero di doversi staccare dalla bambina l’affliggeva e cercava quindi di rimandare il più possibile il giorno dell’addio. In seguito Pietro ebbe spesso a pentirsi di quella decisione frettolosa. Ormai vedovo avrebbe potuto sposare Giovanna, dare così una mamma alla bambina e continuare a dimorare a Firenze fino a che tutto non fosse tornato alla normalità, ma gli riusciva insostenibile pensare che Susanna non c’era più e la 58 sognava tutte le notti. Era stata moglie e madre perfetta ed ora giaceva chissà dove insieme a tanti corpi estranei nelle tenebre della morte. Ogni oggetto che le era appartenuto gli risvegliava ricordi sopiti, ricordava le notti d’amore, i giorni felici. “ Quanto tempo sono stato malato?” chiese a Giovanna “ Per molte settimane”rispose lei sospirando Firenze aveva ora un aspetto spettrale: strade deserte come nel cuore della notte, porte aperte e sgangherate, finestre socchiuse, lezzo di cadaveri ancora ammassati sui gradini di alcuni palazzi. Quanta gente era morta? Ed i sopravvissuti, fortunati? Non certo tutti, non certo chi aveva perduto i propri cari ed era rimasto solo al mondo. Giovanna preparò tutto lo stretto necessario per un viaggio di sola andata pur non riuscendo a rassegnarsi al pensiero che forse non avrebbe più rivisto quelle due care persone. I legami di Pietro con Firenze erano stati recisi, nessuno dei suoi cari parenti era sopravvissuto, neppure il fratello maggiore Ercole che lui amava tanto. L’unico vero scopo di vita era Lucia che, non vedendo più la sua mamma, talvolta la cercava piangendo. Tramite un mercante suo amico, fuggito in campagna e fortunatamente salvo, Pietro depositò un bel gruzzolo presso un banchiere fiorentino pensando che, se fosse ritornato un giorno in città, non avrebbe avuto problemi finanziari per molto tempo e sarebbe riuscito a dare una bella dote alla figlia. Pietro aveva visto il mare solo una volta quando suo padre, che voleva far visita ad un amico di Piombino, lo aveva portato con sé. Quando arrivò a Genova, la grandezza del porto ed i suoi traffici lo stupirono enormemente. L’acqua era popolata da velieri, bardotte, galeazze a sei vele e due alberi, alcuni alti addirittura fino a trenta metri! C’erano galere spinte a remi da forzati, galeotte ed altre imbarcazioni che sarebbero partite per destinazioni lontane ed a lui sconosciute. Quel porto era una vera, immensa città sul mare! Poteva ben rivaleggiare con Venezia per movimento di imbarcazioni e volume d’affari. 59 Nella folla si pigiavano marinai in procinto d’imbarcarsi sotto lo sguardo inquieto dei comandanti. La prosperità della città era uno specchietto per le allodole per tanti sfaccendati ed avventurieri che credevano d’avere la fortuna a portata di mano. Si sentivano parlare le lingue più disparate e si capiva dal tono dei discorsi, delle contrattazioni e dalla sua frenetica attività che quella città sul mare pensava solo al danaro, ai piaceri ed al benessere che questo procura. Pietro osservava marinai di colore, magnifici esemplari della loro razza, scattanti, sveltissimi e vigorosi che, come formiche laboriose, caricavano e scaricavano le navi, sempre disposti ad uno sforzo in più per qualche moneta mollata da chi voleva fare presto Il veliero, che doveva trasportare lui, la sua figlioletta ed un folto numero di altri passeggeri, era già ormeggiato e non aspettava che l’ora di salpare. Pietro salì sull’imbarcazione con l’ansia ed il cuore in gola. Non aveva mai fatto un lungo viaggio e se avesse sofferto il mal di mare? Trovò comunque il coraggio di allontanare tutti i pensieri tristi e di focalizzarsi sul suo futuro in Francia, almeno così aveva pianificato……. Quello era sì il tempo della partenza, ma anche della speranza. 60 SUONATRICE DI UD Era l’ora della preghiera che accomunava nobili, cavalieri, gente del volgo, schiavi ed i muezzin lanciavano il loro abituale richiamo “ Allah Akbar! La la illah ila Allah!” Stavano tutti curvi verso la Mecca con la fronte appoggiata al suolo, recitando la prima sura del Corano: “ Io inizio! Con il nome del Dio, ricco di clemenza, abbondante in misericordia. Lode al Dio, Signore dell’universo, Sovrano assoluto del giorno del giudizio!” Pregava anche il muto dal collo taurino e che puzzava come un caprone. Gli occhi, piccoli come capocchie di spillo, erano chiusi dentro palpebre rigonfie, il ventre prominente sembrava sul punto di scoppiare. Pregava? A lui non importava nulla della religione e, come tanti, se ne fregava altamente di preghiere, digiuno e prescrizioni varie da seguire. Si era adeguato a fingere per non essere tacciato di infedeltà al proprio credo come il suo amico Ayyub che era stato giustiziato. Lo avevano seppellito fino al busto in una fossa coprendolo di sabbia e poi gli avevano troncato di netto il capo dal collo. Da qualche tempo le cose gli andavano molto bene, la fortuna gli arrideva dato che le principesse, che a suo parere celavano un segreto, lo allontanavano dalle lezioni di ud che si tenevano due volte la settimana al piano superiore della loro residenza privata. A lui, servo viscido e parzialmente inutile, non importava un fico secco né della musica, né di ciò che le figlie del sultano stavano tramando, lui voleva il sacchetto pieno di monete che Zorayda gli dava perché stesse fuori dai piedi. 61 Preso il sacchetto, il muto faceva il giro delle bettole a riempirsi di vino dove trovava prostitute giovani e sempre nuove pronte a soddisfarlo. Ma che bella vita era ora la sua! Poteva permettersi ore ed ore di libertà e di svago, non era più schiavo, ma libero e stava anche mettendo da parte un bel gruzzolo. Il suono dolce dell’ud aleggiava nel gran salone il cui soffitto splendeva di intarsi in legno illuminati dai raggi del sole che filtravano attraverso le belle bifore: una, due, tre, tante e splendide! Taqi e Rashid, guardie personali delle principesse, erano soliti uscire da dietro una tenda tutta ricamata a fili d’oro con versetti del corano e fatta di vari tessuti cuciti insieme. Entrambi di bell’aspetto, muscolosi ed addestrati all’uso delle armi, erano anche valenti musici. Quel pomeriggio Zaida andò loro incontro dicendo: “ Sono lieta di vedervi! Prendete pure posto su queste sedie fatte costruire in onore di persone degne come voi!” Così dicendo la giovinetta indicò loro delle comode sedie tutte intagliate, vere opere di artigianato che erano state disposte in semicerchio perché le allieve più grandi della scuola potessero assistere alla lezione. Le due guardie risposero inchinandosi profondamente:“ L’onore è nostro, amata principessa! Siamo certi che la vostra bravura nel suonare l’ud sarà pari alla vostra bellezza! Siamo pronti ad eseguire ogni vostro ordine. Non avete che comandare e sarà fatto”. Taqi aveva volontariamente calcato l’accento sulla parola ordine non solo perché era pazzamente innamorato di Zaida, ma anche perché aveva capito che quelle lezioni erano solo una copertura e nascondevano un secondo fine. “ Se imparerò in fretta e bene, riferirete al sultano che sono brava e desidero dargliene dimostrazione?” Chiese loro la ragazza con un atteggiamento da cospiratrice. “ Certamente diletta figlia del nostro sovrano, invidiata da molte donne e che solo pochi uomini hanno l’onore di avvicinare! Faremo in modo che vostro padre sappia della vostra bravura e sia orgoglioso di voi. Egli è un grande condottiero cui spetta il 62 compito e l’onore di riunire tutti i sudditi del suo vasto regno sotto un unico vessillo!” A questo punto Zaida prese a battere il piede destro con impazienza. Non gradiva affatto che le guardie osannassero il padre con frasi fatte e melense. Spesso gli si attribuivano bellezze che egli non aveva come: braccia di bronzo, denti di madreperla, mani d’oro. Era un modo di adulare veramente ridicolo che la faceva fremere d’ira. Zaida represse a stento la stizza e si avvicinò ancor di più alle due guardie che la guardavano estasiati, tanto era bella. Taqi amava Zaida e Rashid non aveva occhi che per Zorayda. Erano entrambi innamorati cotti e complici. Zorahayda non aveva ancora infranto alcun cuore in quanto molto meno bella delle sorelle, musona, taciturna e scontrosa. La sua bellezza non era appariscente, ma insignificante, scialba. Zaida mormorò a Taqi: “ Scambiamoci subito l’ud, nel mio c’è un messaggio per l’artista italiano, quel tal Pietro di Firenze che dicono sia anche un nobile. Fateglielo avere e chiedetegli di dare una sollecita risposta”. Ciò detto si mise un dito davanti alle labbra carnose per imporre loro assoluto silenzio e massima segretezza. Per tutta risposta Taqi scambiò subito il suo strumento con quello di Zaida e chinò la testa insieme a Rashid ed i due suggellarono il patto mettendosi una mano sul cuore. Poi la lezione, cui ne seguirono molte altre, iniziò. Zaida, che era scaltra, riuscì in tal modo ad avviare un filo diretto inviando i suoi messaggi e ricevendone altri che venivano puntualmente nascosti dentro l’ud e consegnati alle guardie. Poi le toccò fare, come si suol dire, di necessità virtù. Sebbene non le piacesse suonare, ma solo cantare, imparò presto a trarre dallo strumento impareggiabili, dolci, struggenti melodie che in cuor suo dedicava alla madre e che desiderava lei udisse e la spingesse a farsi viva in qualche modo. Di sera si chiudeva presto nella sua alcova e, seduta su una seggiola accanto ad una finestrella, suonava una dolce melodia e spesso intonava un canto. 63 La nuova della bravura di Zaida si diffuse rapidamente per l’Alhambra e non solo ed il sultano in persona andò a congratularsi con lei chiedendole di suonargli un pezzo, quello che alla ragazza piaceva di più. Zaida suonò con tanta maestria che il padre, visibilmente emozionato, riuscì a stento a trattenere le lacrime. .Le fece anche dono di un bellissimo ud d’ebano ed oro, impreziosito da piccole gemme. Quando ricevette il primo messaggio, Pietro si sentì veramente a disagio e, molto preoccupato, lo passò a Giuseppe il quale però non ne voleva sapere di decifrarlo, quindi gli disse in tono seccato:”Di qualunque cosa si tratti, non è per me. Mi piacerebbe ricevere un bel messaggio d’amore ma, alla mia età e con il mio fisico appesantito, potrei portarmi a letto al massimo quella cicciona di Kalima, una sguattera delle cucine che mi guarda con occhi vogliosi e mi sorride quando mi vede attraversare il cortile”. Pietro allora rispose sdegnato:” Scusami Giuseppe, ti costa tanto aiutarmi? Chi ti dice che questo che ho in mano sia un messaggio d’amore e non qualcosa di veramente importante? Leggimelo almeno chè io non ci capisco nulla della lingua di Allah!” “ Se proprio vuoi….dammelo qua!” rispose il capomastro con voce un poco raddolcita. “ Ecco, io non conosco alla perfezione la lingua, ma qualcosa ho imparato in tutti questi anni! E tu quando ti deciderai a studiare l’arabo? Questo messaggio non è scritto in corsivo, ma nella scrittura elaborata degli imam”. Giuseppe lo lesse e lo rilesse stupito, poi sentenziò:“ Le principesse chiedono il nostro aiuto per scoprire dove il sultano tiene nascosta la loro mamma. Caro Pietro, questa sì che non è un’impresa facile! In ogni caso possiamo provarci anche perché loro ci offrono una grossa somma di danaro. Non potremmo racimolarne tanto anche se lavorassimo qui per anni ed anni. Allora, bello mio, perché deluderle? Tanto per cominciare, facciamoci venire qualche idea brillante! Discutiamone insieme!” 64 ORSO E’ PARTITO Pietro si era recato da Orso per confidargli l’ultima grande novità: il messaggio delle principesse. Teneva molto ad un parere e consiglio dell’amico, quindi rimase basito quando un marinaio di colore venne ad aprire la porta della baracca e gli fece capire che Orso era partito. Pietro se ne andò di corsa verso la casa di Adelaid pensando che quel marinaio gli avesse mentito e che Orso fosse invece là con la giovane moglie e Tommasino. Dovette ricredersi quando vide Adelaid seduta in lacrime con il figlioletto in grembo. Adelaid non seppe dirgli molto, parlava singhiozzando e Pietro non riusciva a capire bene. Comprese solo che Orso l’aveva lasciata su due piedi dicendo che non ne poteva più di quella vita passata a faticare, che partiva con un amico per recuperare un tesoro favoloso nascosto vicino Badajoz. “Addirittura così lontano e sepolto vicino ai resti di un’antica fortezza, un tesoro immenso! E se lo avessero già trovato e portato via altri avventurieri?”, pensò il fiorentino molto preoccupato ed anche arrabbiato. “ Mi ha assicurato che al suo ritorno saremmo stati ricchi e ci saremmo imbarcati per l’Italia lasciando Granada per sempre. Era convinto e fiducioso”, aggiunse Adelaid soffiandosi il naso. Pietro si sedette al tavolo avvilito e disse:” A parer mio faranno un viaggio lungo, pericoloso ed inutile lui ed il suo amico! Non ha pensato a voi? Non ha sentito parlare dei predoni che assaltano le carovane ed uccidono donne e bambini, figuriamoci poi due avventurieri imbecilli! Procederanno per giorni e notti per spoglie colline e fredde montagne e non avranno riposo! Lo credevo un amico sincero, invece ha tradito voi e me. Che sciocco, che credulone!” e non la finiva più di parlare alzando le braccia al cielo con le mani a pugno. 65 Adelaid, naturalmente, aveva capito poco e niente di tutto quel discorso, ma il tono della voce denotava che Pietro era davvero furioso. Quando si fu calmato cercò di consolare la ragazza promettendole che avrebbe vegliato su di loro come un fratello maggiore e che non dovevano temere nulla e mantenne la parola data. Forse Orso sarebbe tornato, lo sperava ardentemente, ma nel contempo ne dubitava. Per stemperare l’amarezza e la delusione camminò a lungo e, giunto al porto, si sedette sconsolato a guardare il mare e le barche che lo solcavano. L’acqua incantava Pietro come le fiamme guizzanti del fuoco ed intanto pensava che il luccichio dell’oro riesce a corrompere anche gli uomini migliori, addirittura i santi ed allora perché non Orso? Voleva veramente fare ricchi la moglie ed il bambino oppure era stata una scusa per lasciarli? Bell’interrogativo! In verità non si era dimostrato un vero amico, non gli aveva confidato nulla forse perchè temeva che lui, essendo molto riflessivo e cauto, lo avrebbe ostacolato e gli avrebbe consigliato di non partire. Dopo qualche tempo uno sconosciuto bussò alla porta di Adelaid e, rimasto sulla soglia, le disse a bruciapelo:” Il tuo uomo è morto, non aspettarlo, non tornerà!” Poi, senza attendere risposta, si dileguò nell’ombra della sera. A quelle parole la poveretta si era sentita mancare e sarebbe caduta insieme al bambino che teneva in braccio se non fosse riuscita a poggiarsi al muretto che delimitava il piccolo orto di casa. Così la trovò Pietro che andava giusto a salutarla e chiederle se tutto andava bene. Adelaid aveva atteso per mesi notizie di Orso e si era sempre ripromessa che, il giorno in cui avesse avuto conferma dei suoi funesti presentimenti, avrebbe reagito in maniera ferma e controllata, invece era stato sopraffatta da un dolore insopportabile. Appena si fu ripresa, respirando affannosamente, volse verso l’amico il viso stanco ed affranto dicendo: “Ti ringrazio di cuore per l’affetto che mi dimostri, per tutto ciò che hai fatto per noi e per 66 quello che farai. Temo di sembrarti fredda ora, ma ti assicuro che ho amato il mio Orso con tutta la passione della mia giovane età. Credevo nei sogni, credevo che avrei trascorso tutta la mia vita accanto a lui, ero convinta che saremmo stati felici insieme. Invece il suo spirito d’avventura, il desiderio di ricchezza, una ricchezza che a me non importava, me lo hanno rubato. Io non volevo tesori, ma che restasse con me, ma lui non riusciva a capire che per me contavano solo il suo amore e la sua presenza”. Poi si interruppe perché l’amarezza le stava lacerando il cuore. Intonò una nenia triste, mentre Tommasino fissava tranquillo l’uomo che lo aveva preso in braccio e lo stringeva con tenerezza. Lo sguardo dolce di Pietro prometteva a lui ed alla sua mamma una vita migliore in futuro. Lontano, ai confini col Portogallo, si era consumata la tragedia prevista da Pietro. Accadde che il compagno d’avventura di Orso fosse angosciato da un brutto presentimento: aveva sognato il padre morto anni prima che gli mostrava uno stendardo nero con raffigurato sopra un teschio bianco. Molto scosso, aveva subito comunicato ad Orso la sua intenzione di non voler proseguire. Era meglio tornare indietro in quanto quella visione significava per lui morte certa e non voleva rischiare. Orso lo aveva offeso tacciandolo di codardia, continuava a sbeffeggiarlo e a deriderlo, incolpandolo d’averlo lusingato ad intraprendere quel viaggio che ora si rifiutava di portare a termine. Stufo di ascoltare le rampogne del marinaio deluso, il Portoghese decise di abbandonarlo nottetempo e così fece. Orso, testardo e tutto preso dalla sete di ricchezza, fu ben contento che il compagno l’avesse lasciato. Pensava così che non avrebbe dovuto spartire l’immenso tesoro con nessuno. Avrebbe portato con sé una certa quantità d’oro o di gemme nelle due gerle rimaste vuote e sarebbe tornato, dopo qualche tempo, a prendere l’altra parte del bottino. Aveva proseguito quindi la marcia da solo cavalcando non un cavallo, ma un asino stanco ed assetato e riposando solo la notte al chiaror delle stelle. 67 Ironia della sorte! Orso cercava lontano ciò che aveva già a portata di mano, vale a dire un doppio tesoro d’inestimabile valore: Adelaid ed il figlioletto per primi e poi un bel gruzzolo, non ipotetico, ma reale, una bella somma di cui avrebbe potuto beneficiare aiutando Pietro e Giuseppe nella loro impresa. Fu proprio l’ultima sera all’imbrunire che una freccia scoccata da un fanatico della setta degli Assassini, lo prese in pieno petto condannandolo ad una morte atroce. La freccia avvelenata lo aveva colpito nei pressi di Almendralejo, vicino ai ruderi di un castello diroccato, proprio quello verso cui era diretto. Da poche case protette da mura uscirono degli uomini con torce accese e si diressero verso Orso che era già spirato. Appurarono che si trattava di uno straniero con poche monete, un lungo coltello e qualcosa per scavare, quindi un magro bottino. Vedendo poi che non era seguito da cavalieri armati che avrebbero potuto assalirli, usarono la sua zappa per scavargli in fretta una fossa e ve lo seppellirono. L’asino, privato del padrone, se ne stava con la coda tra le gambe e la testa bassa e scalciava dando segno di non volersi muovere da là. Dopo tre o quattro scudisciate però, la bestia caparbia cambiò idea e, rassegnata, seguì gli uomini dentro le mura dove lo attendevano un nuovo padrone, cibo, acqua e finalmente un po’ di riposo. 68 JACOBBE EBREO DI ANCONA Jacobbe era arrivato in Andalusia per mare come tanti altri ebrei perseguitati. Inseguendo la libertà i suoi genitori si erano imbarcati su un vascello, ma erano morti di dissenteria lasciando il figlio solo al mondo ed abbandonato a se stesso. Anni difficili,miseria, tristezza lo attendevano, poi improvvisamente, una grande fortuna…..Jacobbe non aveva mai rivelato a nessuno il resto della storia, neppure al fidato Abdul, il nano tunisino tuttofare che aveva raccolto ai margini della strada, vestito, curato e sfamato e che ora lo seguiva ovunque e lo serviva con un attaccamento senza pari. L’ebreo era vecchio, molto vecchio, si diceva avesse più di novant’anni, la maggior parte dei quali spesi nell’attività di mercante di stoffe, tappeti, stuoie, spezie e gioielli. E ricco? Come era diventato tanto ricco? Quando chiedevano al nano se il suo padrone fosse ricco, quello recitava la solita tiritera che voleva dire tutto e niente: “ Eccome! Forse ancora più ricco dell’emiro Al Kamah, quel pallone gonfiato, signore delle terre di Mazara cui il mio padrone ha mandato un sacco di merce che non gli è stata ancora pagata. Di ricchezze Jacobbe sicuro ne ha, ma quante non si sa, né mai si saprà!” Abdul era grasso e tarchiato con gambe e braccia cortissime. Indossava un pantalone leggero rigonfio ai lati ed una giacchetta larga di tessuto trasparente con le maniche fino a metà braccio. Di bello aveva solo i capelli riccioluti e corvini e la folta barba. Portava un cappuccio verde sia d’estate che d’inverno che lo rendeva particolarmente buffo come buffo era il suo incedere a passettini. Sembrava uno gnomo dei boschi, però non faceva brutti scherzi, era sempre allegro e bonario. Dicevano che si tingesse barba e capelli per nascondere l’età invero indecifrabile. Era spesso oggetto di scherno da parte di giovani sfrontati che, per provocarlo e poi malmenarlo, lo chiamavano “ porco culattone”, “ villano puzzolente”, “ verme schifoso” e chi più ne ha, più ne metta. Sfogavano così la 69 loro rabbia di perdigiorno squattrinati contro il poveretto che viveva agiatamente. Abdul, se molto spesso faceva conto di non udire offese e beffe, altre volte menava poderosi calci aizzando il cane contro chi lo infastidiva ed allora i ragazzacci correvano via. Giacobbe possedeva una giumenta bianca che, nonostante la veneranda età ed il lungo servizio, tirava il carretto con grandi ruote di legno con sopra il suo padrone e la merce da vendere, arrancando su per i viottoli sassosi. Seguiva il trio un cane spelacchiato e ringhioso che faceva guardia alla merce. Portava al collo un campanellino che tintinnava annunciando l’arrivo del carretto alle donne che si contendevano l’affare del giorno e che lo avevano battezzato con il nome Din-Din. La giornata era stata lunga e non si era venduto molto, calma piatta, caldo, fiacca , una gran noia e se ne stavano tornando quindi a casa. I pochi capelli bianchi di Jacobbe danzavano disordinati al vento della sera e la barba fluente gli scendeva a punta sul petto. La pelle del vecchio era scura e grinzosa, il naso ricurvo, gli occhi vivaci, ma infossati ed era magro, magro come un fuscello. Sotto la luce del tramonto li attendeva il loro nido tranquillo tra l’esuberanza della vegetazione in pieno rigoglio, sicuro e lontano dalla gente. La loro dimora si trovava al ridosso di una collinetta e contornata da alberi alti e fitti che la nascondevano alla vista. Poco lontano scorreva un fiumiciattolo ricco d’acqua limpida e fresca alla cui riva avevano legato una zattera di tronchi d’albero: pensavano costituisse una sicura via di fuga nel caso disgraziato si fosse verificato un evento tanto grave da costringerli a lasciare quel luogo amato. L’abitazione era costruita interamente con robusti tronchi di legno ed era tanto ampia da poter alloggiare comodamente un numero imprecisato di ospiti. Annesso c’era un magazzino per le merci che erano allineate in perfetto ordine su lunghe scaffalature e di cui Abdul aveva la chiave. 70 La sera, umida e calda esalava i profumi dolciastri dei fiori ed il cielo era reso più chiaro da una miriade di stelle e la luna, al suo primo quarto, sembrava una falce d’argento. Per scoraggiare uccellini ed uccellacci affamati, Abdul aveva costruito uno spaventapasseri provvisto di lamine dorate alle braccia e sulla testa che tintinnavano e si agitavano minacciose ad ogni soffio di vento. Jacobbe, l’uomo che Pietro avrebbe dovuto consultare su consiglio di Giuseppe, emanava da tutta la sua persona una gran forza e tranquillità. Era una mago competente, non un ciarlatano come tanti, ed infondeva una fiducia assoluta in coloro che si confidavano con lui. Egli parlava poco e, quando rispondeva ad una domanda, lo faceva a bassa voce e con lo sguardo assente e lontano come se emergesse proprio in quel momento da remote profondità. Coloro che lo conoscevano bene lo reputavano un grande saggio e dicevano fosse un sufi, membro di un’antica confraternita dallo strano nome che risaliva ai tempi dell’antico Egitto e si rifaceva al culto del sole. Il capomastro era stato molto turbato dal contenuto della missiva delle principesse perché non era avvezzo agli intrighi di corte ed amava solo le storie chiare e semplici. Voleva proteggere Pietro e nel contempo mirava al successo dell’impresa sia per il danaro che avrebbero ricavato, sia per un atto di giustizia nei confronti della regina relegata chissà dove. Quindi, prima di agire, consigliò a Pietro di consultare qualcuno che se ne impipasse delle ire del sultano e che desse saggi consigli ad entrambi. Pietro era rimasto sinceramente sconcertato dalla proposta di Giuseppe: come poteva un uomo della sua cultura ed esperienza raccomandargli di chiedere consiglio ad un mercante-mago? Lo guardò incredulo e perplesso e quello, come se gli leggesse il dubbio nella mente, gli disse con fermezza: “ Abbi fiducia!” Allora Pietro si decise per il sì. 71 PIETRO CONTATTA JACOBBE Il vecchio Jacobbe non poteva passare per la porta delle armi che era l’entrata diretta che collegava l’Alhambra con la città di Granada. Da quella porta passavano i sudditi che dovevano risolvere questioni burocratiche ed avevano ottenuto udienza dal sultano o da un suo funzionario. Jacobbe non si reputava suddito, ma uomo libero e non facente parte della popolazione del luogo anche se viveva nelle vicinanze. Chiunque entrava nella cittadella doveva depositare le armi prima di passare per un tratto del cammino di ronda sotto lo sguardo attento delle guardie. Jacobbe aveva due armi sole: la scienza segreta della sua confraternita e la sua potenza di veggente. Il vegliardo passava invece per la porta del vino che non aveva alcuno scopo difensivo e che giungeva alla Calle Real Alta , il cuore della Medina, isolato dai palazzi del sultano e dalla zona militare. Si fermava spesso sulla piazza dei pozzi da clienti che volevano acquistare spezie pregiate oppure lo consultavano sul futuro e chiedevano consigli. Su un lato di quella piazza, appoggiato ad una colonna spezzata di pietra ed all’ombra di un bel cipresso marittimo, Pietro attendeva il passaggio di Jacobbe. “ Un attimo, per piacere!” gridò Pietro facendo fermare di botto la giumenta bianca. Il vecchio, senza scomporsi e con calma glaciale, gli ripose:” Non è questo il momento. Torna qui domani due ore prima e ti condurrò a casa mia”. Pietro lo ringraziò pur conservando la sua opinione ed i suoi pregiudizi sui maghi e gli indovini ed il giorno seguente si ripresentò nello stesso luogo in attesa che il carretto passasse da là. 72 Fu così che Pietro ebbe l’onore di entrare nella grande casa tra gli alberi in un luogo che gli sembrò un paradiso. Sobria all’esterno, l’abitazione era magnifica all’interno e molto ben attrezzata. Disponeva di camere per gli ospiti che avevano a disposizione anche bagni con acqua corrente calda e fredda. La cucina era diretta da un cuoco francese molto estroso, un vero maestro che sapeva preparare piatti raffinati e da cui prendevano ordini due sguatteri ed un cameriere che lavoravano sodo quando c’erano degli invitati. Le camere degli ospiti si trovavano tutte intorno alla grande sala rotonda, l’unica della casa. Essa aveva al centro un’enorme colonna di marmo multicolore da cui partivano vassoi di cristallo azzurrino, rosso, verde, giallo, blu, violetto su cui era poggiato ogni ben di dio. A destra della colonna era sistemata un’ampia tavola in noce massiccio coperta da una tovaglia candida di lino su cui spiccavano brocche con bevande esotiche e vassoi con sopra frutti tropicali. Ma chi mai mangiava tutta quella roba? Gli occupanti dell’abitazione erano sei, compresi i due sguatteri, il cuoco ed il cameriere. Il vecchio, visto l’aspetto, doveva nutrirsi pochissimo, evidentemente Abdul e gli altri erano delle buone forchette. Pietro fu introdotto cortesemente nella sala dal padrone di casa che, ritiratosi in camera sua, si era lavato, profumato e cambiato d’abito. Jacobbe teneva all’ordine ed alla pulizia e lo si vedeva dalla cura con cui era tenuta tutta la casa. Erbe aromatiche, provenienti dall’Arabia e dall’India, erano disposte in vasi come in un giardino e tutta quella magnificenza era naturalmente in contrasto con l’austerità del proprietario. Pietro notò bellissimi arazzi e tappeti che coprivano alcune pareti e tutto il pavimento di lucido legno e, mentre si guardava intorno ammirato, Abdul versò incenso in un largo braciere di squisita fatture con due manici d’oro e tutto l’ambiente fu pervaso da un profumo inebriante. Dalle grandi finestre della sala si vedeva il giardino che un bravo giardiniere teneva in ordine giornalmente. Esso ospitava un gran numero di alberi, da frutta ed ornamentali, salici piangenti che 73 si curvavano dolcemente sull’acqua del fiumicello, aiuole fiorite, cespugli fatti a spalliera e comode panche per chi amava rilassarsi e meditare all’aria aperta. Il profumo d’incenso misto a quello delle erbe aromatiche stordì Pietro che non era abituato ad inalarlo. Figuriamoci! Faceva ancora fatica ad abituarsi al narghilé, cioè alla pipa dei musulmani che Giuseppe fumava spesso e che gli aveva fatto provare e al cibo speziato della cucina locale! Jacobbe captò subito la meraviglia ed il disagio dell’ospite e lo invitò a sedersi su uno sgabello finemente intarsiato, a respirare profondamente ed a rilassarsi, intimandogli di tacere e di sostenere il suo sguardo penetrante. Trascorsero lunghi, lentissimi minuti e, quando le palpebre di Pietro stavano per chiudersi, Jacobbe suonò un piccolo gong di rame che fece trasalire il poveretto prima che si abbandonasse ad un sonno pesante e senza sogni. “ Mi avete spaventato!” gridò Pietro visibilmente alterato. Jacobbe lo guardò sorridendo e lo rincuorò dicendo:” Non allarmarti, amico, succede a tutti cosi! Ecco, ho scrutato nelle tue pupille e posso darti il responso che cerchi senza che tu me lo abbia chiesto. In poche parole: vedo che hai un gravoso compito da svolgere a palazzo e sono sicuro che lo porterai a termine con successo. Vuoi saperne di più? La madre delle principesse è da tempo prigioniera dentro una delle torri dell’Alhambra perché si è macchiata d’infedeltà. Non amava il sultano, ma un cavaliere giovane, bello e valoroso di una famiglia amica. In quella torre alta è ben sorvegliata e servita, ma vive da reclusa e senza veri contatti col mondo esterno, eccezion fatta per le novità che le porta la serva personale che l’accudisce. La regina è molto triste, privata della vicinanza delle tre figlie, ed è dimagrita e sofferente. Piange spesso e prega Allah di farle riottenere la libertà o di morire. Come se non bastasse la sua vista si è pericolosamente indebolita e rischia la cecità. Un consiglio ed un suggerimento: non è poi difficile contattare un uri o un eunuco dell’harem, sguattere e sguatteri delle cucine reali, serve chiacchierone delle concubine del sultano addette alle pulizie, fornitori di merci e viveri che 74 arrivano giornalmente dalla città, dai campi e dagli orti reali, persino guardie insoddisfatte della paga. Fa’ sapere alle principesse che devono pazientare e che tu ed il tuo amico Giuseppe, che ho il piacere di conoscere personalmente, avete bisogno di molto, molto danaro per ungere ruote, comprare favori, ed aprire o chiudere bocche!” Pietro stava per interromperlo, ma Jacobbe lo fermò con un gesto imperioso della mano e proseguì: “ Non ho ancora finito! Nei tuoi occhi ho visto anche tanta solitudine e tristezza. Ti sono morte la moglie ed una figlia piccola, vero? I brutti ricordi si dissolveranno come nebbia al sole, se userai le sostanze che ti do. Bruciale nella tua camera prima di addormentarti!” Così dicendo gli porse un sacchettino contenente una mistura di erbe particolari e proseguì:” Bada bene, messer Pietro! Contatta solo gente che ti ispira fiducia, diffida di sconosciuti che mirano solo alla ricompensa e poi ti pugnalano alle spalle! Non voglio essere ricompensato per la mia veggenza. La mia gioia più grande sta nel combattere le ingiustizie e garantire la libertà agli oppressi, a tutti coloro che subiscono soprusi, umiliazioni, angherie, maltrattamenti. So cosa significa soffrire!” Il vecchio fece un ampio gesto con la mano per richiamare l’attenzione di Pietro sulla magnificenza che li circondava, cosa poteva interessargli un ulteriore guadagno quando aveva già tutto? Jacobbe teneva molto agli amici, ne aveva pochi, ma fidati ed affezionati, tutta gente da lui aiutata a risolvere gravi problemi. Era sì invidiato per la sua ricchezza e temuto per i sortilegi con cui talvolta colpiva i nemici, in compenso era un uomo libero. A quel punto il potere allucinatorio era svanito e Pietro si sentiva leggero, fiducioso, pieno di gratitudine verso Jacobbe che lo congedò dicendo:” Caro amico, l’universo non sa neppure che esisti, quindi sii fiducioso, segui i miei consigli e pensa che molto è stato fatto anche prima che tu nascessi!” Pietro si alzò per congedarsi ringraziando e stringendo con calore la mano ossuta del vecchio. Si chiese se quello che aveva vissuto in quel breve lasso di 75 tempo fosse realtà o sogno. Quando sentì una mano battergli sul braccio, comprese che era tutto vero e sorrise al nano che lo guidò gentilmente sulla via del ritorno in città. 76 FRATEL BARNABA Lasciata la casa di Jacobbe con il suo fascino di luogo privilegiato e percorse circa due buone miglia, Pietro udì uno scampanio proveniente da una chiesa poco distante che dava su una piazzetta. La chiesa aveva mura tutte scrostate per l’umidità, ma conservava una bellezza tutta propria, contornata com’era da alcuni palazzi nobiliari e vicina ad un ospitale per i poveri. Passandovi davanti Pietro pensò che da anni non aveva più varcato la soglia della casa di Dio e quindi decise d’entrare con l’intima convinzione che vi avrebbe trovato conforto. L’interno, molto vetusto, era però elegante nelle cornici, nelle volute dei timpani, negli arabeschi della volta impostata su uno zoccolo di stucco dorato adorno di grandi foglie. Quello che più incantò l’occasionale visitatore furono gli affreschi, i fregi, i festoni, le conchiglie ed i motivi geometrici nonché la rappresentazione pittorica di angeli, santi, profeti ed altre figure che egli non riconobbe. Sull’altar maggiore spiccava un quadro insolito che rappresentava la caduta degli angeli ribelli e che avrebbe certamente avuto bisogno di un bel restauro. Il pavimento era lucido, ma sconnesso in alcuni punti. Pietro si inginocchiò davanti ad una statua della Vergine con il cuore trapassato da sette spade e, più che pregare, le parlò in confidenza esternandole i suoi dubbi e la sua tristezza. Un affetto ed un abbandono filiale che Maria certamente gradì più di tante preghiere recitata meccanicamente con la bocca e non con il cuore. Un frate stava riordinando le candele: rimuoveva i mozziconi spenti o troppo corti per essere riutilizzati e metteva in fila quelle nuove. Sistemò poi dei fiori 77 sull’altare coperto da un telo candido e ricamato. Tutto denotava gran cura, ordine e pulizia. Barnaba non doveva avere più di cinquant’anni portati bene, era magro, scattante, ma le guance erano incavate ed il viso diafano rivelava l’asceta. Seguito dal vecchio sacrestano con una gamba di legno, sempre attaccato al saio del frate cui era fedelissimo e che serviva da tempo, Barnaba si avvicinò all’uomo che gli sembrò timido ed impacciato. Per stabilire un dialogo e gettare un ponte di calore ed amicizia fraterna, sorrise dolcemente a Pietro e gli prese le mani tra le sue invitandolo, se lo desiderava, a confessarsi e ad aprirgli il cuore nel caso fosse entrato in chiesa per quello scopo. “ Siete straniero? Italiano? Io sono Barnaba d’Aligi originario della Tuscia, ma tutti mi chiamano semplicemente fratello. Un povero frate mandato qui dal mio superiore che è convinto che io valga qualcosa e che possa curare le poche anime che vengono in chiesa qui.”, disse a Pietro. Pietro gli rispose:” Fratello, vedo che avete un gran dono, quello di leggere nel cuore. Sì, è vero, vorrei confessarmi, sento di averne un gran bisogno”. “ Allora, seguimi!” e così dicendo allontanò con un gesto il sacrestano avviandosi con Pietro al confessionale. Pietro parlava con la testa china e le mani giunte mentre il confessore lo ascoltava con attenzione. Finito che ebbe il frate levò su di lui uno sguardo luminoso e, con fare paterno, gli diede l’assoluzione, aggiungendo:” Ti raccomando di pregare per i tuoi cari defunti e di aiutare i bisognosi ed i malati che troverai sul tuo cammino. Qui non ne mancano di certo! Agisci con prudenza e saggezza , due doti indispensabili se vuoi mettere a frutto i doni che Dio ti ha elargito. Guardati dai soldati mori e dai mercenari che ingrossano le fila dell’esercito del sultano e che sono capaci di atrocità indescrivibili. Evita di cadere nelle loro mani!” Uscito dal confessionale Pietro, alquanto commosso, abbracciò Barnaba e poi si inginocchiò per recitare la penitenza. 78 Nella preghiera egli sperimentò due doni: la pace ed una grande gioia, la gioia più grande che il suo cuore inquieto poteva conoscere, doni belli e perfetti che lo attendevano da tempo. Si sentì sollevato da un gran peso e fermamente deciso ad aiutare le principesse che desideravano tanto riabbracciare la loro mamma. Era già tarda sera quando rientrò nel suo appartamentino, mangiò con appetito quel poco che aveva e, prima di coricarsi, bruciò un pizzico delle erbe che gli aveva dato Jacobbe e che gli donarono un sonno ristoratore senza incubi. 79 UN GRUZZOLO CHE SCOTTA La mattina seguente Pietro raccontò a Giuseppe l’esperienza vissuta in casa di Jacobbe, riferendogli per filo e per segno ciò che il vecchio saggio gli aveva detto e raccomandato di fare. Giuseppe fu molto lieto di sapere che la regina era ancora viva, che non era mai uscita dall’Alhambra e che quindi il campo delle ricerche da compiere si restringeva notevolmente. Scrisse alcune righe a Zaida spiegandole che, per agire, avevano bisogno del danaro promesso. La invitava ad essere generosa perché, all’occasione, bisognava corrompere l’informatore o gli informatori pagandoli profumatamente per raggiungere lo scopo. Sigillò lo scritto, lo introdusse nello strumento che Taqi gli porgeva e lo pregò di consegnarlo in tutta celerità e sicurezza. I due amici pensarono bene di dividersi il compito d’indagare: Pietro avrebbe interrogato giardinieri, fruttivendoli, guardie stanche di tessere le lodi del sultano, venditori ambulanti di cianfrusaglie, stoffe e belletti per le donne dell’Harem; Giuseppe invece si sarebbe preso la briga di interrogare sguatteri, serve addette alle pulizie, cuochi, cuoche, mendicanti abituali ed anche gli eunuchi, sebbene non ci fosse molto da fidarsi di loro in quanto infidi e bugiardi. I due sognavano ad occhi aperti monete d’oro scintillanti che avrebbero tenuto in parte per loro. come compenso del lavoro svolto, ed in parte per chi li aveva aiutati. 80 Al momento sentivano un gran bisogno di rilassarsi, schiarirsi le idee ed incamerare energia con un buon bagno ed un bel massaggio tonificante. Decisero quindi di recarsi ai bagni pubblici vicino alla moschea. La città musulmana non si poteva disgiungere dai suoi bagni, il bagno era infatti un obbligo imposto dai precetti del Corano. I due uomini entrarono nello spogliatoio e quindi nelle vere e proprie sale bagni con presenza d’acqua, alte temperature e vapore che aprivano e pulivano i pori della pelle. Non essendoci porte divisorie Pietro e Giuseppe passarono agevolmente da un ambiente all’altro. Al posto della piscina d’acqua fredda c’era una piccola vasca per le abluzioni parziali ed il pavimento di marmo veniva riscaldato da condotti sotterranei. Dopo il bagno caldo i due amici entrarono in due spaziose camere perché desideravano farsi massaggiare per allentare la tensione dei muscoli e quindi rilassarsi. Ai lati di queste camere delle unzioni c’erano panche in muratura coperte da fini stuoie dai vivaci colori. Le mensole alle pareti ospitavano un gran numero di fiale e vasi per gli unguenti in vetro, avorio ed alabastro. Un massaggiatore prese a frizionare la schiena di Pietro ed un secondo, tutto muscoli e coperto solo da un perizoma, si occupò subito di Giuseppe ed infine una graziosa manicure pulì le unghie ad entrambi. Mai quei due si erano sentiti così felici ed appagati! Quella mattina fu anche una mattina fortunata perché appresero che il sultano, dopo la festa per il suo genetliaco, sarebbe partito, come tutti gli anni, per un’oasi lontana dove si sarebbero radunate tutte le truppe mercenarie che avrebbero infoltito le fila del suo esercito. Né i massaggiatori, né la ragazza sapevano però della regina scomparsa in circostanze misteriose e quindi i due non indagarono oltre per non destare sospetti. Pensavano che, se Zaida li avesse pagati subito, avrebbero potuto agire tempestivamente in assenza del sultano senza correre troppi rischi; quella poteva essere una ghiotta opportunità. 81 Pochi gironi dopo Taqi consegnò loro un sacchetto zeppo di monete e quelli si resero subito conto della gran somma che avevano tra le mani. Ma dove metterla al sicuro, dove nasconderla? Pietro parlò subito a Giuseppe della brillante idea che gli era passata per la testa: avrebbero potuto rivolgersi a Barnaba, il frate che lui aveva conosciuto pochi giorni prima. Decisero quindi di recarsi entrambi da lui per convincerlo a nascondere il sacchetto con gran parte della somma. Entrarono nella chiesetta che fratel Barnaba stava predicando. Le sue prediche, fatte con voce dolce e suadente, erano però davvero molto lunghe e quindi avevano il potere di annoiare i grandi e si rivelavano un potente sonnifero per i bambini. Le fedeli indossavano veli colorati e sedevano sulle panche con i bimbi piccoli in braccio, mentre i grandicelli si erano stesi con la testa sulle ginocchia delle rispettive madri sospirando con gli occhi chiusi ed alcuni sbadigliavano assonnati. Gli uomini, a capo scoperto e testa china, stavano in piedi ad ascoltare il sermone. Alcuni, meno interessati, entravano ed uscivano poco dopo. Frequentare la chiesa ed ascoltare la Santa Messa vespertina era per molti un’occasione impedibile per ritrovarsi tra amici e conoscenti e raccontarsi le ultime novità spettegolando su questo e su quello. Tutti erano di buonumore salvo che in occasioni luttuose come i funerali o tristi come le funzioni della Settimana Santa. In altre occasioni, come matrimoni e gioiose festività, tutti mostravano di amarsi e, se qualcuno era ammalato o in difficoltà , fratello Barnaba accendeva subito una gara di preghiera e solidarietà cristiana. Quell’uomo pio era molto amato e stimato da tutti anche da chi cristiano non era. Il suo esempio e la sua profonda umiltà affascinavano e catturavano molti cuori portandoli a Dio. Giuseppe si meravigliò molto a vedere che Pietro si avvicinava con altri all’altare per ricevere devotamente l’Ostia Santa dato che non lo avrebbe proprio definito un cattolico praticante e si ricordò del noto proverbio, davvero azzeccato in quel caso, “ L’abito non fa il monaco” traendone un bell’insegnamento. 82 La Messa era finita e la gente stava lasciando la chiesa. Alla fine rimasero solo i due amici, il sacrestano e naturalmente Barnaba che guardava interdetto Pietro e Giuseppe chiedendosi perché non uscivano anche loro. Visto che i due non si erano fermati a pregare, non parlavano e sembravano sulle spine, chiese gentilmente: “ Avete bisogno di qualcosa? Posso esservi utile?” Pietro avanzò verso il frate, baciò la croce che pendeva dal cordone e rispose: “ Fratello, abbiamo bisogno del suo aiuto! ”. Se avesse potuto, sarebbe corso fuori vergognoso, ma ormai non poteva più tirarsi indietro, in fin dei conti aveva avuto lui quella brillante idea! “ Allora venite in canonica! Tu no, Hector, finisci di riordinare!” aggiunse rivolto al sacrestano che era un tantino curioso. Pietro gli formulò quella insolita richiesta, ma Barnaba non ne voleva sapere di nascondere il danaro ed andava ripetendo:” Non ne conosco la provenienza, potrebbe anche essere danaro rubato e poi le somme ingenti sono spesso frutto di azioni non proprio in linea con gli insegnamenti del Vangelo. Desidero essere in pace con me stesso e dormire sonni tranquilli!” “ Fratello, fratello, non volete capire che non è roba sporca? Come potrei mentirvi se ho fatto or ora la Comunione! Ci tengo all’anima mia! Torno ad assicurarvi che ci è stato dato per un buon fine, ma non possiamo tenerlo tutto noi. E’ meglio nasconderne una buona parte perché, se ce lo rubano tutto, allora addio! Chi sospetterebbe mai, fratello, che voi celate un tesoro? Nelle vostre mani sarà come in un forziere nelle mani di Dio ed a prova di ladro!” incalzò Pietro con la voce rotta da un misto tra stizza ed implorazione. “ Perché cercate di convincermi quando non voglio correre alcun rischio? Sono uno straniero in un paese straniero proprio come voi!” Vista la caparbietà di Barnaba, Giuseppe tentò con l’ultimo argomento che era loro rimasto:” Appunto fratello, ma perché non vi fidate di due onesti lavoratori italiani come voi? E se vi dicessi che potete tenere una parte del gruzzolo che c’è nel sacchetto per aiutare le famiglie povere, rifiutereste ancora? Non predicate forse tutti i santi giorni che si devono aiutare i fratelli che sono nel bisogno?” 83 Quelle parole fecero breccia nel cuore del frate che abbassò la testa contrito e disse sospirando:” Signore, tu sai tutto, sai se costoro mentono o sono in buona fede. Prenderò in consegna il danaro, ma tu aiutami e proteggimi, memore del fatto che, quando eri tra noi sulla terra, hai sfamato immense folle di miserabili!” Detto questo si fece consegnare il sacchetto, lo prese con mani tremanti come se scottasse, e, su invito dei due, ne rovesciò il contenuto sul tavolo della sacrestia rimanendo a bocca aperta poiché quella che aveva davanti doveva essere una somma davvero enorme. “ Tenetene quanto sarà necessario per i poveri e per restaurare la chiesa togliendo tutta quella muffa dai muri esterni ed interni. Anche la pala dell’altar maggiore ha bisogno, diciamo così, di un ritocco! Si guardarono bene dall’ aggiungere anche “ per le vostre necessità” poiché temevano di offenderlo. Vi preghiamo di conservare quello che rimarrà in un luogo sicuro e mi raccomando che resti un segreto tra noi, non fatene parola con nessuno!” “ Dovrò pur dirlo al sagrestano, cosa penserà se lo vede?” “Ma vi fidate di lui, saprebbe tenere un segreto?” gli chiese Giuseppe. “ Hector e fidato e fedele. Sa essere muto come un pesce e manterrà un silenzio di tomba”. “ Allora siamo in una botte di ferro!”, sentenziò Pietro soddisfatto. Fratel Barnaba, frastornato e visibilmente commosso, abbracciò prima Pietro, poi Giuseppe e nascose il malloppo esclamando “ Sia benedetto Dio!” 84 IL SULTANO PARTE Poco tempo prima che il sultano partisse per il raduno annuale in un’oasi nel deserto tra Marocco ed Algeria, il muto fu trovato nudo e con la gola tagliata in un vicolo malfamato dove si recava spesso dato che le elargizioni che riceveva e la libertà che gli veniva concessa glielo permettevano. Una vendetta? Una rissa per futili motivi? Una questione di gelosia? Un debito che non aveva onorato? Tutto poteva essere, ma il movente non si seppe mai. Nessuno reclamò la sua salma e nessuno pianse per lui. Il sultano restò indifferente alla notizia, le guardie sue amiche non se ne dolsero, le principesse tirarono un bel respiro di sollievo. Zaida commentò: “ Era un poco di buono. Ora abbiamo una spia in meno!” Zorahaida aggiunse:”Ed anche un maledetto succhia soldi in meno”. Furono tutte concordi nello sperare che il padre non lo rimpiazzasse subito con un ceffo peggiore, altrimenti sarebbero state spacciate. Si dissero che era proprio una bella fortuna che il sultano si allontanasse per qualche tempo, il più a lungo possibile! Avrebbero avuto maggior libertà di azione e potuto programmare con calma la liberazione della loro mamma, posto che i due Italiani avessero scoperto dov’era rinchiusa. Pietro e Giuseppe si erano dati un gran daffare, ma i primi giorni di ricerche non avevano dato alcun frutto. I fornitori di frutta e verdura del palazzo avevano alzato le spalle e voltata la schiena, i giardinieri avevano risposto a Pietro di non sapere nulla e che nulla volevano sapere. 85 I due amici si erano anche recati in qualche locale sporco e fumoso della zona del porto, punto d’incontro di molti ciurmatori che bevevano e chiacchieravano dopo una lunga giornata di trattative e baratti. Erano gente parecchio equivoca costituita da avventurieri, marinai disertori, emigranti assetati di fortuna, prostitute e tanti altri, arrivati chissà da dove e che parlavano lingue che né Pietro, né Giuseppe comprendevano e si mischiavano ai gentiluomini ed alle persone rispettabili. Ci si doveva guardare da coloro che proponevano occasioni uniche di guadagni favolosi e tenersi lontani dalle bische dove scoppiavano risse, si perpetravano furti ed aggressioni. Gli Italiani questo lo sapevano bene, ma volevano tentare tutte le strade consentite per avere notizie da qualcuno anche se si trattava di gente di malaffare. Uno degli avventori assicurò di non sapere nulla di una regina rapita e che le uniche persone, che potevano esserne a conoscenza, dovevano essere indubbiamente le sguattere tuttofare e quelle addette alla pulizia dei locali e delle alcove. Se quella donna non era morta, doveva essere certamente servita da qualche cameriera personale, o no? “ Buona osservazione!”, pensarono. “Quell’uomo aveva ragione! Bisognava indagare nell’ambito della servitù”. Non riuscendo a cavare un ragno dal buco e pur non avendo intenzione di sedersi a bere tra tutto quel vociare, dovettero farlo dato che l’oste si stava avvicinando loro per chiedere l’ordinazione. “ Due bicchieri del vino migliore!”, chiese Pietro con una certa irritazione nella voce. “ Ho un nettare rosso che allontana tristezza e dispiaceri”, sentenziò l’uomo corpulento rivolgendo loro un sorrisetto maligno. “ Beviamo ed andiamocene! L’oste non mi piace affatto!”, sentenziò Giuseppe “ Neppure a me!” rispose Pietro sbadigliando. Le speranze svanivano giorno dopo giorno quando, alla vigilia della partenza di Alhamar, un’idea geniale, o supposta tale, balenò nella mente di Giuseppe che sedeva spesso alla tavola della sua abitazione con la testa tra le mani e pensava, pensava….. 86 “ Toh! Ho un asso nella manica e quest’asso è Kalima, proprio lei!” Spesso Kalima sbirciava da una finestrella della cucina che era a livello del lastricato del cortile, seguendo con lo sguardo innamorato Giuseppe che lo attraversava svelto per recarsi nella sua piccola residenza privata. Quel tardo pomeriggio egli attese che gli occhi della donna apparissero dietro le inferriate della finestra e, invece di proseguire verso casa, si voltò e le sorrise facendole l’occhiolino. Tornato indietro si chinò quasi fino a toccare la fredda pietra della pavimentazione e le sussurrò in spagnolo, sperando che lei capisse:” Kalima, harias algo para mi? Una cosa muy inportante?” Vale a dire:” Kalima, faresti una cosa per me, una cosa molto importante?” La faccia paffuta della donna si imporporò tutta per l’eccitazione che si era impadronita di lei e che riusciva a stento a trattenere. Avrebbe voluto afferrare le mani di Giuseppe e baciarle, ma non poteva perché impedita dalle grate. Riuscì però a mandargli un bacio profumato d’aglio mentre due lucciconi le rigavano le guance. Giuseppe, vergognandosi in cuor suo per la panzana colossale che stava per sparare, continuò:”Ven con migo por favor hasta a quella esquina alle en el fondo, que tengo que ablarte en seguida. Te prometo che, si me ayudaras, seras mi mujer para sempre y ya no tendras que trabajar en la cocina. Yo se que te gusto y tu a mi. A qui esperas? Muevete!” Vale a dire:” Per favore vieni fuori fino all’angolo là in fondo, ti devo parlare subito! Ti prometto che, se mi aiuterai, sarai la mia donna per sempre e non dovrai più faticare in cucina. So che ti piaccio e tu mi piaci e allora? Sbrigati!” Passò la classica mezzora del barbiere prima che Kalima si presentasse all’appuntamento. Giuseppe notò che, pulita e benvestita, non era poi tanto brutta, quindi sfoderò tutto il suo fascino insieme ad un sorriso radioso e le strinse le mani senza baciarle, però. Si azzardò invece a farle una carezza lieve mentre lei lo guardava estasiata. In vita sua non aveva mai ricevuto tante attenzioni da parte di un gentiluomo. Senza preamboli Giuseppe le disse chiaramente ciò che voleva da lei, in breve doveva trovare chi poteva fornirgli informazioni certe sulla regina Aisha 87 scomparsa anni addietro in circostanze misteriose. Aggiunse che si diceva fosse stato il sultano ad ordinare che venisse rinchiusa in qualche recesso dell’Alhambra. Kalima avrebbe voluto fuggire. Le si chiedeva davvero troppo e troppo era il pericolo! Tentennava presa tra l’incudine ed il martello, vale a dire tra l’amore di Giuseppe ed il matrimonio e l’indubbio rischio cui si esponeva. Chinò la testa dicendo: “ Voi mi proteggerete?” Giuseppe le rispose prontamente: “ Vi difenderò,proteggerò ed amerò per sempre!” Manco a dirlo vinse la speranza del matrimonio e di una vita libera dai fornelli reali, quindi Kalima affermò:” Es un asunto dificil y arrisegado. Lo hare todo por enterarme y te lo dire, ten solo por que te quiero mucho!” Cioè:” Farò di tutto per sapere e telo riferirò, ma solo perché ti amo tanto!” Poteva mai un cavaliere di tal fatta mentirle? No, no, doveva fidarsi!” pensò ed il suo cuore si riempì di gioia. Spinta poi da un impulso improvviso, lo abbracciò stretto e lo coprì di baci. Preso alla sprovvista Giuseppe non reagì e se li sorbì tutto commosso. Un’acquata improvvisa venne però ad interrompere l’idillio e li inzuppò entrambi da capo a piedi, tanto che si ritirarono lesti, lesti. “ Un segno del cielo che spero porti fortuna!” pensò Giuseppe. Fu in quel periodo che arrivò un altro segno dal cielo: un uccello brutto e poco gradito ai più. Parlo di un pipistrello nasuto peloso di notevoli dimensioni che elesse ad alloggio una grossa anfora vuota di coccio sistemata vicino alla porta dell’abitazione di Pietro. Il pipistrello che l’artista battezzò “ nino”, arrivava al mattino dopo una notte passata a caccia e ronfava dentro l’anfora fino a tarda sera per poi ripartire. Pietro non volle scacciarlo anche se la presenza di quel vicino non gli era affatto gradita. “ Dicono che sei presagio di sventura ma, finchè non mi darai noia, potremo convivere in pace”, pensò. 88 E fu così che nino rimase nel suo alloggio per molte settimane fino al giorno in cui se ne volò via per non tornare più. Preso atto del trasloco, Pietro si strofinò le mani tutto contento. PIETRO DA SAVINIO E MARCO Pietro andò a trovare Savinio e Marco e li trovò seduti fuori dalla loro bottega chiusa da una pesante tenda di tessuto damascato che celava un’unica stanza con animali ed oggetti tenuti in penombra. I due furono lieti della visita e lo invitarono all’interno del negozio per mostrargli pappagalli parlanti, gatti dal pelo lungo e serico con enormi occhi gialli come la lanterna del faro e cani lillipuziani dal pelo biondiccio. “ Vuoi acquistare qualche animale?” gli chiese Savinio. “ No grazie, sono venuto spinto dalla curiosità, Volevo solo porgervi i miei saluti e vedere cosa vendete. Ma dove sono i piccioni viaggiatori ed i falchi?” “ Sono sul retro della bottega all’aria aperta. Dato che i volatili ammaestrati sono creature molto sensibili, li teniamo fuori e li mettiamo in gabbia solo al 89 tramonto. Vieni che te li mostro!” rispose Savinio tutto contento d’aver l’occasione di spiegare a Pietro quello che lui di certo non sapeva su quelle bestie e Marco lo seguiva. Savinio aprì una porta tanto bassa che dovettero chinarsi molto per passare e si ritrovarono su un terrazzino lastricato. Ogni volatile era tenuto fermo da una catenella abbastanza lunga che finiva ad anello senza però bloccarne i movimenti. Marco li amava, dava loro del buon cibo e li addestrava giornalmente. I due avevano appreso quell’arte da beduini, maestri dei migliori falconieri del mondo, ed andavano fieri delle nozioni acquisite. Pietro osservò che la pancia e le ali dei piccioni viaggiatori erano state colorate d’azzurro cielo in modo tale che i messaggeri alati venissero subito riconosciuti. Non erano ceto comuni piccioni, ma superbi esemplari di grande apertura alare. Marco ne slegò uno che, tutto impettito, arruffò le penne e gonfiò il petto con aria di sfida. Liberò poi un falcone pellegrino femmina dalle penne grigio scuro argenteo che, ad un richiamo di Savinio, lanciò un grido stridulo e gli volò sulla mano guantata volgendo a scatti verso il padrone la testa incappucciata. Sotto il cappuccio i suoi occhi rossi ardevano come bracieri. Marco raccontò a Pietro che il falcone femmina è più grande ed agguerrito del maschio ed anche un’ abile cacciatrice. Quella che era volata sulla mano di Savinio era una nidiacea, cioè un uccello catturato nel nido quando ha già messo tutte le piume. Una volta cresciuto, il volatile era diventato grande amico di Marco che gli accarezzava spesso la testa fiera sussurrando parole d’amore come “ cara, piccola mia, amore mio…”e le cantava dolci canzoni. Per affermare il dominio sulla bestia, una notte Marco l’aveva tenuta parecchie ore sul suo pugno con una candela di fianco guardandola dritto negli occhi. L’uccello aveva infine ceduto e, chiuse le palpebre, si era addormentato, decretando così la vittoria del suo padrone. A Pietro l’uccello piaceva molto per la bellezza delle sue lucide piume e, con la fantasia, lo vedeva librarsi con le sue ali lunghe ed appuntite e calare fulmineo 90 in picchiata con i grandi artigli spasmodicamente tesi e pronti ad afferrare la preda. Savinio raccontò invece d’aver fatto una scommessa con un falconiere suo amico il quale riteneva fosse impossibile addomesticare quel falcone femmina. Marco ci era riuscito ed i due avevano vinto anche una bella somma di denaro. Da allora il falconiere sconfitto non li salutava più e li guardava in cagnesco. Ai falconi non facevano mancare nulla: Marco tagliava loro periodicamente gli artigli e li nutriva con formaggio fuso, uova, carne di pollame ridotta in poltiglia che metteva in grandi ciotole ed.il cibo spariva presto divorato dai paurosi becchi dei rapaci. “Allora, che ne dici delle nostre bestie, non sono splendide?” chiese Savinio. Pietro gli rispose:”Belle davvero! Mi piace tanto quel piccione spavaldo che gonfia il petto, è proprio particolare. Come si chiama?” “ Non ha ancora un nome, l’ho acquistato da poco. Di solito non battezziamo i volatili, dare loro un nome è compito dell’acquirente. Che ne diresti di Eustachio, mi sembra gli si addica proprio!” All’udire quel nome Pietro si rabbuiò e rispose in malo modo, quasi urlando:” Come ti viene in mente di chiamare così un piccione? Eustachio mai!” Savinio sgranò gli occhi e fece un passo indietro spaventato, poi rispose pacatamente:” Calma, calma! Si può sapere perché ti sei infuriato? Un nome vale l’altro!” “ Non può chiamarsi Eustachio, perché così si chiamava mio padre che possedeva vasti terreni agricoli ed è morto parecchi anni or sono per un colpo di sole. Era un uomo eccezionale con il dono di prevedere il tempo ed azzeccava tutte le previsioni. Dal grado di umidità delle zolle, capiva se sarebbe piovuto o meno. Riusciva ad orizzontarsi nella nebbia in base all’abbaiare dei cani ed a sapere dove si trovava, perché diceva che i cani non abbaiano mai allo stesso modo. Anche se veniva sfidato da qualcuno a battersi, non raccoglieva la sfida poiché pensava che quella fosse un’usanza barbara”. Ciò rispose Pietro con la tristezza dipinta sul volto. “ Oh, mi dispiace tanto! Come potevo sapere il motivo per cui…”e troncò subito la frase. 91 “ Lo chiamerei Ary invece!” , affermò con vigore Pietro. “ Ma è un nome mezzo ebreo e mezzo greco!” , protestò Marco. “ E chi se ne frega!” concluse Pietro senza mezzi termini. “ E vada per Ary allora! Se in futuro avrai bisogno di un piccione viaggiatore, torna qui a prenderlo”. Così Savinio troncò il discorso. Per fugare ogni amarezza suggellarono l’incontro brindando con un buon bicchiere di vino e qualche battuta scherzosa. 92 ISABEL E IL RESPONSO DELL’INDOVINA Granada era una terra benedetta con il suo mare, i suoi traffici e commerci, gli effluvi deliziosi del balsamo, della mirra, dell’incenso che arrivavano dall’Arabia con le carovane. I suoi datteri, meli, fichi, limoni e grandi cedri colpivano l’occhio e mettevano appetito e buon umore. Il sultano faceva coltivare le piante del cotone che crescevano rigogliose e piantare gli alberi del pepe nei suoi vasti frutteti come pure gli ulivi dal bel fogliame argentato. I giardini fioriti di rose, bagnati dall’acqua delle fontane, gli splendidi palazzi della nobiltà locale con le loro ampie sale ed i pavimenti coperti di tappeti pregiati erano davvero un incanto. Per le viuzze si incontravano asini, buoi, cani, gatti, tutto il variopinto mondo animale e purtroppo anche colonne di schiavi incatenati che sarebbero stati venduti a caro prezzo, se forti o eliminati se deboli e malaticci. I venditori ambulanti della Medina decantavano le loro merci: muschio, canfora, cannella, cotone , stoffe pregiate e non, ninnoli, unguenti portentosi, animali esotici ed amuleti portafortuna. Mai l’Alhambra era stata così maestosa e bella, bella da togliere il fiato con le sue terrazze, scale, i portici di pesante pietra, le colonne di marmo e la splendida sala del trono. Era la vigilia del suo compleanno e Alhamar voleva spassarsela alla grande! Aveva nostalgia dei baci di qualche concubina preferita, degli sculettamenti degli eunuchi viscidi come non mai, con gli occhi bistrati di nero e le ciglia allungate ad arte, le gote imbellettate, i vistosi braccialetti ai polsi ed alle caviglie. Si fece quindi un bagno profumato e rilassante, si vestì 93 splendidamente, si infilò le babbucce preferite, quelle più comode che non gli battevano contro i calli, ed entrò nell’harem. Lì l’attendeva il nuovo regalo del suo amico Omar: una splendida fanciulla di nome Isabel, provetta danzatrice e cantante dalla voce melodiosa. Isabel lo incantò con le sue movenze flessuose e le sue carezze, accendendo in lui un desiderio ardente e facendogli sembrare sciape le altre giovani concubine. Quella creatura era un angelo dai capelli d’oro! Le donne gli erano venute incontro timidamente a capo chino sospirando e sperando in una notte d’amore con lui. Isabel però non si sarebbe mai inchinata davanti al re moro se non avesse dovuto aiutare Omar che parteggiava segretamente per i Franchi, nemici dei musulmani. A lei, tanto orgogliosa ed altera, quell’ossequio costava un sacrificio enorme! Calata la notte, la fanciulla sciolse i lunghi capelli biondi e serici che le giungevano fino alla vita, stese sul viso una crema che rendeva la pelle del colore dell’ambra, indossò una veste trasparente fatta di veli cangianti di vari colori che mettevano a nudo le sue belle forme, indossò collane e braccialetti da cui pendevano campanellini tintinnanti e prese il tamburello. Era pronta a danzare e cantare accompagnando i movimenti col suono del tamburello e dei campanellini. Uscì da una tenda damascata e si ritrovò nell’alcova del sultano che era immersa in una calma straordinaria e soffusa da una luce rossastra proveniente dai bracieri accesi La ragazza incedeva con una grazia ed un portamento da principessa reale mentre il sultano la guardava estasiato. Cominciò a danzare con movimenti sinuosi, inviandogli sguardi dolci, lascivi, incantatori, rotta com’era nell’arte della seduzione. Danzò a lungo e, mentre danzava, si estraniava dal mondo circostante, ritornava ad essere Margherite, persa nel ricordo vivido della propria fanciullezza quando viaggiava per le amate colline, foreste e le coste sabbiose, prima con i genitori e poi con la carovana del suo patrigno e protettore. Un brivido le percorse la schiena al pensiero dello sguardo truce dell’agà Omar, cui nulla sfuggiva . Lo rivide nella sua corazza e l’elmo cicak, basso e tarchiato con un solo occhio, traditore ed 94 assassino che l’aveva addestrata a fare la spia coadiuvata da una rete invisibile ed efficiente di informatori dei Francesi. Ritornò allora alla realtà e si preparò a trascorrere la notte col sultano che, invaghitosene, la elesse sua favorita. La missione di Isabel consisteva nel carpire informazioni agli eunuchi sempre al corrente di tutto: nessuna decisione, nessuna mobilitazione di forze, nessuna partenza sarebbe avvenuta senza che loro ne venissero a conoscenza e, per conseguenza, con un poco d’astuzia, anche lei avrebbe saputo. La luce dei bracieri e delle torce si stava estinguendo, ma Isabel non riusciva a prender sonno. Mentre il sultano russava lei pensava alle missioni affidate ai beduini alleati dei musulmani che disponevano di forze ingenti ed avevano un programma preciso: preparare il terreno e scavare pozzi là dove si sarebbe accampato l’esercito, tagliare le linee di rifornimento agli avversari, rendere impossibile l’invio di informazioni, infastidire il nemico con scaramucce ed attacchi a sorpresa a più riprese, tendergli imboscate, rubare cavalli e danneggiare le attrezzature di guerra. Omar pretendeva che quelle azioni fossero previste e sventate. La settimana precedente la partenza per Granada, Isabel aveva chiesto con insistenza ad Omar di poter consultare una vecchia veggente sull’esito delle future campagne militari La maga, che era anche l’unica levatrice del luogo, non abitava molto lontano, solo un’ora a cavallo dell’accampamento del beduino. Trattandosi di un viaggio breve e pur ridendosene di maghe ed indovine, Omar permise ad Isabel di partire scortata da due suoi fidi. L’idea fissa della ragazza era quella di conoscere il proprio futuro e non tanto l’esito delle battaglie. La maga viveva in una capanna arredata spartanamente e provvista di un giaciglio coperto di pellicce. Dal soffitto pendevano mazzetti di erbe profumate e, dalla parte opposta al letto, era sistemato un tavolo di legno con sopra un teschio. Su una mensola di pietra erano disposte con ordine ciotole contenenti radici e polveri dall’odore pungente. 95 All’imboccatura della grotta facevano la guardia due cani alti e possenti con il collo taurino e le orecchie dritte. Isabel, che non aveva ancora visto bestie di quella razza, si fermò impaurita sulla soglia. Ad un cenno della maga però i cani si accucciarono docili permettendo ad Isabel di entrare. La giovane salutò educatamente la donna che era molto anziana, vestita di bianco con una cintura stretta in vita tutta ornata di pietre preziose. Isabel pensò:” Caspita! Costei deve essere veramente ricca per potersi permettere tanto lusso!” La vecchia portava i capelli corti e di un candore incredibile e la sua pelle era tutta grinzosa e di color bruno come arsa dal sole. Il viso era illuminato da due occhi vivaci e penetranti che scrutavano attentamente l’ospite. Difficile, se non praticamente impossibile, decifrarne l’età, ma bastava fissare lo sguardo sulle sue mani ossute su cui spiccavano piccoli punti color caffè, quelli che si chiamano “ fiorellini del cimitero” per capire che era già molto avanti negli anni. Andò incontro alla ragazza per abbracciarla e le disse: “ Sapevo già che saresti venuta, cara! Ti ho sognata la notte scorsa quando la luna era piena nel cielo ed i miei spiriti informatori mi hanno detto che sei qui per sapere il futuro che ti aspetta”. La voce della maga, molto gutturale, più maschile che femminile, impressionò non poco la ragazza. Come poteva una tal voce venir fuori da quel corpo sottile come un fuscello che un forte colpo di vento avrebbe potuto spezzare? Con un gesto della mano la vecchia indicò ad Isabel una sedia traballante posta ad arte sotto un foro praticato nel soffitto da cui penetrava il chiarore del giorno. “ Vuoi sapere solo del tuo futuro o c’è anche qualche altro argomento che ti preme?” fece lei per avviare la conversazione e mettere la ragazza a proprio agio. Quella domanda fu accolta da un lungo silenzio di Isabel che fissava il viso della maga per concentrarsi su quello che doveva chiedere, poi rispose:” Grande maga, dimmi del mio futuro! 96 Quella rispose: “ Non sono grande, ma prima di me lo era colui che mi ha insegnato l’arte e trasfuso in me il suo sapere e la sua saggezza. Ad ogni modo ti dirò tutto ciò che la grande mente mi ispirerà”. Ciò detto cominciò a vaticinare con voce cantilenante, le labbra semiaperte e gli occhi socchiusi:” Molto sangue verrà sparso e la collera del cielo decimerà molti eserciti che combattono solo per il bottino e la gloria. Le potenze del mondo sono oscure e gravate da crimini orrendi. Le guerre tra cristiani e musulmani sono frutto di menti fanatiche e malate! Nessun credo possiede la verità tutta intera, la verità una! I sovrani manipolatori per saziare il loro spirito di dominio, muovono guerra e non smettono di fare il male. Tu, giovane donna, non compiacere né Omar, né il sultano! Sei furba, coraggiosa, intelligente, audace. Sii anche molto prudente e recita bene la tua parte, continua così la tua finzione. Ti salverai per amore, quello che incontrerai un giorno all’Alhambra. Esso ti cambierà la vita e ti farà finalmente libera! Quando ti assaliranno dubbi ed incertezze, ricordati delle mie parole! Isabel compensò la maga con una piccola somma, quella che le aveva elargito Omar, che teneva i cordoni della borsa sempre molto stretti. La ragazza chiese scusa alla maga per l’esiguità della somma, ma quella le rispose di non preoccuparsi assolutamente perché conosceva la fonte di quel danaro che non era danaro pulito, ma rubato. Naturalmente la ragazza riferì all’aga solo ciò che si riferiva alle contese tra cristiani e musulmani, omettendo tutto il resto. Omar, non trovandole né chiare, né soddisfacenti, tuonò irritato:” Ma che razza di responso è questo! Ho fatto bene a darle solo spiccioli, anzi quella non si meritava proprio un bel niente. Tu, cara mia, avresti potuto risparmiarti il viaggio ed io quel poco di danaro! Al diavolo maghe, veggenti, indovine, tutte vecchie imbroglione!” Poi si calmò e non ci pensò più, aveva ben altro per la testa! 97 98 IL GENETLIACO DEL SULTANO Omar fece levare le tende di notte e partì per Granada sotto un cielo tempestato di stelle bianche che brillavano come diamanti. Dopo i festeggiamenti al sultano sarebbe ritornato ad attenderlo presso l’oasi con i suoi beduini. Lo accompagnavano ora i suoi fedeli mercenari, asini e cammelli carichi di ingenti quantità d’oro e preziosi che doveva affidare ad alcuni dei suoi uomini che li avrebbero nascosti in un magazzino.. Infido e traditore si incamminò quindi a ritroso per il nudo deserto affidando i giorni a venire alla buona sorte. Spuntato il giorno il caldo era aumentato gradualmente ed il vento colpiva con folate violente e l’aria stessa era carica di sabbia che mulinava intorno ad uomini ed animali. Ogni tanto qualcuno si fermava per togliersela dagli occhi arrossati. Viaggiarono per un giorno intero attraversando un terreno sempre eguale, ma ora l’aga lo guardava con occhi nuovi, quelli di un doppiogiochista ben remunerato sia dal sultano che dai Cristiani di Francia ed il cui favoloso malloppo aveva il potere di aprirgli tutte le porte. Avanzarono per tutto il giorno in una zona abbastanza tranquilla dove i cespugli, i tamarischi e le dune spezzavano la violenza del vento. Venuto il tramonto, il caldo scese, l’aria si addolcì ed il cielo cominciò ad imporporarsi mentre il sole mandava splendidi bagliori. Il giorno seguente Omar mandò avanti il fido Mohammed, il suo migliore esploratore e gli ordinò di scoprire eventuali orme che segnalassero il passaggio di predoni e tribù nemiche. Mohammed era un uomo agile e brutale di cui si era sempre fidato. Egli escluse la presenza di tracce fresche e rassicurò il comandante che non si correva alcun rischio. Non erano molto lontani dall’Andalusia, il più era fatto. Ora li attendevano i grandi festeggiamenti, la sfilata ed i banchetti in onore del sultano per il suo 48° compleanno. 99 Nei lussureggianti giardini erano stati eretti con sorprendente celerità splendidi padiglioni arredati sontuosamente alla maniera saracena. Gli animali d’Africa ed Asia, custoditi dagli stallieri, godevano del clima tiepido, della festosità che li circondava ed erano vivaci. La corte si era ben preparata alla sfilata che avrebbe avuto luogo il mattino successivo quando tutta Granada sarebbe sciamata fuori dalle case per assistervi seppur da lontano. Infatti quel mattino il rullo dei tamburi annunciò l’arrivo del lungo corteo di una bellezza incomparabile. Lo apriva la cavalleria leggera degli arcieri saraceni; gli agili purosangue arabi procedevano superbi mentre i cavalieri si pavoneggiavano fieri ed eretti nei loro costumi cangianti. Avanzavano poi i cammelli mehari, dinoccolati e silenziosi. Quello in testa alla fila rallentò per lasciare un ricordino sul cammino, allora la sua guida lo pungolò per farlo andare avanti più in fretta. La bestia girò la testa indietro sul lungo collo verso i compagni. I cammelli, si sa, sono avvezzi a stare in branchi fin dai primi giorni di vita e, troppo legati a quell’abitudine, nessuno di loro procede senza assicurarsi d’essere insieme agli altri. Sulle loro groppe erano fissati i palanchini dalle tendine di seta colorate che trasportavano le odalische dell’harem imperiale. I palanchini erano scortati e strettamente sorvegliati da negri giganteschi, terribili a vedersi. Chiusa in uno di quelli sedeva Isabel, splendida nel suo vestito di seta, sembrava lei la regina! Le principesse avevano saputo per vie traverse dell’arrivo della nuova fiamma del sultano; ciò però non aveva destato in loro alcuna apprensione, semmai una certa curiosità. Si diceva infatti che fosse bellissima e con lunghi capelli color dell’oro fino. Dietro i cammelli avanzavano i nobili della corte al cui centro cavalcava impettito Alhamar con lo sguardo simile a quello di un serpente velenoso in procinto di mordere. Chiudevano la sfilata i leopardi da caccia, cioè veloci ghepardi seduti sopra cuscini montati sulle 100 selle, un grosso elefante con in groppa la torretta di legno con il guidatore e poi giraffe, linci, leoni, splendidi cavalli neri con le groppe larghe e lucenti, i finimenti tutti netti e lustri, i morsi, i sonagli, le staffe scintillanti, bestie scelte personalmente dal sultano o da suoi uomini di fiducia, infine i muli. Zaida, Zorayda e Zorahaida sedevano su un palco all’ombra, orgogliose dell’incredibile potere e della ricchezza del loro genitore. Cosa mai accaduta prima, Isabel fu loro presentata in privato come giovane erudita che parlava e comprendeva molte lingue tra cui naturalmente l’italiano appreso in tenera età dal padre. Quella ragazza non aveva niente a che vedere con le concubine dell’harem, grasse ed inanellate. Nei suoi occhi ardeva uno strano luccichio come di fuoco, molto simile a quello che riluceva negli occhi di Zorahaida quando si parlava di vendetta. Le principesse, cui Isabel era gradita, capirono subito che quella bellezza bionda non era né timida, né sottomessa, ma possedeva determinatezza ed uno spirito indomito e si chiesero come mai una tal creatura fosse lì. La videro anche Pietro e Giuseppe che avevano presenziato con grande entusiasmo alla sfilata, commentando insieme alle altre maestranze del palazzo, la magica ostentazione di potere e di grandezza del sultano. Isalbel sembrò a Pietro una fata uscita da una fiaba sia per le fattezze del corpo, sia per i capelli lunghissimi. Un trovatore dalla voce melodiosa prese a recitare versi in onore del sultano, condottiero senza paura, terrore dei nemici che avrebbe sconfitto la Croce e le forze coalizzate contro di lui. Al banchetto, allestito senza badare a spese, presero parte centinaia di nobili e invitati di riguardo, tutti amici di Alhamar ed anche Omar, il falso alleato. Prima dell’inizio del convito furono bruciate essenze d’issopo, mirto, storace, terebinto, nardo, balsamo, canfora e cinnamomo che avrebbero calmato e rallegrato gli animi di quella marea di gente. Al suono del gong uscirono da dietro un grande paravento fatto di canne di bambù intrecciate, giovani danzatrici vestite di seta ricamata, con corpetti attillati, tenuti chiusi da nastrini ed i capelli corvini raccolti in trecce sulle spalle coperte da scialli multicolori. 101 Ora, mentre si esibivano nel padiglione centrale, quello del sultano, gli astanti potevano ammirare tutta la loro leggiadria ed abilità nell’eseguire le stesse movenze all’unisono. Calata la notte sulla festa del suo compleanno, Alhamar cercò l’amore di Isabel. Giovandosi dell’ascendente che aveva su di lui la ragazza gli chiese di poter visitare, scortata naturalmente da una guardia, l’Alhambra. In un eccesso di magnanimità dettatagli dalla passione, egli le accordò il permesso, cosa molto insolita per lui che incuteva un sacro terrore a tutti i suoi sudditi solo guardandoli. Alhamar aveva una fiducia illimitata nel principio di base:” A me tutto è permesso, ho autorità assoluta sui miei fedeli che mi obbediscono ciecamente”. Infatti era vero: essi non temevano nulla, tanto meno la morte anzi, ardimentosi, la cercavano convinti che avrebbe aperto loro le porte del Paradiso con i suoi sacri fiumi e giardini. Tra il levar del sole ed il suo tramonto infuocato Alhamar se ne stava nella sua splendida dimora, circondato da agi e lusso, intento ad accrescere il proprio potere e la gloria di Allah. Chi non obbediva ai suoi ordini oppure ordiva trame avrebbe dovuto fare i conti con i sicari che sguinzagliava ovunque e che erano implacabili. Isabel aveva assistito a qualche improvvisa esplosione della sua ira, ne aveva timore, nondimeno voleva proseguire nel suo intento, cospirare contro di lui. Zaida, Zorayda e Zorahaida erano sulle spine dato che il tempo volava e non si era venuti a capo di nulla. Giuseppe fece loro sapere però che le ricerche andavano avanti e che dovevano pazientare. 102 IL SULTANO E’ PARTITO Dopo quattro giorni di viaggio, di cui una parte per mare, la lunga carovana del sultano raggiunse un grande spiazzo si sabbia e ciottoli oltre il quale spuntava l’oasi rigogliosa alle pendici di un monte, la loro meta. Lo spiazzo era tanto ampio che vi si sarebbe potuto radunare un intero esercito in assetto di guerra. Ai bordi dell’oasi si ergevano rocce enormi sparse qua e là come sentinelle di guardia e palme alte ed anche nane, verdi e bianche, cariche di datteri pendenti dai rami. Le pendici delle collinette circostanti erano già punteggiate da centinaia di tende e presumibilmente da una gran moltitudine di soldati, cavalieri e gente al seguito. Oltre alle tende erano stati montati capanni dentro i quali facevano bella mostra pagnotte e vasi di miele, pesce affumicato su stuoie, dolci ed altra merce d’ogni genere. Quelli al seguito del sultano erano scesi tutti dai cammelli stirandosi le membra indolenzite per il lungo viaggio attraverso il deserto vasto e solitario, ventoso ed infido. Anche i muli erano veramente esausti per la lunga marcia e si abbeverarono all’acqua dolce dell’oasi. Avevano trasportato legname abbondante per accendere e mantenere vivi i fuochi utili ad illuminare la notte buia, fredda e coperta da una coltre nebbiosa sopra la quale riluceva un cielo pieno di stelle. Dato che l’erba dell’oasi era abbastanza fresca ed abbondante i cammelli brucarono per molte ore nei giorni seguenti, preferendo pascolare nelle ore più fresche del mattino invece che alla sera. Gli schiavi del sultano avevano già sciolto i carichi dai cammelli e montate le tende, badando a mettere un velo dalla parte del sole perché, spuntato, non ferisse gli occhi di chi le occupava. Il sultano si fermò nelle vicinanze di un villaggio visitato l’anno precedente e, invece che dormire sotto la tenda, fu ospitato dentro una immensa roccaforte in una casa ben attrezzata e lunga parecchi metri. 103 Le donne che gli resero omaggio erano uno sparuto numero, tutte vestite a festa, come uccelli dalle piume variopinte, le braccia ed il collo ornati da monili d’oro ed i capelli tutti intrecciati e lucidi. Molti si erano già ritirati dentro le tende per prepararsi al pasto serale a base di carne di gazzella, migliore di quella di qualsiasi altro animale del deserto perché grassa e ricca di sugo ed avrebbero bevuto tazze di un infuso rinfrescante e gradevole. Tutti erano davvero stanchi per aver camminato a marcia lenta, ostacolati dai tumuli di sabbia intervallati da cespugli spinosi che spuntavano ai loro lati e costituivano un intrico di rami secchi, biancastri e polverosi come ossa di morti in battaglia e lasciate per molto tempo in balia delle intemperie. Il sultano volle mangiare sotto la tenda, ma rifiutò di cibarsi di carne di gazzella preferendo quella di montone che un gruppo di uomini portava su un grande vassoio coperto di riso sul cui bordo erano incisi motti in arabo. Il riso era bianco e formava come un argine alla carne che stava al centro e che rischiava di traboccare e dalla superficie del riso sporgeva la testa lessata dell’animale e le orecchie rivolte verso l’alto. Fuori i cani da guardia del campo vagavano alla ricerca di qualche rimasuglio, mentre ai levrieri del sultano venivano riservati dei bocconi scelti. Il giorno seguente Alhamar arringò le truppe spronandole alla battaglia e promettendo loro un grosso bottino in caso di vittoria. Era una vista grandiosa quella degli stendardi neri e gialli del re moro che si gonfiavano al vento del deserto ed i cammelli in fila indiana carichi di casse tanto alte da sembrare piccole torri. Il loro lungo collo ondeggiava qua e là sporgendo dall’alto carico. Il sultano montava un gigantesco destriero, alto quasi venti mani, tutto bardato e con i paraocchi lucenti di ricami d’oro. Tutti avevano i visi avvolti nelle kefyah perché la sabbia che vorticava non si insinuasse nella bocca. Alle orecchie di Alhamar giungevano nitriti, bramiti di cammelli, rumori di armature, rullio di tamburi che scandivano la marcia dei 104 soldati pronti all’adunata. Prima delle ore più calde del giorno le truppe si dispiegarono in tutta la loro potenza. Sceso da cavallo il sultano entrò dentro la sua splendida tenda eretta su una piccola altura e si sedette a pensare con le gambe stese su un canapè di broccato con borchie di rame. Probabilmente pensava al discorso da tenere per incitare gli uomini. All’interno della gran tenda l’aria era satura del profumo dell’incenso rosso di Soqotra che si sprigionava dagli incensieri posti ai lati dell’imboccatura. Dopo essersi rilassato e rifocillato uscì ad arringare le truppe. Appena ebbe alzate le mani verso il cielo, migliaia di gole proruppero in un boato d’esultanza. Tutti volevano dimostrare che c’erano ed erano pronti a seguirlo, assetati di vendetta, di gloria e di bottino. In piedi accanto al sultano stavano da un lato il suo aiutante in campo Auda e dall’altra il cadì Nasir che lo sovrastava in altezza con tutta la testa e che il sultano avrebbe voluto volentieri mozzare seduta stante perché sminuiva la sua figura agli occhi di quella moltitudine osannante. Kunar però non c’era! Anche quei due erano là per godere di quei momenti d’esaltazione e, come Alhamar ,calzavano, strano a vedersi, stivali di spesso cuoio muniti di tacchi di ferro. Un perché naturalmente c’era: bisognava guardarsi dai morsi dei serpenti velenosi che abbondavano e spesso e volentieri si insinuavano dentro le tende e perfino sotto le coltri per stare al calduccio la notte. Bisognava quindi prendere tutte le precauzioni e badare a dove si mettevano i piedi. Non pochi al campo erano stati morsi da quei maledetti rettili ed erano morti. Molti provavano verso quelle creature grande orrore e repulsione, solo alcuni, come l’intrepido Abdulla, che ne aveva uccisi a centinaia, non li temevano. Il sultano continuò a tenere le braccia alzate, volgendole un poco verso occidente e poi verso oriente. Egli portava ai fianchi due scimitarre con l’elsa tempestata di smeraldi e che improvvisamente fece roteare gridando:” Allah, Akbar! La mano di Allah ci protegge, protegge la nostra jihad e mi darà l’illuminazione per poter vincere!” 105 Il suo viso appariva tutto infiammato di zelo e lo sguardo era quello di un invasato. Si sentiva uomo pio, devoto, d’estremo rigore, investito di una missione sacra, era forte, coraggioso, fiero e non aveva dubbi sulla via da seguire e così incantava ed incitava quella folla di combattenti fieri ed indomiti tra cui le schiere dei muhalliq, dei Kharsa e degli Zakrad. Quella pomeriggio Omar, sempre pronto a rendere i suoi servigi al miglior offerente, entrò nella tenda del sultano pronto a chiedere un’ulteriore somma di danaro. Anche in quella occasione, viscido ed astuto, riuscì a spuntarla intascando un bel gruzzolo. Il suono di un liuto giungeva da lontano insieme ad un coro sommesso di voci: “ Non fermatevi, soldati! Avanzate e non tremate! Il loro coraggio è come fumo, solo fumo che si disperde, il loro valore è vanità. Vengono dalle tenebre che sono la loro casa, covando odio e malvagità. Non desistete dalla lotta, siate saldi e non temete, per Allah voi vincerete! Viva, viva la jihad!” 106 LE RICERCHE DANNO FRUTTO Il tam-tam avviato da Kalima stava già dando i primi frutti. Mentre all’inizio Pietro, da persona molto riflessiva, si era spaventato all’idea d’essere gravato di una responsabilità che d’istinto respingeva in quanto gli sembrava d’essere troppo vile ed inadatto ad un incarico d’azione, ora si era fatto più audace e non vedeva l’ora di buttarsi nell’impresa. Quella sera era seduto al tavolo di legno del piccolo vano che fungeva da cucina e mangiava con gusto del formaggio di capra molto saporito insieme a riso dai chicchi piccoli e scuri. Era solito cenare abbastanza presto e, mentre consumava il pasto lentamente assaporando ogni singolo boccone, meditava sui fatti della giornata e sul comportamento di Orso che gli sembrava ancor più assurdo. L’equipe degli artisti ed operai stava svolgendo un lavoro da certosini in una sala lunga più di trenta metri sul lato est del Cortile dei Leoni, dedicata alle feste, ricevimenti e riunioni presiedute dal sultano. Lavoravano alacremente a risistemare una parte della zoccolatura con degli azulejos, i pannelli di stucco ed i dipinti su cuoio e tutto stava procedendo bene. Mentre pensava a ciò che avrebbe fatto il giorno seguente, sentì un tocco leggero alla porta. Per istinto estrasse il coltello dalla lunga lama affilata che teneva sempre sotto il guanciale e che era la sua unica arma di difesa. Pietro temeva la solitudine, ma ancor più le tenebre della sera che potevano nascondere un agguato. Dischiuse cautamente la porta, spiò a destra ed a sinistra senza vedere nessuno, nulla d’insolito, ma il cielo era nerastro di nubi che avevano avvolto tutto con il loro manto scuro e misterioso, quindi c’era poco da fidarsi e non mise fuori dall’uscio neppure un piede, ma solo la testa. Lo stava richiudendo quando gli si parò davanti un’ombra bassa e sottile che si rivelò quella di una bambina dai capelli lunghi e le braccia esili che gli porse un rotolo di pergamena e scomparve come risucchiata dalla notte. 107 Pietro rimase di stucco come se fosse stato contattato da un fantasma. Rintanatosi e sprangato l’uscio, si sedette con le mani tremanti ed iniziò a srotolarla. Che sorpresa! Al chiaror della torcia appesa al muro lesse solo una data, un’ora ed un luogo. Era chiaro che non poteva trattarsi d’altro se non di un appuntamento. Un trabocchetto od una comunicazione importante? Bussò allora alla parete di comunicazione con Giuseppe il quale, lesto, lesto si infilò in casa dell’amico che gli mostrò subito il foglio. Il capomastro apparve contento e soddisfatto, anche per lui quello era un appuntamento e bisognava che Pietro vi si recasse. “ O la va o la spacca, ci andrò! In fin dei conti dobbiamo portare a termine un incarico ben remunerato”. I due amici andarono a letto tutti agitati e non riuscirono a chiudere occhio per i troppi pensieri e il giorno dopo Giuseppe consigliò a Pietro di recarsi da Fratel Barnaba. Sui gradini della chiesetta sedeva un cantastorie male in arnese che suonava uno strano strumento a corda e cantava con voce melodiosa le gesta di un eroe antico. Stese la mano verso Pietro e la ritrasse felice nel vedervi scivolare dentro una piccola fortuna che nascose lesto nella logora custodia dello strumento e scappò via mormorando qualche parola di ringraziamento. Entrato nel sacro luogo, Pietro vide il frate che parlava a pochi fedeli con gli occhi ed il palmo delle mani rivolti al cielo e gli sembrò molto somigliante ad una statua di San Patrizio, l’evangelizzatore dell’Irlanda, che aveva visto in una chiesetta di Firenze. Tutto infervorato Barnaba proseguì:”Io vi dico che Dio è sempre vicino a chi Lo cerca e Lo ama, non vi abbandonerà mai e vi proteggerà perché siete Suoi figli. Nutritevi quindi del Suo Spirito, pregateLo con tutto il cuore e non temete le tenebre di questo mondo! Infatti la luce divina bandirà qualsiasi oscurità ed illuminerà i vostri cuori che saranno così nella gioia. Sentite come suona la campana della Sua dimora? Essa chiama tutti noi ad ascoltare il Suo messaggio di verità che ci fa liberi, di gioia, di speranza e di salvezza. Oh, clementissimo 108 Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, che avete operato tanti miracoli per noi peccatori: in virtù del Vostro Santo Nome i demoni prendevano la fuga, i sordi udivano, gli zoppi camminavano, i muti parlavano, i lebbrosi erano mondati ed i morti risuscitavano. Il Vostro Santo Nome è come una dolce melodia all’orecchio, miele nella nostra bocca! All’udirLo ogni ginocchio si piega, gli spiriti celesti si rallegrano, le contese del mondo ed il demonio sono uccisi e molti beni ne derivano. Chiunque Lo invocherà sarà salvo!” Pietro si unì alla preghiera recitata dai fedeli, parte in Spagnolo e parte in Italiano ed attese che la funzione terminasse. Quando anche gli ultimi lasciarono la chiesa, Pietro si avvicinò al frate che si voltò e gli sorrise. “ Fratello pregate anche per me e per tutti quelli che combattono per una giusta causa?” gli chiese Pietro e quello di rimando:” Caro amico, lo faccio ogni giorno. Qual buon vento ti porta qui?” “ Vorrei prelevare una parte delle monete che vi ho dato in custodia. Siamo giunti infatti ad una svolta, spero positiva, delle nostre indagini e dovremo ricompensare chi ci darà informazioni certe”. “ Vieni allora in canonica e prendi quello che ti occorre, prima però inginocchiati chè desidero darti una benedizione speciale!” Pietro si inginocchiò tutto compunto e la ricevette con gioia e grande speranza. Poi seguì il saio svolazzante del frate che andava sempre di fretta. Barnaba gli consegnò più della metà del danaro esortandolo ad usarlo bene e a non sperperarlo, cosa che Pietro gli promise solennemente. Dobbiamo dire che lo usò subito bene. Infatti, corso in casa di Adelaid, regalò a lei ed a sua madre una discreta somma consigliando loro di servirsene parsimoniosamente e di non far mancare nulla a Tommasino. Le due donne non finivano più di ringraziarlo ed, inginocchiatesi gli abbracciavano e baciavano i piedi, tanto che alla fine Pietro, sensibilmente commosso, fu costretto a divincolarsi bruscamente finchè quelle non lo lasciarono andare. Pensò di elargire un congruo compenso anche all’informatore che gli aveva fissato quello strano appuntamento ed all’acquisto del piccione Ary, ma 109 dubitava che i Veneziani glielo avrebbero venduto, semmai glielo avrebbero dato solo in prestito senza pretendere alcun compenso. Poi pensò:” Un piccione vale l’altro! Può darsi che quel vanitoso di Ary faccia più chiacchiere che fatti!” MORTE DI UN SANTO FRATE Isabel visitò l’Alhambra, che il sultano stava facendo ampliare ed abbellire, scortata da una guardia. Attraversò i cortili ed ammirò il suggestivo giardino, uno dei più belli del mondo di allora. Il suo scopo era quello di raggiungere la sala degli scrivani e di vederli all’opera. Entrò in una stanza ampia, piena di oggetti antichissimi e di inestimabile valore dove c’erano alcuni tavolini con il calamaio. Alhamar era anche collezionista di reperti storici: antichi manoscritti, statuine di divinità indiane in legno e in avorio, vari oggetti d’ebano finemente intarsiati, una gran quantità d’armi antiche, modellini di vascelli e di fortezze e molto altro ancora. Uno scriba, spia molto abile e scaltra e ben nota ad Isabel, era intento a trascrivere su pergamena una lettera formale indirizzata dal sultano al Re Ferdinando di Castiglia in cui chiedeva consiglio ed assicurava il suo appoggio in vista di una eventuale battaglia contro le truppe cristiane. 110 Quella lettera non poteva cadere in mani peggiori! ordinò allo scriba di farne una copia In un sussurro Isabel in più da far recapitare ad Omar attraverso i canali a lui ben noti. Il sultano, chiamato anche “Il Magnifico”, era a capo di un grande regno che comprendeva le province di Granada, Malaga ed Almeria e parte di quelle di Jaen,Cordoba, Siviglia e Cadice. Scriveva al Re Ferdinando perché gli era vassallo ed alleato per assicurarsi così la stabilità del regno. Gli scribi del sultano scrivevano su una pergamena fatta di pelle di pecora, bianchissima, in quanto macerata nella calce e levigata. Un tempo venivano usate le pelli di gazzella e di antilope ed anche il velino che era morbido, sottile e raro, proveniente da vitelli, agnelli e capretti nati morti, non si sgualciva, era solido, ma troppo liscio per potervi scrivere bene e quindi caduto in disuso. L’uso della pergamena era stato introdotto dal Re Emmene II di Pergamo verso il 200 a.C. ( il nome deriva appunto da quella località). Venne presto impiegata per scrivere missive, trascrivere ordini del sultano, lunghi elenchi commerciali con quantità, pesi e misure, importi di tasse e gabelle da riscuotere. Isabel guardava con finto interesse lo scriba intento al suo lavoro di precisione e, avvicinatasi per esaminare meglio la pergamena, gli ordinò quello che doveva fare e, nel contempo, gli fece scivolare in grembo un sacchetto di monete come compenso. La ragazza agì con tale sveltezza che la guardia che l’accompagnava non se ne’accorse neppure; quell’uomo era un gran chiacchierone che, pensando che Isabel non costituisse nessun pericolo, ma fosse solo desiderosa di osservare e d’ammirare, si era messo a conversare animatamente con uno scriba suo amico. Tornando verso l’odiato harem, Isabel volle fermarsi ad ammirare il Cortile dei Mirti ed i suoi rivestimenti a mosaico la cui posa era stata avviata da poco tempo e di cui si faceva un gran parlare. Lì stava lavorando la squadra di Giuseppe al gran completo e fu in quell’occasione che la ragazza conobbe Pietro che le avrebbe cambiato la vita. 111 Il Fiorentino la vide avvicinarsi e sorridere in modo aggraziato salutando tutti gli artefici di quello splendido lavoro, ma gli parve che il saluto fosse indirizzato solo a lui. Sapendo della gelosia del sultano e non volendo dare adito a chiacchiere, chinò il capo e si mise di lato in disparte. Ma Isabel, che non era usa a perder tempo invano, gli si avvicinò e gli disse alcune parole d’elogio in italiano, lingua che, come sappiamo, conosceva bene. Scorgendo poi un interesse particolare negli occhi dell’artista, lo informò che quella notte non era il suo turno di giacere con quel despota geloso che sarebbe partito nel giro di pochi giorni e che aveva ben altro che l’amore per la testa. Un servo a lei fedele avrebbe bussato alla sua porta e gli avrebbe indicato dove andare ad incontrarla. Non doveva preoccuparsi d’esser seguito, quella non era una trappola! Voleva solo parlare con lui e costruire un buon rapporto di sincera amicizia. Tutto qui, niente inganni! Pietro era un uomo ancor giovane ed attraente ed Isabel pensava che forse sarebbe stato un suo buon alleato ed anche un valido aiuto per una fuga nel caso gli avvenimenti avessero preso uno piega sfavorevole. Per Pietro e non per lei fu amore a prima vista! Per Isabel fu mero calcolo; l’amore sarebbe venuto dopo. Pietro e Giuseppe cenarono insieme per tenersi compagnia chiacchierando del più e del meno e commentando la visita di quella Isabel, tutta grazia e bellezza. Il capomastro propose all’amico di andare insieme alla chiesetta per salutare e ringraziare ancora collaboratore. Ma Barnaba, Pietro loro disse amico che non ed in poteva un in certo senso quanto anche aveva un appuntamento galante con la bella della mattina. Giuseppe si meravigliò un poco, ma poi congratulandosi con l’amico per tanta fortuna, gli raccomandò di stare attento e di aprire bene gli occhi dato che non poteva permettersi passi falsi. Concordarono quindi di andare dal frate il giorno dopo, lo stesso in cui Alhamar sarebbe partito per l’oasi. 112 Si erano incamminati allegramente nella frescura serale e Pietro, ormai innamorato cotto di Isabel, non faceva che decantarne la bellezza all’amico che lo ascoltava con una certa indulgenza. Ma che amara sorpresa li attendeva al loro arrivo nella piazzetta! I gradini davanti al portone erano gremiti di gente che parlottava concitata. Alcune donne piangevano con la testa bassa coperta dallo scialle. Giuseppe udì gli uomini discutere dicendo:” Qualcuno lo ha ucciso oppure è scivolato ed ha battuto la testa. Abbiamo perso un amico, Barnaba era uno di noi, capiva le nostre necessità, era come un fratello!” I due si fecero largo a forza di spallate e spintoni ed entrarono in chiesa. Videro che il cerusico, prontamente chiamato da Hector, scuoteva la testa sconsolato. Non c’era più niente da fare, sorella morte era venuta a prendersi l’umile frate. Hector sedeva sui gradini dell’altare vicino al corpo esanime dell’amico e protettore, si teneva la testa tra le mani e piangeva sconsolato. Chi avrebbe sostituito quel santo frate che aveva avuto una pazienza infinita ed una gran carità nei suoi riguardi? Il povero sagrestano si sentiva solo, abbandonato e nuovamente senza famiglia. Ricordava le parole rasserenanti di Barnaba, il suo sorriso cordiale, la sua sollecitudine ed il suo amore verso tutti, specialmente per i più deboli e derelitti. Chi mai avrebbe potuto sostituirlo e perché mai il Buon Dio lo aveva tolto così improvvisamente dalla scena di questo mondo? La costernazione di Pietro e Giuseppe divenne terrore. Che qualcuno avesse rubato il malloppo ed ucciso il frate buttandolo a terra? La perdita di liquidità li avrebbe fortemente penalizzati! Nonostante le circostanze luttuose ne sconsigliassero l’opportunità, i due si avvicinarono al sagrestano e, commentando l’accaduto, gli chiesero a bruciapelo se sapeva dove fratel Barnaba teneva la chiave dell’armadietto della sagrestia. Intanto il cerusico aveva osservato, voltato e rivoltato la salma, affermando, senza timor di smentite, che Barnaba non era stato ucciso né con arma da taglio e neppure con un corpo contundente, ma che probabilmente aveva 113 avuto un malore ed era caduto malamente battendo la testa contro il freddo marmo. Hector, che era vecchio e catarroso ma non stupido, ed a cui il frate aveva deputato la salvaguardia della somma, precedette i due amici in sagrestia dove consegnò loro il danaro. Rivolse loro uno sguardo implorante senza però chiedere nulla esplicitamente perché se ne vergognava. Ora che il frate non c’era più aveva assolutamente bisogno di qualcosa per vivere e non era certo che il successore di Barnaba lo avrebbe tenuto al suo servizio. Anche se il gruzzolo si era notevolmente rimpicciolito in opere di beneficenza, Pietro e Giuseppe non se la sentirono di deludere quel poveretto speranzoso e gli diedero una discreta somma. Hector l’accolse come una benedizione del cielo e si asciugò non solo le copiose lacrime di dolore ma anche quelle di gratitudine. Intanto era arrivato fratello Uberto che doveva comporre e benedire la salma, coadiuvato da altri due frati inviati subito dal priore di un grande monastero vicino Granada. Verificata la dipartita del confratello, gli chiuse gli occhi che erano rimasti sbarrati e gli incrociò le braccia sul petto prima che il rigor mortis glielo impedisse. Componendo pietosamente la salma si era accorto di una ferita sul fianco destro provocata non da un’arma, ma dal duro cilicio che il santo frate portava nascosto sotto un ruvido saio. “Un vero penitente, un uomo di Dio!”, pensò Uberto commosso. Era rimasto sconvolto per la sorpresa, lo credeva sì uomo devoto e pio, ma non avrebbe mai creduto che si macerasse la carne a quel modo. Spinto da quella scoperta, Uberto volle fare davanti a tutti coloro che affollavano la chiesa, non solo ai parrocchiani, ma anche ai molti curiosi, una profonda riflessione sulla brevità della vita. “ Quanto miserabile sarebbe il vivere per poco tempo nella prosperità, nei piaceri e negli agi di questo mondo e correre ogni giorni ad occhi chiusi ed in lettiga verso la perdizione! 114 La morte è sempre vicina, insidiosa e si acquatta per colpirci quando meno ce lo aspettiamo. Quanto è breve la vita umana che, con le sue lusinghe, ci fa rincorrere la felicità che invece abbiamo a portata di mano e che è solo in Dio amore. Vi scongiuro, svegliatevi amici, datevi da fare, aprite bene gli occhi, guardate il cielo e non perdete, per inseguire una momentanea illusione, il premio della beatitudine eterna! Preghiamo ora per l’anima di Barnaba, devoto fratello ed amico di tutti!” La predica, sincera e non preparata in precedenza, impressionò molto l’uditorio, rattristando l’animo di coloro che alle agiatezze ci tenevano, eccome! Giuseppe e Pietro furono molto commossi da quelle parole e vi meditarono sopra a lungo. Seguì la veglia funebre e le esequie del giorno appresso registrarono una grande affluenza di fedeli e non. 115 APPUNTAMENTO AL BUIO La sera era calda e l’aria immobile avvolgeva la reggia, la città con i suoi dintorni, le terrazze di palme ed i vecchi pozzi. La campana della chiesa, che era stata di Barnaba ed ora era retta da un nuovo frate non paragonabile neppure lontanamente al suo predecessore né come carisma, né come premura verso i parrocchiani, batteva rintocchi pigri e distanti. Pietro fu preso da un inspiegabile senso di tristezza e di sconforto che però scaccio subito. Il sole al tramonto emanava deboli raggi brunodorati e la calura andava lentamente attenuandosi. L’acqua di un ruscello che scorreva poco distante, quasi nascosto tra i cespugli, cantava gorgogliando la sua perenne melodia ed era la sola voce ad infrangere il silenzio. Quella era l’ora preferita da Pietro: piena di pace, odorosa di fiori. Pace che regnava intorno, ma non nel suo cuore e, mentre aspettava con trepidazione il momento di avviarsi al fatidico appuntamento, pregava per il suo buon esito. Preso nei lacci di un amore romantico e sincero per Margherite, non vedeva l’ora di incontrarla, di parlarle e fantasticava di un avvenire felice con lei. “ Devo avviarmi ora! La pergamena parla chiaro: il luogo è quel torrione lontano fatto di blocchi squadrati di pietra bianca e fredda, l’ora è quella del tramonto ed il punto preciso su cui dovrò fermarmi è quello da cui, alzando appena lo sguardo, si vedono due bifore in alto”. Si fece coraggio, uscì e procedette guardingo col coltello infilato nella cintola mormorando una breve preghiera al suo santo protettore, Pietro appunto! Andava avanti come un automa, fermandosi ogni tanto per guardare ora a 116 destra, ora a sinistra e talvolta volgendosi indietro Qualcuno poteva essere stato messo al corrente di tutto e quel qualcuno avrebbe potuto colpirlo alle spalle. Ma niente e nessuno! Solo fantasmi dettati da una fifa boia! Lo stavano osservando solo le ombre degli alberi e del fogliame, lo seguiva il concerto delle piccole creature notturne che popolavano il verde intorno. Si ricordò del nino e gli augurò buona caccia. Ed eccolo arrivato alla torre, rasente al muro e proprio sotto le bifore. Aspettava fermo impalato da un po’, innervosito dal ritardo e, quando ormai convinto di essere stato gabbato stava per andarsene, un’ombra tutta curva gli si avvicinò piano di lato. Era quella di una donna, una vecchia con un lungo velo che le avvolgeva le spalle e copriva il volto. Mentre Pietro avanzava di un passo verso di lei, la donna si chinò quasi a toccare con la faccia il suolo erboso e prese a tracciare un gesto circolare con la mano ossuta e, sempre tacendo, gli fece capire che là c’era l’ingresso alla torre. Pietro si chinò a sua volta e tirò con forza l’erba ed un alberello nano che erano finti e ricoprivano una grande botola, tonda e leggera da sollevare per mezzo di un anello posto al centro. Pietro la aprì con facilità, ma non potè vedere all’interno perché la luce della luna non bastava. Ipotizzò che si trattasse di una scala o di un passaggio che conduceva all’interno della torre fino in alto dove si aprivano le bifore. Intanto la vecchia si era sollevata di scatto rivelando un’agilità insolita per la sua età. Era pronta a sgaiottolare via ma Pietro, più lesto di lei, l’afferrò per braccia e spalle bloccandola. “Fermati, fermati, maledizione! Comprendi quello che ti sto dicendo? Non voglio farti del male, ma solo sapere! La regina è lassù? Chi c’è con lei?” La vecchia pronunciò lentamente un nome: Safyiah e gli fece capire che era sua figlia la giovane che serviva la prigioniera. Intanto continuava a divincolarsi con rabbia e cercava di colpire Pietro con calci sparati all’indietro. Solo dopo che l’uomo le ebbe messo in mano un sacchetto di monete tintinnanti, lei smise si scalciare e piagnucolare, afferrò tutta tremante il dono, 117 sbalordita, quasi incredula e, borbottando parole indecifrabili, si dileguò nella notte. Pietro richiuse lesto la botola e la ricoprì bene col verde. Si sentiva sollevato, felice, finalmente aveva visto, finalmente sapeva dove e come. Jacobbe gli aveva quindi predetto il vero, avrebbe portato a termine l’impresa! Non stava più nella pelle e, se avesse potuto, avrebbe gridato la sua gioia alle stelle. Corse verso casa e picchiò tanto forte alla parete di Giuseppe da buttarlo giù dal giaciglio su cui stava riposando pacifico. Lo accolse dentro casa e gli narrò tutto colorendo il racconto ed ingigantendo il proprio coraggio. Giuseppe, forse perché era ancora assonnato, si rivelò molto meno entusiasta dell’amico e lo calmò osservando in tono grave:” Sì, dovremmo brindare alla salute nostra e della regina, ed alla sua liberazione ma, per non guastare tutto, sarebbe meglio progettare alla svelta un buon piano facilmente attuabile. Il tempo stringe ed il sultano non tarderà a tornare. Parla alla tua fiamma! Sì,sì, parla ad Isabel o Margherite o come diavolo si chiama la ragazza e chiedile di contattare quella tal Safyiah che ci dica con precisione in quale camera è imprigionata la regina e la prepari psicologicamente a rivedere le figlie ed alla fuga! Mi sento molto responsabile del buon esito di questa chiamiamola “operazione” e più presto ne veniamo fuori, meglio sarà. Scusami se ti ho parlato molto duramente. Voglio solo dire “sbrighiamoci!”. Le notizie sono buone, ci danno coraggio e ci spingono ad agire con rapidità”. Le principesse furono felici di sapere che la loro mamma era viva e che le probabilità di liberarla erano buone. Zaida intonò con l’ud una melodia nuova che le sgorgava dal cuore come un canto di vittoria. 118 PIETRO ED ISABEL Pietro ed Isabel si erano già incontrati due volte. Il giorno seguente all’incontro di lui con la vecchia, sedevano su una panca in un angolo remoto del parco. Mancavano uno o due ore all’alba e la notte tiepida trascorreva tranquilla con la luna che rischiarava le cime degli alberi e l’acciottolato. Nessuno avrebbe notato l’assenza di Isabel dall’harem e lei sarebbe rientrata prima del sorger del sole. Se qualche curiosa le avesse chiesto dove aveva passato la notte, lei avrebbe inventato qualche scusa. Aveva pensato bene a quell’eventualità e ne aveva pronte molte. Aveva raccontato a Pietro la sua storia ed ora gli chiedeva di chiamarla Margherite, cioè con il suo vero nome. Nessuno l’aveva più chiamata così e quel nome suonava dolce sulle labbra del suo innamorato che la teneva stretta tra le braccia e la stringeva al cuore cullandola come una bambina. Pietro le aveva narrato solo una parte della sua vita, di come era scampato alla peste ed al naufragio ed anche del suo cocente dolore per aver perduto moglie e figlia. Margherite pensò bene di attendere prima di parlargli di Omar e della sua attività di spionaggio, Pietro invece le confidò subito le difficoltà che lui e Giuseppe dovevano affrontare per liberare la regina ripudiata e tenuta segregata dal sultano in una torre dell’Alhambra. Il cuore di Pietro iniziava a battere in una frenetica corsa quando pensava a Margherite ed il suo amore per lei cresceva ogni giorno di più. 119 Giuseppe aveva già capito che il motivo della permanenza di quella ragazza all’Alhambra non era certo l’amore per il sultano, c’era qualcosa che non gli quadrava nei modi di lei e dal disinteresse che mostrava nei confronti dei favori di Alhamar che la colmava di doni che lei palesemente disprezzava. Egli aveva già allertato Pietro di questa sua sensazione, ma al giovane tutto sembrava plausibile, anzi normalissimo, tanto era preso dalla passione per quella splendida creatura bionda. L’aveva vista una volta montare a cavallo, salda e fiera accanto al sultano che le faceva l’onore di accompagnarlo in alcune sue passeggiate a cavallo, cosa che non aveva mai permesso a nessuna donna che non fosse la regina. Isabel era adorabile, dolce amante e lo rallegrava cantandogli talvolta canzoni del suo paese d’origine. La voce melodiosa della ragazza era come il sussurro del vento, a volte come il suono del flauto o il tubare di una colomba. L’amicizia con Pietro, allacciata così per curiosità e calcolo, si trasformò presto in affetto e poi in amore anche per Margherite. Quando sedevano vicini Pietro le prendeva la testa tra le mani e respirava il profumo dei suoi capelli lisci come seta e della sua pelle color ambra. Guardandola negli occhi vi scorgeva un amore sincero. Si stava forse ingannando? No, non poteva crederlo! Era vero sentimento quello che lei gli dimostrava. Prima che Margherite rientrasse le posava sempre un bacio delicato sulla fronte ed uno sulle labbra su cui premeva con forza come a suggerle l’anima. Erano quelli i primi baci d’amore dopo tanta amarezza e solitudine! Si accorse con un certo timore di essere troppo innamorato di lei e che il suo cuore ardeva se solo l’aveva accanto; lei era diventata la sua speranza, la sua legge, la sua vita. Se manca l’esperienza dell’amore uomini e donne non possono raggiungere la pienezza del loro essere. Dopo la morte della moglie e della figlioletta Pietro aveva rifuggito l’amore come se fosse un ostacolo, un pericolo per la sua tranquillità. Lo sentiva come una forza avversa e non certo un bene, ragion per cui si era tenuto alla larga dalle belle fanciulle di Granada. 120 Ora, contemplando il viso di Margherite che gli parlava al cuore, Pietro pensava esattamente il contrario ed era lieto che un nuovo amore stesse sciogliendo le catene che lo legavano al passato. Spinto da un impulso irrefrenabile e senza pensarci neppure un attimo le chiese a bruciapelo:” Mi vorresti accanto a te per tutta la vita?” Margherite rispose prontamente tutta eccitata: “ Ora che ti ho incontrato non ti lascerò certo scappare! Sono pronta a seguirti ovunque andrai. Sposarmi ed avere dei figli è sempre stato il mio desiderio, ma prima dovremo lasciare questo luogo che mi incatena. Il sultano non avrà mai un erede da me, il suo seme non potrà germogliare. Per evitare una maternità sgradita ho spalmato le mie parti intime con un unguento portentoso che impedisce la procreazione. Non lo userò più quando sarò tua moglie per darti una prole numerosa e farti felice.” La ragazza era in vena di confidenze e pensò che fosse giusto confessare a Pietro anche il motivo del suo arrivo e della sua permanenza in quel luogo che odiava tanto. Gli disse che il suo compito era quello di passare al nemico dettagliate informazioni sui progetti del sultano, sull’equipaggiamento delle sue truppe e sugli ordigni di guerra a sua disposizione. Gli raccontò di Omar, finto amico di Alhamar ed alleato dei Francesi, che l’aveva ospitata a lungo nel suo vasto accampamento dei beduini del deserto. Aggiunse poi:” Ho molti amici ed informatori insediati a palazzo che mi aiutano e che sono ben remunerati. Dispongo di piccioni viaggiatori veloci e ben addestrati per inviare messaggi importanti e riceverne. Ma perché mi guardi così? Ti sembra impossibile che una donna possa essere una spia? Mi reputi forse meschina e spregevole per questo? Devo pur vivere, caro Pietro! Non ho la fortuna d’aver un lavoro onesto e ben remunerato come il tuo. Spero solo in un avvenire di pace insieme a te e lontano da qui. Qualunque cosa tu pensi di me, sappi che ti voglio un gran bene!” Margherite capiva d’aver deluso Pietro, ma voleva essere sincera fino in fondo e dirgli tutta la verità prima che la scoprisse da solo o che ne venisse a conoscenza tramite altri. 121 Dobbiamo dire che Pietro era rimasto davvero male nell’udire dalla bocca della fanciulla quello che Giuseppe sospettava e da cui lo aveva messo in guardia. Gli dispiaceva che Margherite fosse costretta a tradire l’ospitalità del sultano e temeva che venisse scoperta e giustiziata senza tanti complimenti o ancor peggio torturata ed amputata degli arti prima di essere uccisa. Riflettendo però, dovette ammettere che quello che poteva essere un lato oscuro e negativo della personalità della ragazza, gli sarebbe tornato utile nell’ardua impresa di liberare la regina. Fu quindi felice quando Margherite gli assicurò che avrebbe aiutato sia lui che Giuseppe in ogni modo possibile. Lei aveva sempre covato un odio feroce verso chi teneva prigioniere donne indifese ed ingiustamente accusate per vendetta, venduti poveri schiavi in catene, sfruttati bambini ed uccisi vecchi inermi. Era anche certa che ad Alhamar non importava più niente della regina, ma che la odiava ancora tanto da farla marcire reclusa e lontana da tutti fino alla morte. Sospirando aggiunse:” Se sapete dov’è rinchiusa, sarà un giochetto da ragazzi liberarla. Si spera non sia stata portata in qualche posto inaccessibile lontano dalla reggia e dalla città. E’ piantonata da guardie armate oppure e custodita e servita da una serva fedele? Cosa sapete? Siate comunque molto prudenti, Alhamar non gradisce certo essere gabbato!” Quando Pietro le disse che era rinchiusa nella torre ed accudita dalla serva Safyiah, Margherite quasi esplodeva dalla gioia! Avrebbe organizzato tutto, la cosa poteva ritenersi fatta! Abbracciò con trasporto Pietro e gli raccomandò di ripresentarsi il giorno dopo alla stessa ora, intanto lei avrebbe ideato un piano semplice e da attuare alla svelta. 122 IL CALIFFO DI KARABAKH Prima di presentarvi il califfo di Karabakh, dobbiamo parlare brevemente di Kunar il quale, col pretesto di star male, aveva chiesto ed ottenuto dal sultano che lo esentasse dal partire con lui. Alhamar, che lo sapeva fedele, se ne dolse, ma lo lasciò tranquillo a palazzo. Il motivo che spingeva il gigante crudele a starsene rintanato all’Alhambra era l’odio verso Taqi e Rashid, le guardie delle principesse. Dal giorno in cui i due erano stati posti alla sorveglianza delle figlie del sultano, Kunar li aveva presi in antipatia. Era certo che fossero molto ben remunerati, certamente più di quanto lo era lui e poi, tutto quello stare attaccati alle gonne delle ragazze, tutte quelle lezioni di ud, le gaie conversazioni, le risate, le uscite con loro nel giardino, tutto gli dava il voltastomaco. L’antipatia si tramutò in odio e nel desiderio di eliminarli al più presto. Sospettava che fossero delle spie anche se non ne era certo e non poteva provarlo. Aveva giurato a se stesso che, alla prima occasione favorevole, li avrebbe uccisi. E l’occasione venne con la partenza del sultano. Nessuno badò a Kunar, nessuno lo cercò, anzi i pochi rimasti erano contenti di non averlo fra i piedi, ma Kunar c’era ed era in agguato. Marguerite apprezzava molto le qualità militari cioè obbedienza, puntualità e precisione, si fidava del suo intuito ed era solita pensare con la propria testa e contare sulle proprie forze. Per attuare subito il suo piano le occorreva però un valido aiuto esterno e, pensa che ti ripensa, le venne in mente un’idea brillante che le avrebbe facilitato di molto le cose. Mandò a mezzo piccione viaggiatore e firmandosi con il nome Isabel, con cui era conosciuta dai più, una pressante richiesta d’aiuto ad un vecchio amico, lo sceicco Nesib di Karabakh, l’uomo straricco e potente che risiedeva vicino ad 123 Algeri in un lussuoso castello fortificato, simile ad una roccaforte, che si diceva fosse inespugnabile. Lo sceicco, noto per lo straordinario potere carismatico che faceva già di lui una leggenda, esercitava un gran fascino ed aveva un’ indubbia forza d’attrazione anche sulla nobiltà musulmana di Granada e dintorni ed era più temuto che amato. Il suo coraggio e la sua energia erano risapute e non vi era stata mai nessuna avventura troppo pericolosa per lui, né aveva mai fallito nelle sue imprese. Era fisicamente un uomo splendido, non troppo alto, né troppo grasso e straordinariamente forte ed allenato all’uso delle armi. Si diceva che potesse sollevare, in ginocchio e con le braccia tese, due uomini e poi rialzarsi. Balle? Non si può mai dire, a quel tempo di uomini forzuti ce n’erano tanti! Saltava dritto in sella al suo purosangue con grande agilità anche in corsa, otteneva tutto quello che si prefiggeva, era molto testardo sia nel bene che nel male, molto sicuro si sé ed anche impertinente, esercitava un certo fascino sulle donne che se lo contendevano. Molti anni prima aveva conosciuto la regina Aisha ad un ricevimento tenuto dal sultano ed era rimasto incantato dalla bellezza di quella donna ed al contempo turbato dalla tristezza che traspariva dal suo volto. Teneva spesso la testa bassa e, seduta in un angolo con una coppa in mano ed alcune leccornie su un piatto, faceva la bella statuina invece che la padrona di casa. Capì che lei si teneva in disparte perché odiava il sultano e spesso lo guardava di sottecchi con disprezzo. Ora veniva informato da Isabel che il sultano la teneva segregata da tempo e, dopo aver garantito il suo aiuto, comandò ai suoi sottoposti di stanza in una piccola località vicino Granada, di inviare cavalli veloci e cavalieri armati quanti ne bastavano per liberare Aisha approfittando dell’assenza del sultano. Isabel fu avvertita da un garzone fidato che, da lì a due notti, cavalieri armati di tutto punto si sarebbero trovati fuori dalle pesanti porte del castello dove avrebbero lasciato in custodia i loro cavalli e che uomini prezzolati li avrebbero aiutati ad introdursi all’interno dell’Alhambra. 124 Chiunque avrebbe chiuso gli occhi e rischiato davanti ad un bel gruzzolo di monete, cosa che quelli fecero ben volentieri. IL CORAGGIO DI AISHA Il sultano aveva preteso da Aisha che sputasse sopra il cadavere martoriato del suo Zaal e lei era tanto furiosa che le sembrava di poter esplodere da un momento all’altro mandando in frantumi tutta l’Alhambra e l’apparato ipocrita che circondava Alhamar. Alzò il viso pieno di lacrime che teneva chinato poi, scattando in avanti, si andò a parare di fronte al sultano e, guardandolo con occhi pieni d’odio e di sfida, “ Bastardo!” sibilò e “Maledetto!” “ Non sputerò mai su di lui, ma sputo su di te!” e gli sputò contro. Per tutta risposta il sovrano la fece mettere in catene e, dopo averle bendato personalmente gli occhi, la fece battere selvaggiamente in sua presenza. Aisha resse alla ferocia degli aguzzini, pensava infatti che ormai la sua povera vita non aveva più alcun senso. Come rimpiazzare la tenerezza e l’affetto che l’uomo amato le dava? Come poteva dimenticarlo? Fu fatta vestire di ruvido sacco ed allontanata dalle figlie ancora ragazzine e dalla reggia, in breve da tutta tutte le gioie dell’esistenza serena ed agiata che aveva menato fino a quel momento. “ Con rivedrai mai più le tue care figlie e non giacerai mai più con me. Sarai rinchiusa finchè io vorrò e dimenticata per sempre”, disse il sultano con sarcasmo. 125 Aisha, il cui odio verso il sultano le montava ogni minuto di più nel cuore, osò rispondere senza tentennamenti: “ Risparmiatevi le minacce! Solo un verme può rivolgersi ad una donna in tal modo! Sì, certo, mi dichiaro colpevole, ma tutti gli anni passati al vostro fianco non valgono certo i brevi anni trascorsi con colui che hai fatto trucidare barbaramente. Ripeto con maggior forza:”Sii Maledetto!” Suggellando con quelle parole la sua condanna, fu trascinata fino in cima alla torre, gettata tutta livida, con gli occhi tumefatti, i capelli scarmigliati ed una gamba ferita, su un giaciglio in una camera angusta e con poca aria e luce. Poi le guardie chiusero la porta con il chiavistello e se ne andarono. Il male fisico che Aisha provava era nulla a confronto del dolore per l’umiliazione subita e lo strazio che sentiva nel cuore; in un solo giorno aveva perso le figlie, il suo amato e la libertà. Pianse amaramente per ore poi, sopraffatta dalla stanchezza, si addormentò in preda ad un sonno agitato e pieno d’incubi. Quando si svegliò non si rese assolutamente conto di che ora fosse. Riuscì ad aprire piano il solo occhio sinistro, operazione che le causò un dolore atroce e realizzò che era giorno dato che una lama di luce, quella del sole e non della luna, filtrava debolmente dalla bifora. Girandosi su un fianco sul suo giaciglio, realizzò che il suo carcere era una stanza angusta con pareti nude ed umide, un tavolo ed una sedia di legno sgangherata. Niente specchio, niente acqua, avrebbe dovuto fare i suoi bisogni dentro un buco che si apriva in un angolo del pavimento posto che le avessero portato da mangiare e da bere. Nutrirsi era l’ultimo suo pensiero, aveva lo stomaco chiuso ed un cattivo sapore di bile in bocca. Cosa le importava ora morire di fame? Quello che la deprimeva era invece il pensiero di morire sola e senza conforto alcuno. Pensò che fosse meglio non agitarsi, ma dormire, continuare a dormire, fare scorrere il tempo, pregare Allah misericordioso che qualcuno l’aiutasse! L’aiuto venne nel momento in cui il Gran Visir fece notare al sultano, che era anche superstizioso, che Aisha lo aveva maledetto e che quella maledizione sarebbe probabilmente ricaduta su di lui, sul suo regno e sulle sue imprese. Di 126 solito le maledizioni scagliate dai condannati sortivano un effetto rapido e funzionavano bene, quindi sarebbe stato opportuno, curare, nutrire e tenere in vita la regina per stornare e vanificare la iattura. All’inizio Alhamar mandò il visir a farsi friggere, lo umiliò, strapazzò, gli inveì contro con tutto il veleno che aveva in corpo, poi si calmò, ci ripensò e disse che forse aveva ragione. Fece chiamare un serva quindicenne di nome Safyiah, figlia di una vedova ebrea e le disse:” Da oggi dovrai prenderti cura della regina che ho ripudiato ed imprigionato. Salirai sulla torre prima dell’alba e lascerai la sua stanza dopo l’imbrunire. Bada a non farti notare da nessuno, nessuno deve saperlo! La torre la conosci già! Portale acqua, viveri, indumenti puliti e gli unguenti che la guaritrice ti consegnerà. Curala bene perché, se mai dovesse morire, pagherai la tua negligenza con la vita. Ti verrà spiegato bene come entrare nella torre e ti verranno consegnate anche due chiavi: la prima apre la porta della grande sala di sotto, quella più piccola è la chiave della cella. Conservale gelosamente perché non ne riceverai altre nel caso tu dovessi perderle. Sarai esentata dai lavori di pulizia nelle cucine e non confidare a nessuno, tranne che a tua madre, che hai un incarico importante”. Safyiah, tremante come una foglia e seriamente preoccupata, dovette accettare. Le furono consegnate quelle odiate chiavi che per anni avrebbero negato anche a lei una vita normale e la libertà. Dovette imparare a prendersi cura della poveretta e, col tempo, le si affezionò molto perché Aisha si comportava con gentilezza verso di lei. Se la regina fosse morta, non avrebbe dato al sultano il piacere di farla giustiziare dal boia, ma sarebbe fuggita nottetempo il più lontano possibile da quel luogo lugubre, infestato dagli spiriti dei carcerati disperati che non avevano avuto la possibilità di sopravvivere e si diceva che ne fossero morti molti tra quelle mura. Le prime notti trascorse in quella stanza angusta erano state per Aisha lunghe ed angosciose. Sentiva spesso lugubri lamenti, pianti soffocati, altre volte 127 grida, ma non vedeva nessuno e si convinse che fossero le anime dei giustiziati che non trovavano pace. Aveva freddo dentro al cuore, nelle viscere e nelle ossa doloranti. Pensava che non sarebbe mai riuscita a scaldarsi e che quel gelo l’avrebbe accompagnata fino alla tomba. Avrebbe voluto alzasi, ma non riusciva a muovere un passo e rimaneva stesa sul giaciglio, come inchiodata ad esso da una forza sovrumana. Tutto cambiò quando un giorno, prima dell’alba, udì echeggiare sul pavimento di pietra dei passi che si avvicinavano. Qualcuno stava salendo per le strette scale che conducevano alla stanza dove lei era rinchiusa. Trasalì per lo spavento, pensava infatti che le guardie fossero venute a prelevarla per consegnarla al carnefice, ma la porta cigolò sotto la spinta leggera di una mano bruna. Un braccio della visitatrice si introdusse nel vano reggendo a stento un canestro troppo grande e pesante per lei. Aisha stentò molto a mettere a fuoco la figura snella che le si stava avvicinando con cautela, perché i suoi occhi tumefatti erano ancora gonfi e semichiusi. Posato il fardello Safyiah si appressò al giaciglio sussurrando:” Non abbiate timore! Da oggi sono al vostro servizio come cameriera personale”. La giovinetta si rivelò all’altezza della situazione, confortò la regina, le curò piaghe e tumefazioni, la lavò ed imboccò come fosse una bambina. Col passar dei giorni la poveretta riacquistò lentamente le forze ed infine guarì. Safyiah cercava di alleviarle la solitudine raccontandole i pettegolezzi che correvano fuori dalle mura della torre e cantava per lei canzoni nostalgiche ed appassionate degli ebrei sefarditi, le teneva quindi molta compagnia e si sforzava di esaudire i semplici desideri della donna. Era già passato un anno quando la serva arrivò con un prezioso corano ed una piccola arpa da viaggio come quella dei cantastorie e menestrelli di professione. Quelli erano doni del visir che si preoccupava molto dell’umore e della salute della poveretta e che stava tentando in tutti i modi di sventarne la morte. La musica e le preghiere del Corano tennero occupata la mente di Aisha per un bel po’ di tempo e sembrò che la donna avesse recuperato il bel sorriso di un tempo. Poi però perse interesse per quei passatempi e ripiombò 128 nell’apatia. Non parlava più, non rispondeva alle domande della serva e dormiva la maggior parte del tempo. Ciò rendeva molto triste Safyiah che si avviava a divenire una bella ventenne con tutti i desideri e le aspirazioni proprie della sua età: un fidanzato, il matrimonio e dei figli che la tirannia del sultano continuava a precluderle ed aveva incominciato ad odiarlo con tutto il cuore. “ Se non uscirò da qui, se dovrò trascorrere tutta la mia giovinezza tra queste mura, credo che impazzirò!” Cominciò quindi a progettare un piano per fuggire. Ciò che la tratteneva ancora dall’attuarlo era il pensiero che Alhamar se la sarebbe presa con sua madre che non c’entrava nulla. Per ridestare l’attenzione di Aisha, la ragazza chiese alla mamma di acquistare del materiale per dipingere, forse così l’attenzione della reclusa si sarebbe ridestata, non riuscì invece a risollevarla dall’apatia che si era impossessata di lei. La poveretta aveva la vista indebolita, le tremavano le mani e faceva una gran fatica a tracciare segni puliti senza sbavature. Aisha disegnava sempre le stesse cose: scheletri di alberi, soli senza raggi e lune senza luce, dune, colline, rocce aguzze, tutti aspetti tristi e spenti della natura, suggeriti dalla depressione. Safyiah fingeva comunque di interessarsi alle sue creazioni, batteva le mani e diceva che erano bellissime. Aisha aveva preso l’abitudine di alzarsi prima dell’alba quando la serva se ne andava chiudendo a chiave la porta e la stella del mattino riluceva in tutto il suo splendore. Per molte sere aveva sentito in lontananza il suono di un ud e si era stesa sul giaciglio ad assaporarne la melodia, sapendo, perché glielo aveva detto Safyiah, che era Zaida a suonarlo e lo suonava molto bene. Poi un giorno, guardando dalle bifore e scorgendo un lembo di cielo azzurro, il suo cuore affranto si riempì di una strana speranza che cresceva sempre di più tanto da diventare la certezza della liberazione prossima ad arrivare. La magica eccitazione di Aisha aveva contagiato anche Safyiah che credeva nei sogni. La ragazza aveva sognato dei cavalieri su neri cavalli alati che entravano attraverso le bifore della torre e liberavano sia lei che la regina. Sì,sì, ci credeva! Avrebbero lasciato la torre e molto, molto presto! 129 ECCO IL PIANO! I cavalieri sarebbero passati inosservati dal portone rimasto opportunamente non sorvegliato dalle guardie. Taqi, Rashid e Pietro, muniti di torce, i cavalieri del califfo, Margherite nonché la madre di Safyiah, si sarebbero introdotti all’interno della torre attraverso la botola ed avrebbero raggiunto la stanza liberando sia Aisha che la serva. Una volta fuori dall’Alhambra, la serva e sua madre avrebbero trovato ad attenderle un carretto tirato da una bestia da soma e guidato da un contadino loro amico che le avrebbe condotte dove loro avessero voluto. A Pietro dispiacque molto l’affermazione perentoria di Giuseppe:” Non lascerò mai né il mio lavoro, né i miei operai e neppure Kalima. Sono troppo legato a questo posto, a questa vita e poi mi accorgo che sto invecchiando in fretta. Ce la farete anche senza di me e vi auguro buona fortuna e tanta felicità, prosperità e pace, soprattutto pace! Tu Pietro sarai sempre nel mio cuore, sei stato e sarai sempre un grande amico. Non dimenticarmi! Se per caso dovessi tornare qui anche fra degli anni, vieni a trovarmi e ne sarò felice!” Chiuse così il discorso e non volle tornare sulla sua decisione molto sofferta, ma saggia. Era la sera del loro incontro e Pietro vide giungere Margherite bella, col corpo snello e le movenze aggraziate di sempre e gli parve la donna più desiderabile del mondo. Lei si affrettò a raggiungerlo e lui le sorrise dicendo:” Sei la persona più adorabile che io conosca!” Risalendo a passi lenti il viale delle palme, Marguerite confidò con amarezza a Pietro che sarebbe stata felice se il sultano non fosse tornato mai più o se fosse tornato cadavere. Le premesse per uno scontro armato con le truppe 130 cristiane c’erano tutte anche se non era quello il momento in cui gli eserciti si sarebbero affrontati. Lei aveva informato Omar di quello che aveva appreso sulle mosse di Alhamar, sul numero dei soldati e sulle armi di cui disponevano, di più non avrebbe potuto fare! Aveva provveduto a comprare il silenzio di molte guardie notturne che solitamente circolavano sui bastioni e sorvegliavano le porte garantendo così un’azione rapida e poi la fuga. Non gli disse però chi le avrebbe dato tutto l’aiuto possibile, poiché il Califfo Nesib non voleva pubblicità e si sarebbe infuriato se lei avesse fatto il suo nome. Per fortuna Pietro non era curioso e sorvolò sui particolari. Chiese invece quale sarebbe stato lo svolgimento del piano cui avrebbero dovuto prendere parte attiva e Margherite gli spiegò tutto dettagliatamente. L’aria fredda della notte, le stelle che somigliavano a diamanti sospesi in alto, le grida degli uccelli cacciatori ed il frusciare setoso dei pipistrelli, la maestosa mole dell’Alhambra, contribuivano a rendere quei momenti sospesi nel tempo ed indimenticabili. Margherite si fermò e si appoggiò al tronco di un albero respirando a pieni polmoni la frescura prima di riprendere a parlare:” I piccioni viaggiatori hanno svolto egregiamente il loro compito e tutti i dispacci importanti sono stati recapitati in tempo utile! Anche i Veneziani tuoi amici mi hanno dato una mano, non li avrei mai creduti tanto generosi, tanto pronti a collaborare!” Pietro l’abbracciò con tenerezza accarezzandole i bei capelli biondi che profumavano di loto e gelsomino. Il suo abito bianco e la bella cintura color oro rilucevano al lume della luna. Mentre Pietro sospirava, la ragazza parlò lentamente levando al cielo le braccia nude. La sua voce dolce e vellutata sembrava quella della fata buona delle favole. “ Guarda quante stelle in cielo, mi ricordo quando le contemplavo sdraiata sulla sabbia del deserto. Come mi manca ora la libertà! Non mi spaventavano né il sole cocente, né la dune infuocate e neppure l’immensa distesa di sabbia! Amavo stare all’aria aperta anche quando il calore era forte, volevo perlustrare ogni possibile sentiero e pendio vicino al campo e 131 nessuno mi sorvegliava o seguiva perché sapevano che sarei tornata. Pensi che tra poco potremo vivere lontano da qui per sempre? Pensi che ce la faremo?” Pietro le rispose che credeva fermamente nel loro amore e che sarebbero partiti insieme mentre i suoi occhi grigioverde luccicavano e cambiavano d’espressione col mutare del suo stato d’animo. Era certo che ce l’avrebbero fatta, ma dovevano essere coraggiosi. In quel momento aveva il viso atteggiato ad un’espressione fiduciosa e beata. Tornando indietro verso le rispettive dimore incontrarono la cagnolina che Giuseppe ospitava amorevolmente e che gli faceva tanta compagnia. Sbucando da dietro una siepe, dove aveva fatto pipì, si era avvicinata a Margherite, l’aveva annusata col musetto umido ed appuntito mentre lei le andava lisciando il pelo corto e morbido e la coda folta. Gli occhi nocciola di Vispa erano adoranti e scodinzolava felice. Il capomastro l’aveva comprata, pagandola bene, da un fruttivendolo che la teneva vicino al carretto perché azzannasse al polpaccio e tenesse bloccati eventuali ladri. Era una cagnolina coraggiosa, dai riflessi pronti e di ladruncoli ne aveva bloccati parecchi. Quando Giuseppe ritornava stanco dal lavoro e a volte anche preoccupato, Vispa gli faceva le feste, guaiva ed uggiolava per la gran felicità. Non si calmava se non quando lui l’aveva accarezzata dolcemente e le aveva grattato le orecchie! Parlando e parlando, ripassando il piano, accordandosi per bene su tutto, il tempo era volato. Margherite posò un bacio morbido sulle labbra di un Pietro felice, pago dell’amore che lei gli dimostrava. Non la trattenne più del dovuto perché conscio che ogni ritardo o mossa sbagliata potevano insospettire le abitanti dell’harem, molte delle quali erano malevole, ciarliere, curiose e gelose. “ Tra due notti alla torre e all’ora che tu sai! Chi arriva prima deve attendere gli altri nascosto nell’ombra e massima prudenza, non possiamo sbagliare! Non dimenticare di portare con te il coltello affilato ed i due sacchetti col danaro e 132 naturalmente qualche indumento di ricambio. Io farò altrettanto!” Accennando poi un breve saluto si dileguò. GIUSEPPE E KALIMA Anche Giuseppe si era innamorato. Non avrebbe mai creduto possibile d’affezionarsi tanto a Kalima che all’inizio gli era sembrata bruttina, insignificante ed anche un po’sgraziata, poi aveva imparato a volerle un gran bene per la sua generosità ed indiscussa fedeltà. Appena poteva sgaiottolare fuori, lei correva da lui, gli portava il cibo migliore e, senza dare nell’occhio, gli lavava i panni. Gli preparava dolci particolari come quello fatto con farina selvatica mischiata a latte ed a datteri che, cotto a puntino, era veramente squisito. Quando Giuseppe si complimentava con lei per le pietanze ben riuscite, arrossiva tutta andando in solluchero. Si può dire che quella donna gli rendeva amabile la vita ed anche il lavoro, lo accontentava sempre, cosa non certo facile per un tipo come lui preciso, metodico e puntiglioso. Non avrebbe abbandonato Kalima, cui era grato per tutte le informazioni che lui e Pietro avevano ricevuto, neppure se gli avessero offerto tutto l’oro del mondo. L’amore di quella donna non più giovane era tutto quello che gli restava e lo compensava largamente di tanti sacrifici fatti. Margherite(Isabel) aveva fatto riferire a Safyiah l’ordine di rimanere notte e giorno insieme ad Aisha e di lasciare aperta sia la porta della sala al piano basso che quella della camera che la teneva prigioniera. Doveva preparare 133 anche poche cose essenziali: danaro, biancheria di ricambio, e tutto ciò che di utile si poteva portare in un fagotto non ingombrante. La informò, tramite la madre, che mancava poco alla liberazione della regina La cameriera doveva già preparare psicologicamente Aisha e dirle che tra breve avrebbe rivisto le principesse e sarebbe partita insieme a loro. Safyiah non avrebbe creduto a quelle parole se non le fossero state dette dalla madre e se non si fosse ricordata dello strano sogno che aveva fatto, quindi seguì a puntino le istruzioni ricevute e rimase in attesa piena di paura e perplessità. Doveva comunque dimostrarsi coraggiosa per rincuorare la regina come aveva fatto in tante occasioni nel passato. La città di Granada si svegliava ancor prima del sorgere del sole che veniva salutato dalla preghiera dei muezzin. Il mercato cominciava ad animarsi e le donne esperte nell’arte di truccare la bilancia si davano un gran daffare ad esporre la loro merce: carne, pesce, vino, olio, una gran varietà di ortaggi, , dolci, frutta fresca, spezie, profumi, abiti, scialli, babbucce, sandali. Le massaie mercanteggiavano tirando sul prezzo ben sapendo che le venditrici lo rincaravano per poi praticare uno sconto irrisorio. Dalla piazzetta, attraverso la porta dei Sette Pavimenti, si accedeva a tutto lo spazio urbano chiamato Medina, attraversato dalla Calle Real Alta e gremito di edifici: semplici abitazioni, laboratori di artigiani, uffici amministrativi, grandi case e palazzi nobiliari protetti da muri di calce bianca, rosa e rosso vermiglio. Detta porta era una delle più grandi e si diceva che nei sotterranei nascondesse un favoloso tesoro. La Medina era chiassosa ed il suo frenetico ritmo quotidiano metteva allegria. Era bello percorrere la via principale ed incontrare scolari con le loro tavolette sotto il braccio o sulla testa. Ora che Alhamar era partito con il grosso della guarnigione, pochi soldati erano rimasti a difesa delle torri d’osservazione che costeggiavano il perimetro dell’Alhambra. IL Barrio Castrense, dove vivevano i soldati d’elite del sultano e quelli che proteggevano l’Alhambra e la sua strada principale con case, botteghe, silos, 134 magazzini, forni e prigioni, i bagni, il deposito dell’acqua che li alimentava, era quasi sguarnito di difesa. La Torre dell’Omaggio, punto strategico di rifugio dentro la fortezza e che si poteva difendere meglio dagli attacchi dei nemici, sembrava desolata. Da essa, costituita da sei piani, i soldati sorvegliavano la città ed il territorio circostante. Era in questa torre, fornita di una piccola abitazione di quattro stanze, che Alhamar( Il Magnifico) alloggiava prima della partenza per le sue imprese. Partendo egli era solito voltarsi verso la costruzione e salutarla pensando che forse non l’avrebbe più rivista. Perché i Francesi non avevano colto l’occasione propizia per attaccare in forze la fortezza? Molto semplice: Il traditore Omar, tradito a sua volta da una spia del sultano, era stato pugnalato alla schiena nella sua tenda e le truppe si erano trovate disorientate senza una guida. Pochi giorni dopo era stato nominato loro capo il berbero Kerfer che era di carattere opposto al suo predecessore. Cauto, grande nemico della cristianità e fedele al sultano non si sarebbe mai sognato di tradire il popolo musulmano, ragion per cui Granada e l’Alhambra rimasero indisturbate e questa fu una vera fortuna per i fuggiaschi. 135 EPILOGO Arrivò presto il giorno cruciale e sulle spalle di Pietro e Margherite gravava un rischio, quello di perdere la vita o di venir allontanati l’uno dall’altra. Cercarono di scacciare quel pensiero angoscioso concentrandosi sull’azione. Margherite aveva preparato un fagotto leggero con un vestito, un paio di sandali, qualche gioiello di valore ricevuto in dono dal sultano e che voleva vendere, un po’ di danaro. Per calmare l’agitazione che si stava impadronendo di lei, si mise ad osservare un sicomoro che profumava come il miele. La incantavano le sue foglie color turchese e la sua scorza liscia come maiolica. Quando era piccola la mamma le diceva che l’albero aveva un’anima tenera ed un frutto rosso come il rubino. Non lontano dal sicomoro crescevano palme da datteri con le teste al sole ed i piedi nell’acqua formando una barriera vegetale contro il vento che spesso soffiava forte. Diventavano centenarie ed in autunno offrivano con dovizia i loro frutti squisiti. Tutte quelle palme erano modelli di generosità, infatti ogni parte dell’albero era utile all’uomo. Il legno serviva per la costruzione di mobili e le fibre per fabbricare stuoie e sandali, le foglie coprivano i viottoli mantenendoli freschi. Anche Pietro stava vivendo momenti di grande incertezza ed era agitato. Pensò di dover pregare e pregare molto per potersi sentire meglio ed acquistare coraggio. Anche quella mattina la scimmietta Re, mascotte delle concubine del sultano, saltava allegra da un albero all’altro del parco, infatti era libera di starsene seduta sul suo ramo preferito o di girare qua e là. Qualche odalisca la viziava 136 dandole noccioline, allora lei le saltava su una spalla ed aspettava di ricevere qualche carezza. Aveva anche il vizio di tirare i capelli alle donne, occupazione che la divertiva moltissimo, ma che mandava in bestia quelle che portavano qualche ciocca finta. La scimmia, che aveva il pelo rossiccio screziato di verde, era comunque amata dai più. L’unico personaggio che non poteva sopportarla ed aveva giurato di sopprimerla, era il nubiano che portava il becchime agli uccelli esotici rinchiusi nella gigantesca voliera del sultano. Re gli grattava la testa a tradimento fino a farla sanguinare e gli aveva anche morso un orecchio. Doveva certo trattarsi di antipatia reciproca! “ Perfido, stupido animale!” sbraitava l’uomo cercando d’afferrarla per la coda e di colpirla. Tutto inutile, lei gli si aggrappava al collo come per soffocarlo poi, allentata la presa, saltava sul ramo di un albero e gli lanciava contro un grido acuto e canzonatorio scoprendo i denti aguzzi. Un giorno o l’altro sarebbe finita male se l’uomo non avesse finalmente deciso di cambiare strada facendo un giro lunghissimo solo per poter consegnare il cibo al guardiano della voliera. Margherita aveva spesso osservato la scenetta divertendosi un mondo, ma quel giorno nulla riusciva a distrarla e le pareva che il tempo non passasse mai. Calò la sera e con le ombre la tensione, chissà perché, s’allentò. Solo Aisha continuava a misurare la stanza avanti ed indietro con passo incerto, Margherite aspettava il segnale convenuto, un fischio lanciato da Rashid, Pietro si stava assicurando il coltello alla cintola e sistemando il danaro nella cintura che nascondeva una lunga tasca di morbida pelle con l’apertura nascosta dal fermaglio. L’interno della cintura era stato diviso per comodità in tre scomparti in ognuno dei quali vi aveva introdotto un sacchetto di monete. Avrebbe anche preparato un fagottino con indumenti di ricambio, tutta roba leggera da trasportare. Anche Safyiah aveva preparato due fagotti, uno per la Aisha ed uno per sé e li aveva sistemati in un angolo vicino alla porta. Vedendo la regina agitarsi, la 137 confortava dicendo: “ Ormai è ora, tra poco saremo fuori di qui. Non perdete la calma! Andrà tutto liscio e saremo nuovamente felici!” Il carretto che doveva trasportare Safyiah e la madre era pronto e nascosto in un luogo vicino alle porte. Il pianale del veicolo era stato pulito perché coperto di sporcizia e foglie e vi avevano steso sopra pezzi di sacco su cui le donne si sarebbero sedute comodamente. Quella notte il chiaror della luna era coperto da dense nubi, cosa che permise ai cavalieri dai neri mantelli di procedere invisibili nell’oscurità. Quelli erano i cavalieri mandati dal califfo, armati di un’ascia pesante e di una daga temibile, molto ben informati sul da farsi, coraggiosi e guidati da Rashid e Taqi. Kunar non aveva ancora scorto il gruppo e si teneva pronto su una torretta con arco e frecce, prima o poi li avrebbe beccati anche se avesse dovuto rimanere sveglio in agguato per intere notti. Non voleva uscire allo scoperto per timore d’esser visto e rimaneva rintanato là in alto. I cavalli erano già stati affidati agli stallieri ben ricompensati che li avrebbero foraggiati, abbeverati e fatti riposare per poi tenerli pronti per i fuggitivi. Giunti tutti sotto la torre, Pietro aprì la botola nascosta e scesero nel ventre buio tramite una scala di pietra, quella di cui Safyiah si serviva ogni santo giorno. I muri erano sgradevolmente umidi ed odoravano di muffa, i gradini erano scivolosi ed incrinati. Con le torce in mano sbucarono in uno stretto corridoio e, attraverso la porta lasciata intenzionalmente aperta dalla serva, entrarono dentro una sala sorretta da colonnine con fregi fioriti dai colori vivaci che, al chiaror delle fiamme guizzanti, sembravano belle danzatrici. In mezzo alla sala c’era un tempietto greco con un piccolo stagno la cui acqua era lambita dalle foglie di un salice e, meraviglia delle meraviglie, vi crescevano ranuncoli e fiordalisi. Girando a sinistra, non c’era infatti altra via da seguire, trovarono una scala più agevole che saliva fino ad una saletta riccamente scolpita con una vegetazione in legno dagli intrecci vertiginosi, con volute, tortiglioni, radici, foglie e fiori a formare un finto regno vegetale. 138 Salirono ancora per un’ultima rampa, che sembrò loro interminabile, e giunsero in cima. Un tenue bagliore proveniente da una porta aperta li guidò verso la camera squallida dove Aisha era rinchiusa da molto tempo. Entrarono piano per non spaventare la regina che, immersa nei suoi pensieri, sedeva con le braccia intrecciate ed il capo chino sul tavolo. Non li vide subito, ma intuì la presenza di altri oltre quella della serva. Alzò il viso ed urlò vedendo ombre scure venire avanti. La poveretta ci vedeva pochissimo e, solo quando la luce di tante torce venne ad illuminare quel tugurio, si avvide delle tre giovani dall’aspetto familiare e le riconobbe. Credeva d’essere vittima di un’allucinazione e, solo quando le figlie le si avvicinarono e l’abbracciarono e baciarono, si rese conto che tutto era realtà, che erano venute per liberarla. Mentre le tre giovani le sorridevano felici, cominciò a singhiozzare ed a gemere da far pietà. “ Mamma, mamma, dopo tanti anni sei di nuovo con noi!Siamo venute per liberarti aiutate da questi cavalieri e da amici fidati. C’è anche la mamma di Safyiah che vuole riverirti!” La vecchia, rigorosamente velata, fece un passo avanti, si inchinò umilmente e le baciò le mani che tremavano. Aisha era confusa, frastornata, non sapeva cosa dire, ma si costrinse a tornare la donna dolce ed insieme autoritaria di un tempo e disse: “ Figlie mie, non sono più la bella mamma piena di vita che conoscevate. Il mio viso è diventato scarno e rugoso, gli occhi sono tanto stanchi e deboli che stentano a riconoscere ciò che mi sta intorno, le gambe mi reggono poco e sono tutta dolorante ed afflitta, il mio cuore però arde d’amore per voi. Vi seguirò dovunque pur di abbandonare questa prigione e tornare a vivere. Libertà, libertà ed amore, le uniche cose per cui vale la pena di resistere e lottare! Andiamo, sono pronta!” Si sistemò il velo sui capelli grigi ed opachi che erano stati color dell’ebano e lucenti e si alzò. Quanto aveva pregato che giungesse quel momento! Giorno dopo giorno aveva sentito la speranza crescerle dentro al cuore e mutarsi in certezza ed aveva atteso con ansia la liberazione. 139 Aggiunse:“ Safyiah sa quanto ho sofferto e le sarò eternamente grata per essermi stata amica premurosa e fedele. Care figlie, lei merita tutta la vostra stima ed il vostro rispetto”. “ Safyiah, per favore, prendi tutto lo stretto necessario per te e per mia madre, dobbiamo fuggire in fretta. Non avrete alcun problema di danaro perché partiamo con una grossa somma. Dobbiamo la vostra liberazione al nostri amici Giuseppe e Pietro ed alla cara Isabel. Senza il loro aiuto non saremmo qui con te adesso. I cavalieri che vedi, mamma, ci condurranno con i loro destrieri dove voi vorrete. Potremmo anche dirigerci verso il castello di nostro nonno, che si trova non lontano da Gerusalemme, posto che non sia stato distrutto e che riusciremo a raggiungerlo! Quella non è una località pacifica e sicura, ma dobbiamo correre il rischio. Noi figlie verremo con te e ce la faremo!” Poi Zorahaida tacque poiché Taqi e Rashid volevano dire la propria:” Il sultano rientrerà presto e l’unica cosa che ora gli importa è preparare l’offensiva contro i nemici di Allah ed assicurarsi la vittoria. Andiamo via subito!” Percorsero a ritroso in fila indiana la stessa via dell’andata, ma impiegarono più tempo del previsto ad uscire dalla botola, poichè Zaida doveva sostenere la mamma malferma sulle gambe che rischiava di cadere ad ogni passo e Safyiah portava due fagotti un po’ pesanti sulle spalle. Aisha capì di essere ormai uscita fuori all’aperto quando sentì l’aria della notte carezzarle il viso ed il profumo del verde e dei fiori entrarle nelle narici come una benedizione. Tremava di paura pensando che qualcuno potesse individuare il gruppo e bloccarlo. Quel qualcuno c’era, ma non era minimamente interessato a lei. Arrivarono alle porte senza problemi e l’avanguardia riuscì ad attraversarle e ad uscire. A Taqi e Rashid, che chiudevano e proteggevano il gruppo, non toccò la stessa sorte. Kunar, dalla mira infallibile, si era eretto in tutta la sua persona su un punto strategico del cammino di ronda e scoccò la prima freccia avvelenata trafiggendo la schiena di Taqi e mirando con un’altra al cuore di Rashid che si era voltato di scatto sentendo un grido ed il tonfo di un corpo sul lastricato. 140 L’uno cadde vicino all’altro, contorcendosi in un’atroce agonia perché le frecce erano avvelenate. Kunar gongolante ed euforico, si sfregò soddisfatto le mani e scomparve nelle tenebre da dove era sbucato. Non vedendoli arrivare e pensando che fosse accaduto l’irreparabile, Margherite voleva tornare indietro per rendersi conto della situazione, ma Pietro la bloccò dicendo: “ Montiamo a cavallo e fuggiamo, altrimenti ci uccideranno come cani!” Safyiah e la madre corsero al carretto e partirono col contadino alla guida, avviandosi subito per la masseria di certi amici che abitavano lontano oltre il Darro e qualche tempo dopo se ne andarono a Cadice. La regina e le figlie, scortate dai cavalieri neri, proseguirono verso il porto dove li attendeva un vascello messo a loro disposizione dallo Sceicco di Karabakh. Pietro e Marguerite partirono con un’altra imbarcazione che salpava all’alba. Avevano condotto al porto Adelaid e Tommasino. La mamma di Adelaid, sorda alle lacrime ed alle preghiere della figlia, si rifiutò di partire. Continuava a ripetere:” Non voglio partire. Rimango nella mia casa dove ho tanti ricordi del mio povero marito! Non preoccuparti per me, figlia cara, me la caverò lavorando come ho sempre fatto. Sii coraggiosa ed alleva bene il tuo bambino. Spero che tornerai con lui a trovarmi quando sarà grande. Pensa al tuo avvenire Adelaid e non a me!” Non ci fu nulla da fare, la donna aveva preso la sua decisione ed era irremovibile. Quindi Adelaid e Tommasino si imbarcarono soli con Pietro e Marguerite per l’Italia. I due giovani si tenevano per mano felici e più innamorati che mai. Adesso potevano pensare ad un futuro insieme. Adelaid trovò un marito premuroso e fedele ed un lavoro a Genova e vi rimase per molto tempo. Pietro portò Marguerite a Firenze ove si sposarono, aprirono vari cantieri edili e diventarono molto ricchi. Dopo molti anni, ormai anziani, tornarono a Granada ove si stabilirono con i figli ed i nipoti e dove ritroviamo Pietro, molto vecchio, nel prologo di questo racconto. 141 INDICE Prologo 3 La tempesta 5 La taverna 9 Pietro va a trovare Orso 14 Le figlie del sultano 18 Orso e Adelaid 21 Le principesse si decidono ad agire 24 Savinio ed Emanuele 29 Orso si decide 32 La ricchezza a portata di mano 38 La torre 43 Pietro va da Orso 51 Isabel ovvero Margherite 54 Un incubo ricorrente 56 Suonatrice di ud 61 Orso è partito 65 Jacobbe ebreo di Ancona 69 Pietro contatta Jacobbe 72 Fratel Barnaba 77 Un gruzzolo che scotta 80 Il sultano parte 85 Pietro da Savinio e Marco 89 Isabel e il responso dell’indovina 93 Il genetliaco del sultano 99 Il sultano è partito 103 Le ricerche danno frutto 106 Morte di un santo frate 110 Appuntamento al buio 114 Pietro ed Isabel 118 142 Il califfo di Karabakh 123 Il coraggio di Aisha 125 Ecco il piano! 130 Giuseppe e Kalima 133 Epilogo 136 RINGRAZIAMENTI Ringrazio tutti coloro che mi hanno dato preziosi suggerimenti ed un valido aiuto nella stesura di questo racconto. Esso ha basi storiche, ma alcuni personaggi sono di pura fantasia. Se vi è piaciuto, fatelo leggere ad amici cui piacciono le storie avventurose. Un grazie di cuore dall’autrice. 143 144