SILVANA LA VALLE ALHAMBRA RACCONTO 1

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SILVANA LA VALLE ALHAMBRA RACCONTO 1
SILVANA LA VALLE
ALHAMBRA
RACCONTO
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Dedico questo racconto ai miei cari nipoti Sofia e Jacopo
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PROLOGO
Sono quasi cieco, ma riesco a vedere nell’intimo di chi mi parla grazie agli
spiriti dei miei avi che,
dal luogo delle ombre profonde, mi consigliano, aiutano e dirigono i miei passi.
Sono un vecchio tutt’ossa, nervi, qualche muscolo e vene che formano sentieri
e disegni a fior di
pelle.
Mi siedo sempre su una panca di pietra
accanto all’ulivo saraceno che amo
tanto. So che questa è la via di casa e riposo un pochino. Verso quest’ora inizia
il concerto di grilli e cicale e chissà di quale altro insetto, ma io non sono un
attento ascoltatore delle voci della natura per cui fisso il mio pensiero su un
viso che si perde nel ricordo, quello bellissimo di Margherite.
Intorno alla panca crescono piccoli cespugli e piante odorose, quest’angolo
romantico mi ricorda un tempo ormai lontano. Riesco ancora ad udire la sua
voce melodiosa che chiede:” A cosa pensi, Pietro?”
Mi alzo a fatica e, tenendomi stretto al muretto, arranco per la stradina
polverosa talvolta seguendo le orme lasciate dai carichi di verdure e spezie da
vendere al mercato.
Mio nipote Giulio vorrebbe accompagnarmi, ma io sono testardo e voglio invece
farcela da solo.
Non vedo più i pappagalli variopinti, le camicie colorate dei venditori ed i
copricapo di tela sgargiante delle donne cui i raggi del sole calante donano
infinite e sempre nuove sfumature.
Ero un bell’uomo allora con la barba scura e folta striata di peli color rame, il
fisico scattante di un ventenne, il viso abbronzato dal sole. Mi vantavo di
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essere diventato il patriarca di una famiglia la cui ricchezza poteva rivaleggiare
con quella delle più agiate della zona.
Ormai novantenne, nonostante le mie disavventure, i miei continui viaggi da e
per l’Italia alla ricerca di un sempre maggior profitto, i lunghi periodi di
malattia e di sconforto, ringrazio Dio per avermi dato figli adorabili e nipoti
affettuosi che si prendono cura di me ora che la mia amata mi ha lasciato.
Sono vissuto in due mondi lontani e diversi tra loro: prima nell’amata Firenze
e poi a Granada, ultimo baluardo del regno musulmano della Penisola Iberica
ove sbarcai fuggendo dalla peste dopo la morte di mia moglie e della mia
figlioletta Lucia. Susanna è sepolta a Firenze, la mia bambina di tre anni riposa
invece in fondo al mare.
Meglio non ricordare, meglio dimenticare!
Mi gratto i peli radi che mi crescono imperterriti sul mento quasi a farmi
dispetto ed allevio così il prurito causato dalla polvere.
Devono essere uccellini quelli che mi volano intorno dirigendosi sicuramente
verso una fonte d’acqua in cui mi immergerei volentieri.
Come sono stanco! Le palpebre mi diventano pesanti e sono costretto a
tornare sui miei passi, mi risiedo, chiudo gli occhi e mi addormento.
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LA TEMPESTA
Pietro corse in coperta aggrappandosi al corrimano per sorreggersi mentre
avanzava a gran fatica verso la sua cabina piccola come una tana.
Il viaggio per mare lo rendeva confuso non avendo dimestichezza con vascelli e
marinai, adesso però gli era diventato chiarissimo che doveva salvare se stesso
e sua figlia dalla furia delle onde. Aprì con un calcio la porta della cabina ed
entrò: in una culla di vimini dormiva Lucia ignara di ciò che accadeva intorno.
Con
un rapido movimento le si avvicinò e la sollevò con cautela per non
svegliarla. La nave stava per affondare e gli restava poco tempo per agire. Con
una mano aprì un armadietto e ne estrasse qualche indumento della piccola
insieme ad una copertina di lana gialla, fatta dalla sua mamma, che le avvolse
intorno al corpo. Lucia ebbe un sussulto e sgranò i begli occhi azzurri
meravigliata, vedendo però che era il suo papà a stringerla forte tra le braccia,
li richiuse con un sorriso beato.
Ma perché non l’aveva lasciata a Firenze con la balia? Per egoismo, per non
rimanere solo o per troppo affetto? In seguito se lo sarebbe chiesto mille volte
non trovando che una sola risposta: il destino aveva voluto così!
I marinai si erano riversati sul ponte, esasperati dalle onde assassine,
imprecando contro la loro violenza e la malasorte. In pochi minuti la poppa fu
coperta dai marosi, lo scafo parve disintegrarsi ed ora tra la poppa affondata e
la prua c’era solo il vuoto.
Udendo le voci concitate che gridavano aiuto Pietro uscì dalla cabina ad
affrontare la burrasca, ma mentre stava per raggiungere una piccola canoa di
salvataggio
rimasta
miracolosamente
montata
sulla
plancia,
un’ondata
gigantesca si abbattè su di lui strappandogli con violenza dalle braccia l’involto
umano che era tutto ciò che di più caro aveva al mondo. Il corpo di Lucia
scomparve nell’acqua nera come la pece per non ricomparire più.
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Assediato dai fantasmi della morte e da un terribile senso di colpa, Pietro tentò
di liberarsi dal l’acqua che gli era penetrata in corpo e fortuna volle che
riuscisse a vomitarla tutta così da poter lanciare un urlo straziante e disperato.
Si avvicinava una gelida alba e le onde andavano perdendo gradatamente la
loro forza. L’oscurità della notte cedeva il passo al grigiore della prima luce in
un cielo ancora coperto da nuvole scure. Protetto dal vestiario indossato a
strati, anche se zuppo, Pietro riuscì a sopravvivere al freddo. Si teneva
aggrappato ad un filo di speranza che qualcuno lo avrebbe soccorso e rimase
avvinghiato insieme a pochi altri ai resti del vascello.
Negli intervalli tra la veglia vigile e l’incoscienza a qualcuno sembrò di
avvistare in lontananza una spiaggia su cui svettavano palme agitate dal
vento.
Sebbene la sua vista fosse offuscata dalla pioggia che cadeva fitta, Pietro si
mise a scrutare l’orizzonte. Poi anche lui mise a fuoco una striscia di terra su
cui erano sparsi grandi massi. Non poteva essere lontana e, con un po’ fortuna,
raggiungibile a nuoto posto che le poche forze avessero assistito sia lui che gli
altri naufraghi. Gli venne l’idea di togliersi l’unico stivale rimasto, subito imitato
da altri che usarono qualche calzatura come pagaia. I muscoli intorpiditi
cominciarono a scaldarsi tanto che la fatica si mutò in euforia e certezza della
salvezza.
Si avvicinarono dunque lentamente alla riva e, proprio quando le forze li
stavano abbandonando, urtarono contro scogli sommersi. Allora li aggirarono
aggrappati e, nuotando piano,
raggiunsero la spiaggia barcollando. Caddero
distesi, inebetiti per chissà quanto tempo mentre le nuvole, da scure,
cominciavano ad assumere forme bizzarre e distinte tendenti al bianco. I resti
dell’imbarcazione furono trasportati dalla corrente verso acque profonde.
Pietro alzò lo sguardo smarrito a scrutare il mare ormai calmo che gli aveva
rapito Lucia e pianse sconsolato. Era trascorso poco tempo, ma sembrava
un’eternità.
Con gli altri superstiti arrancò verso una capanna tra gli alberi che trovarono
vuota, ma che offrì protezione e consentì loro il recupero di un po’ di forze.
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Due giorni dopo il capitano di un vascello, che faceva rotta verso la Spagna,
avvistò i detriti galleggianti sulle acque e le braccia dei naufraghi che facevano
continui segnali concitati. Furono
tratti a bordo sporchi, laceri, assetati,
affamati e trasportati a Granada.
Durante il viaggio, relativamente breve, furono curati e rifocillati. Le giornate
erano serene ed il cielo costellato di tonde nuvole bianche. Il ricordo della
tempesta cominciava ad assumere contorni sfuocati ed i più si domandavano
se avevano davvero vissuto quei momenti terribili o se invece si era trattato
solo di un incubo notturno. La loro misera condizione era però reale e non dava
adito a dubbi, ma cosa avrebbe riservato loro il futuro?
Pietro apriva bocca solo per scambiare poche parole con un mozzo italiano di
nome
Orso,
anche
lui
scampato
alla
tempesta
dato
che
la
ciurma
dell’imbarcazione era formata da un’accozzaglia d’uomini raccolta da luoghi
totalmente sconosciuti a Pietro e che parlavano prevalentemente Castigliano.
Il Fiorentino fissava con odio cupo il mare e non vedeva l’ora di calpestare il
suolo. Intanto il vascello aveva oltrepassato un lungo corteo di barche da pesca
destinate a restare in acque poco profonde per pescare gamberi ed ostriche. I
loro ponti erano poco più alti della superficie dell’acqua del porto e pieni di
molluschi gettati sulle assi di legno consunte e levigate dal passaggio dei piedi
dei pescatori. Una forte brezza soffiava gonfiando le vele bianche e spingendo
in avanti le barche che scivolavano sulla cresta delle onde. C’erano golette a
gabbiola ferme all’ancora che attendevano da ore il loro piccolo equipaggio ed
ai naufraghi tutto sembrava nuovo ed interessante.
Il Fiorentino si era appollaiato sul bordo del parapetto e fissava affascinato
l’andirivieni dei marinai. Alcuni erano bianchi con le facce arrossate dal sole e
grondanti sudore, altri neri con la pelle lucida come l’ebano e c’era anche
qualche muso giallo, chissà da dove veniva e dove era diretto!
Quei
marinai
non
soffrivano
certo
di
vertigini,
avvezzi
com’erano
ad
arrampicarsi come scimmie sugli alberi delle imbarcazioni.
Quell’umanità indaffarata caricava e scaricava casse di merce, balle di cotone,
spezie, stoffe finissime, ninnoli femminili d’ogni genere, gabbie con volatili
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esotici e galli da combattimento, salendo sulle imbarcazioni uno alla volta con
velocità sorprendente.
Agilissimi e disinvolti portavano alla vita fusciacche colorate che nascondevano
coltelli dalla lama affilata, indossavano logori calzoni ed avevano piedi nudi e
mani incallite, mettevano in mostra bicipiti forti e robusti. Alcuni erano calvi e
le loro teste lisce e lucide scintillavano al sole, altri portavano capelli lunghi,
folti e neri e lunghe barbe che scendevano sui petti possenti.
Col passare del tempo Firenze sarebbe diventata un ricordo lontano sempre più
sbiadito, languido, malinconico, ma ancora molto caro. La perdita della moglie
e della figlioletta sarebbe invece rimasta a lungo come una spina conficcata nel
cuore, non le avrebbe mai dimenticate!
Il comandante del vascello abbaiò pochi, secchi ordini che furono prontamente
eseguiti.
Era difficile capire se gli occhi di Pedro, così si chiamava, fossero attraversate
da venuzze color sangue per l’eccesso di alcol oppure per mancanza di riposo.
Aveva capelli neri piuttosto lunghi ed unti e denti irregolari e giallastri. Bicipiti
ed avambracci erano tesi, muscolosi e dipinti con fantasiosi tatuaggi. Non c’era
dubbio che potesse stendere con un pugno ben assestato un avversario di
grosso calibro, ma non era di temperamento irascibile o violento, quindi tutti lo
rispettavano.
A Pietro faceva un certo ribrezzo poiché
gli sembrava un omone vecchio e
sporco con quella barba lunga, gialliccia ed incolta.
Si chiedeva se il comandante non avesse per caso capi di biancheria di
ricambio, articoli per la toilette, camicie e pantaloni decenti. Comunque lo
ammirava molto e gli era grato per
avere salvato la vita a lui ed agli altri
naufraghi.
Di conseguenza Pietro pensò che per il comandante l’eleganza fosse un
dettaglio inutile. Lui invece avrebbe speso le prime monete guadagnate in
camicie, pantaloni e biancheria intima. Si sentiva bruciare di vergogna perché
sarebbe sbarcato a Granada proprio come uno straccione mentre Orso
sembrava divertito e a sua agio in abiti logori e troppo stretti per la sua stazza.
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LA TAVERNA
Il comandante scrutò il viso dei naufraghi in fila davanti a lui. Li guardò
soddisfatto con l’occhio destro di dimensioni normali e quello sinistro molto più
piccolo e gli uomini si avvidero che il suo viso era segnato da parecchie cicatrici
riportate chissà dove e quando e che il naso deviava di molto verso la guancia
destra, chiaro segno che si era rotto più di una volta. Fermò con un gesto della
mano i due italiani e gli altri per poterli salutare singolarmente prima che
scendessero a terra. Scese poi anche lui e presentò Orso ed un altro marinaio
ad un proprietario di barche e trafficante del porto che era suo amico,
raccomandandoli per un lavoro ed un alloggio sicuri. Rimase interdetto sulla
collocazione del Fiorentino, poi gli venne l’idea di indirizzarlo alla taverna
grande: lì avrebbe certamente trovato qualcuno pronto ad ingaggiarlo con una
paga decente.
Pietro seguì le indicazioni del comandante e si avviò alla taverna peraltro molto
vicina. L’uomo di guardia alla porta si potrebbe definire l’antenato inflaccidito
del moderno buttafuori. Era infatti un gigante sfatto e trasandato, tutto pancia,
senza dubbio un gran lottatore in tempi andati, ma che aveva perso grinta e
ferocia e che poteva incutere paura tuttalpiù a mingherlini ubriachi.
Davanti alla taverna correva un viottolo polveroso che, quando pioveva forte,
diventava tutto fango. In fondo ad esso, in un buco di due camere sopra una
bottega sgangherata gestita da ebrei, abitava una donna anziana dal viso
magro e rugoso, la proprietaria della taverna.
A metà del viottolo si apriva una rivendita di vino vecchia di secoli presso la
quale stazionava un gruppetto di mendicanti e derelitti che, strisciati fuori dagli
angoli delle case, rimanevano sul posto anche per ore ad intercettare ogni
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nuovo potenziale elargitore d’elemosina. Alcuni di loro erano davvero poveri in
canna, malaticci, denutriti, altri invece avevano scelto l’accattonaggio come
stile di vita, erano ben conosciuti e pochi li aiutavano. Guardandoli Pietro pensò
quanto fosse ingiusta la vita e duri quei tempi per tutti.
Quella mattina la vecchia padrona era dietro al bancone insieme al marito,
anch’egli anziano, ma ancora attivo e svelto, sempre pronto agli ordini di
quella donna arcigna e taccagna che lo comandava a bacchetta fin dai tempi
della giovinezza.
Ling, così lo chiamavano, portava una benda sull’occhi destro. Dicevano che gli
era stato cavato da un capobanda per vendicarsi di uno sgarro ed aveva una
vistosa cicatrice che dall’occhio mancante gli arrivava fino al naso. A detta
degli assidui frequentatori della bettola la moglie era stata una giovane molto
attraente, lo si poteva dedurre dalla chioma ancora folta e dai suoi occhi grandi
e vivaci.
Da giovane Ling era stato un grande attaccabrighe che aveva aperto quel
punto di ristoro col danaro guadagnato in attività illecite se non proprio
criminali.
Prima di entrare nel locale fumoso e piuttosto sporco Pietro alzò lo sguardo al
cielo luminoso del mattino schermato dalle fronde delle palme che crescevano
altezzose sul retro della bettola costruita con robuste travi di legno.
Entrato che fu cominciò a guardare con apparente noncuranza le pareti tutte
incrostate di sudore umano e di fumo. Una calca di corpi riempiva il locale tra
un gran frastuono di voci d’uomini con in mano boccali colmi di vino ed altre
bevande che tracannavano subito.
I tavoli erano stati ricavati da assi di vecchie barche e tutte le sedie di legno,
oltre che sporche, erano tante sgangherate da sembrare messe insieme con lo
sputo e portavano gloriosi segni di anni di risse furiose. “ Ma in che luogo mi
ha indirizzato il comandante?!” Pensò Pietro tutto confuso e
stava per voltare le spalle ed uscire all’aria aperta quando la sua attenzione
venne catturata da
individui che discutevano animatamente seduti ad un
tavolo d’angolo. Gli sembrò che parlassero di lavoro ed aveva subito drizzato le
orecchie perché, anche in mezzo a tutto quel frastuono, gli era
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sembrato di percepire qualche parola in Italiano. Uno in particolare , quello che
interrompeva spesso gli altri, aveva tutta l’aria di essere non solo il capo, ma
anche un connazionale.
Era di statura media, grassoccio con capelli sale e pepe ed occhi castano scuro
leggermente sporgenti, fronte alta e naso aquilino. Pietro si avvicinò di molto
facendosi largo a spallate e notò anche che l’uomo anziano aveva dita
affusolate e stranamente curate e che quindi non poteva essere un rozzo
scaricatore del porto, ma certamente si trattava di persona istruita che
lavorava d’ingegno.
Parlava con calma e disinvoltura intercalando alle parole spagnole alcune
parole italiane con accento veneziano.
A Pietro non sembrava vero d’aver tanta fortuna al primo colpo, una manna
insperata caduta dal cielo e proprio quando aveva bisogno di trovare un lavoro!
Detestando l’essere invadente si fermò in piedi vicino al tavolo e si rivolse al
capo con deferenza e rispetto. Raccontò d’essere un costruttore edile fiorentino
sbarcato da poco e d’aver perso tutto ed abbandonato la sua città scampando
alla peste. Si metteva subito a disposizione per qualsiasi lavoro onesto.
Il capomastro gli tese la mano e si presentò come messer Giuseppe De’ Guidi
arrivato molti anni prima dalla Serenissima, valente disegnatore e tanto abile
nel dirigere i lavori di squadra che il sultano Alhamar lo teneva in grande
considerazione e si avvaleva del suo talento per dirigere una nutrita schiera di
artisti che stavano ultimando la zoccolatura della sala del Mexuar
con
piastrelle a disegni geometrici.
Beppo( lo chiamavano amichevolmente in molti modi), dava indicazioni precise
poi lasciava agli artigiani libertà nella messa in opera. Era sempre disposto ad
ascoltare le critiche, ma le contestava quando gli sembravano infondate e non
serbava alcun rancore verso chi gliele aveva mosse. Sapeva comunque che
tutti profondevano grandi energie e lavoravano instancabilmente da mane a
sera.
Il capomastro ispezionava giornalmente il lavoro svolto ed era molto
meticoloso, avaro di complimenti, ma imparziale e di buon cuore. Ammetteva
alle sue dipendenze solo chi lavorava con zelo senza lamentarsi e rivelava loro
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i segreti del mestiere. Allontanava dalla squadra gli altezzosi ed in genere chi
avversava i suoi ordini e non seguiva i suoi consigli.
Giuseppe spiegò a Pietro che l’oratorio che stavano abbellendo era orientato
verso la Mecca ed offriva una vista sublime sull’Albaicin. Stavano allestendo
una nicchia, chiamata nirhab, nella parete in cui doveva essere posto il Corano
e costruendo archi a ferro di cavallo ed una bella fontana al centro del cortile
del Mexuar.
“ Non startene lì in piedi, amico, se così posso chiamarti e bevi qualcosa con
noi! Ho bisogno di abili falegnami, carpentieri, posatori di azulejos, scultori,
stuccatori, cesellatori, giardinieri esperti di botanica e gente davvero in gamba
per allestire i bagni pubblici. Vuoi essere dei nostri?”
A Pietro sembrava di sognare e non vedeva l’ora di imparare tecniche nuove.
Voleva mettersi all’opera per non pensare, per dimenticare, quindi senza
esitazione rispose:” Messer Giuseppe, sono pronto e lieto di lavorare per voi!”
Il giorno dopo gli fu dato un alloggio che poggiava su un basamento di pietra
sopra cui erano stati edificati i muri di mattoni crudi coperti di intonaco e di
vari strati di latte di calce. Dato che non aveva famiglia Pietro usufruiva di
quaranta metri quadrati scarsi suddivisi in tre locali da pareti interne più sottili
fatte di mattoni tenuti insieme da malta. Il minuscolo terrazzo di tronchi di
palma squadrati dava su un giardino. La circolazione dell’aria era garantita da
un’apertura sul tetto da cui usciva il fumo del focolare e due bifore facevano
entrare la luce.
L’arredamento, molto spartano, era costituito da due sgabelli, un tavolino,
recipienti di terracotta, un cofano per il vestiario e due panieri di giunco. Il
letto era provvisto di solide traverse di canne
intrecciate con sopra una stuoia.
In cucina troneggiavano una giara per l’olio, una per il vino, un pentolone ed
un armadietto di legno per riporre qualche prodotto alimentare. Per l’igiene
personale non mancavano un pettine ed una boccettina con una sostanza
profumata.
I bisogni si facevano in una buca comune sul retro, coperta da assi di legno e
nascosta da un paravento di canne.
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Pietro doveva accontentarsi e ringraziare Dio, ma rimpiangeva le comodità
della sua bella casa di Firenze. Il lusso era solo appannaggio del sultano, delle
sue figlie, delle concubine, di qualche alto dignitario di corte e delle famiglie
illustri della zona che disponevano di abitazioni principesche con acqua
corrente, bagni privati, alcove, cucine fornitissime, splendide fontane e
giardini.
Quello di Pietro era un semplice alloggio fornito solo dell’essenziale come
quello di Giuseppe e di altri membri dello staff.
Appoggiando l’orecchio ad una parete interna Pietro poteva udire i movimenti
nell’alloggio di Giuseppe e, quando batteva forte le nocche contro il muro, il
capomastro gli chiedeva ad alta voce cose volesse e così i due potevano
conversare brevemente, cosa che sarebbe tornata molto utile in caso di
necessità urgente.
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PIETRO VA A TROVARE ORSO
Pietro lavorava già da qualche mese ed aveva girato per Granada e dintorni e
visitato anche luoghi parecchio distanti dall’abitato camminando per viottoli
polverosi, attraversando ponticelli e boschi.
Da gran conoscitore di funghi qual’era sapeva bene che si raccolgono al
mattino molto presto, prima dell’alba, poichè crescono durante la notte e gli
scoiattoli se ne impossessano subito.
Quel mattino era festa e, come per incanto, i funghi erano spuntati belli ed in
gran numero per la gioia degli occhi e del palato dei raccoglitori.
Il boschetto, in cui Pietro si era addentrato, era poco lontano da una mulattiera
tutta sassi e polvere non troppo lontana dalla città. Dopo un paio d’ore il
cestino che aveva portato con sé era pieno fino all’orlo ed il sole stava
spuntando in un cielo terso con tante nuvole bianche. Fece una piccola
deviazione per attraversare un bosco di belle mimose dalla corteccia sottile e
rami carichi di soffici fiori gialli. La terra era coperta da erba soffice e muschio
odoroso che davano un raro senso d’ebbrezza ed energia. Pietro inspirò a piene
narici quella fragranza prima di tornare al caldo della città. Si sedette con la
schiena contro un albero ed ascoltò i grilli intonare il loro canto trillante
salutandosi l’un l’altro ed il frinire delle cicale. Il loro concerto di tutti i giorni!
Stancatosi di oziare decise di far visita all’amico Orso per spartire il bottino con
lui e tornò indietro quasi di corsa.
Percorse una passerella di legno che attraversava il piccolo cantiere dove si
riparavano le barche e vide l’amico che stava applicando uno strato di pece
sullo scafo di una barca da pesca poggiata su di un rudimentale cavalletto.
Il nome Orso si attagliava perfettamente a quel mozzo alto, con spalle e petto
villosi, testa calva e lucida come una biglia, braccia nerborute, mani grandi e
forti. Era stato ingaggiato con una buona paga dal proprietario di quel cantiere
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ed alloggiava in una baracca che aveva ridipinto di un verde smeraldo un po’
troppo brillante. Le finestre e le imposte erano visibili anche da lontano perché
erano giallo canarino, il colore preferito da Orso.
L’inquilino doveva convivere nella casupola con tante merci ed attrezzi stipati
in poco spazio. Sembrava proprio un mini emporio pieno di pezzi di ricambio in
parte arrugginiti, cordame, reti e vari articoli per la pesca nel mare e nel fiume.
Il marinaio asseriva di viverci bene e la chiamava “ la mia vera casa” forse
perché lui amava il mare e le barche e loro amavano lui.
“ Ma chi si vede! Come mai sei qua, non lavori pigrone?” Lo accolse così, ma
era felicissimo di rivedere l’amico. Orso aveva uno strano carattere: era capace
di grandi slanci e dimostrazioni d’affetto, talvolta però si chiudeva in un
mutismo immotivato e gli si dovevano cavare le parole di bocca.
“ Oggi è festa in città, penso che tu sia l’unico a lavorare ! Pensavo infatti di
trovarti disteso sulla tua branda a russare”.
“ Il riposo non fa per me, amico! Mia annoio qui senza un’anima viva con cui
parlare e poi lavorare non mi pesa.”
Quel giorno l’umore di Orso era ottimo ed a Pietro sembrò insolitamente
allegro.
Dopo
averlo
fatto
accomodare
nella
sua
“reggia”
gli
strappò
letteralmente il cestino dalle mani esclamando tutto eccitato:” Sei grande
Pietro! Ti ringrazio di aver pensato a me e suppongo che una parte dei funghi
sia mia, o no?”
“ Esatto! Spero solo che tu li sappia cucinare!”
“ Puoi starne certo. Ho imparato da mia madre, una vera artista in fatto di
prelibatezze!
Quelli che preparava lei si scioglievano in bocca, erano
saporitissimi, davvero squisiti e che profumino! Ora siediti su questa botte ed
assaggia questo pesce affumicato che ho preparato con cura. Quando voglio
cucino meglio di una provetta massaia. Ho anche dell’ottima frutta ed un vino
che è come il nettare degli dei, si fa per dire….Bevi, bevine quanto vuoi!”
Seduto di fronte all’amico Pietro mangiò il pesce affumicato, addentò una
grossa melagrana dai grani color rosso rubino e ne assaporò il succo
rinfrescante e gradevole e bevve mezzo boccale di vino, solo mezzo, perché
temeva d’ubriacarsi.
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I due parlarono a lungo delle reciproche aspirazioni e del lavoro ed Orso
affermò, con una punta d’orgoglio, che cominciava a comprendere lo Spagnolo
ed aveva imparato anche qualche espressione in Arabo.
“ La lingua di Maometto è veramente ostica, non mi piace e non cambierò mai
idea anche se comincio a capirci qualcosa, poco però!” affermò Pietro con voce
triste.
“ Bada a non manifestarlo apertamente. I seguaci di Allah sono parecchio
suscettibili al riguardo. Per i musulmani noi siamo gli infedeli, i nemici, gli
intrusi anche se tollerano la nostra presenza qui.
Non resisteranno comunque a lungo all’assedio economico dei re cattolici cui
dovranno pagare tributi”.
“ Sarà!”, sospirò Pietro, “ Il regno musulmano mi sembra potente ed avanzato
sia culturalmente che scientificamente. Non è bello il porto con i suoi traffici?
Tutte le volte che lo guardo resto incantato. C’è anche tanta gente povera e
sfaccendata, ma in quale luogo della terra non esistono povertà e fannulloni?
Ho potuto ammirare il Canale Reale che irriga vastissime zone di terreno
coltivato, l’Alhambra, la Torre dell’Acqua. Sin dal mio arrivo sono stato
soggiogato dallo splendore del Castello Rosso. Che mi dici dell’ingegnosità e
dell’arte profusa nel costruirlo?”
“ Hai proprio ragione Pietro! Il castello è un gran colpo d’occhio e poi Granada
è una delle città più belle che io, povero mozzo ignorante, abbia mai visto e le
risorse naturali della zona sono a disposizione di tutti e vengono esportate
anche fuori dal regno”.
“ Granada è bella sì, ma mai come Firenze!” affermò Pietro con una certa
grinta.
“ Ma che paragoni mi fai, Pietro! Sono civiltà, culture e costumi diversi e poi
anche a Firenze, se non vado errato, regnano confusione, intrigo,insicurezza,
guerre e rivalità tra i nobili, proprio come qui. Hai dimenticato i carretti
stracolmi di corpi devastati dalla peste e non tutti già morti?”
A queste parole che rievocavano ricordi amari e riaprivano ferite non ancora
rimarginate, Pietro tacque, si alzò e, trattenendo a stento le lacrime, guardò
Orso con aria di rimprovero:” Avrai ragione tu, ma non è da amico rigirare il
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coltello nella piaga. Sai bene quanto ho sofferto e quanto soffro ancora!” Detto
questo e dopo aver salutato senza ringraziare però, gli voltò le spalle ed uscì in
fretta.
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LE FIGLIE DEL SULTANO
Zaida, la minore delle figlie del sultano, era una giovane molto bella e fiera,
amava la sua gente e la legge di Maometto ma, al tempo stesso, desiderava
varcare le porte della reggia per vedere un po’ di mondo, non solo quello
racchiuso nella città di Granada, ma il mondo nell’accezione più vasta del
termine con tutto ciò che esso può offrire. Era romantica, affettuosa e di
temperamento esuberante. Aveva due sorelle maggiori di lei: Zorayda e
Zorahaida, anch’esse molto attraenti ed anche colte.
A tutte e tre piacevano gli abiti sontuosi che arrivavano quasi fino a terra
lasciando scoperta solo la punta all’insù dei sandali dorati. I capelli di un nero
corvino erano attorcigliati all’indietro e fermati da spilloni con la capocchia
impreziosita da topazi e smeraldi di notevoli dimensioni.
Zaida aveva il volto color miele mentre le altre due erano di carnagione più
scura, somigliavano infatti più al padre che alla madre. Portavano sempre un
velo che copriva loro il volto dal naso fino al mento lasciando intravedere solo
gli occhi grandi ed espressivi. Zorahaida esibiva spesso una splendida collana
d’oro che terminava in un medaglione e le arrivava fino alla vita sottile. Zaida e
Zorayda preferivano ornarsi con vistosi braccialetti colorati e lunghi orecchini di
perle.
Le tre sorelle, d’età compresa tra i sedici ed i vent’anni, vivevano nella loro
lussuosa residenza fornita di tutte le comodità. Per accedervi si dovevano
attraversare due cortili: uno era denominato cortile dell’Escabalgamiento( cioè
l’atto di smontare da cavallo), poiché il sultano, che arrivava a cavallo,
smontava in prossimità di questo cortile dove c’erano stalle ed abbeveratoi,
l’altro cortile era davvero splendido, vi crescevano intorno aranci ed aveva una
fontana al centro.
Il sultano andava a trovare le figlie passando per una porta rettangolare con
l’architrave ornata da piastrelle verdi e nere su sfondo bianco, una vera opera
d’arte.
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Quando
vi
andava
di
giorno
incontrava
spesso
le
tre
ragazze
che
passeggiavano nella parte più suggestiva della dimora cioè nei giardini dove, a
nord ed a sud, si ergevano splendidi padiglioni.
Al centro scorreva l’Acequia Real( il Canale Reale) che trasformava il silenzio
nel mormorio costante e perpetuo dell’acqua.
Verso sera invece le principesse passeggiavano per una galleria di archi che
permetteva loro di ammirare il paesaggio circostante
dopo una giornata
passata a dirigere la loro scuola di istruzione e ricamo per le ragazze delle
famiglie nobili della zona.
Zaida e sorelle insegnavano alle giovinette lettura, scrittura, computo, pittura e
ricamo. In una vasta sala venivano srotolate pezze di tessuto di varia
lunghezza e dimensioni che venivano poi dipinte o ricamate con fiori, foglie ed
alberelli stilizzati oppure con linee serpeggianti e sinuose. Vendevano le stoffe
alle nobili per i loro abiti ed il ricavato copriva i costi delle attrezzature e della
scuola. L’istruzione era gratuita ed a tutte le ragazzine veniva offerto
giornalmente un pasto buono ed abbondante. Tutte le bimbe, dai sei anni in
su, erano contente d’apprendere e le più grandi ed esperte aiutavano le più
piccole sotto gli occhi attente delle principesse, solitamente molto dolci e
materne verso le loro allieve. Si arrabbiavano solo quando alcune di loro non
preparavano bene i fili per il ricamo, dipingevano senza attenzione e non
riponevano ordinatamente gli strumenti usati per il lavoro.
Era quello il mondo delle principesse che raramente si spostavano dalla loro
residenza che era una gabbia dorata, ma pur sempre una gabbia.
Il sultano alloggiava
dove meglio credeva. Di solito dormiva nel padiglione
nord del cortile che aveva un portico ad archi con alcune alcove adiacenti. La
profusa e densa decorazione degli stucchi del padiglione rifletteva l’importanza
della persona che vi dimorava.
Alhamar aveva avuto molte mogli e concubine e la preferita era stata un tempo
la madre delle tre sorelle. La regina però non gli era fedele perché non lo
amava, lo temeva soltanto. Si era innamorata invece di una cavaliere
appartenente ad una potente famiglia amica ed aveva iniziato con lui quella
che oggi si potrebbe definire una “ love story” veramente appassionata. I due
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amanti erano soliti incontrarsi vicino ad un cipresso che cresceva in un vasto
cortile adiacente alla dimora della regina.
Scoperta la tresca il sultano aveva ordinato l’uccisione del cavaliere ed aveva
fatto trucidare tutta la sua famiglia.
Da allora le figlie di cui una, Zorahaida, era stata promessa in sposa al fratello
del cavaliere ucciso, si allontanarono dalla corte e vollero trasferirsi nella
gabbia dorata di cui ho parlato.
La più astiosa e piena di risentimento nei confronti del sultano era
naturalmente Zorahaida che non gli perdonò mai di averle ucciso il promesso
sposo e di aver distrutto la nobile famiglia di lui.
Zaida, pur amando ancora il padre, sognava già di abbandonare la reggia e di
fuggire lontano con il cavaliere della sua vita.
20
ORSO ED ADELAID
Orso aveva l’abitudine d’alzarsi di primo mattino e di uscire dalla casupola a
respirare aria pura. Aveva trovato una piattaforma naturale ed una panca di
scura roccia sotto i lunghi rami di un bell’albero dover poteva starsene seduto
a pensare e ad ammirare il cielo e l’ampia distesa del mare fino al lontano
profondo blu. La visuale da là era davvero bella: grandi uccelli si libravano
nelle correnti ascensionali dell’aria, uccellini cantavano tra gli alberi e nei
lontani campi, che si stendevano intorno, tutto il mondo, nella calma,
sembrava perfetto.
I suoi pensieri viaggiavano trasportati lontano dalla brezza marina. Pur non
amando il mistero Orso intesseva spesso storie fantastiche ed impossibili, un
modo come un altro per tenere compagnia a se stesso.
Dalla
nebbiolina,
che
andava
diradandosi
gradatamente,
sbucò
un’imbarcazione che prese a scivolare verso il porto.“Chissà da dove viene!”
pensò. Sulla prua c’era uno stemma non distinguibile chiaramente e sul ponte
di coperta sembravano sistemati dei sedili.
Intanto un falco pescatore volteggiava in cerchio in cerca della colazione del
mattino. Toccò l’acqua e sparì per un attimo schizzando poi verso l’alto con un
pesce tra gli artigli. Cibo assicurato!
Orso pensò al povero pesce finito nel gargarozzo del falco ed alla crudeltà della
lotta per la sopravvivenza. Magari fino a poco tempo prima il pesce nuotava
tranquillo nell’acqua e poi…….
Riflettè sulla sua situazione di quarantenne solo e lontano dalla patria e si
persuase ch’era ora di trovarsi una moglie.
Dato che il giorno precedente aveva eseguito un buon numero di verifiche e
riparazioni alle barche, pensò di concedersi qualche ora di libertà. Chiamò un
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amico, anche lui mattiniero e che gironzolava senza far nulla, e lo pregò di
sostituirlo nella baracca per un po’.
Quindi si allontanò vagabondando senza meta per un luogo dover c’erano case
tipiche molto belle con i loro giardini alberati e sorgenti d’acqua. Attraversò un
agglomerato di altre abitazioni più modeste interrotte qua e là dal verde degli
orti dell’antica città musulmana.
Si stava avviando verso la collina ed il fiume Darro sulle cui sponde gli alberi
crescevano più alti e più verdi.
A circa metà della salita s’imbattè in due donne che scendevano verso casa
nella zona dell’Albaicin
in cui abitava una popolazione composta da una
interessante mescolanza di cristiani e di moriscos che vivevano in pace
lavorando e trafficando.
Delle due donne quella più giovane era poco più di una ragazzina con uno
sguardo bello e luminoso che lanciò da lontano ad Orso per manifestare, senza
parole, ma in modo inequivocabile, la sua ammirazione per quel colosso tutto
muscoli, sicuramente uno straniero, che non aveva mai visto prima. Era come
se dicesse:” Mi piaci”.
L’altra donna, secca e stagionata, dritta come un fuso e dalla pelle scura e
grinzosa, era la madre.
La giovinetta era davvero splendida: incedere flessuoso, vita sottile, lunghi
capelli neri coperti da un velo trasparente, pelle olivastra, viso ovale, occhi
espressivi e labbra carnose.
Orso ne fu subito colpito e decise di tornare indietro verso l’agglomerato di
casupole più in basso.
Prima di arrivare in fondo alla strada, le donne piegarono per una laterale
stretta e polverosa che costeggiava un muro bianco e scrostato ed entrarono in
una piccola abitazione con annesso orticello.
Quel giorno Orso lasciò là il suo cuore di uomo rude ed avvezzo ad ogni sorta
di
avventure.
Cominciò a pensare:” Cosa m’importa se è cristiana o musulmana? Non ho mai
professato alcuna
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religione e credo solo in me stesso. In questo momento l’unica cosa che mi
preme veramente è
conoscere la ragazza, frequentarla e farne la compagna della mia vita. Mai più
solo, mai più vagabondo! Desidero una casa allietata da figli, una famiglia
normale come tante!
La ragazza mi sembra però tanto giovane, troppo giovane per me! Ma non sarà
una di quelle che adescano gli stranieri per carpire loro denaro e poi lasciarli in
braghe di tela come è successo ad Alì, quello che faceva lo spaccone e che poi
ho visto piangere sconsolato?
Sarò cauto, non intendo fidarmi troppo! Tenterò comunque di rivederla e di
parlarle chiaramente e, se possibile, lontano dagli occhi della donna anziana
che le è attaccata come una cozza allo scoglio”.
Rimuginando tra sé i pro e contro e facendo progetti, entrò nella prima bettola
che trovò perché gli era venuta sete e gli piacevano il chiacchierio e la
confusione dei locali affollati poi, dato che erano già trascorse diverse ore,
corse al lavoro.
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LE PRINCIPESSE DECIDONO DI AGIRE
In quel periodo la principessa Zorahaida era irritabile, nervosa , d’umore tetro
e se la prendeva spesso con le sorelle che, secondo lei, non sorvegliavano e
correggevano abbastanza le bimbe della scuola. “ Non vi accorgete che
studiano poco, sono svogliate e lavorano male? E’ nostro compito tenerle
d’occhio ed istruirle, mostrare loro come dipingere e ricamare bene. Che figura
ci facciamo con i loro genitori se non imparano? Invece voi chiacchierate e non
vi accorgete neppure che rovinano le pezze di stoffa e le rendono invendibili
con disegni malfatti!”
Zaida, che era stanca di tanti brontolamenti, le rispondeva per le rime:“ Cara
sorella, sono solo delle bambine e ci vuole molta calma e pazienza con loro!
Devono ancora imparare e migliorare molto! Convengo con te che alcune sono
davvero maldestre e svogliate e le abbiamo riprese più volte, ma cosa ci vuoi
fare se le loro madri si fidano di noi e ce le mandano? Da’ tempo al tempo e
concedi loro fiducia. E poi bada bene, anche se sei la più grande, Zorayda ed io
non tollereremo più d’essere chiamate “ chiacchierone”. Semmai sei tu che non
sorvegli e stai seduta con le mani in mano!”
Visto che la sorella minore aveva alzato di molto il tono della voce che di solito
era poco più che un sussurro e non volendo litigare, Zorahaida pensò bene di
trovare un argomento interessante per stemperare la palpabile tensione tra
loro e disse:” Ho saputo da una nostra scolara, la figlia del capo delle guardie,
che nostro padre ha ingaggiato un folto gruppo di operai scelti per abbellire il
patio ed il Salone degli Ambasciatori. Il sultano è proprio un fanatico della
bellezza architettonica, vuole che tutto sia splendido, sorprendente, magnifico,
ma a noi cosa regala? Riconosco la sua genialità come uomo d’arme che ha
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fatto molte conquiste importanti come Algeciras, persa dal nostro caro nonno,
ma mi sembra fin troppo munifico, direi quasi spendaccione! E la nostra dote,
care? Quella che ci spetta e di cui non parla mai? Se ne sta sul trono in cima
alla scalinata ad ascoltare i suoi sudditi, a dirimere liti, a decidere su questioni
di giustizia, a dare ordini ed a ricevere in udienza ambasciatori stranieri e viene
a trovarci solo per controllare quello che facciamo, non siamo amate, ma solo
sorvegliate. E non venitemi a dire che il sultano può fare ciò che vuole!. Vorrei
proporre ad una di voi, la più coraggiosa, di andare a vedere come procedono i
lavori di abbellimento. Sapete, ci sono operai stranieri nella squadra, uno dei
quali è un Italiano di nome Pietro che viene da Firenze!”
“Uhm!”, fece Zorayda per nulla convinta dal lungo discorso della sorella,” Mi
sembri più velenosa del solito nei confronti di nostro padre, non approvi forse il
suo agire per la gloria musulmana?
E’ meglio che qualcuna di noi esca da qui
per vedere cosa succede fuori e si porti dietro Fatima ed il muto”.
“ Ma che vai dicendo, Zorayda! Passi per Fatima alla quali si può inventare una
scusa qualsiasi come quella di accompagnarmi al mercato per acquistare delle
nuove pezze di tessuto da utilizzare a scuola, ma il muto? Questa poi ci
mancava, la compagnia del muto! Sei forse uscita di senno, bella mia? Non ti
sei ancora accorta che quello ci spia? E’ muto sì, ma non stupido! Magari fosse
anche cieco! Posso sembrarti cinica, ma è che non lo sopporto. Non hai notato
come lancia sguardi d’intesa alle guardie ammiccando verso di noi, come ride
sguaiatamente con la bocca spalancata, piena di denti marci? Mi deludi cara
sorella, ti credevo più perspicace!”, le rispose Zorahaida con voce acida.
“ Voglio tentare io, sono certa di farcela! Il mio desiderio più grande è quello di
trovare il modo di contattare la nostra mamma e non voglio perdere le
speranze. La presenza di uno straniero mi intriga molto, lo confesso, ma non
farò passi falsi. State tranquille! Non sapete forse che sono sempre stata
prudente e riflessiva? Conto sul fatto d’essere la più giovane e la figlia
prediletta,
quindi il sultano si dovrebbe fidare di me!” tagliò corto Zaida.
“ Sappiamo bene
che sei coraggiosa. Allora, va pure! Non ci deludere,
prediletta e soprattutto non nasconderci nulla!”
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Zaida scese con passo svelto dalla splendida abitazione che le era diventata
una prigione soffocante. Quando c’erano in visita stranieri le donne musulmane
dovevano rimanere nelle loro stanze, quando invece non ce n’erano, potevano
muoversi liberamente in tutta la casa, occuparsi dei lavori domestici
e
dell’educazione dei figli.
Non tutte le donne però rimanevano nascoste: domestiche e schiave( e ce
n’erano tante!) servivano gli ospiti con il viso scoperto e non dovevano
rispettare le regole di moralità imposte alle donne libere.
Zaida aveva scelto una mattinata calma: nessun ospite si aggirava nel palazzo
e lei, con il volto coperto, aveva attraversato il cortile, ambizione di tutti i
cittadini dell’emirato musulmano, ed insieme a Fatima, attraverso una porta
nascosta tra il verde, era uscita all’aperto tra la gente vociante.
Rientrate inosservate per un’altra porta che dava sul Cortile dei Mirti,
proseguirono verso la Sala della Barca ed il Salone degli Ambasciatori dove una
nutrita squadra di operai ed artisti era intenta al lavoro.
La bellezza mozzafiato di quel salone esaltava l’origine divina del potere del
sultano.
Le due donne non avanzarono, ma si nascosero in un angolo da cui potevano
ammirare le ricche decorazioni policrome
che lo ricoprivano tutto dal
pavimento al soffitto.
Esperti stuccatori stavano lavorando ai pannelli abbellendoli con svariati motivi
ornamentali( foglie, conchiglie, stelle), tanto ben fatte da sembrare vive e
palpitanti, quasi che le si potesse afferrare allungando una mano. E le scritture
cubica e corsiva? Erano anch’esse un motivo ornamentale. La cufica, di origine
araba, aveva un andamento rettilineo ed angolato. Era denominata cufica
perché originaria della città di Kufa in Iraq ed era stata la prima a comparire
nella decorazione architettonica.
Quella corsiva, con caratteri legati ed andamento circolare e flessibile,
era
apparsa quando si stava già diffondendo l’uso della scrittura per i documenti
ufficiali ed amministrativi. Era conosciuta dalla maggior parte della gente
istruita che sapeva leggere e scrivere come appunto Zaida e le sorelle.
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Le due ragazze erano così intente ad ammirare quello splendido gioco di
geometrie alternate a vegetali e strisce di epigrafi e gli azulejos che ornavano
la parte bassa delle pareti, che avevano quasi dimenticato lo scopo della
sortita.
Fatima era stata edotta da Zaida sul motivo dell’uscita. Ragazza alta e ben
fatta, nonchè colta ed intelligente, non aveva sollevato obiezioni e sorrideva
dolcemente alla giovane che, più che padrona, era un’amica sincera.
Fatima aveva ricevuto molte proposte di matrimonio, ma non ne voleva proprio
sapere.
Desiderava rimanere
libera e
viveva
volentieri
all’ombra delle
principesse. Non aveva più i genitori, assassinati, si diceva per vendetta, da
sicari assoldati da una famiglia rivale.
Quel giorno indossava un morbido abito di seta con cordoncini sul davanti e
bracciali ad anello sulle braccia scure e ben tornite. Portava anche vistosi anelli
alle dita affusolate, regalo di Zaida che non le faceva mancar nulla. Era
veramente bellissima!
Gli artigiani, lavoratori instancabili degni di plauso, non avevano neppure
notato le due ragazze entrate con passo felpato che guardavano ammirate la
maestosa cupola di legno realizzata da veri maestri dell’intarsio. I legni, di
diverso colore, davano l’idea della profondità del cielo, delle stelle e del
Paradiso musulmano. Le sette corone concentriche di stelle rappresentano i
sette cieli che l’anima deve attraversare per arrivare alla cupola centrale,
l’ultimo livello che è il Paradiso.
E che Paradiso per chi ci credeva e ci crede! Infatti non tutti i musulmani erano
e sono pii osservanti della Legge. Molti non credevano neppure ai quattro
alberi e quattro fiumi di quell’ambito Paradiso,
né che esso fosse un eden o giardino terrestre.
Zaida si rivolse a Fatima dicendo:” Per me l’Italiano è quel giovane là, quello
con la barba corta che osserva come lavorano gli altri. Forse cerca d’imparare
da loro. Vedi, è anche vestito come si conviene e, a prima vista, mi sembra un
cristiano, uno di quelli i cui re ci combattono. Ho buon fiuto per certe cose!” Poi
aggiunse:” Non possiamo passargli accanto senza farci notare e poi per oggi
abbiamo già visto abbastanza da poterlo raccontare alle altre. Quello, e non mi
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sbaglio, è un giovane colto ed intelligente. Penso sia opportuno affidarci a lui
ed a Giuseppe per scoprire dove si trova nostra madre. Ora andiamocene!”
Pietro aveva capito che, se voleva farsi degli amici ed intrattenere buoni
rapporti con loro, doveva imparare la lingua del posto. Si era riproposto di
parlarne a Giuseppe che lo avrebbe certamente incoraggiato ed aiutato.
In quel palazzo di gesso cesellato, tra le innumerevoli colonne che lo
cingevano, Pietro avrebbe incontrato una presenza femminile con cui stringere
amicizia. Non poteva certo prevederlo, ma un incontro in particolare avrebbe
dato una svolta decisiva alla sua vita.
Intanto Zaida e Fatima erano rientrate nella loro residenza e Pietro continuava
a concentrarsi sulle tecniche da apprendere
per diventare abile, anzi
abilissimo, nell’allestimento dei mocarabes, prismi e poliedri di legno o stucco,
intagliati in forme concave nella loro parte inferiore. Nulla di simile aveva visto
nella sua Firenze, né nelle chiese, né nei palazzi della città.
Quei muqarna
venivano utilizzati per decorare soffitti, mensole ed archi. Gli
era venuto in mente di idearne alcuni di foggia nuova e fantasiosa così da
poter salire nella considerazione del vero capo, Giuseppe.
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SAVINIO ED EMANUELE, DUE SIMPATICI CAVALIERI
Il capomastro Giuseppe, per gli amici Beppo, che sovrintendeva, tre l’altro, ai
lavori di abbellimento della Sala del Trono, del Cortile dei Leoni e del patio del
Mexuar,
era
soprannominato
“exacto”
poiché
pretendeva
la
perfezione
nell’esecuzione dei lavori e spesso faceva seguire la sua approvazione da un
cenno affermativo del capo e dall’esclamazione “exacto!”.
Giuseppe aveva due cari amici italiani, una coppia a dir poco originale. Erano
costoro Savinio ed Emanuele che si vantavano d’esser stati prodi cavalieri
cristiani. Vestivano con pantaloni a righe grigio e marrone un poco rigonfi ai
lati. Portavano un gilet damascato sulla camicia con le maniche
a sbuffo e
scarpe nere e lustre con tacchetto. Il capo era coperto da un turbante nero
chiuso sul davanti da una falsa pietra preziosa dietro cui spiccava una piuma
variopinta d’uccello.
Savinio era figlio di madre veneziana, di cui parlava il dialetto, e di padre
francese che, a suo dire, era un nobile decaduto.
Emanuele era suo nipote, figlio del fratello, anch’egli veneziano e poco più che
un ragazzo.
I due raccontavano con entusiasmo le loro avventure di cavalieri gonfiando a
dismisura le loro gesta valorose, confessavano però d’essere dei disertori.
Naturalmente coraggio e diserzione non vanno a braccetto e pochi li
prendevano sul serio.
Visto che vivevano bene a Granada non si erano mai pentiti d’aver disertato,
anzi giustificavano ampiamente la loro fuga avendone avuto abbastanza di
morti decapitati e sbudellati, di cavalli azzoppati, del sangue che intrideva la
terra dei campi di battaglia, di tanta ferocia, di tutta quella carneficina,
dell’efferatezza dei mori e di quella ancor maggiore dei cavalieri cristiani. Le
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due fazioni erano spinte solo da un sentimento: l’odio. Uccidevano donne e
bambini nel nome del Signore e si fregiavano dell’appellativo di “cristiani”,
mentre erano solo individui assetati di vendetta, di ricchezza, di gloria, veri
satana in carne ed ossa.
Le loro imprese non erano dettate dalle fede nell’Agnello immolato per la
nostra salvezza, ma da una sfrenata sete di conquista e di bottino. Molti erano
mercenari ignoranti assoldati solo per gonfiare gli eserciti.
Giuseppe aveva presentato i due veneziani a Pietro dicendo che si poteva
contare su di loro in caso di bisogno e quello li aveva ascoltati a bocca aperta
incerto se credere loro o meno.
I due gli fecero simultaneamente un profondo inchino quasi a toccare col capo
fino a terra e poi gli dissero che la loro fortuna derivava da una piccola attività:
erano allevatori ed addestratori di piccioni viaggiatori e falconi. Avevano
iniziato allevando galli da combattimento, ma con scarso successo perché ci
voleva una grande pazienza e troppa fatica. Avevano poi smesso con quelle
creature indocili, combattive e crudeli ed iniziato ad allevare piccioni
viaggiatori, lavoro molto più bello e gratificante.
“ Ti danno una gran soddisfazione, sono intelligenti, affidabili, volitivi. Volano a
gran velocità ed impiegano molto meno tempo dei cavalli per coprire grandi
distanze. Galoppare è una cosa, volare è ben altro!” Emanuele continuava a
parlare come se si rivolgesse ad un gran pubblico invece che a Pietro e
Giuseppe.
Savinio aggiunse:” Che bello aprire una finestra
per far volar via il piccione
con il messaggio legato ad una zampetta e sapere che verrà consegnato. Quali
altri messaggeri sono così celeri?”
Alla fine di quel discorso pieno di enfasi Savinio si grattò la pancia prominente
molto soddisfatto di se stesso ed aggiunse:” Amico, se in futuro avessi bisogno
dei nostri servigi, sappi che siamo gli unici nella zona a poterti procurare subito
un bel volatile a prezzo accessibile”.
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Detto questo, il grassoccio bonario e lo smilzo pallido ed allampanato ,
salutarono e si congedarono battendo i tacchi in modo comico, come
marionette.
Quando si furono allontanati, Pietro proruppe in una sonora risata, si teneva
stretta la pancia ed aveva le lacrime agli occhi. Non mancò di fare un
commento scherzoso chiedendo al capomastro:” Ma che tipi! Parola d’onore
non ho mai incontrato due personaggi così buffi in vita mia!”
Giuseppe si era offeso dato che li reputava non solo amici buoni e fidati, ma
persone davvero in gamba che gli avevano reso molti favori in passato,
comunque non lo diede a vedere perché non
voleva bisticciare con Pietro.
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ORSO SI DECIDE
Mentre Pietro aiutava a rivestire una vasta superficie del muro con pezzi di
piastrelle smussate, tagliate e limate alla perfezione, Orso usciva dalla sua
casupola-magazzino dopo aver frizionato a dovere le braccia nerborute, il
torace e le gambe con dell’olio profumato che rendeva la pelle lucida ed
elastica. Lo aveva acquistato al mercato da una vecchia andalusa con lunghi
pendagli dorati alle orecchie, avvolta in uno scialle variopinto che sedeva su
uno sgabello decantando i suoi prodotti erboristici buoni, ma cari.
Dopo l’incontro con Adelaid Orso curava molto di più il suo aspetto cercando di
tenersi pulito ed in ordine.” Anche l’aspetto conta”, pensava e quindi evitava di
girare sciatto e trasandato.
“ Ho più di quarant’anni e quella fanciulla ne ha si e no diciotto. Sembra
gradirmi, ma cosa spero?”
Quella mattina la Sierra Nevada si stagliava bianca contro il cielo grigio. Il
mozzo rientrò nella baracca e ne uscì poco dopo coperto da una giacca di pelle,
di non so quale animale, per proteggersi
dall’umidità, poi si stiracchiò, flettè le gambe e fece qualche piegamento per
scaldare i muscoli.
Fatto questo si avviò a passo sostenuto verso la collina proprio dal lato della
residenza del sultano.
Voleva ritrovare la stradina laterale che portava alla casa delle due donne e,
dato che era giorno di festa, pensava che la ragazza, che lo faceva sognare ed
alimentava le sue speranze di un focolare domestico, fosse in casa.
Ad Orso non faceva certo difetto la costanza per raggiungere lo scopo che si
era prefisso e, giunto a destinazione, si appoggiò con noncuranza al muro
scalcinato adiacente alla casetta che presto gli sarebbe stata familiare.
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Stava appostato da lungo tempo bilanciandosi ora su un piede, ora sull’altro
dato che uno gli formicolava e voleva togliersi quel fastidio,
quando le due
donne uscirono di casa dirigendosi verso di lui.
Orso le aveva a malapena notate perché stava fissando la punta di una scarpa.
Quando alzò lo sguardo e le vide avvicinarsi sorridenti, ebbe un tuffo al cuore.
“ Forse è meglio che vada loro incontro!” pensò accennando un timido saluto.
Le due, che non aspettavano altro, lo invitarono, con fare ossequioso,
ad
entrare nella loro casa.
Era un’abitazione modesta, ma pulita: un piccolo tavolo quadrato e poche sedie
di legno vicino al focolare. L’alcova, posto sul lato destro della camera, era
chiusa da una tenda vecchia e scolorita che un tempo doveva esser stata di un
bel rosso vivo. Povertà sì, ma ordine e pulizia.
Né fontana, né porticato colonnato, ma solo un orticello con fiori e qualche
albero ormai spoglio. La casa prendeva luce da una finestrella e dal cortiletto.
Orso, che era stato invitato a sedersi, notò che le due ospiti non erano affatto
impacciate, ma liete di essere in compagnia di un forestiero. Lui invece si
sentiva alquanto imbarazzato. Sfruttando quel poco che aveva imparato
dell’idioma locale chiese alla donna anziana come mai vivevano sole e lei, che
si chiamava Aisha, gli raccontò la loro storia. Era vedova da molti anni e
lavorava insieme alla figlia come serva nel palazzo della sorella del re moro,
donna grassa, altezzosa e talvolta crudele. Era duro per loro guadagnarsi la
vita così, non avendo né aiuto, né protezione dai loro parenti che abitavano
lontano da Granada.
Fino a quel momento la giovane Adelaid era rimasta ad ascoltare la madre ad
occhi bassi in rispettoso silenzio ma poi, ansiosa di dire la sua, accennò al fatto
d’essere già in età da marito, ma che nessuno si faceva avanti perché non
aveva dote.
Orso, volgendo lo sguardo ora verso una, ora verso l’altra, raccontò
succintamente ed il più chiaramente possibile, d’essere un Italiano scampato
ad un naufragio e tratto in salvo dal comandante di un vascello insieme ad altri
superstiti. Aggiunse che lavorava per un padrone
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esigente riparando barche e le reti da pesca. Le impietosì dicendo di essere
solo, di non aver né moglie, né figli che lo aspettavano in Italia e che gli
sarebbe piaciuto metter su famiglia a Granada. Anche se non lo avevano detto
esplicitamente Orso comprese che quelle erano interessate alla sua condizione
di scapolo e che lui poteva corteggiare e forse anche sposare Adelaid, quindi
mangiò e bevve con piacere ciò che le donne gli offrirono con gentilezza e fu
invitato a tornare tutte le volte che voleva.
Il mozzo pensò:” E’ chiaro come il sole che si aspettano un aiuto economico da
me”. Quindi si alzò, mise sul tavolo un gruzzoletto di monete, non molte, ma
sufficienti per fare una bella spesa, si inchinò con un sorriso aperto e benevolo
e promise loro che presto sarebbe tornato.
Adelaid, visibilmente compiaciuta e col canto nel cuore, lo accompagnò alla
porta.
“ Le piaccio, i suoi begli occhi me lo dicono!” pensò Orso varcando la soglia e
si allontanò.
In quella calle, come in altre, mura, porte e finestre avevano occhi ed orecchie,
captavano suoni, parole, sguardi ed atteggiamenti inconsueti. Fu quindi palese
al vicinato che Adelaid stava conquistando l’amore dello straniero e comari ed
amiche curiose, chiacchierone ed invidiose, cominciarono ad assediare Aisha
con domande indiscrete.
Alcune, senza ritegno, la fermavano per la strada
e le chiedevano con
sfrontatezza:” Ma il forestiero fa sul serio con tua figlia? Come farai a darle una
dote? Non sarebbe meglio maritarla con un ragazzo del posto? Sai che tipo è e
da dove viene?” ed avanti di questo passo.
Aisha rispondeva a tono:” E chi vi dice che mia figlia desidera sposarlo? Ci
vuole tempo per conoscersi bene ed il matrimonio è un passo che va
ponderato! Tu Alina, dovresti saperlo meglio di chiunque altra, dato che il tuo
sposo ti ha piantato due anni fa e non è più tornato!” Così dicendo volgeva le
spalle ai pettegolezzi.
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Per metter fine alle chiacchiere Orso chiese formalmente ad Aisha la mano di
Adelaid la quale, manco a dirlo, accettò con gioia.
La parentela lontana seppe dell’unione a cose fatte, ma non se ne rallegrò un
po’ per invidia ed un po’ perché Adelaid continuava a vivere con la madre ed
Orso nella baracca, comunque la loro era una situazione regolare agli occhi di
tutti.
Si sposarono, ma la lune di miele che Orso volle trascorrere in una bella
abitazione messagli a disposizione da un amico ricco che trafficava al porto, fu
amareggiata dal fatto che lo sposo scoprì che Adelaid non era vergine. Montò
su tutte le furie tanto che la povera ragazza, terrorizzata e temendo di venir
malmenata, si prosternò ai piedi del marito tutta lacrime e singhiozzi.
“ Avresti dovuto dirmelo subito, puttanella! Che brutta sorpresa mi hai
riservato! Perché mi hai trattato come un estraneo, perché ingannarmi così? Mi
sento talmente umiliato che, se non fosse per il rispetto che porto a tua madre,
ti abbandonerei immediatamente!”
La ragazza capì poco delle parole dette con furia ed in italiano, ma il loro tono
non lasciava adito a dubbi, si azzardò quindi a dire con voce flebile:“ Nessuno
lo sa, neppure mia madre!
Marito mio, ho tanto sofferto per questo! Non
poterlo raccontare a nessuno, non poter sfogare la mia rabbia ed il mio dolore
è stato il mio maggior tormento! Non ho colpa di nulla. Ho subito violenza da
un cavaliere che bazzicava nella casa dove lavoro e mi vergognavo troppo per
dirlo alla padrona e poi, cosa ne avrei ricavato? Chi dà credito alle parole di
una povera sguattera?
Ti chiedo umilmente perdono per non avertelo confidato prima del matrimonio,
ma temevo che non mi avresti più sposata”.
Orso comprese e, seppur a malincuore, la fece alzare, la strinse a sé con
tenerezza e le raccomandò di non tenergli nascosto nulla in futuro. Ora lui era
suo marito, aveva il diritto di sapere ed il sacro dovere di proteggerla. La loro
vita doveva procedere in pace e le assicurò quindi che l’aveva perdonata e non
ritornò più sull’argomento.
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Le giornate si erano allungate, era arrivata la calura ed il sole feriva gli occhi
quando, una sera, nacque Tommaso, il figlio di Orso, poi Tommasino per gli
amici.
L’unica finestra della casetta faceva entrare la pallida luce lunare ed una
candela ardeva sul tavolo.
“ Andrà tutto bene e metterai al mondo una splendida creatura!” diceva la voce
incoraggiante della levatrice. Una nuova contrazione e un grido, seguito dalle
parole di incitamento di Aisha, scosse il silenzio notturno. Poco dopo: “ Ecco,
vedo già la testina, continua a spingere cara che sta uscendo!”
Un vagito vigoroso fendette l’aria: “ E’ un maschio vispo e sano, Adelaid!
Brava, brava , ci hai messo poco. Che fortuna, sono davvero felice!”
Tommasino succhiava avidamente dalle mammelle turgide della mamma
mentre Orso contemplava la scena più orgoglioso che mai.
Quello era il vero legame che lo inchiodava alla terraferma dato che al lavoro al
porto che non gli piaceva più.
Quando l’omone lo prendeva tra le braccia, il piccolo ruttava e scoreggiava
sonoramente e lui si sentiva un Dio in terra, pronto a sacrificare tutto per il
bene del figlio.
Adelaid rideva di cuore ai rutti ed alle scoregge del piccolo affamato ed
esclamava battendo le mani divertita:” Proprio uguale al suo papà!” e, quando
lo aveva in braccio, sembrava una bambina col suo bambolotto.
Aisha continuava a lavorare nel palazzo della sorella del sultano ed Orso, che
aveva proibito ad Adelaid di lavorare là, provvedeva ampiamente ai bisogni di
mamma e bambino riparando le imbarcazioni con maggior lena.
Ma Orso era veramente innamorato di Adelaid? Diciamo che nutriva per lei
affetto e tenerezza, ma amore era una parola grossa.
Gli piacevano la dolcezza degli occhi neri della ragazza, i suoi sorrisi, la sua
voce, ma non il suo servilismo ed il modo che aveva di adularlo e di assentire
in ogni cosa solo per fargli piacere.
L’aveva presa in moglie però, nessuno l’aveva costretto a quel passo e quindi
avrebbe dovuto accettarla così com’era con pregi e difetti.
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Certamente Adelaid amava il suo uomo più di quanto lui amasse lei e non
avrebbe mai pensato che non fosse del tutto sincero nelle sue manifestazioni
d’affetto.
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LA RICCHEZZA A PORTATA DI MANO
I
moti
dell’animo
umano
sono
spesso
strani,
variabili,
inspiegabili,
incomprensibili : odiamo, amiamo, mostriamo avversione o stima; talvolta
quello che ci appariva bello, interessante, degno di ammirazione, a distanza
d’anni o anche di poco tempo, ci diventa noioso se non addirittura
insopportabile. Orso, come ogni altro essere umano, era soggetto al cambio
d’umore, di interessi e purtroppo anche di sentimenti.
Il mozzo era entrato nella bettola d’angolo perché aveva la gola secca. Ciò era
dovuto probabilmente al cibo piccante ,anche se ottimo, preparato da Aisha.
Seduto ad un tavolo in penombra aveva ordinato subito un bicchiere di sidro e
pensava ai casi suoi.
Alzati gli occhi dal tavolo su cui tamburellava con due dita della mano destra,
notò un giovane vestito elegantemente che l’osservava. Poteva avere
trent’anni, viso attraente e portamento da vero gentiluomo , non sembrava del
posto.
Non molto educatamente Orso lo apostrofò così: “ Perché mi fissate con
insistenza, che cosa volete da me?”
Il giovanotto tese la mano ad Orso che la strinse con una certa riluttanza.
“ Non voglio apparire impertinente, né seccarvi, ma desidero tanto parlare con
qualcuno disposto seriamente ad ascoltarmi poiché fino ad ora nessuno mi ha
preso sul serio”.
“ Ma perché vi rivolgete proprio a me, cosa vi fa pensare che voglia
ascoltarvi?”
“ Ho un sesto senso, in voi riconosco i tratti di un vero uomo e capisco che
posso fidarmi”.
“ Sedetevi e raccontatemi! Se è cosa davvero interessante avrete tutta la mia
attenzione!” replicò Orso lusingato e tutto ringalluzzito per quel complimento
inaspettato, nonché incuriosito dalle parole del gentiluomo o supposto tale.
“ Posso offrirvi un bicchiere di buon
vino? Il sidro è come acqua e non
rinfranca l’animo!” gli disse il giovane.
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“ No, grazie. Un bicchiere tira l’altro e non vorrei rincasare brillo. Ho una
moglie giovane ed un bimbo nato da poco che mi aspettano”.
Orso parlava in uno spagnolo stentato intercalando qualche frase in italiano
eppure lo sconosciuto lo capiva perfettamente.
“|Siete quindi uno straniero come tanti in questa città e sposato qui. E siete
italiano, non è vero? Motivo in più per esporvi il mio progetto. Suppongo che,
avendo già una famiglia da mantenere, vogliate guadagnare molto per offrirle
una certa agiatezza, una bella casa per esempio, il futuro assicurato per il
bambino….e, come si chiama vostro figlio?”
“ Tommaso!”
“ Bel nome davvero!”
“ Oh, sono proprio sbadato! Non mi sono ancora presentato: Josè Maria Ruiz( il
Barone per gli amici). Mi chiamano così perché vesto in modo raffinato ed amo
circondarmi di cose belle ed anche di belle donne! Provengo da una ricca e
nobile famiglia portoghese, ho viaggiato in lungo ed in largo per il mondo e
parlo molte lingue tra cui lo Spagnolo e l’Italiano, come ben vedete!”
Ad Orso quel Ruiz cominciava a piacere e, dopo aver già bevuto tutto il suo
sidro ed essersi asciugato la bocca col dorso della mano, lo pregò di
raccontargli tutto.
“ E’ un affare straordinario quello che propongo, una cosa seria. Premetto che
non sto inseguendo un bel sogno e non racconto frottole. So perfettamente che
in un luogo non troppo lontano da qui è sepolto un tesoro di inestimabile valore
ed ho la mappa per poterlo trovare. Ci vuole si e no una settimana di viaggio,
ma non me la sento d’avventurarmi da solo quindi cerco qualcuno che venga
con me.”.
Detto questo trasse da una tasca interna della giubba una pergamena sgualcita
e sbiadita con il disegno, ancora abbastanza visibile, dei resti di una fortezza
nelle cui vicinanze era segnalato un quadrato di terra contrassegnato da una
piccola croce. Lo mostrò ad Orso che, presolo in mano, lo rigirò da ogni lato
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facendo segni d’approvazione col capo, borbottando come se avesse capito
tutto e poi glielo restituì
Questo tesoro venne sepolto da cavalieri portoghesi prima che la fortezza fosse
presa ed incendiata. Per arrivarci bisogna attraversare la Sierra Morena e poi
giungere in Estremadura che è molto vicina ad Portogallo dove sono nato.
Cosa singolare è che in quel luogo c’è anche una piccola cappella in onore di
Maria Vergine, rimasta inviolata durante una lunga guerra mossa ad un califfo
musulmano.
Un cavaliere, che conosce bene le vicende di quel luogo, mi ha assicurato che il
tesoro esiste davvero, ma non è stato dissotterrato a causa di una leggenda
che incute terrore superstizioso in tutti i ricercatori ed avventurieri che ho
incontrato fino ad ora.
“ Ditemi dunque che cosa si racconta di tanto terrificante al riguardo!”,
esclamò Orso ridendo divertito.
Poi proseguì : “ Non credo ai fantasmi e neppure alla iattura!”
“ Non c’è nulla di cui ridere, amico! Dicono semplicemente che chi si avvicina al
tesoro trova morte certa. Ecco perché nessuno vuole partire con me! Gli
uomini con cui ho parlato sono tutti cacamiracoli e spavaldi senza coraggio.
Voi mi sembrate diverso ed è per questo che vi confido tutto. Non pretendo
che decidiate su due piedi se diventare ricco sfidando il destino e sfatando la
leggenda, oppure continuare a lavorare al porto spaccandovi la schiena. Posso
darvi tre settimane di tempo per riflettere bene. Quindi vi aspetterò qui con la
risposta, diciamo, tra ventun giorni esatti da oggi alla stessa ora.”
“ Questo mi sembra un crudele prendere o lasciare! E come giustificherò io una
lunga assenza dal lavoro col mio padrone che è già incazzoso per natura e se
la prende per un nonnulla? Cosa dirò a mia moglie ed a mia suocera? Come
spiegherò che le abbandono?” protestò Orso alzandosi e facendo segno di
volersene andare.
Josè lo afferrò subito per la manica della giacchetta e lo pregò di risedersi e di
ascoltarlo.
“ Calma, calma, amico! Se chiedo la vostra collaborazione è segno che posso
aiutarvi. E’ meglio dire alla moglie la verità subito e tutta intera senza
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nasconderle nulla. Alle donne non piace essere prese per il naso. Per quanto
riguarda il Vostro padrone…ma come si chiama?”
“Pablito el Gordo”.
“ Ah quello là, lo conosco bene. E’ uno sbruffone iracondo, ma gli parlerò e
sistemerò tutto. Naturalmente avremo a disposizione tutto ciò che occorre per
il viaggio, danaro, due cavalcature e provviste d’acqua e di cibo ed anche delle
armi nel caso fossimo costretti a difenderci!”
Il cuore di Orso era dilaniato da sentimenti contrastanti che facevano a pugni
tra loro, l’accenno alle armi gli mise i pensieri in gran subbuglio e la testa prese
a girargli. Comunque promise che avrebbe meditato sulla proposta, ma
affermò che non era poi tanto certo che avrebbe accettato.
Uscito dalla bettola nulla riuscì a calmarlo e fugare la sue perplessità, né il
vento che gli soffiava in faccia ululando, né il fatto che si rendeva ben conto
che quello che gli era stato prospettato rimaneva il suo sogno, ma pur sempre
un sogno, che quel sogno di ricchezza avrebbe potuto anche realizzarsi solo se
avesse avuto il coraggio di sfidare l’ignoto. Poi, come per incanto, sorse in lui,
al disopra di ogni dubbio, la certezza che finalmente la sua fortuna sarebbe
cambiata. Mentre gli scrosci di pioggia lo inzuppavano da capo a piedi e un
soffio di vento lo investiva sgarbatamente, d’un tratto, la sua fiducia svanì. E
se poi si fosse sbagliato, se si fosse trattato solamente delle parole di un
venditore d’illusioni? Concluse che aveva tutto il tempo per riflettere e si quietò
assaporando il bel calduccio che avrebbe trovato a casa.
Ci mise due giorni per decidere se confidarsi o meno con Adelaid ed alla fine
pensò che era suo
dovere spiegarle tutto e dirle la verità.
Adelaid reagì molto diversamente di come si aspettava. Andò su tutte le furie,
protestò, pianse sfoderando una grinta che Orso non le conosceva. A lei non
importava nulla di una futura ricchezza, era paga della vita semplice di ogni
giorno, voleva accanto il suo uomo, esigeva il suo amore per lei e per il
figlioletto. Orso non poteva, non doveva abbandonarli e, vista l’impassibilità e
la durezza di lui che si era illusa li amasse, cominciò ad urlare e ad
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avventarglisi contro di lui come una furia, colpendolo il petto
con pugni e
graffi.
Orso avrebbe dovuto desistere e comprendere che Adelaid era disperata, che
lo amava davvero, invece si incaponì, dichiarò che voleva fare di testa sua ,
diventare ricchissimo, vivere senza i problemi dei comuni mortali, felice e
beato senza dover più lavorare per una paga che reputava misera, che un
buon marito deve poter mantenere la moglie nella bambagia.
Sarebbe tornato da lei carico d’oro e di gemme preziose, le avrebbe costruito
un gran palazzo fornito d’ogni comodità, con serve e servi ai suoi ordini. Lei
avrebbe sfoggiato splendidi vestiti e gioielli e sarebbe stata invidiata da quelle
vicine che l’avevano criticata per averlo sposato.
A sentire tutti quei sogni di gloria, tutti quei progetti di rivalsa, Adelaid capì che
non c’era più niente da fare e addolorata, tenendo Tommasino tra le braccia e
singhiozzando forte, si ritirò in camera accasciandosi sul letto.
Erano sogni di grandezza i suoi! Pietro aveva voluto mostrarsi tutto d’un pezzo
davanti alla moglie, ma in realtà non era poi tanto sicuro d’agire onestamente.
Venne il giorno dell’appuntamento e Josè, che lo stava già aspettando, lo vide
avvicinarsi al tavolo un poco triste e con passo lento.
“ Hai deciso amico? Siediti e beviamoci un bicchiere del migliore!” gli disse il
Portoghese.
“ Sì, ho deciso. Accetto, verrò con te e poi sarà quel che sarà!”
Quella sera, nonostante i suoi buoni propositi, Orso si ubriacò, non tornò da
Adelaid e si coricò nella baracca solo come lo era sempre stato.
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LA TORRE
La primavera veniva considerata dalle principesse la stagione più gradevole. Il
sole era sì caldo, ma l’effetto dei suoi raggi era attenuato dalle frescura della
terra , dell’erba dei prati che era già alta e gli alberi portavano foglie tenere e
nuove.
Dal Paseo de las Torres si potevano vedere una costruzione biancastra, un
cubo alto e brutto con la sommità piatta e,un poco più sotto, due grandi bifore
da cui prendeva luce. Era un vero e proprio palazzo dentro una torre, poco
attraente esteriormente, ma splendido all’interno come le tipiche costruzioni
dell’Alhambra con il piano superiore a terrazza, sale riccamente decorate,
pannelli in stucco ed iscrizioni in ceramica.
Quella torre, che si staccava dalla altre e sembrava voler sfidare il cielo, era
invisa alle figlie del sultano. Guardandola da lontano rabbrividivano per un
misto di terrore ed odio.
Chi guardava dalle bifore in alto? Chi vi abitava, o meglio, chi era rinchiuso là
dentro?
Si raccontavano tante storie, come quella di una gentildonna cristiana, figlia di
un certo Sancho Jimenez de Solis. La ragazza si chiamava Isabella, era stata
catturata in una zona di frontiera e portata al precedente sultano che prima la
fece rinchiudere nella torre e poi se ne innamorò perdutamente dato che la
ragazza era bellissima.
Isabella si convertì all’islamismo con il nome di Soraya ( che significa “ luce
dell’alba “)
e sposò il sultano. Questi però, prima di contrarre matrimonio,
aveva una favorita che, per gelosia, aizzò il popolo contro di lui che aveva
sposato una ex-cristiana e lo costrinse ad abdicare in favore del fratello, el
Zagal, molto più popolare. Non rimase al sultano altra soluzione che andare in
esilio con la moglie ed i figli.
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Le principesse conoscevano quella storia, forse una favola, ma la scomparsa
della loro mamma anni addietro faceva loro pensare che fosse tutto vero e
passavano ore a discutere su come venire a conoscenza della sorte toccata alla
regina.
Né le dame di compagnia, né Fatima ne parlavano, anzi evitavano di farne
accenno per non rattristare le ragazze che, sebbene vivessero circondate dal
lusso e non mancasse loro nulla, si reputavano molto sfortunate.
“ Possiamo avvalerci dell’aiuto di Giuseppe e dell’altro straniero, quel Pietro che
lavora per lui. L’ho visto solo da lontano, ma mi sembra persona affidabile e
spero di non sbagliarmi. Pensate che valga la pena di fare un tentativo con
l’aiuto della vecchia Zelina e di Fatima? , chiese Zaida con noncuranza.
Zorayda emise un profondo sospiro e pensosa rispose:” Naturalmente
potremmo anche gettarci a capofitto nell’impresa! Quei due sono Dimmi( si
chiamavano così ebrei e cristiani che, come cittadini non musulmani, erano
“protetti” in uno stato retto dalla legge islamica). E chi potrebbe sospettare di
loro o far loro del male?”
“ Non conosci nostro padre, allora!”, la interruppe Zorahayda in tono aspro. “
Sarebbe capace di farli uccidere e poi far passare la loro morte come
accidentale. Ma quando capirai che il sultano sa anche essere crudele?”
“ Un tentativo dobbiamo farlo e presto. Troppi anni sono passati da quando la
mamma ci è stata strappata e non l’abbiamo più rivista”, ribattè stizzita Zaida
alla quale non garbava temporeggiare. Poi continuò:“ Abbiamo il dente
avvelenato con nostro padre, lo temiamo a ragione, ma perché non riflettiamo
con calma e prendiamo in poco tempo una decisione unanime dopo aver
architettato un piano che funzioni veramente?”
Le tre ragazze sedevano su un muretto del giardino che odorava di fiori. Getti
d’acqua limpida sgorgavano dalla grande fontana tra magnolie, cipressi, cedri,
mirti, gelsomini e rose.
Erano scese per la suggestiva scalinata dell’acqua, un capolavoro d’arte
nasride. L’acqua scendeva,
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gorgogliando come un piccolo torrente, attraverso i concavi corrimano decorati
da piastrelle smaltate e rallegrava le belle piante di alloro e nocciole con la sua
canzone dolce e antica.
Le giovani erano abituate a quel superbo rigoglio e non facevano più caso allo
splendore che le circondava. Dopo circa un’oretta si alzarono dal muretto
avviandosi di malavoglia verso la sala delle lezioni: era l’ora di richiamare al
lavoro le allieve.
Avevano confabulato sul modo di far pervenire un messaggio agli artisti
italiani, ma non avevano ancora trovato un accordo, quando Zaida esclamò :”
Affidiamolo a Taqi che è coraggioso e fedele, così non correremo alcun rischio!”
“ Brava ed astuta, la nostra sorellina!”, esclamarono le altre due battendo le
mani.
In quel preciso momento ebbero la certezza che avrebbero rivisto la madre e
salvato sia lei che loro stesse.
Un versetto del Profeta aveva dato loro ispirazione e coraggio:” Un’arma è più
desiderabile dell’acqua fresca in un rovente giorno d’estate”.
Si ripromisero quindi di agire di concerto e senza tentennamenti, ma dovevano
neutralizzare le difese del sultano.
Il re moro, vestito sontuosamente, sedeva su un trono rialzato nel salone dove
aveva appena impartito secchi ordini ad uno dei suoi muquaddam in cotta di
maglia. Intorno a lui c’erano mamelucchi in abito giallo, stretto alla vita con
una cintura da cui pendeva la scimitarra; questi erano
incaricati della sua
protezione personale.
Quel giorno il sultano era d’umor nero, aveva detto solo poche parole e
spostava nervosamente lo sguardo dall’una all’altra delle sue babbucce
ricamate d’oro.
Battè tre volte le mani: a quel segnale gli si avvicinarono i servitori con boccali
pieni di vino, di sidro, coppe traboccanti di miele, e grandi piatti su cui
facevano bella mostra datteri, pistacchi, mandorle, uva passa, noci e fichi di
cui andava ghiotto.
Battè ancora le mani: segno che desiderava essere allietato dalla musica.
Entrarono subito musici con un buon insieme di strumenti: un’arpa, un flauto,
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un liuto, un tamburello, ( c’era anche un provetto suonatore di arghoul) che
attaccarono un motivo gioioso, il preferito del sultano.
Quei musici erano dei veri artisti, quanto di meglio si poteva trovare sulla
piazza. Si distingueva per la sua particolare maestria un giovane che, da uno
strumento ad otto corde, ricavava suoni tremuli.
“ Tutto qui?” tuonò con la sua voce profonda rivolgendosi ai servitori. “ Dov’è
la mia provetta danzatrice?”
“ Attendete solo un attimo, mio signore, è già pronta ed entrerà subito”, gli
sussurrò all’orecchio un uomo alto quasi due metri. Il colosso, che si chiamava
Kunar, aveva il raro dono di calmare il sultano ed era il terrore della servitù,
degli amici ed ancor più dei nemici.
Nero, con la testa pelata e lucida, le braccia muscolose su cui erano tatuati
versetti del Corano, due occhi arrossati e fiammeggianti come quelli di un
demonio, agile e scattante nonostante la sua mole, intimidiva tutti giocando
con le armi come fossero birilli in mano ad un giocoliere. Fendeva l’aria con la
sua scimitarra e sapeva lanciare con grande abilità coltelli kandjar dalla lama
ricurva senza mai sbagliare la mira. Sembrava una pantera nera pronta a
colpire, aveva infatti lo sguardo ferino del predatore.
Era guardia personale ed al contempo alter ego del sultano e sapeva essere
molto crudele. Si diceva che, dietro ordine del suo signore, avesse dato in
pasto alle pantere individui sospettati di tradimento. Le pantere del sultano
erano trattate come dee e, ben pasciute ed amate, si aggiravano dentro
un’enorme gabbia nell’angolo più remoto e nascosto del palazzo.
Il re si atteggiava a grande restauratore della potenza musulmana, l’eletto di
Allah.. Padre-padrone di Zaida e sorelle era anche superstizioso ed arrogante.
Si circondava di mistici famosi che
prevedevano il futuro, erano pieni di saggezza e gli avevano assicurato la loro
assoluta fedeltà e la loro costante protezione.
Uno in particolare era il suo prediletto, il chiaroveggente in assoluto, una perla
rara. Alto, di carnagione bruna e con una fluente barba bianca ed un turbante
bianco in testa, sempre vestito
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elegantemente con lunghi abiti di seta, anelli a tutte le dita ed una massiccia
collana d’oro che gli arrivava fino alla cintola, non aveva mai azzeccato una
previsione, ciononostante Alhamar si fidava ciecamente di lui.
Mentre pensava che avrebbe presto consultato i quattro saggi, una magnifica
fanciulla uscì dal paravento e, dopo essersi inchinata graziosamente davanti al
sultano, iniziò a danzare.
I suoi occhi scuri, le braccia e le gambe tornite e belle, i piccoli seni appuntiti e
le sue movenze ammaliavano anche i suonatori ed il sovrano non riusciva a
staccarle gli occhi di dosso. La giovinetta si muoveva con la grazia disinvolta e
la leggerezza di una ninfa. Era una ballerina ed attrice consumata nonostante
la giovanissima età.
Purtroppo Alhamar passava spesso e repentinamente dal grande interesse alla
noia mortale ed anche quel giorno non fece eccezione.
Posizionando
meglio
ora
una
natica,
ora
l’altra
per
star
seduto
più
comodamente, mollò un peto tonante che sconcertò gli astanti, ballerina
compresa, i quali dovettero fare sforzi sovrumani per trattenere le risate che
avrebbero irritato l’eletto, il grande.
“ Lui si può permettere questo ed altro!” , fu la loro unanime, ma taciuta
considerazione.
Con lo sguardo perso in lontananza, il sovrano non ascoltava più la musica, né
guardava la danzatrice, poi improvvisamente urlò:” Idioti! Ne ho abbastanza,
andatevene!”
Dato che non era raro che ciò succedesse, tutti si congedarono in silenzio.
Egli si alzò e si guardò intorno impensierito: “ Cosa mai gli era successo?
Perché quel moto improvviso di stizza e subito dopo quell’apprensione e quella
tristezza immotivate?”
Inservienti dalla pelle d’ebano, che indossavano un semplice perizoma, gli si
inchinarono profondamente dinanzi e gli chiesero, sfidando la sua ira, se non
gradisse essere sventolato o massaggiato. Serio e disgustato Alhamar scacciò
anche loro.
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Quel malcontento lo impensieriva molto, un sovrano non deve cedere a
debolezze! Forse troppi pesi gravavano da tempo sulle sue spalle, troppe vite
dipendevano dalle sue decisioni!
Pensò che ricchezza, fama, potere, gloria immortale, meravigliose conquiste
fatte o ancora da realizzare, non potevano riempire completamente e dare un
senso di appagamento alla propria esistenza, potevano invece schiacciarla e
renderla insostenibile.
Nel suo cuore c’era un vuoto totale, una grande carenza d’affetto, una
solitudine difficile da colmare. Come poteva pretendere lui che d’amore non ne
aveva mai dato, di riceverlo adesso quando ne sentiva maggiormente il
bisogno?
Ripassò nella mente tutte le volte che lo aveva rifiutato e si era dimostrato
inflessibile verso chi lo amava.
Era solo, non era rimasto nessuno nel salone ed anche il fedele Kunar se l’era
svignata. Faceva sempre così perché le esplosioni d’ira del suo padrone lo
infastidivano. Non poteva essere quello il frutto di una mente senile, poiché lui
non era affatto vecchio! Erano senza dubbio le preoccupazioni e le tensioni a
cui i re cattolici lo sottoponevano da tempo.
Mentre il sultano faceva
tristi considerazioni, un messo frettoloso entrò nel
salone a capo chino. Recava una richiesta d’udienza della principessa Zaida che
quel padre terribile non poteva negarle, quindi, molto meravigliato ed
incuriosito, rispose che poteva riceverla anche subito.
Zaida, ben truccata e splendidamente vestita, entrò a passo sostenuto e si
accostò al trono su cui
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Egli sedeva. Come segno di rispetto verso l’augusto genitore, la ragazza si
prosternò e gli cinse i piedi con le braccia, ma non glieli baciò come aveva
sempre fatto da bambina e figlia prediletta.
“ Chissà cosa avrà da chiedermi e proprio oggi che sono di pessimo umore!”,
pensò l’uomo accarezzandosi la barba corta, ricciuta e folta e lisciandosi poi i
capelli crespi che doveva ungere per tenerli in ordine.
Rialzatasi la ragazza gli disse seria:” Padre mio, come state? E’ un bel pezzo
che non venite a trovare le vostre figlie ed è anche per questo che ho chiesto
udienza!”
La parola “anche” cominciò a preoccuparlo, Zaida voleva qualcosa di concreto e
quando mai si era preoccupata della sua salute?
La giovane continuò:”Ho da chiedevi un favore, anzi meglio un permesso,
ancor meglio un dono, roba da poco però, e so che, se volete, potete
accontentarmi”.
“.Parla, Zaida, che richiesta hai mai? Ti ho sempre concesso tutto quello che mi
hai chiesto, purchè non si tratti di cosa troppo costosa!”
Zaida pensò tra sé :” Magari! Invece di darci tutto ci hai privato di tutto
togliendoci nostra madre, per non parlare poi della dote……”. Questo le diceva
il cuore mentre le sue labbra rispondevano invece: “ Desidero imparare a
suonare l’ud e so di poter diventare brava perché ho orecchio e la musica mi
piace”.
A quella richiesta il sultano proruppe in una sonora risata e le rispose:” Questa
poi! Una principessa che suona l’ud, non l’ho mai vista, è una novità! E dimmi
da quando ti piace la musica?”
“ Da sempre, padre, ma a voi non l’ho mai confessato!”, gli rispose lei
speranzosa.
“ E’ invero un dono da poco quello che chiedi. Ma poi chi ti darà lezioni di ud?
Non pretenderai di prenderle da un musico esterno al palazzo o da uno
dell’orchestrina da quattro soldi che si esibiva prima! Per Allah, ma perché non
l’arpa dal suono melodioso che meglio si adatta ad una donna?
L’ud è uno strumento odioso, dal suono lamentoso e deprimente! Sei proprio
sicura di voler imparare?”, le chiese il sultano dubbioso.
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“ Certamente e so anche chi potrebbe darmi delle lezioni. Non ricordate come
suonano bene Taqi e Rashid, le nostre fedeli guardie del corpo? Suonano
d’incanto, specialmente Taqi è un vero artista! Vi prego, gran sovrano,
ordinate loro di darmi delle lezioni al cospetto delle mie sorelle e delle bimbe
della scuola! Le loro orecchie si delizieranno all’udire quel suono dolce che per
voi è lamentoso, ma per me è
proprio adatto a rallegrare il cuore. Sapete,
spesso siamo tristi e qualche concerto sarebbe un diversivo per noi!”
Zaida fece quel discorso tutto d’un fiato temendo che, altrimenti, il suo
entusiasmo non sarebbe perso autentico e lei avrebbe perso slancio e coraggio
nell’avanzare la richiesta.
Quando la ragazza accennò alla tristezza sua e delle sorelle, il sultano chinò il
capo evitando di guardarla negli occhi poiché si sentiva colpevole e poi girò
intorno al trono magnifico, tutto intarsiato ed impreziosito da decorazioni in oro
zecchino, come per trarre ispirazione e si interrogò con grande calma:” Devo
dire di sì o di no?” Prevalse il sì, tanto quel piccolo favore non gli costava nulla
ed una volta tanto avrebbe fatto felici le figlie. Quindi rispose: “ Va bene,
prenderai le tue lezioni di ud. Taqi te ne procurerà uno, il migliore in
commercio. Prendi direttamente accordi con le due guardie sull’ora ed il giorno.
Adesso va, però, perché non ho altro tempo da perdere in stupidaggini!”
Poi, brontolando e borbottando parole incomprensibili, pensando forse a nuove
armi, tattiche militari, tecniche balistiche, fortificazioni, si dimenticò della
presenza di Zaida. Probabilmente andava rimuginando sulle difficoltà in cui i re
cattolici stavano mettendo il suo regno, sulla loro continua ostilità e sete di
conquista di quella terra che sentiva sua da sempre, sulla loro astuta politica
militare e sui pesanti tributi che avrebbero dissanguato le casse granadine in
caso di sconfitta.
Visto che il padre non si curava più di lei, anzi sembrava totalmente assente,
Zaida corse via dopo averlo ringraziato col sorriso sulle labbra.
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PIETRO VA DA ORSO
A Pietro piaceva moltissimo passare per un sentiero dove la vegetazione
lussureggiante si congiungeva in alto sopra di esso formando un bell’arco,
quasi un tunnel dove regnava spesso un gran silenzio, nessun uccello cantava,
nessun insetto passava ronzando e non si vedevano in giro né lucertole né
salamandre. L’uomo fece un salto per attraversare un rigagnolo d’acqua
verdastra, uscì dal tunnel e piegò verso il porto.
Quella mattina Pietro aveva indossato la kefyah rossa e l’aveva avvolta, oltre
che sulla testa, anche sul naso per proteggersi dalla polvere. Dovette fermarsi
più volte e rallentare l’andatura dato che si sentiva stanco. La notte non aveva
dormito a causa degli incubi e di un forte vento che aveva ululato fino all’alba
tenendolo sveglio.
Era già arrivato al mare nei pressi della tana di Orso, era salito su per la
scaletta di legno sconnessa e picchiato alla porta.
Fu grato alla kefyah che quella volta, oltre a proteggerlo dalla polvere sottile
che si alzava dai viottoli e dal sole, lo proteggeva anche dal puzzo di pesce
marcio misto a salsedine che gli dava il voltastomaco.
Orso gli venne ad aprire come al solito coperto da una maglia corta e leggera e
lo invitò ad entrare, ma gli chiese di aspettare solo un attimo, giusto il tempo
di lavarsi le mani unte e la faccia così da rendersi presentabile.
“ Ho lavorato fino ad ora a sistemare reti e corde nella baracca e dimmi, caro
Pietro, a che debbo la tua visita?” Esclamò l’omone sorridendo meravigliato e
tenendo stretto l’amico in un poderoso abbraccio, poi lo invitò a sedersi sulla
botte che era sempre servita come sedia.
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Dopo qualche attimo di esitazione, non sapeva infatti se confidarsi o no con
Pietro, Orso si battè un pugno sulla coscia destra e disse tutto d’un fiato: “ Ho
messo al mondo un mostro!”
Pietro lo guardò interdetto non comprendendo se scherzasse o dicesse sul
serio, poi gli chiese:” Ma di che mostro parli? Sei ammattito o hai alzato un
poco il gomito?”
Orso emise un gemito e rispose:” Il mostro di cui parlo è mio figlio Tommaso,
colui di cui andavo fiero!”
“ Ma dimmi, come può un bimbo di
soli sette mesi essere un mostro?, gli
chiese Pietro sinceramente preoccupato.
“ Sai, mi sono accorto che ha un piede con sei dita, sei dita capisci?”
“ E con ciò, vecchio imbecille? Se per caso non lo sai ancora, ignorante che sei,
le sei dita rappresentano il possesso della vita spirituale per discernere la
verità dalla menzogna. E’ un buon segno, porta bene, Tuo figlio diventerà un
grand’uomo!”
Orso guardò Pietro con la bocca spalancata per la sorpresa e si arrischiò a
chiedere: “ E tu, come lo sai?”
L’amico gli rispose benevolmente e col sorriso sulle labbra: “ Lo so perché ho
studiato l’argomento e so anche che tre incisivi hanno invece un significato
negativo. Denotano una persona con poco equilibrio, falsa e crudele”.
Non ancora convinto Orso tornò a chiedere perplesso: “ Ne sei proprio sicuro o
mi stai prendendo in giro?”
“ Ne sono certo, anzi certissimo, come è vero che sono qui che ti parlo!”
Affermò Pietro con entusiasmo.
Orso si alzò finalmente rasserenato ed offrì all’amico un boccale di buon vino
rosso, che quello bevve a piccoli sorsi per gustarne meglio il sapore, tanto era
buono, poi chiese :” Ti fa piacere la mia visita, Orso? Non mi chiedi perché
sono venuto?”
“ Pensavo che tu volessi accertarti che sto bene e che tutto procede per il
meglio, non è così forse?
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“Se devo esserti sincero non è unicamente per vederti che sono venuto.
Desideravo sfogarmi un poco e confidarti che, da qualche tempo, sono
ricominciati gli incubi notturni e gli spettri del mio sventurato passato tornano
a tormentarmi. Tu cosa ne pensi?”
Orso si rattristò in volto o forse finse di essere preoccupato per far piacere a
Pietro, poi rispose:” Io cercherei di curarmi i nervi. La
solitudine e la
mancanza d’affetto possono giocare brutti scherzi. Nel tempo libero dovresti
passeggiare, svagarti, incontrare amici, studiare la lingua del posto per
allacciare contatti. Questo è il mio consiglio e, se fossi in te, lo seguirei!”.
Chiacchierarono ancora, poi Orso accompagnò Pietro per un buon tratto di
strada verso le abitazioni degli operai e degli artisti che stavano abbellendo il
palazzo.
Ai lati della salita crescevano bacche grosse come noci che, volendo, si
potevano cogliere semplicemente allungando una mano.
I due amici presero una scorciatoia coperta d’erba alta, fiancheggiata da alberi
e qualche cespuglio e, piano, piano, prendendosela comoda, arrivarono a
destinazione.
Pietro espresse un pensiero affettuoso per rassicurare Orso:” Non preoccuparti
delle sei dita di Tommasino e goditi l’amore della tua Adelaid. Reputati
fortunato d’avere ora una famiglia, io so cosa significa non averla più!”
Orso obiettò:” Puoi sempre trovarti una moglie e rifarti una vita, sei ancora
giovane e guadagni benino! Se diventerai abile come posatore, intagliatore e
progettista, crescerai nella stima di tutti. Cosa spetti allora? Mi hai accennato
agli incubi odiosi. E tu che credi in Dio perché non preghi per l’anima di tua
moglie e di tua figlia? Ti sarà di conforto ed anche di aiuto, almeno così ho
sentito dire da certi religiosi in Italia! Quando troverai una compagna gentile
ed affettuosa, gli incubi spariranno, te lo assicuro!”
“ Fosse proprio cosa facile!, rispose Pietro aggrottando le sopracciglia
cespugliose che si congiungevano un poco sul naso e passandosi una mano
sulla fronte mentre i suoi occhi dolci ed espressivi si velavano di tristezza.
Orso non rispose nulla e, non sapendo come consolarlo, gli battè una pacca di
incoraggiamento sulla spalla, gli strinse forte la mano e tornò indietro.
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ISABEL OVVERO MARGUERITE
La giovane Marguerite era figlia di una cantante e ballerina tunisina e di un
prestigiatore, funambolo e gran ladro genovese.
La coppia non aveva fissa dimora e campava facendo spettacoli e talvolta
borseggiando con gran destrezza passanti e frequentatori di taverne ubriachi.
Misero al mondo una bella bambina che chiamarono Margherite in ricordo della
nonna materna.
Il giocoliere funambolo morì ancor giovane a seguito delle ferite riportate
durante una rissa e la moglie restò sola a provvedere alla piccola.
Essendo caduta in miseria e non potendo quindi provvedere alle necessità di
Margherite, la vendette, cosa molto frequente a quei tempi, ad Alì al Sufi, ricco
mercante di spezie, tappeti e tessuti pregiati.
Costui divenne il padre adottivo di Margherite che crebbe bellissima, vivace ed
intelligente, l’orgoglio di Alì che la ribattezzò Isabel a ricordo dell’unica figlia
deceduta alcuni anni prima
Isabel era alta, snella, con gambe lunghe, denti bianchi come porcellana,
capelli lunghi, fluenti e del color del sole con riflessi ramati, in più i suoi occhi
erano del colore del caramello e la sua pelle ambrata. Ancor giovanetta
cavalcava con l’abilità di una cavallerizza provetta e galoppava molto
velocemente e con una disinvoltura prettamente maschile.
Aveva una tal gran voglia d’apprendere ed una mente così pronta e sintetica
che Alì pagò un precettore che la istruisse permanentemente seguendola negli
spostamenti e da cui apprese a leggere, scrivere ed a far di conto, cosa a cui il
mercante teneva particolarmente in quanto la reputava all’altezza di sostituirlo
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nel trattare le compravendite quando lui sarebbe diventato tanto vecchio e
rimbecillito da farsi fregare nelle contrattazioni.
Pioveva fitto, la notte era umida ed afosa, si avvertiva una certa vibrazione
nell’aria
e
nel
suolo,
sembrava
che
la
terra
stessa
pulsasse,
poi
improvvisamente il rumore degli zoccoli di tanti cavalli in arrivo e la carovana
fu assalita ed accerchiata da Kharsa del deserto capeggiati da un certo Omar.
I predoni uccisero tutti e razziarono la merce pregiata risparmiando solo Isabel
ed altre due giovani che andarono ad infoltire il numero delle donne dell’asà.
Per Isabel,intelligente e scaltra, non fu difficile adattarsi alla vita del deserto e,
per aver salva la vita e vivere in modo confortevole, restò fedele ad Omar che,
cosa straordinaria per un capo crudele, si avvaleva talvolta dei suoi consigli che
reputava saggi.
Omar, al pari di altri guerrieri, era stato stregato dal fascino della fanciulla, dai
suoi grandi occhi ed ancor più dai suoi capelli d’oro. L’amava pazzamente ma,
da uomo altero e sprezzante, non glielo confessò mai.
Isabel si confidava raramente e solo con le altre due ragazze che come lei
vivevano in una blanda prigionia e che chiamava “ sorelle di schiavitù”.
Ciò è in sintesi tutto quello che ci è dato sapere di Isabel e Pietro non avrebbe
potuto certo immaginare che quell’autentica bellezza avrebbe giocato un ruolo
importante nella sua vita
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UN INCUBO RICORRENTE
Pietro era a Granada da più di due anni e gli piaceva vivere in quella città
fervente d’attività e tutta colore. Ultimamente però l’entusiasmo iniziale per il
lavoro ed il suo morale erano alquanto calati
Aveva messo molto impegno ad assimilare le tecniche della maiolica applicata
alla decorazione architettonica
ed appreso quasi tutto sull’arte della
falegnameria in cui i musulmani erano autentici maestri.
Nelle gronde dei tetti, gelosie, porte, finestre ed anche soffitti ,l’uso del legno
come elemento decorativo aveva raggiunto risultati stupefacenti e Pietro si
meravigliava di tanta maestria. Anche lui ora sapeva lavorare il legno di cedro,
materiale assai duttile e resistente che non veniva intaccato dai tarli. Gli
dispiaceva solo che non gli fosse permesso di progettare edifici come aveva
spesso fatto a Firenze.
Non era affatto sereno e non si sentiva per nulla appagato. Dava la colpa del
suo stato d’animo ad un incubo ricorrente che gli guastava il sonno da
parecchio tempo e non voleva cessare.
Aveva considerato l’opportunità di acquistare qualche pozione calmante contro
quel demone scatenato che lo tormentava, però non si fidava degli intrugli che
i ciarlatani vendevano al mercato né del responso di qualche fattucchiera.
Dopo una notte tormentata si alzava stanco ed abbattuto, consumava
svogliatamente una leggera colazione non gustandola neppure dato che si
sentiva la testa pesante.
Che fosse la conseguenza d’aver visto giustiziare molti infami ed assassini ed
anche qualche vecchia accusata di malefici? Quasi tutti i giustiziati morivano
lentamente per strangolamento, scalciavano, si dibattevano e non uscivano
dalle loro labbra che urla mute. Non erano certo spettacoli per lui che ne
rimaneva terrorizzato e si ripromise di evitarli.
Con Giuseppe e gli operai si sforzava di apparire allegro e disinvolto, ma
faticava ogni giorno di più a fingere.
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L’incubo era sempre lo stesso: si sentiva debole, spaventato ed apriva gli occhi
in una stanza in penombra che era la sua camera da letto nella bella casa di
Firenze. Si vedeva macchie rosso violaceo sulla pelle, sul petto e sulle braccia e
sentiva un dolore acuto sotto un’ascella.
Sudava, sudava tanto che le lenzuola erano bagnate fradice. Aveva certamente
la febbre, tossiva e vomitava sangue. Un’arsura mai provata prima lo
tormentava ed allora perché non moriva? Lui voleva morire.
Questo era l’incubo terribile! Rivivere la pestilenza lo riportava indietro nel
tempo insieme alla consapevolezza di un’immane tragedia. I suoi parenti e gli
operai, che lavoravano nei cantieri fatti allestire da lui, erano morti quasi tutti.
Il morbo aveva mietuto migliaia di vittime, lui però era rimasto vivo.
Ricordava chiaramente d’essersi seduto sul letto con la testa che gli girava ma,
fattosi forza, era riuscito a gran fatica ad alzarsi in piedi. Il palazzo in cui
viveva e di cui aveva diretto i lavori di costruzione, la casa che amava tanto
era ora immersa in uno sgradevole silenzio. Non si sentiva nessuna voce e
neppure il rumore degli zoccoli dei cavalli nel cortile.
Aveva chiamato Susanna, la moglie, con tutto il poco fiato che aveva in gola,
ma lei non aveva risposto. Dov’era? E Lucia?
Come riuscire a salire le scale per raggiungere il piano di sopra? Alla fine ce
l’aveva fatta, ma che pena, che dolore a tutte le ossa!
Entrò passo, passo nella stanza della figlioletta di due anni e trovò il lettino
vuoto. A quella vista il terrore gli attanagliò le viscere, poi udì un rumore
provenire da un angolo della vasta camera. Lucia stava giocando con una
bambola fatta di pezza e legno, la sua preferita, quella che le aveva fatto lui
con tanto amore.
La piccola sembrava un angioletto biondo tutto vestito di bianco. Le si avvicinò
e la prese piano tra le braccia attento a non spaventarla e a non farla cadere,
si sentiva infatti debolissimo!
Seppur perplessa ed intimorita nel vedere in quella figura d’uomo solo l’ombra
del suo papà di prima, gli si avvinghiò al collo.
Giovanna, la balia, entrò subito dopo, ma si fermò in disparte e visibilmente
commossa a guardare la scena. Poi avvicinatasi a Pietro, lo invitò a sedersi, a
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calmarsi e ad ascoltarla poiché, prima di portargli qualcosa da mangiare e da
bere, voleva raccontargli brevemente tutto quello che era successo: Susanna
le era spirata tra le braccia sussurrando il nome del marito e della bambina. La
balia gli confidò che anche lei era stata male ma, grazie a Dio, aveva superato
tutto. Confessò d’essere stata presa da un grande sconforto quando si era
accorta che anche lui, l’amato padrone, aveva contratto la peste. Lo aveva
curato con affetto pregando ogni giorno la Vergine Maria per la sua salvezza e
quella della piccola e la Madonna l’aveva esaudita.
“ E’ stata davvero una grazia della Vergine che non siete morto, signor mio!”
esclamò Giovanna tra i singhiozzi che ora erano di pura gioia e commozione.
Pietro era rimasto senza fiato come se avesse appena ricevuto un pugno nello
stomaco. Sollevò il viso che teneva abbassato sul mento e disse:” Ti ringrazio
infinitamente per le tue cure, Giovanna ed ancor più ringrazio la Madre di noi
tutti, la Santa Vergine. Con il suo aiuto ed il vostro conto di rimettermi presto
in salute e tornare quello di un tempo. Mi è rimasta solo Lucia, quindi che
motivo ho di restare in una casa piena di tristezza? Rifletterò bene sul da
farsi”.
Avendo sempre lavorato sodo, Pietro aveva accumulato una piccola fortuna che
aveva nascosto in una cassetta a prova di ladro incassata all’interno di una
parete della Sala delle Riunioni di cui solo lui aveva le chiavi e, se la memoria
mon gli faceva difetto, sapeva anche dove l’aveva riposta.
Ritrovò il gruzzolo tutto intero come lo aveva depositato e diede una bella
somma di danaro a Giovanna perché potesse tornare a casa dai suoi in
campagna sperando che la ragazza trovasse qualche congiunto ancora vivo.
Giovanna gli baciò le mani fredde e smagrite con grande gratitudine, ma non
volle lasciare la casa prima che Pietro avesse recuperato tutte le forze. In
realtà quella era una scusa: il pensiero di doversi staccare dalla bambina
l’affliggeva e cercava quindi di rimandare il più possibile il giorno dell’addio.
In seguito Pietro ebbe spesso a pentirsi di quella decisione frettolosa. Ormai
vedovo avrebbe potuto sposare Giovanna, dare così una mamma alla bambina
e continuare a dimorare a Firenze fino a che tutto non fosse tornato alla
normalità, ma gli riusciva insostenibile pensare che Susanna non c’era più e la
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sognava tutte le notti. Era stata moglie e madre perfetta ed ora giaceva chissà
dove insieme a tanti corpi estranei nelle tenebre della morte. Ogni oggetto che
le era appartenuto gli risvegliava ricordi sopiti, ricordava le notti d’amore, i
giorni felici.
“ Quanto tempo sono stato malato?” chiese a Giovanna
“ Per molte settimane”rispose lei sospirando
Firenze aveva ora un aspetto spettrale: strade deserte come nel cuore della
notte, porte aperte e sgangherate, finestre socchiuse, lezzo di cadaveri ancora
ammassati sui gradini di alcuni palazzi. Quanta gente era morta? Ed i
sopravvissuti, fortunati? Non certo tutti, non certo chi aveva perduto i propri
cari ed era rimasto solo al mondo.
Giovanna preparò tutto lo stretto necessario per un viaggio di sola andata pur
non riuscendo a rassegnarsi al pensiero che forse non avrebbe più rivisto
quelle due care persone.
I legami di Pietro con Firenze erano stati recisi, nessuno dei suoi cari parenti
era sopravvissuto, neppure il fratello maggiore Ercole che lui amava tanto.
L’unico vero scopo di vita era Lucia che, non vedendo più la sua mamma,
talvolta la cercava piangendo.
Tramite un mercante suo amico, fuggito in campagna e fortunatamente salvo,
Pietro depositò un bel gruzzolo presso un banchiere fiorentino pensando che,
se fosse ritornato un giorno in città, non avrebbe avuto problemi finanziari per
molto tempo e sarebbe riuscito a dare una bella dote alla figlia.
Pietro aveva visto il mare solo una volta quando suo padre, che voleva far
visita ad un amico di Piombino, lo aveva portato con sé.
Quando arrivò a Genova, la grandezza del porto ed i suoi traffici lo stupirono
enormemente. L’acqua era popolata da velieri, bardotte, galeazze a sei vele e
due alberi, alcuni alti addirittura fino a trenta metri!
C’erano galere spinte a remi da forzati, galeotte ed altre imbarcazioni che
sarebbero partite per destinazioni lontane ed a lui sconosciute.
Quel porto era una vera, immensa città sul mare! Poteva ben rivaleggiare con
Venezia per movimento di imbarcazioni e volume d’affari.
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Nella folla si pigiavano marinai in procinto d’imbarcarsi sotto lo sguardo
inquieto dei comandanti. La prosperità della città era uno specchietto per le
allodole per tanti sfaccendati ed avventurieri che credevano d’avere la fortuna
a portata di mano.
Si sentivano parlare le lingue più disparate e si capiva dal tono dei discorsi,
delle contrattazioni e dalla sua frenetica attività che quella città sul
mare
pensava solo al danaro, ai piaceri ed al benessere che questo procura.
Pietro osservava marinai di colore, magnifici esemplari della loro razza,
scattanti, sveltissimi e vigorosi che, come formiche laboriose, caricavano e
scaricavano le navi, sempre disposti ad uno sforzo in più per qualche moneta
mollata da chi voleva fare presto
Il veliero, che doveva trasportare lui, la sua figlioletta ed un folto numero di
altri passeggeri, era già ormeggiato e non aspettava che l’ora di salpare. Pietro
salì sull’imbarcazione con l’ansia ed il cuore in gola. Non aveva mai fatto un
lungo viaggio e se avesse sofferto il mal di mare?
Trovò comunque il coraggio di allontanare tutti i pensieri tristi e di focalizzarsi
sul suo futuro in Francia, almeno così aveva pianificato……. Quello era sì il
tempo della partenza, ma anche della speranza.
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SUONATRICE DI UD
Era l’ora della preghiera che accomunava nobili, cavalieri, gente del volgo,
schiavi ed i muezzin lanciavano il loro abituale richiamo “ Allah Akbar! La la
illah ila Allah!”
Stavano tutti curvi verso la Mecca con la fronte appoggiata al suolo, recitando
la prima sura del Corano: “ Io inizio! Con il nome del Dio, ricco di clemenza,
abbondante in misericordia. Lode al Dio, Signore dell’universo, Sovrano
assoluto del giorno del giudizio!”
Pregava anche il muto dal collo taurino e che puzzava come un caprone. Gli
occhi, piccoli come capocchie di spillo, erano chiusi dentro palpebre rigonfie, il
ventre prominente sembrava sul punto di scoppiare.
Pregava? A lui non importava nulla della religione e, come tanti, se ne fregava
altamente di preghiere, digiuno e prescrizioni varie da seguire. Si era adeguato
a fingere per non essere tacciato di infedeltà al proprio credo come il suo
amico Ayyub che era stato giustiziato. Lo avevano seppellito fino al busto in
una fossa coprendolo di sabbia e poi gli avevano troncato di netto il capo dal
collo.
Da qualche tempo le cose gli andavano molto bene, la fortuna gli arrideva dato
che le principesse, che a suo parere celavano un segreto, lo allontanavano
dalle lezioni di ud che si tenevano due volte la settimana al piano superiore
della loro residenza privata.
A lui, servo viscido e parzialmente inutile, non importava un fico secco né della
musica, né di ciò che le figlie del sultano stavano tramando, lui voleva il
sacchetto pieno di monete che Zorayda gli dava perché stesse fuori dai piedi.
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Preso il sacchetto, il muto faceva il giro delle bettole a riempirsi di vino dove
trovava prostitute giovani e sempre nuove pronte a soddisfarlo. Ma che bella
vita era ora la sua! Poteva permettersi ore ed ore di libertà e di svago, non era
più schiavo, ma libero e stava anche mettendo da parte un bel gruzzolo.
Il suono dolce dell’ud aleggiava nel gran salone il cui soffitto splendeva di
intarsi in legno illuminati dai raggi del sole che filtravano attraverso le belle
bifore: una, due, tre, tante e splendide!
Taqi e Rashid, guardie personali delle principesse, erano soliti uscire da dietro
una tenda tutta ricamata a fili d’oro con versetti del corano e fatta di vari
tessuti cuciti insieme.
Entrambi di bell’aspetto, muscolosi ed addestrati all’uso delle armi, erano
anche valenti musici.
Quel pomeriggio Zaida andò loro incontro dicendo: “ Sono lieta di vedervi!
Prendete pure posto su queste sedie fatte costruire in onore di persone degne
come voi!”
Così dicendo la giovinetta indicò loro delle comode sedie tutte intagliate, vere
opere di artigianato che erano state disposte in semicerchio perché le allieve
più grandi della scuola potessero assistere alla lezione.
Le due guardie risposero inchinandosi profondamente:“ L’onore è nostro,
amata principessa! Siamo certi che la vostra bravura nel suonare l’ud sarà pari
alla vostra bellezza! Siamo pronti ad eseguire ogni vostro ordine. Non avete
che comandare e sarà fatto”.
Taqi aveva volontariamente calcato l’accento sulla parola ordine non solo
perché era pazzamente innamorato di Zaida, ma anche perché aveva capito
che quelle lezioni erano solo una copertura e nascondevano un secondo fine.
“ Se imparerò in fretta e bene, riferirete al sultano che sono brava e desidero
dargliene dimostrazione?” Chiese loro la ragazza con un atteggiamento da
cospiratrice.
“ Certamente diletta figlia del nostro sovrano, invidiata da molte donne e che
solo pochi uomini
hanno l’onore di avvicinare! Faremo in modo che vostro padre sappia della
vostra bravura e sia orgoglioso di voi. Egli è un grande condottiero cui spetta il
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compito e l’onore di riunire tutti i sudditi del suo vasto regno sotto un unico
vessillo!”
A questo punto Zaida prese a battere il piede destro con impazienza. Non
gradiva affatto che le guardie osannassero il padre con frasi fatte e melense.
Spesso gli si attribuivano bellezze che egli non aveva come: braccia di bronzo,
denti di madreperla, mani d’oro. Era un modo di adulare veramente ridicolo
che la faceva fremere d’ira.
Zaida represse a stento la stizza e si avvicinò ancor di più alle due guardie che
la guardavano estasiati, tanto era bella.
Taqi amava Zaida e Rashid non aveva occhi che per Zorayda. Erano entrambi
innamorati cotti e complici.
Zorahayda non aveva ancora infranto alcun cuore in quanto molto meno bella
delle sorelle, musona,
taciturna e scontrosa.
La sua bellezza non era
appariscente, ma insignificante, scialba.
Zaida mormorò a Taqi: “ Scambiamoci subito l’ud, nel mio c’è un messaggio
per l’artista italiano, quel tal Pietro di Firenze che dicono sia anche un nobile.
Fateglielo avere e chiedetegli di dare una sollecita risposta”.
Ciò detto si mise un dito davanti alle labbra carnose per imporre loro assoluto
silenzio e massima segretezza.
Per tutta risposta Taqi scambiò subito il suo strumento con quello di Zaida e
chinò la testa insieme a Rashid ed i due suggellarono il patto mettendosi una
mano sul cuore.
Poi la lezione, cui ne seguirono molte altre, iniziò.
Zaida, che era scaltra, riuscì in tal modo ad avviare un filo diretto inviando i
suoi messaggi e ricevendone altri che venivano puntualmente nascosti dentro
l’ud e consegnati alle guardie.
Poi le toccò fare, come si suol dire, di necessità virtù. Sebbene non le piacesse
suonare,
ma
solo
cantare,
imparò
presto
a
trarre
dallo
strumento
impareggiabili, dolci, struggenti melodie che in cuor suo dedicava alla madre e
che desiderava lei udisse e la spingesse a farsi viva in qualche modo.
Di sera si chiudeva presto nella sua alcova e, seduta su una seggiola accanto
ad una finestrella, suonava una dolce melodia e spesso intonava un canto.
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La nuova della bravura di Zaida si diffuse rapidamente per l’Alhambra e non
solo ed il sultano in persona andò a congratularsi con lei chiedendole di
suonargli un pezzo, quello che alla ragazza piaceva di più. Zaida suonò con
tanta maestria che il padre, visibilmente emozionato, riuscì a stento a
trattenere le lacrime. .Le fece anche dono di un bellissimo ud d’ebano ed oro,
impreziosito da piccole gemme.
Quando ricevette il primo messaggio, Pietro si sentì veramente a disagio e,
molto preoccupato, lo passò a Giuseppe il quale però non ne voleva sapere di
decifrarlo, quindi gli disse in tono seccato:”Di qualunque cosa si tratti, non è
per me. Mi piacerebbe ricevere un bel messaggio d’amore ma, alla mia età e
con il mio fisico appesantito, potrei portarmi a letto al massimo quella cicciona
di Kalima, una sguattera delle cucine che mi guarda con occhi vogliosi e mi
sorride quando mi vede attraversare il cortile”.
Pietro allora rispose sdegnato:” Scusami Giuseppe, ti costa tanto aiutarmi? Chi
ti dice che questo che ho in mano sia un messaggio d’amore e non qualcosa di
veramente importante? Leggimelo almeno chè io non ci capisco nulla della
lingua di Allah!”
“ Se proprio vuoi….dammelo qua!” rispose il capomastro con voce un poco
raddolcita.
“ Ecco, io non conosco alla perfezione la lingua, ma qualcosa ho imparato in
tutti questi anni! E tu quando ti deciderai a studiare l’arabo? Questo messaggio
non è scritto in corsivo, ma nella scrittura elaborata degli imam”.
Giuseppe lo lesse e lo rilesse stupito, poi sentenziò:“ Le principesse chiedono il
nostro aiuto per scoprire dove il sultano tiene nascosta la loro mamma. Caro
Pietro, questa sì che non è un’impresa
facile! In ogni caso possiamo provarci anche perché loro ci offrono una grossa
somma di danaro.
Non potremmo racimolarne tanto anche se lavorassimo qui per anni ed anni.
Allora, bello mio, perché deluderle? Tanto per cominciare, facciamoci venire
qualche idea brillante! Discutiamone insieme!”
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ORSO E’ PARTITO
Pietro si era recato da Orso per confidargli l’ultima grande novità: il messaggio
delle principesse. Teneva molto ad un parere e consiglio dell’amico, quindi
rimase basito quando un marinaio di colore venne ad aprire la porta della
baracca e gli fece capire che Orso era partito.
Pietro se ne andò di corsa verso la casa di Adelaid pensando che quel marinaio
gli avesse mentito e che Orso fosse invece là con la giovane moglie e
Tommasino.
Dovette ricredersi quando vide Adelaid seduta in lacrime con il figlioletto in
grembo.
Adelaid non seppe dirgli molto, parlava singhiozzando e Pietro non riusciva a
capire bene. Comprese solo che Orso l’aveva lasciata su due piedi dicendo che
non ne poteva più di quella vita passata a faticare, che partiva con un amico
per recuperare un tesoro favoloso nascosto vicino Badajoz.
“Addirittura così lontano e sepolto vicino ai resti di un’antica fortezza, un
tesoro immenso! E se lo avessero già trovato e portato via altri avventurieri?”,
pensò il fiorentino molto preoccupato ed anche arrabbiato.
“ Mi ha assicurato che al suo ritorno saremmo stati ricchi e ci saremmo
imbarcati per l’Italia lasciando Granada per sempre. Era convinto e fiducioso”,
aggiunse Adelaid soffiandosi il naso.
Pietro si sedette al tavolo avvilito e disse:” A parer mio faranno un viaggio
lungo, pericoloso ed inutile lui ed il suo amico! Non ha pensato a voi? Non ha
sentito parlare dei predoni che assaltano le carovane ed uccidono donne e
bambini, figuriamoci poi due avventurieri imbecilli! Procederanno per giorni e
notti per spoglie colline e fredde montagne e non avranno riposo! Lo credevo
un amico sincero, invece ha tradito voi e me. Che sciocco, che credulone!” e
non la finiva più di parlare alzando le braccia al cielo con le mani a pugno.
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Adelaid, naturalmente, aveva capito poco e niente di tutto quel discorso, ma il
tono della voce denotava che Pietro era davvero furioso. Quando si fu calmato
cercò di consolare la ragazza promettendole che avrebbe vegliato su di loro
come un fratello maggiore e che non dovevano temere nulla e mantenne la
parola data.
Forse Orso sarebbe tornato, lo sperava ardentemente, ma nel
contempo ne dubitava.
Per stemperare l’amarezza e la delusione camminò a lungo e, giunto al porto,
si sedette sconsolato a guardare il mare e le barche che lo solcavano. L’acqua
incantava Pietro come le fiamme guizzanti del fuoco ed intanto pensava che il
luccichio dell’oro riesce a corrompere anche gli uomini migliori, addirittura i
santi ed allora perché non Orso? Voleva veramente fare ricchi la moglie ed il
bambino oppure era stata una scusa per lasciarli? Bell’interrogativo!
In verità non si era dimostrato un vero amico, non gli aveva confidato nulla
forse perchè temeva che lui, essendo molto riflessivo e cauto, lo avrebbe
ostacolato e gli avrebbe consigliato di non partire.
Dopo qualche tempo uno sconosciuto bussò alla porta di Adelaid e, rimasto
sulla soglia, le disse a bruciapelo:” Il tuo uomo è morto, non aspettarlo, non
tornerà!” Poi, senza attendere risposta, si dileguò nell’ombra della sera.
A quelle parole la poveretta si era sentita mancare e sarebbe caduta insieme al
bambino che teneva in braccio se non fosse riuscita a poggiarsi al muretto che
delimitava il piccolo orto di casa. Così la trovò Pietro che andava giusto a
salutarla e chiederle se tutto andava bene.
Adelaid aveva atteso per mesi notizie di Orso e si era sempre ripromessa che,
il giorno in cui avesse avuto conferma dei suoi funesti presentimenti, avrebbe
reagito in maniera ferma e controllata, invece era stato sopraffatta da un
dolore insopportabile.
Appena si fu ripresa, respirando affannosamente, volse verso l’amico il viso
stanco ed affranto dicendo: “Ti ringrazio di cuore per l’affetto che mi dimostri,
per tutto ciò che hai fatto per noi e per
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quello che farai. Temo di sembrarti fredda ora, ma ti assicuro che ho amato il
mio Orso con tutta la
passione della mia giovane età. Credevo nei sogni, credevo che avrei trascorso
tutta la mia vita accanto a lui, ero convinta che saremmo stati felici insieme.
Invece il suo spirito d’avventura, il desiderio di ricchezza, una ricchezza che a
me non importava, me lo hanno rubato.
Io non volevo tesori, ma che restasse con me, ma lui non riusciva a capire che
per me contavano solo il suo amore e la sua presenza”. Poi si interruppe
perché l’amarezza le stava lacerando il cuore. Intonò una nenia triste, mentre
Tommasino fissava tranquillo l’uomo che lo aveva preso in braccio e lo
stringeva con tenerezza. Lo sguardo dolce di Pietro prometteva a lui ed alla
sua mamma una vita migliore in futuro.
Lontano, ai confini col Portogallo, si era consumata la tragedia prevista da
Pietro.
Accadde che il compagno d’avventura di Orso fosse angosciato da un brutto
presentimento: aveva sognato il padre morto anni prima che gli mostrava uno
stendardo nero con raffigurato sopra un teschio bianco.
Molto scosso, aveva subito comunicato ad Orso la sua intenzione di non voler
proseguire. Era meglio tornare indietro in quanto quella visione significava per
lui morte certa e non voleva rischiare.
Orso lo aveva offeso tacciandolo di codardia, continuava a sbeffeggiarlo e a
deriderlo, incolpandolo d’averlo
lusingato ad intraprendere quel viaggio che
ora si rifiutava di portare a termine.
Stufo di ascoltare le rampogne del marinaio deluso, il Portoghese decise di
abbandonarlo nottetempo e così fece.
Orso, testardo e tutto preso dalla sete di ricchezza, fu ben contento che il
compagno l’avesse lasciato. Pensava così che non avrebbe dovuto spartire
l’immenso tesoro con nessuno. Avrebbe portato con sé una certa quantità
d’oro o di gemme nelle due gerle rimaste vuote e sarebbe tornato, dopo
qualche tempo, a prendere l’altra parte del bottino.
Aveva proseguito quindi la marcia da solo cavalcando non un cavallo, ma un
asino stanco ed assetato e riposando solo la notte al chiaror delle stelle.
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Ironia della sorte! Orso cercava lontano ciò che aveva già a portata di mano,
vale a dire un doppio tesoro d’inestimabile valore: Adelaid ed il figlioletto per
primi e poi un bel gruzzolo, non ipotetico, ma reale, una bella somma di cui
avrebbe potuto beneficiare aiutando Pietro e Giuseppe nella loro impresa.
Fu proprio l’ultima sera all’imbrunire che una freccia scoccata da un fanatico
della setta degli Assassini, lo prese in pieno petto condannandolo ad una morte
atroce. La freccia avvelenata lo aveva colpito nei pressi di Almendralejo, vicino
ai ruderi di un castello diroccato, proprio quello verso cui era diretto.
Da poche case protette da mura uscirono degli uomini con torce accese e si
diressero verso Orso che era già spirato. Appurarono che si trattava di uno
straniero con poche monete, un lungo coltello e qualcosa per scavare, quindi
un magro bottino. Vedendo poi che non era seguito da cavalieri armati che
avrebbero potuto assalirli, usarono la sua zappa per scavargli in fretta una
fossa e ve lo seppellirono.
L’asino, privato del padrone, se ne stava con la coda tra le gambe e la testa
bassa e scalciava dando segno di non volersi muovere da là. Dopo tre o
quattro scudisciate però, la bestia caparbia cambiò idea e, rassegnata, seguì
gli uomini dentro le mura dove lo attendevano un nuovo padrone, cibo, acqua
e finalmente un po’ di riposo.
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JACOBBE EBREO DI ANCONA
Jacobbe era arrivato in Andalusia per mare come tanti altri ebrei perseguitati.
Inseguendo la libertà i suoi genitori si erano imbarcati su un vascello, ma
erano morti di dissenteria lasciando il figlio solo al mondo ed abbandonato a se
stesso.
Anni difficili,miseria, tristezza lo attendevano, poi improvvisamente, una
grande fortuna…..Jacobbe non aveva mai rivelato a nessuno il resto della
storia, neppure al fidato Abdul, il nano tunisino tuttofare che aveva raccolto ai
margini della strada, vestito, curato e sfamato e che ora lo seguiva ovunque e
lo serviva con un attaccamento senza pari.
L’ebreo era vecchio, molto vecchio, si diceva avesse più di novant’anni, la
maggior parte dei quali spesi nell’attività di mercante di stoffe, tappeti, stuoie,
spezie e gioielli. E ricco? Come era diventato tanto ricco?
Quando chiedevano al nano se il suo padrone fosse ricco, quello recitava la
solita tiritera che voleva dire tutto e niente: “ Eccome! Forse ancora più ricco
dell’emiro Al Kamah, quel pallone gonfiato, signore delle terre di Mazara cui il
mio padrone ha mandato un sacco di merce che non gli è stata ancora pagata.
Di ricchezze Jacobbe sicuro ne ha, ma quante non si sa, né mai si saprà!”
Abdul era grasso e tarchiato con gambe e braccia cortissime. Indossava un
pantalone leggero rigonfio ai lati ed una giacchetta larga di tessuto trasparente
con le maniche fino a metà braccio. Di bello aveva solo i capelli riccioluti e
corvini e la folta barba. Portava un cappuccio verde sia d’estate che d’inverno
che lo rendeva particolarmente buffo come buffo era il suo incedere a
passettini. Sembrava uno gnomo dei boschi, però non faceva brutti scherzi, era
sempre allegro e bonario.
Dicevano che si tingesse barba e capelli per nascondere l’età invero
indecifrabile. Era spesso oggetto di scherno da parte di giovani sfrontati che,
per provocarlo e poi malmenarlo, lo chiamavano “ porco culattone”, “ villano
puzzolente”, “ verme schifoso” e chi più ne ha, più ne metta. Sfogavano così la
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loro
rabbia
di
perdigiorno
squattrinati
contro
il
poveretto
che
viveva
agiatamente.
Abdul, se molto spesso faceva conto di non udire offese e beffe, altre volte
menava poderosi calci aizzando il cane contro chi lo infastidiva ed allora i
ragazzacci correvano via.
Giacobbe possedeva una giumenta bianca che, nonostante la veneranda età ed
il lungo servizio, tirava il carretto con grandi ruote di legno con sopra il suo
padrone e la merce da vendere, arrancando su per i viottoli sassosi. Seguiva il
trio un cane spelacchiato e ringhioso che faceva guardia alla merce. Portava al
collo un campanellino che tintinnava annunciando l’arrivo del carretto alle
donne che si contendevano l’affare del giorno e che lo avevano battezzato con
il nome Din-Din.
La giornata era stata lunga e non si era venduto molto, calma piatta, caldo,
fiacca , una gran noia e se ne stavano tornando quindi a casa.
I pochi capelli bianchi di Jacobbe danzavano disordinati al vento della sera e la
barba fluente gli scendeva a punta sul petto. La pelle del vecchio era scura e
grinzosa, il naso ricurvo, gli occhi vivaci, ma infossati ed era magro, magro
come un fuscello.
Sotto la luce del tramonto li attendeva il loro nido tranquillo tra l’esuberanza
della vegetazione in pieno rigoglio, sicuro e lontano dalla gente.
La loro dimora si trovava al ridosso di una collinetta e contornata da alberi alti
e fitti che la nascondevano alla vista.
Poco lontano scorreva un fiumiciattolo ricco d’acqua limpida e fresca alla cui
riva avevano legato una zattera di tronchi d’albero: pensavano costituisse una
sicura via di fuga nel caso disgraziato si
fosse verificato un evento tanto grave da costringerli a lasciare quel luogo
amato. L’abitazione era costruita interamente con robusti tronchi di legno ed
era tanto ampia da poter alloggiare comodamente un numero imprecisato di
ospiti. Annesso c’era un magazzino per le merci che erano allineate in perfetto
ordine su lunghe scaffalature e di cui Abdul aveva la chiave.
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La sera, umida e calda esalava i profumi dolciastri dei fiori ed il cielo era reso
più chiaro da una miriade di stelle e la luna, al suo primo quarto, sembrava
una falce d’argento.
Per scoraggiare uccellini ed uccellacci affamati, Abdul aveva costruito uno
spaventapasseri provvisto di lamine dorate alle braccia e sulla testa che
tintinnavano e si agitavano minacciose ad ogni soffio di vento.
Jacobbe, l’uomo che Pietro avrebbe dovuto consultare su consiglio di Giuseppe,
emanava da tutta la sua persona una gran forza e tranquillità. Era una mago
competente, non un ciarlatano come tanti, ed infondeva una fiducia assoluta in
coloro che si confidavano con lui. Egli parlava poco e, quando rispondeva ad
una domanda, lo faceva a bassa voce e con lo sguardo assente e lontano come
se emergesse proprio in quel momento da remote profondità.
Coloro che lo conoscevano bene lo reputavano un grande saggio e dicevano
fosse un sufi, membro di un’antica confraternita dallo strano nome che risaliva
ai tempi dell’antico Egitto e si rifaceva al culto del sole.
Il capomastro era stato molto turbato dal contenuto della missiva delle
principesse perché non era avvezzo agli intrighi di corte ed amava solo le storie
chiare e semplici. Voleva proteggere Pietro e nel contempo mirava al successo
dell’impresa sia per il danaro che avrebbero ricavato, sia per un atto di
giustizia nei confronti della regina relegata chissà dove. Quindi, prima di agire,
consigliò a Pietro di consultare qualcuno che se ne impipasse delle ire del
sultano e che desse saggi consigli ad entrambi.
Pietro era rimasto sinceramente sconcertato dalla proposta di Giuseppe: come
poteva un uomo della sua cultura ed esperienza raccomandargli di chiedere
consiglio ad un mercante-mago?
Lo guardò incredulo e perplesso e quello, come se gli leggesse il dubbio nella
mente, gli disse con fermezza: “ Abbi fiducia!” Allora Pietro si decise per il sì.
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PIETRO CONTATTA JACOBBE
Il vecchio Jacobbe non poteva passare per la porta delle armi che era l’entrata
diretta che collegava l’Alhambra con la città di Granada. Da quella porta
passavano i sudditi che dovevano risolvere questioni burocratiche ed avevano
ottenuto udienza dal sultano o da un suo funzionario.
Jacobbe non si reputava suddito, ma uomo libero e non facente parte della
popolazione del luogo anche se viveva nelle vicinanze.
Chiunque entrava nella cittadella doveva depositare le armi prima di passare
per un tratto del cammino di ronda sotto lo sguardo attento delle guardie.
Jacobbe aveva due armi sole: la scienza segreta della sua confraternita e la
sua potenza di veggente.
Il vegliardo passava invece per la porta del vino che non aveva alcuno scopo
difensivo e che giungeva alla Calle Real Alta , il cuore della Medina, isolato dai
palazzi del sultano e dalla zona militare. Si fermava spesso sulla piazza dei
pozzi da clienti che volevano acquistare spezie pregiate oppure lo consultavano
sul futuro e chiedevano consigli.
Su un lato di quella piazza, appoggiato ad una colonna spezzata di pietra ed
all’ombra di un bel cipresso marittimo, Pietro attendeva il passaggio di
Jacobbe.
“ Un attimo, per piacere!” gridò Pietro facendo fermare di botto la giumenta
bianca. Il vecchio, senza scomporsi e con calma glaciale, gli ripose:” Non è
questo il momento. Torna qui domani due ore prima e ti condurrò a casa mia”.
Pietro lo ringraziò pur conservando la sua opinione ed i suoi pregiudizi sui
maghi e gli indovini ed il giorno seguente si ripresentò nello stesso luogo in
attesa che il carretto passasse da là.
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Fu così che Pietro ebbe l’onore di entrare nella grande casa tra gli alberi in un
luogo che gli sembrò un paradiso.
Sobria all’esterno, l’abitazione era magnifica all’interno e molto ben attrezzata.
Disponeva di camere per gli ospiti che avevano a disposizione anche bagni con
acqua corrente calda e fredda. La cucina era diretta da un cuoco francese
molto estroso, un vero maestro che sapeva preparare piatti raffinati e da cui
prendevano ordini due sguatteri ed un cameriere che lavoravano sodo quando
c’erano degli invitati.
Le camere degli ospiti si trovavano tutte intorno alla grande sala rotonda,
l’unica della casa. Essa aveva al centro un’enorme colonna di marmo
multicolore da cui partivano vassoi di cristallo azzurrino, rosso, verde, giallo,
blu, violetto su cui era poggiato ogni ben di dio. A destra della colonna era
sistemata un’ampia tavola in noce massiccio coperta da una tovaglia candida di
lino su cui spiccavano brocche con bevande esotiche e vassoi con sopra frutti
tropicali.
Ma chi mai mangiava tutta quella roba? Gli occupanti dell’abitazione erano sei,
compresi i due sguatteri, il cuoco ed il cameriere. Il vecchio, visto l’aspetto,
doveva nutrirsi pochissimo, evidentemente Abdul e gli altri erano delle buone
forchette.
Pietro fu introdotto cortesemente nella sala dal padrone di casa che, ritiratosi
in camera sua, si era lavato, profumato e cambiato d’abito. Jacobbe teneva
all’ordine ed alla pulizia e lo si vedeva dalla cura con cui era tenuta tutta la
casa. Erbe aromatiche, provenienti dall’Arabia e dall’India, erano disposte in
vasi come in un giardino e tutta quella magnificenza era naturalmente in
contrasto con l’austerità del proprietario.
Pietro notò bellissimi arazzi e tappeti che coprivano alcune pareti e tutto il
pavimento di lucido legno e, mentre si guardava intorno ammirato, Abdul versò
incenso in un largo braciere di squisita fatture con due manici d’oro e tutto
l’ambiente fu pervaso da un profumo inebriante.
Dalle grandi finestre della sala si vedeva il giardino che un bravo giardiniere
teneva in ordine giornalmente. Esso ospitava un gran numero di alberi, da
frutta ed ornamentali, salici piangenti che
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si curvavano dolcemente sull’acqua del fiumicello, aiuole fiorite, cespugli fatti a
spalliera e comode panche per chi amava rilassarsi e meditare all’aria aperta.
Il profumo d’incenso misto a quello delle erbe aromatiche stordì Pietro che non
era abituato ad inalarlo. Figuriamoci! Faceva ancora fatica ad abituarsi al
narghilé, cioè alla pipa dei musulmani che Giuseppe fumava spesso e che gli
aveva fatto provare e al cibo speziato della cucina locale!
Jacobbe captò subito la meraviglia ed il disagio dell’ospite e lo invitò a sedersi
su uno sgabello finemente intarsiato, a respirare profondamente ed a
rilassarsi, intimandogli di tacere e di sostenere il suo sguardo penetrante.
Trascorsero lunghi, lentissimi minuti e, quando le palpebre di Pietro stavano
per chiudersi, Jacobbe suonò un piccolo gong di rame che fece trasalire il
poveretto prima che si abbandonasse ad un sonno pesante e senza sogni.
“ Mi avete spaventato!” gridò Pietro visibilmente alterato.
Jacobbe lo guardò sorridendo e lo rincuorò dicendo:” Non allarmarti, amico,
succede a tutti cosi! Ecco, ho scrutato nelle tue pupille e posso darti il responso
che cerchi senza che tu me lo abbia chiesto. In poche parole: vedo che hai un
gravoso compito da svolgere a palazzo e sono sicuro che lo porterai a termine
con successo.
Vuoi saperne di più? La madre delle principesse è da tempo prigioniera dentro
una delle torri dell’Alhambra perché si è macchiata d’infedeltà. Non amava il
sultano, ma un cavaliere giovane, bello e valoroso di una famiglia amica. In
quella torre alta è ben sorvegliata e servita, ma vive da reclusa e senza veri
contatti col mondo esterno, eccezion fatta per le novità che le porta la serva
personale che l’accudisce.
La regina è molto triste, privata della vicinanza delle tre figlie, ed è dimagrita e
sofferente. Piange spesso e prega Allah di farle riottenere la libertà o di morire.
Come se non bastasse la sua vista si è pericolosamente indebolita e rischia la
cecità.
Un consiglio ed un suggerimento: non è poi difficile contattare un uri o un
eunuco dell’harem, sguattere e sguatteri delle cucine reali, serve chiacchierone
delle concubine del sultano addette alle pulizie, fornitori di merci e viveri che
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arrivano giornalmente dalla città, dai campi e dagli orti reali, persino guardie
insoddisfatte della paga.
Fa’ sapere alle principesse che devono pazientare e che tu ed il tuo amico
Giuseppe, che ho il piacere di conoscere personalmente, avete bisogno di
molto, molto danaro per ungere ruote, comprare favori, ed aprire o chiudere
bocche!”
Pietro stava per interromperlo, ma Jacobbe lo fermò con un gesto imperioso
della mano e proseguì: “ Non ho ancora finito! Nei tuoi occhi ho visto anche
tanta solitudine e tristezza. Ti sono morte la moglie ed una figlia piccola, vero?
I brutti ricordi si dissolveranno come nebbia al sole, se userai le sostanze che ti
do. Bruciale nella tua camera prima di addormentarti!”
Così dicendo gli porse un sacchettino contenente una mistura di erbe
particolari e proseguì:” Bada bene, messer Pietro! Contatta solo gente che ti
ispira fiducia, diffida di sconosciuti che mirano solo alla ricompensa e poi ti
pugnalano alle spalle! Non voglio essere ricompensato per la mia veggenza. La
mia gioia più grande sta nel combattere le ingiustizie e garantire la libertà agli
oppressi,
a
tutti
coloro
che
subiscono
soprusi,
umiliazioni,
angherie,
maltrattamenti. So cosa significa soffrire!”
Il vecchio fece un ampio gesto con la mano per richiamare l’attenzione di
Pietro sulla magnificenza che li circondava, cosa poteva interessargli un
ulteriore guadagno quando aveva già tutto?
Jacobbe teneva molto agli amici, ne aveva pochi, ma fidati ed affezionati, tutta
gente da lui aiutata a risolvere gravi problemi.
Era sì invidiato per la sua ricchezza e temuto per i sortilegi con cui talvolta
colpiva i nemici, in compenso era un uomo libero.
A quel punto il potere allucinatorio era svanito e Pietro si sentiva leggero,
fiducioso, pieno di
gratitudine verso Jacobbe che lo congedò dicendo:” Caro amico, l’universo non
sa neppure che esisti, quindi sii fiducioso, segui i miei consigli e pensa che
molto è stato fatto anche prima che tu nascessi!”
Pietro si alzò per congedarsi ringraziando e stringendo con calore la mano
ossuta del vecchio. Si chiese se quello che aveva vissuto in quel breve lasso di
75
tempo fosse realtà o sogno. Quando sentì una mano battergli sul braccio,
comprese che era tutto vero e sorrise al nano che lo guidò gentilmente sulla
via del ritorno in città.
76
FRATEL BARNABA
Lasciata la casa di Jacobbe con il suo fascino di luogo privilegiato e percorse
circa due buone miglia, Pietro udì uno scampanio proveniente da una chiesa
poco distante che dava su una piazzetta.
La chiesa aveva mura tutte scrostate per l’umidità, ma conservava una
bellezza tutta propria, contornata com’era da alcuni palazzi nobiliari e vicina ad
un ospitale per i poveri.
Passandovi davanti Pietro pensò che da anni non aveva più varcato la soglia
della casa di Dio e quindi decise d’entrare con l’intima convinzione che vi
avrebbe trovato conforto.
L’interno, molto vetusto, era però elegante nelle cornici, nelle volute dei
timpani, negli arabeschi della volta impostata su uno zoccolo di stucco dorato
adorno di grandi foglie. Quello che più incantò l’occasionale visitatore furono gli
affreschi, i fregi, i festoni, le conchiglie ed i motivi geometrici nonché la
rappresentazione pittorica di angeli, santi, profeti ed altre figure che egli non
riconobbe.
Sull’altar maggiore spiccava un quadro insolito che rappresentava la caduta
degli angeli ribelli e che avrebbe certamente avuto bisogno di un bel restauro.
Il pavimento era lucido, ma sconnesso in alcuni punti.
Pietro si inginocchiò davanti ad una statua della Vergine con il cuore trapassato
da sette spade e, più che pregare, le parlò in confidenza esternandole i suoi
dubbi e la sua tristezza. Un affetto ed un abbandono filiale che Maria
certamente gradì più di tante preghiere recitata meccanicamente con la bocca
e non con il cuore.
Un frate stava riordinando le candele: rimuoveva i mozziconi spenti o troppo
corti per essere riutilizzati e metteva in fila quelle nuove. Sistemò poi dei fiori
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sull’altare coperto da un telo candido e ricamato. Tutto denotava gran cura,
ordine e pulizia.
Barnaba non doveva avere più di cinquant’anni portati bene, era magro,
scattante, ma le guance erano incavate ed il viso diafano rivelava l’asceta.
Seguito dal vecchio sacrestano con una gamba di legno, sempre attaccato al
saio del frate cui era fedelissimo e che serviva da tempo, Barnaba si avvicinò
all’uomo che gli sembrò timido ed impacciato.
Per stabilire un dialogo e gettare un ponte di calore ed amicizia fraterna,
sorrise dolcemente a Pietro e gli prese le mani tra le sue invitandolo, se lo
desiderava, a confessarsi e ad aprirgli il cuore nel caso fosse entrato in chiesa
per quello scopo.
“ Siete straniero? Italiano? Io sono Barnaba d’Aligi originario della Tuscia, ma
tutti mi chiamano semplicemente fratello. Un povero frate mandato qui dal mio
superiore che è convinto che io valga qualcosa e che possa curare le poche
anime che vengono in chiesa qui.”, disse a Pietro.
Pietro gli rispose:” Fratello, vedo che avete un gran dono, quello di leggere nel
cuore. Sì, è vero, vorrei confessarmi, sento di averne un gran bisogno”.
“ Allora, seguimi!” e così dicendo allontanò con un gesto il sacrestano
avviandosi con Pietro al confessionale.
Pietro parlava con la testa china e le
mani giunte mentre il confessore lo
ascoltava con attenzione. Finito che ebbe il frate levò su di lui uno sguardo
luminoso e, con fare paterno, gli diede l’assoluzione, aggiungendo:” Ti
raccomando di pregare per i tuoi cari defunti e di aiutare i bisognosi ed i malati
che troverai sul tuo cammino. Qui non ne mancano di certo! Agisci con
prudenza e saggezza , due doti indispensabili se vuoi mettere a frutto i doni
che Dio ti ha elargito. Guardati dai soldati mori e dai mercenari che ingrossano
le fila dell’esercito del sultano e che sono capaci di atrocità indescrivibili. Evita
di cadere nelle loro mani!”
Uscito dal confessionale Pietro, alquanto commosso, abbracciò Barnaba e poi si
inginocchiò per recitare la penitenza.
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Nella preghiera egli sperimentò due doni: la pace ed una grande gioia, la gioia
più grande che il suo cuore inquieto poteva conoscere, doni belli e perfetti che
lo attendevano da tempo.
Si sentì sollevato da un gran peso e fermamente deciso ad aiutare le
principesse che desideravano tanto riabbracciare la loro mamma.
Era già tarda sera quando rientrò nel suo appartamentino, mangiò con appetito
quel poco che aveva e, prima di coricarsi, bruciò un pizzico delle erbe che gli
aveva dato Jacobbe e che gli donarono un sonno ristoratore senza incubi.
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UN GRUZZOLO CHE SCOTTA
La mattina seguente Pietro raccontò a Giuseppe l’esperienza vissuta in casa di
Jacobbe, riferendogli per filo e per segno ciò che il vecchio saggio gli aveva
detto e raccomandato di fare.
Giuseppe fu molto lieto di sapere che la regina era ancora viva, che non era
mai uscita dall’Alhambra e che quindi il campo delle ricerche da compiere si
restringeva notevolmente.
Scrisse alcune righe a Zaida spiegandole che, per agire, avevano bisogno del
danaro promesso. La invitava ad essere generosa perché, all’occasione,
bisognava
corrompere
l’informatore
o
gli
informatori
pagandoli
profumatamente per raggiungere lo scopo.
Sigillò lo scritto, lo introdusse nello strumento che Taqi gli porgeva e lo pregò
di consegnarlo in tutta celerità e sicurezza.
I due amici pensarono bene di dividersi il compito d’indagare: Pietro avrebbe
interrogato giardinieri, fruttivendoli, guardie stanche di tessere le lodi del
sultano, venditori ambulanti di cianfrusaglie, stoffe e belletti per le donne
dell’Harem; Giuseppe invece si sarebbe preso la briga di interrogare sguatteri,
serve addette alle pulizie, cuochi, cuoche, mendicanti abituali ed anche gli
eunuchi, sebbene non ci fosse molto da fidarsi di loro in quanto infidi e
bugiardi.
I due sognavano ad occhi aperti monete d’oro scintillanti che avrebbero tenuto
in parte per loro. come compenso del lavoro svolto, ed in parte per chi li aveva
aiutati.
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Al momento sentivano un gran bisogno di rilassarsi, schiarirsi le idee ed
incamerare energia con un buon bagno ed un bel massaggio tonificante.
Decisero quindi di recarsi ai bagni pubblici vicino alla moschea. La città
musulmana non si poteva disgiungere dai suoi bagni, il bagno era infatti un
obbligo imposto dai precetti del Corano.
I due uomini entrarono nello spogliatoio e quindi nelle vere e proprie sale bagni
con presenza d’acqua, alte temperature e vapore che aprivano e pulivano i pori
della pelle. Non essendoci porte divisorie Pietro e Giuseppe passarono
agevolmente da un ambiente all’altro.
Al posto della piscina d’acqua fredda c’era una piccola vasca per le abluzioni
parziali ed il pavimento di marmo veniva riscaldato da condotti sotterranei.
Dopo il bagno caldo i due amici entrarono in due spaziose camere perché
desideravano farsi massaggiare per allentare la tensione dei muscoli e quindi
rilassarsi. Ai lati di queste camere delle unzioni c’erano panche in muratura
coperte da fini stuoie dai vivaci colori. Le mensole alle pareti ospitavano un
gran numero di fiale e vasi per gli unguenti in vetro, avorio ed alabastro.
Un massaggiatore prese a frizionare la schiena di Pietro ed un secondo, tutto
muscoli e coperto solo da un perizoma, si occupò subito di Giuseppe ed infine
una graziosa manicure pulì le unghie ad entrambi. Mai quei due si erano sentiti
così felici ed appagati!
Quella mattina fu anche una mattina fortunata perché appresero che il sultano,
dopo la festa per il suo genetliaco, sarebbe partito, come tutti gli anni, per
un’oasi lontana dove si sarebbero radunate tutte le truppe mercenarie che
avrebbero infoltito le fila del suo esercito.
Né i massaggiatori, né la ragazza sapevano però della regina scomparsa in
circostanze misteriose e quindi i due non indagarono oltre per non destare
sospetti.
Pensavano che, se Zaida li avesse pagati subito, avrebbero potuto agire
tempestivamente in assenza del sultano senza correre troppi rischi; quella
poteva essere una ghiotta opportunità.
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Pochi gironi dopo Taqi consegnò loro un sacchetto zeppo di monete e quelli si
resero subito conto della gran somma che avevano tra le mani. Ma dove
metterla al sicuro, dove nasconderla?
Pietro parlò subito a Giuseppe della brillante idea che gli era passata per la
testa: avrebbero potuto rivolgersi a Barnaba, il frate che lui aveva conosciuto
pochi giorni prima. Decisero quindi di recarsi entrambi da lui per convincerlo a
nascondere il sacchetto con gran parte della somma.
Entrarono nella chiesetta che fratel Barnaba stava predicando. Le sue prediche,
fatte con voce dolce e suadente, erano però davvero molto lunghe e quindi
avevano il potere di annoiare i grandi e si rivelavano un potente sonnifero per i
bambini.
Le fedeli indossavano veli colorati e sedevano sulle panche con i bimbi piccoli in
braccio, mentre i grandicelli si erano stesi con la testa sulle ginocchia delle
rispettive madri sospirando con gli occhi chiusi ed alcuni sbadigliavano
assonnati.
Gli uomini, a capo scoperto e testa china, stavano in piedi ad ascoltare il
sermone. Alcuni, meno interessati, entravano ed uscivano poco dopo.
Frequentare la chiesa ed ascoltare la Santa Messa vespertina era per molti
un’occasione impedibile per ritrovarsi tra amici e conoscenti e raccontarsi le
ultime novità spettegolando su questo e su quello.
Tutti erano di buonumore salvo che in occasioni luttuose come i funerali o tristi
come le funzioni della Settimana Santa.
In altre occasioni, come matrimoni e gioiose festività, tutti mostravano di
amarsi e, se qualcuno era ammalato o in difficoltà , fratello Barnaba accendeva
subito una gara di preghiera e solidarietà cristiana. Quell’uomo pio era molto
amato e stimato da tutti anche da chi cristiano non era. Il suo esempio e la sua
profonda umiltà affascinavano e catturavano molti cuori portandoli a Dio.
Giuseppe si meravigliò molto a vedere che Pietro si avvicinava con altri
all’altare per ricevere devotamente l’Ostia Santa dato che non lo avrebbe
proprio definito un cattolico praticante e si ricordò del noto proverbio, davvero
azzeccato in quel caso, “ L’abito non fa il monaco” traendone
un
bell’insegnamento.
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La Messa era finita e la gente stava lasciando la chiesa. Alla fine rimasero solo i
due amici, il sacrestano e naturalmente Barnaba che guardava interdetto Pietro
e Giuseppe chiedendosi perché non uscivano anche loro.
Visto che i due non si erano fermati a pregare, non parlavano e sembravano
sulle spine, chiese gentilmente: “ Avete bisogno di qualcosa? Posso esservi
utile?”
Pietro avanzò verso il frate, baciò la croce che pendeva dal cordone e rispose:
“ Fratello, abbiamo bisogno del suo aiuto! ”.
Se avesse potuto, sarebbe corso fuori vergognoso, ma ormai non poteva più
tirarsi indietro, in fin dei conti aveva avuto lui quella brillante idea!
“ Allora venite in canonica! Tu no, Hector, finisci di riordinare!” aggiunse rivolto
al sacrestano che era un tantino curioso.
Pietro gli formulò quella insolita richiesta, ma Barnaba non ne voleva sapere di
nascondere il danaro ed andava ripetendo:” Non ne conosco la provenienza,
potrebbe anche essere danaro rubato e poi le somme ingenti sono spesso
frutto di azioni non proprio in linea con gli insegnamenti del Vangelo. Desidero
essere in pace con me stesso e dormire sonni tranquilli!”
“ Fratello, fratello, non volete capire che non è roba sporca? Come potrei
mentirvi se ho fatto or ora la Comunione! Ci tengo all’anima mia! Torno ad
assicurarvi che ci è stato dato per un buon fine, ma non possiamo tenerlo tutto
noi. E’ meglio nasconderne una buona parte perché, se ce lo rubano tutto,
allora addio! Chi sospetterebbe mai, fratello, che voi celate un tesoro? Nelle
vostre mani sarà come in un forziere nelle mani di Dio ed a prova di ladro!”
incalzò Pietro con la voce rotta da un misto tra stizza ed implorazione.
“ Perché cercate di convincermi quando non voglio correre alcun rischio? Sono
uno straniero in un paese straniero proprio come voi!”
Vista la caparbietà di Barnaba, Giuseppe tentò con l’ultimo argomento che era
loro rimasto:” Appunto fratello, ma perché non vi fidate di due onesti lavoratori
italiani come voi? E se vi dicessi che potete tenere una parte del gruzzolo che
c’è nel sacchetto per aiutare le famiglie povere, rifiutereste ancora? Non
predicate forse tutti i santi giorni che si devono aiutare i fratelli che sono nel
bisogno?”
83
Quelle parole fecero breccia nel cuore del frate che abbassò la testa contrito e
disse sospirando:” Signore, tu sai tutto, sai se costoro mentono o sono in
buona fede. Prenderò in consegna il danaro, ma tu aiutami e proteggimi,
memore del fatto che, quando eri tra noi sulla terra, hai sfamato immense folle
di miserabili!”
Detto questo si fece consegnare il sacchetto, lo prese con mani tremanti come
se scottasse,
e, su invito dei due, ne rovesciò il contenuto sul tavolo della
sacrestia rimanendo a bocca aperta poiché quella che aveva davanti doveva
essere una somma davvero enorme.
“ Tenetene quanto sarà necessario per i poveri e per restaurare la chiesa
togliendo tutta quella muffa dai muri esterni ed interni. Anche la pala dell’altar
maggiore ha bisogno, diciamo così, di un ritocco! Si guardarono bene dall’
aggiungere anche “ per le vostre necessità” poiché temevano di offenderlo. Vi
preghiamo di conservare quello che rimarrà in un luogo sicuro e mi
raccomando che resti un segreto tra noi, non fatene parola con nessuno!”
“ Dovrò pur dirlo al sagrestano, cosa penserà se lo vede?”
“Ma vi fidate di lui, saprebbe tenere un segreto?” gli chiese Giuseppe.
“ Hector e fidato e fedele. Sa essere muto come un pesce e manterrà un
silenzio di tomba”.
“ Allora siamo in una botte di ferro!”, sentenziò Pietro soddisfatto.
Fratel Barnaba, frastornato e visibilmente commosso, abbracciò prima Pietro,
poi Giuseppe e nascose il malloppo esclamando “ Sia benedetto Dio!”
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IL SULTANO PARTE
Poco tempo prima che il sultano partisse per il raduno annuale in un’oasi nel
deserto tra Marocco ed Algeria, il muto fu trovato nudo e con la gola tagliata in
un vicolo malfamato dove si recava spesso dato che le elargizioni che riceveva
e la libertà che gli veniva concessa glielo permettevano.
Una vendetta? Una rissa per futili motivi? Una questione di gelosia? Un debito
che non aveva onorato? Tutto poteva essere, ma il movente non si seppe mai.
Nessuno reclamò la sua salma e nessuno pianse per lui. Il sultano restò
indifferente alla notizia, le guardie sue amiche non se ne dolsero, le principesse
tirarono un bel respiro di sollievo.
Zaida commentò: “ Era un poco di buono. Ora abbiamo una spia in meno!”
Zorahaida aggiunse:”Ed anche un maledetto succhia soldi in meno”.
Furono tutte concordi nello sperare che il padre non lo rimpiazzasse subito con
un ceffo peggiore, altrimenti sarebbero state spacciate.
Si dissero che era proprio una bella fortuna che il sultano si allontanasse per
qualche tempo, il più a lungo possibile! Avrebbero avuto maggior libertà di
azione e potuto programmare con calma la liberazione della loro mamma,
posto che i due Italiani avessero scoperto dov’era rinchiusa.
Pietro e Giuseppe si erano dati un gran daffare, ma i primi giorni di ricerche
non avevano dato alcun frutto.
I fornitori di frutta e verdura del palazzo avevano alzato le spalle e voltata la
schiena, i giardinieri avevano risposto a Pietro di non sapere nulla e che nulla
volevano sapere.
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I due amici si erano anche recati in qualche locale sporco e fumoso della zona
del porto, punto d’incontro di molti ciurmatori che bevevano e chiacchieravano
dopo una lunga giornata di trattative e baratti. Erano gente parecchio equivoca
costituita da avventurieri, marinai disertori,
emigranti assetati di fortuna,
prostitute e tanti altri, arrivati chissà da dove e che parlavano lingue che né
Pietro, né Giuseppe comprendevano e si mischiavano ai gentiluomini ed alle
persone rispettabili. Ci si doveva guardare da coloro che proponevano
occasioni uniche di guadagni favolosi e tenersi lontani dalle bische dove
scoppiavano risse, si perpetravano furti ed aggressioni.
Gli Italiani questo lo sapevano bene, ma volevano tentare tutte le strade
consentite per avere notizie da qualcuno anche se si trattava di gente di
malaffare.
Uno degli avventori assicurò di non sapere nulla di una regina rapita e che le
uniche persone, che potevano esserne a conoscenza, dovevano essere
indubbiamente le sguattere tuttofare e quelle addette alla pulizia dei locali e
delle alcove. Se quella donna non era morta, doveva essere certamente servita
da qualche cameriera personale, o no?
“ Buona osservazione!”, pensarono. “Quell’uomo aveva ragione! Bisognava
indagare nell’ambito della servitù”.
Non riuscendo a cavare un ragno dal buco e pur non avendo intenzione di
sedersi a bere tra tutto quel vociare, dovettero farlo dato che l’oste si stava
avvicinando loro per chiedere l’ordinazione.
“ Due bicchieri del vino migliore!”, chiese Pietro con una certa irritazione nella
voce.
“ Ho un nettare rosso che allontana tristezza e dispiaceri”, sentenziò l’uomo
corpulento rivolgendo loro un sorrisetto maligno.
“ Beviamo ed andiamocene! L’oste non mi piace affatto!”, sentenziò Giuseppe
“ Neppure a me!” rispose Pietro sbadigliando.
Le speranze svanivano giorno dopo giorno quando, alla vigilia della partenza di
Alhamar, un’idea geniale, o supposta tale, balenò nella mente di Giuseppe che
sedeva spesso alla tavola della sua
abitazione con la testa tra le mani e pensava, pensava…..
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“ Toh! Ho un asso nella manica e quest’asso è Kalima, proprio lei!”
Spesso Kalima sbirciava da una finestrella della cucina che era a livello del
lastricato del cortile, seguendo con lo sguardo innamorato Giuseppe che lo
attraversava svelto per recarsi nella sua piccola residenza privata.
Quel tardo pomeriggio egli attese che gli occhi della donna apparissero dietro
le inferriate della finestra e, invece di proseguire verso casa, si voltò e le
sorrise facendole l’occhiolino.
Tornato indietro si chinò quasi fino a toccare la fredda pietra della
pavimentazione e le sussurrò in spagnolo, sperando che lei capisse:” Kalima,
harias algo para mi? Una cosa muy inportante?” Vale a dire:” Kalima, faresti
una cosa per me, una cosa molto importante?”
La faccia paffuta della donna si imporporò tutta per l’eccitazione che si era
impadronita di lei e che riusciva a stento a trattenere.
Avrebbe voluto afferrare le mani di Giuseppe e baciarle, ma non poteva perché
impedita dalle grate. Riuscì però a mandargli un bacio profumato d’aglio
mentre due lucciconi le rigavano le guance.
Giuseppe, vergognandosi in cuor suo per la panzana colossale che stava per
sparare, continuò:”Ven con migo por favor hasta a quella esquina alle en el
fondo, que tengo que ablarte
en seguida. Te prometo che, si me ayudaras,
seras mi mujer para sempre y ya no tendras que trabajar en la cocina. Yo se
que te gusto y tu a mi. A qui esperas? Muevete!”
Vale a dire:” Per favore vieni fuori fino all’angolo là in fondo, ti devo parlare
subito! Ti prometto che, se mi aiuterai, sarai la mia donna per sempre e non
dovrai più faticare in cucina. So che ti piaccio e tu mi piaci e allora? Sbrigati!”
Passò la classica mezzora del barbiere prima che Kalima si presentasse
all’appuntamento. Giuseppe notò che, pulita e benvestita, non era poi tanto
brutta, quindi sfoderò tutto il suo fascino insieme ad un sorriso radioso e le
strinse le mani senza baciarle, però. Si azzardò invece a farle una carezza lieve
mentre lei lo guardava estasiata. In vita sua non aveva mai ricevuto tante
attenzioni da parte di un gentiluomo.
Senza preamboli Giuseppe le disse chiaramente ciò che voleva da lei, in breve
doveva trovare chi poteva fornirgli informazioni certe sulla regina Aisha
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scomparsa anni addietro in circostanze misteriose. Aggiunse che si diceva
fosse stato il sultano ad ordinare che venisse rinchiusa in qualche recesso
dell’Alhambra.
Kalima avrebbe voluto fuggire. Le si chiedeva davvero troppo e troppo era il
pericolo!
Tentennava presa tra l’incudine ed il martello, vale a dire tra l’amore di
Giuseppe ed il matrimonio e l’indubbio rischio cui si esponeva.
Chinò la testa dicendo: “ Voi mi proteggerete?”
Giuseppe le rispose prontamente: “ Vi difenderò,proteggerò ed amerò per
sempre!”
Manco a dirlo vinse la speranza del matrimonio e di una vita libera dai fornelli
reali, quindi Kalima affermò:” Es un asunto dificil y arrisegado. Lo hare todo
por enterarme y te lo dire, ten solo por que te quiero mucho!” Cioè:” Farò di
tutto per sapere e telo riferirò, ma solo perché ti amo tanto!”
Poteva mai un cavaliere di tal fatta mentirle? No, no, doveva fidarsi!” pensò ed
il suo cuore si riempì di gioia. Spinta poi da un impulso improvviso, lo
abbracciò stretto e lo coprì di baci. Preso alla sprovvista Giuseppe non reagì e
se li sorbì tutto commosso.
Un’acquata improvvisa venne però ad interrompere l’idillio e li inzuppò
entrambi da capo a piedi, tanto che si ritirarono lesti, lesti.
“ Un segno del cielo che spero porti fortuna!” pensò Giuseppe.
Fu in quel periodo che arrivò un altro segno dal cielo: un uccello brutto e poco
gradito ai più. Parlo di un pipistrello nasuto peloso di notevoli dimensioni che
elesse ad alloggio una grossa anfora vuota
di coccio sistemata vicino alla porta dell’abitazione di Pietro.
Il pipistrello che l’artista battezzò “ nino”, arrivava al mattino dopo una notte
passata a caccia e
ronfava dentro l’anfora fino a tarda sera per poi ripartire.
Pietro non volle scacciarlo anche se la presenza di quel vicino non gli era
affatto gradita.
“ Dicono che sei presagio di sventura ma, finchè non mi darai noia, potremo
convivere in pace”, pensò.
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E fu così che nino rimase nel suo alloggio per molte settimane fino al giorno in
cui se ne volò via per non tornare più.
Preso atto del trasloco, Pietro si strofinò le mani tutto contento.
PIETRO DA SAVINIO E MARCO
Pietro andò a trovare Savinio e Marco e li trovò seduti fuori dalla loro bottega
chiusa da una pesante tenda di tessuto damascato che celava un’unica stanza
con animali ed oggetti tenuti in penombra.
I due furono lieti della visita e lo invitarono all’interno del negozio per
mostrargli pappagalli parlanti, gatti dal pelo lungo e serico con enormi occhi
gialli come la lanterna del faro e cani lillipuziani dal pelo biondiccio.
“ Vuoi acquistare qualche animale?” gli chiese Savinio.
“ No grazie, sono venuto spinto dalla curiosità, Volevo solo porgervi i miei
saluti e vedere cosa vendete. Ma dove sono i piccioni viaggiatori ed i falchi?”
“ Sono sul retro della bottega all’aria aperta. Dato che i volatili ammaestrati
sono creature molto sensibili, li teniamo fuori e li mettiamo in gabbia solo al
89
tramonto. Vieni che te li mostro!” rispose Savinio tutto contento d’aver
l’occasione di spiegare a Pietro quello che lui di certo non sapeva su quelle
bestie e Marco lo seguiva.
Savinio aprì una porta tanto bassa che dovettero chinarsi molto per passare e
si ritrovarono su un terrazzino lastricato.
Ogni volatile era tenuto fermo da una catenella abbastanza lunga che finiva ad
anello senza però bloccarne i movimenti. Marco li amava, dava loro del buon
cibo e li addestrava giornalmente.
I due avevano appreso quell’arte da beduini, maestri dei migliori falconieri del
mondo, ed andavano fieri delle nozioni acquisite.
Pietro osservò che la pancia e le ali dei piccioni viaggiatori erano state colorate
d’azzurro cielo in modo tale che i messaggeri alati venissero subito riconosciuti.
Non erano ceto comuni piccioni, ma superbi esemplari di grande apertura
alare. Marco ne slegò uno che, tutto impettito, arruffò le penne e gonfiò il petto
con aria di sfida.
Liberò poi un falcone pellegrino femmina dalle penne grigio scuro argenteo
che, ad un richiamo di Savinio, lanciò un grido stridulo e gli volò sulla mano
guantata volgendo a scatti verso il padrone la testa incappucciata. Sotto il
cappuccio i suoi occhi rossi ardevano come bracieri.
Marco raccontò a Pietro che il falcone femmina è più grande ed agguerrito del
maschio ed anche un’ abile cacciatrice. Quella che era volata sulla mano di
Savinio era una nidiacea, cioè un uccello catturato nel nido quando ha già
messo tutte le piume. Una volta cresciuto, il volatile era diventato grande
amico di Marco che gli accarezzava spesso la testa fiera sussurrando parole
d’amore come “ cara, piccola mia, amore mio…”e le cantava dolci canzoni.
Per affermare il dominio sulla bestia, una notte Marco l’aveva tenuta parecchie
ore sul suo pugno con una candela di fianco guardandola dritto negli occhi.
L’uccello aveva infine ceduto e, chiuse le palpebre, si era addormentato,
decretando così la vittoria del suo padrone.
A Pietro l’uccello piaceva molto per la bellezza delle sue lucide piume e, con la
fantasia, lo vedeva librarsi con le sue ali lunghe ed appuntite e calare fulmineo
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in picchiata con i grandi artigli spasmodicamente tesi e pronti ad afferrare la
preda.
Savinio raccontò invece d’aver fatto una scommessa con un falconiere suo
amico il quale riteneva fosse impossibile addomesticare quel falcone femmina.
Marco ci era riuscito ed i due avevano vinto anche una bella somma di denaro.
Da allora il falconiere sconfitto non li salutava più e li guardava in cagnesco.
Ai falconi non facevano mancare nulla: Marco tagliava loro periodicamente gli
artigli e li nutriva con formaggio fuso, uova, carne di pollame ridotta in poltiglia
che metteva in grandi ciotole ed.il cibo spariva presto divorato dai paurosi
becchi dei rapaci.
“Allora, che ne dici delle nostre bestie, non sono splendide?” chiese Savinio.
Pietro gli rispose:”Belle davvero! Mi piace tanto quel piccione spavaldo che
gonfia il petto, è proprio particolare. Come si chiama?”
“ Non ha ancora un nome, l’ho acquistato da poco. Di solito non battezziamo i
volatili, dare loro un nome è compito dell’acquirente. Che ne diresti di
Eustachio, mi sembra gli si addica proprio!”
All’udire quel nome Pietro si rabbuiò e rispose in malo modo, quasi urlando:”
Come ti viene in mente di chiamare così un piccione? Eustachio mai!”
Savinio sgranò gli occhi e fece un passo indietro spaventato, poi rispose
pacatamente:” Calma, calma! Si può sapere perché ti sei infuriato? Un nome
vale l’altro!”
“ Non può chiamarsi Eustachio, perché così si chiamava mio padre che
possedeva vasti terreni agricoli ed è morto parecchi anni or sono per un colpo
di sole. Era un uomo eccezionale con il dono di prevedere il tempo ed
azzeccava tutte le previsioni. Dal grado di umidità delle zolle, capiva se
sarebbe piovuto o meno. Riusciva ad orizzontarsi nella nebbia in base
all’abbaiare dei cani ed a sapere dove si trovava, perché diceva che i cani non
abbaiano mai allo stesso modo. Anche se veniva sfidato da qualcuno a battersi,
non raccoglieva la sfida poiché pensava che quella fosse un’usanza barbara”.
Ciò rispose Pietro con la tristezza dipinta sul volto.
“ Oh, mi dispiace tanto! Come potevo sapere il motivo per cui…”e
troncò
subito la frase.
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“ Lo chiamerei Ary invece!” , affermò con vigore Pietro.
“ Ma è un nome mezzo ebreo e mezzo greco!” , protestò Marco.
“ E chi se ne frega!” concluse Pietro senza mezzi termini.
“ E vada per Ary allora! Se in futuro avrai bisogno di un piccione viaggiatore,
torna qui a prenderlo”. Così Savinio troncò il discorso.
Per fugare ogni amarezza suggellarono l’incontro brindando con un buon
bicchiere di vino e qualche battuta scherzosa.
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ISABEL E IL RESPONSO DELL’INDOVINA
Granada era una terra benedetta con il suo mare, i suoi traffici e commerci, gli
effluvi deliziosi del balsamo, della mirra, dell’incenso che arrivavano dall’Arabia
con le carovane. I suoi datteri, meli, fichi, limoni e grandi cedri colpivano
l’occhio e mettevano appetito e buon umore.
Il sultano faceva coltivare le piante del cotone che crescevano rigogliose e
piantare gli alberi del pepe nei suoi vasti frutteti come pure gli ulivi dal bel
fogliame argentato.
I giardini fioriti di rose, bagnati dall’acqua delle fontane, gli splendidi palazzi
della nobiltà locale con le loro ampie sale ed i pavimenti coperti di tappeti
pregiati erano davvero un incanto.
Per le viuzze si incontravano asini, buoi, cani, gatti, tutto il variopinto mondo
animale e purtroppo anche colonne di schiavi incatenati che sarebbero stati
venduti a caro prezzo, se forti o eliminati se deboli e malaticci.
I venditori ambulanti della Medina decantavano le loro merci: muschio,
canfora, cannella, cotone , stoffe pregiate e non, ninnoli, unguenti portentosi,
animali esotici ed amuleti portafortuna.
Mai l’Alhambra era stata così maestosa e bella, bella da togliere il fiato con le
sue terrazze, scale, i portici di pesante pietra, le colonne di marmo e la
splendida sala del trono.
Era la vigilia del suo compleanno e Alhamar voleva spassarsela alla grande!
Aveva nostalgia dei baci di qualche concubina preferita, degli sculettamenti
degli eunuchi viscidi come non mai, con gli occhi bistrati di nero e le ciglia
allungate ad arte, le gote imbellettate, i vistosi braccialetti ai polsi ed alle
caviglie.
Si
fece
quindi
un
bagno
profumato
e
rilassante,
si
vestì
93
splendidamente, si infilò le babbucce preferite, quelle più comode che non gli
battevano contro i calli, ed entrò nell’harem.
Lì l’attendeva il nuovo regalo del suo amico Omar: una splendida fanciulla di
nome Isabel, provetta danzatrice e cantante dalla voce melodiosa.
Isabel lo incantò con le sue movenze flessuose e le sue carezze, accendendo in
lui un desiderio ardente e facendogli sembrare sciape le altre giovani
concubine. Quella creatura era un angelo dai capelli d’oro!
Le donne gli erano venute incontro timidamente a capo chino sospirando e
sperando in una notte d’amore con lui. Isabel però non si sarebbe mai
inchinata davanti al re moro se non avesse dovuto aiutare Omar che
parteggiava segretamente per i Franchi, nemici dei musulmani. A lei, tanto
orgogliosa ed altera, quell’ossequio costava un sacrificio enorme!
Calata la notte, la fanciulla sciolse i lunghi capelli biondi e serici che le
giungevano fino alla vita, stese sul viso una crema che rendeva la pelle del
colore dell’ambra, indossò una veste trasparente fatta di veli cangianti di vari
colori che mettevano a nudo le sue belle forme, indossò collane e braccialetti
da cui pendevano campanellini tintinnanti e prese il tamburello.
Era pronta a danzare e cantare accompagnando i movimenti col suono del
tamburello e dei campanellini. Uscì da una tenda damascata e si ritrovò
nell’alcova del sultano che era immersa in una calma straordinaria e soffusa da
una luce rossastra proveniente dai bracieri accesi
La ragazza incedeva con una grazia ed un portamento da principessa reale
mentre il sultano la guardava estasiato.
Cominciò a danzare con movimenti sinuosi, inviandogli sguardi dolci, lascivi,
incantatori, rotta com’era nell’arte della seduzione. Danzò a lungo e, mentre
danzava, si estraniava dal mondo circostante, ritornava ad essere Margherite,
persa nel ricordo vivido della propria fanciullezza quando viaggiava
per le
amate colline, foreste e le coste sabbiose, prima con i genitori e poi con la
carovana del suo patrigno e protettore.
Un brivido le percorse la schiena al pensiero dello sguardo truce dell’agà Omar,
cui nulla sfuggiva . Lo rivide nella sua corazza e l’elmo cicak, basso e tarchiato
con un solo occhio, traditore ed
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assassino che l’aveva addestrata a fare la spia coadiuvata da una rete invisibile
ed efficiente di informatori dei Francesi.
Ritornò allora alla realtà e si preparò a trascorrere la notte col sultano che,
invaghitosene, la elesse sua favorita.
La missione di Isabel consisteva nel carpire informazioni agli eunuchi sempre al
corrente di tutto: nessuna decisione, nessuna mobilitazione di forze, nessuna
partenza sarebbe avvenuta senza che loro ne venissero a conoscenza e, per
conseguenza, con un poco d’astuzia, anche lei avrebbe saputo.
La luce dei bracieri e delle torce si stava estinguendo, ma Isabel non riusciva a
prender sonno.
Mentre il sultano russava lei pensava alle missioni affidate ai beduini alleati dei
musulmani che disponevano di forze ingenti ed avevano un programma
preciso: preparare il terreno e scavare pozzi là dove si sarebbe accampato
l’esercito, tagliare le linee di rifornimento agli avversari, rendere impossibile
l’invio di informazioni, infastidire il nemico con scaramucce ed attacchi a
sorpresa a più riprese, tendergli imboscate, rubare
cavalli e danneggiare le
attrezzature di guerra.
Omar pretendeva che quelle azioni fossero previste e sventate.
La settimana precedente la partenza per Granada, Isabel aveva chiesto con
insistenza ad Omar di poter consultare una vecchia veggente sull’esito delle
future campagne militari
La maga, che era anche l’unica levatrice del luogo, non abitava molto lontano,
solo un’ora a cavallo dell’accampamento del beduino.
Trattandosi di un viaggio breve e pur ridendosene di maghe ed indovine, Omar
permise ad Isabel di partire scortata da due suoi fidi.
L’idea fissa della ragazza era quella di conoscere il proprio futuro e non tanto
l’esito delle battaglie.
La maga viveva in una capanna arredata spartanamente e provvista di un
giaciglio coperto di pellicce. Dal soffitto pendevano mazzetti di erbe profumate
e, dalla parte opposta al letto, era sistemato un tavolo di legno con sopra un
teschio. Su una mensola di pietra erano disposte con ordine ciotole contenenti
radici e polveri dall’odore pungente.
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All’imboccatura della grotta facevano la guardia due cani alti e possenti con il
collo taurino e le orecchie dritte. Isabel, che non aveva ancora visto bestie di
quella razza, si fermò impaurita sulla soglia. Ad un cenno della maga però i
cani si accucciarono docili permettendo ad Isabel di entrare.
La giovane salutò educatamente la donna che era molto anziana, vestita di
bianco con una cintura stretta in vita tutta ornata di pietre preziose.
Isabel pensò:” Caspita! Costei deve essere veramente ricca per potersi
permettere tanto lusso!”
La vecchia portava i capelli corti e di un candore incredibile e la sua pelle era
tutta grinzosa e di color bruno come arsa dal sole. Il viso era illuminato da due
occhi vivaci e penetranti che scrutavano attentamente l’ospite.
Difficile, se non praticamente impossibile, decifrarne l’età, ma bastava fissare
lo sguardo sulle sue mani ossute su cui spiccavano piccoli punti color caffè,
quelli che si chiamano “ fiorellini del cimitero” per capire che era già molto
avanti negli anni.
Andò incontro alla ragazza per abbracciarla e le disse: “ Sapevo già che saresti
venuta, cara! Ti ho
sognata la notte scorsa quando la luna era piena nel cielo ed i miei spiriti
informatori mi hanno detto che sei qui per sapere il futuro che ti aspetta”.
La voce della maga, molto gutturale, più maschile che femminile, impressionò
non poco la ragazza. Come poteva una tal voce venir fuori da quel corpo sottile
come un fuscello che un forte colpo di vento avrebbe potuto spezzare?
Con un gesto della mano la vecchia indicò ad Isabel una sedia traballante posta
ad arte sotto un foro praticato nel soffitto da cui penetrava il chiarore del
giorno.
“ Vuoi sapere solo del tuo futuro o c’è anche qualche altro argomento che ti
preme?” fece lei per avviare la conversazione e mettere la ragazza a proprio
agio.
Quella domanda fu accolta da un lungo silenzio di Isabel che fissava il viso
della maga per concentrarsi su quello che doveva chiedere, poi rispose:”
Grande maga, dimmi del mio futuro!
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Quella rispose: “ Non sono grande, ma prima di me lo era colui che mi ha
insegnato l’arte e trasfuso in me il suo sapere e la sua saggezza. Ad ogni modo
ti dirò tutto ciò che la grande mente mi ispirerà”.
Ciò detto cominciò a vaticinare con voce cantilenante, le labbra semiaperte e
gli occhi socchiusi:” Molto sangue verrà sparso e la collera del cielo decimerà
molti eserciti che combattono solo per il bottino e la gloria. Le potenze del
mondo sono oscure e gravate da crimini orrendi. Le guerre tra cristiani e
musulmani sono frutto di menti fanatiche e malate! Nessun credo possiede la
verità tutta intera, la verità una! I sovrani manipolatori per saziare il loro
spirito di dominio, muovono guerra e non smettono di fare il male.
Tu, giovane donna, non compiacere né Omar, né il sultano! Sei furba,
coraggiosa, intelligente, audace. Sii anche molto prudente e recita bene la tua
parte, continua così la tua finzione. Ti salverai per amore, quello che
incontrerai un giorno all’Alhambra. Esso ti cambierà la vita e ti farà finalmente
libera! Quando ti assaliranno dubbi ed incertezze, ricordati delle mie parole!
Isabel compensò la maga con una piccola somma, quella che le aveva elargito
Omar, che teneva i cordoni della borsa sempre molto stretti.
La ragazza chiese scusa alla maga per l’esiguità della somma, ma quella le
rispose di non preoccuparsi assolutamente perché conosceva la fonte di quel
danaro che non era danaro pulito, ma rubato.
Naturalmente la ragazza riferì all’aga solo ciò che si riferiva alle contese tra
cristiani e musulmani, omettendo tutto il resto.
Omar, non trovandole né chiare, né soddisfacenti, tuonò irritato:” Ma che razza
di responso è questo! Ho fatto bene a darle solo spiccioli, anzi quella non si
meritava proprio un bel niente. Tu, cara mia, avresti potuto risparmiarti il
viaggio ed io quel poco di danaro! Al diavolo maghe, veggenti, indovine, tutte
vecchie imbroglione!” Poi si calmò e non ci pensò più, aveva ben altro per la
testa!
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IL GENETLIACO DEL SULTANO
Omar fece levare le tende di notte e partì per Granada sotto un cielo
tempestato
di
stelle
bianche
che
brillavano
come
diamanti.
Dopo
i
festeggiamenti al sultano sarebbe ritornato ad attenderlo presso l’oasi con i
suoi beduini. Lo accompagnavano ora i suoi fedeli mercenari, asini e cammelli
carichi di ingenti quantità d’oro e preziosi che doveva affidare ad alcuni dei suoi
uomini che li avrebbero nascosti in un magazzino..
Infido e traditore si incamminò quindi a ritroso per il nudo deserto affidando i
giorni a venire alla buona sorte. Spuntato il giorno il caldo era aumentato
gradualmente ed il vento colpiva con folate violente e l’aria stessa era carica di
sabbia che mulinava intorno ad uomini ed animali. Ogni tanto qualcuno si
fermava per togliersela dagli occhi arrossati.
Viaggiarono per un giorno intero attraversando un terreno sempre eguale, ma
ora l’aga lo guardava con occhi nuovi, quelli di un doppiogiochista ben
remunerato sia dal sultano che dai Cristiani di Francia ed il cui favoloso
malloppo aveva il potere di aprirgli tutte le porte.
Avanzarono per tutto il giorno in una zona abbastanza tranquilla dove i
cespugli, i tamarischi e le dune spezzavano la violenza del vento. Venuto il
tramonto, il caldo scese, l’aria si addolcì ed il cielo cominciò ad imporporarsi
mentre il sole mandava splendidi bagliori.
Il giorno seguente Omar mandò avanti il fido Mohammed, il suo migliore
esploratore e gli ordinò di scoprire eventuali orme che segnalassero il
passaggio di predoni e tribù nemiche. Mohammed era un uomo agile e brutale
di cui si era sempre fidato. Egli escluse la presenza di tracce fresche e
rassicurò il comandante che non si correva alcun rischio. Non erano molto
lontani
dall’Andalusia,
il
più
era
fatto.
Ora
li
attendevano
i
grandi
festeggiamenti, la sfilata ed i banchetti in onore del sultano per il suo 48°
compleanno.
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Nei lussureggianti giardini erano stati eretti con sorprendente celerità splendidi
padiglioni arredati sontuosamente alla maniera saracena. Gli animali d’Africa
ed Asia, custoditi dagli stallieri, godevano del clima tiepido, della festosità che
li circondava ed erano vivaci.
La corte si era ben preparata alla sfilata che avrebbe avuto luogo il mattino
successivo quando tutta Granada sarebbe sciamata fuori dalle case per
assistervi seppur da lontano.
Infatti quel mattino il rullo dei tamburi annunciò l’arrivo del lungo corteo di una
bellezza incomparabile. Lo apriva la cavalleria leggera degli arcieri saraceni; gli
agili
purosangue
arabi
procedevano
superbi
mentre
i
cavalieri
si
pavoneggiavano fieri ed eretti nei loro costumi cangianti.
Avanzavano poi i cammelli mehari, dinoccolati e silenziosi. Quello in testa alla
fila rallentò per lasciare un ricordino sul cammino, allora la sua guida lo
pungolò per farlo andare avanti più in fretta. La bestia girò la testa indietro sul
lungo collo verso i compagni. I cammelli, si sa, sono avvezzi a stare in branchi
fin dai primi giorni di vita e, troppo legati a quell’abitudine, nessuno di loro
procede senza assicurarsi d’essere insieme agli altri. Sulle loro groppe erano
fissati i palanchini
dalle tendine di seta colorate che trasportavano le odalische dell’harem
imperiale. I palanchini erano scortati e strettamente sorvegliati da negri
giganteschi, terribili a vedersi.
Chiusa in uno di quelli sedeva Isabel, splendida nel suo vestito di seta,
sembrava lei la regina!
Le principesse avevano saputo per vie traverse dell’arrivo della nuova fiamma
del sultano; ciò però non aveva destato in loro alcuna apprensione, semmai
una certa curiosità. Si diceva infatti che fosse bellissima e con lunghi capelli
color dell’oro fino.
Dietro i cammelli avanzavano i nobili della corte al cui centro cavalcava
impettito Alhamar con lo sguardo simile a quello di un serpente velenoso in
procinto di mordere.
Chiudevano la sfilata i leopardi da caccia, cioè veloci ghepardi seduti sopra
cuscini montati sulle
100
selle, un grosso elefante con in groppa la torretta di legno con il guidatore e
poi giraffe, linci, leoni, splendidi cavalli neri con le groppe larghe e lucenti, i
finimenti tutti netti e lustri, i morsi, i sonagli, le staffe scintillanti, bestie scelte
personalmente dal sultano o da suoi uomini di fiducia, infine i muli.
Zaida, Zorayda e Zorahaida sedevano su un palco all’ombra, orgogliose
dell’incredibile potere e della ricchezza del loro genitore.
Cosa mai accaduta prima, Isabel fu loro presentata in privato come giovane
erudita che parlava e comprendeva molte lingue tra cui naturalmente l’italiano
appreso in tenera età dal padre. Quella ragazza non aveva niente a che vedere
con le concubine dell’harem, grasse ed inanellate. Nei suoi occhi ardeva uno
strano luccichio come di fuoco, molto simile a quello che riluceva negli occhi di
Zorahaida quando si parlava di vendetta.
Le principesse, cui Isabel era gradita, capirono subito che quella bellezza
bionda non era né timida, né sottomessa, ma possedeva determinatezza ed
uno spirito indomito e si chiesero come mai una tal creatura fosse lì.
La videro anche Pietro e Giuseppe che avevano presenziato con grande
entusiasmo alla sfilata, commentando insieme alle altre maestranze del
palazzo, la magica ostentazione di potere e di grandezza del sultano.
Isalbel sembrò a Pietro una fata uscita da una fiaba sia per le fattezze del
corpo, sia per i capelli lunghissimi.
Un trovatore dalla voce melodiosa prese a recitare versi in onore del sultano,
condottiero senza paura, terrore dei nemici che avrebbe sconfitto la Croce e le
forze coalizzate contro di lui.
Al banchetto, allestito senza badare a spese, presero parte centinaia di nobili e
invitati di riguardo, tutti amici di Alhamar ed anche Omar, il falso alleato.
Prima dell’inizio del convito furono bruciate essenze d’issopo, mirto, storace,
terebinto, nardo, balsamo, canfora e cinnamomo che avrebbero calmato e
rallegrato gli animi di quella marea di gente.
Al suono del gong uscirono da dietro un grande paravento fatto di canne di
bambù intrecciate, giovani danzatrici vestite di seta ricamata, con corpetti
attillati, tenuti chiusi da nastrini ed i capelli corvini raccolti in trecce sulle spalle
coperte da scialli multicolori.
101
Ora, mentre si esibivano nel padiglione centrale, quello del sultano, gli astanti
potevano ammirare tutta la loro leggiadria ed abilità nell’eseguire le stesse
movenze all’unisono.
Calata la notte sulla festa del suo compleanno, Alhamar cercò l’amore di
Isabel. Giovandosi dell’ascendente che aveva su di lui la ragazza gli chiese di
poter visitare, scortata naturalmente da una guardia, l’Alhambra. In un
eccesso di magnanimità dettatagli dalla passione, egli le accordò il permesso,
cosa molto insolita per lui che incuteva un sacro terrore a tutti i suoi sudditi
solo guardandoli.
Alhamar aveva una fiducia illimitata nel principio di base:” A me tutto è
permesso, ho autorità assoluta sui miei fedeli che mi obbediscono ciecamente”.
Infatti era vero: essi non temevano nulla, tanto meno la morte anzi,
ardimentosi, la cercavano convinti che avrebbe aperto loro le porte del
Paradiso con i suoi sacri fiumi e giardini.
Tra il levar del sole ed il suo tramonto infuocato Alhamar se ne stava nella sua
splendida dimora, circondato da agi e lusso, intento ad accrescere il proprio
potere e la gloria di Allah.
Chi non obbediva ai suoi ordini oppure ordiva trame avrebbe dovuto fare i conti
con i sicari che sguinzagliava ovunque e che erano implacabili.
Isabel aveva assistito a qualche improvvisa esplosione della sua ira, ne aveva
timore, nondimeno voleva proseguire nel suo intento, cospirare contro di lui.
Zaida, Zorayda e Zorahaida erano sulle spine dato che il tempo volava e non si
era venuti a capo di nulla. Giuseppe fece loro sapere però che le ricerche
andavano avanti e che dovevano pazientare.
102
IL SULTANO E’ PARTITO
Dopo quattro giorni di viaggio, di cui una parte per mare, la lunga carovana del
sultano raggiunse un grande spiazzo si sabbia e ciottoli oltre il quale spuntava
l’oasi rigogliosa alle pendici di un monte, la loro meta.
Lo spiazzo era tanto ampio che vi si sarebbe potuto radunare un intero esercito
in assetto di guerra. Ai bordi dell’oasi si ergevano rocce enormi sparse qua e là
come sentinelle di guardia e palme alte ed anche nane, verdi e bianche,
cariche di datteri pendenti dai rami.
Le pendici delle collinette circostanti erano già punteggiate da centinaia di
tende e presumibilmente da una gran moltitudine di soldati, cavalieri e gente al
seguito.
Oltre alle tende erano stati montati capanni dentro i quali facevano bella
mostra pagnotte e vasi di miele, pesce affumicato su stuoie, dolci ed altra
merce d’ogni genere.
Quelli al seguito del sultano erano scesi tutti dai cammelli stirandosi le membra
indolenzite per il lungo viaggio attraverso il deserto vasto e solitario, ventoso
ed infido. Anche i muli erano veramente esausti per la lunga marcia e si
abbeverarono all’acqua dolce dell’oasi.
Avevano trasportato legname abbondante per accendere e mantenere vivi i
fuochi utili ad illuminare la notte buia, fredda e coperta da una coltre nebbiosa
sopra la quale riluceva un cielo pieno di stelle.
Dato che l’erba dell’oasi era abbastanza fresca ed abbondante i cammelli
brucarono per molte ore nei giorni seguenti, preferendo
pascolare nelle ore
più fresche del mattino invece che alla sera.
Gli schiavi del sultano avevano già sciolto i carichi dai cammelli e montate le
tende, badando a mettere un velo dalla parte del sole perché, spuntato, non
ferisse gli occhi di chi le occupava.
Il sultano si fermò nelle vicinanze di un villaggio visitato l’anno precedente e,
invece che dormire sotto la tenda, fu ospitato dentro una immensa roccaforte
in una casa ben attrezzata e lunga parecchi metri.
103
Le donne che gli resero omaggio erano uno sparuto numero, tutte vestite a
festa, come uccelli dalle piume variopinte, le braccia ed il collo ornati da monili
d’oro ed i capelli tutti intrecciati e lucidi.
Molti si erano già ritirati dentro le tende per prepararsi al pasto serale a base
di carne di gazzella, migliore di quella di qualsiasi altro animale del deserto
perché grassa e ricca di sugo ed avrebbero bevuto tazze di un infuso
rinfrescante e gradevole.
Tutti erano davvero stanchi per aver camminato a marcia lenta, ostacolati dai
tumuli di sabbia intervallati da cespugli spinosi che spuntavano ai loro lati e
costituivano un intrico di rami secchi, biancastri e polverosi come ossa di morti
in battaglia e lasciate per molto tempo in balia delle intemperie.
Il sultano volle mangiare sotto la tenda, ma rifiutò di cibarsi di carne di
gazzella preferendo quella di montone che un gruppo di uomini portava su un
grande vassoio coperto di riso sul cui bordo erano incisi motti in arabo.
Il riso era bianco e formava come un argine alla carne che stava al centro e
che rischiava di traboccare e dalla superficie del riso sporgeva la testa lessata
dell’animale e le orecchie rivolte verso l’alto.
Fuori i cani da guardia del campo vagavano alla ricerca di qualche rimasuglio,
mentre ai levrieri del sultano venivano riservati dei bocconi scelti.
Il giorno seguente Alhamar arringò le truppe spronandole alla battaglia e
promettendo loro un grosso bottino in caso di vittoria.
Era una vista grandiosa quella degli stendardi neri e gialli del re moro che si
gonfiavano al vento del deserto ed i cammelli in fila indiana carichi di casse
tanto alte da sembrare piccole torri. Il loro lungo collo ondeggiava qua e là
sporgendo dall’alto carico.
Il sultano montava un gigantesco destriero, alto quasi venti mani, tutto
bardato e con i paraocchi lucenti di ricami d’oro.
Tutti avevano i visi avvolti nelle kefyah perché la sabbia che vorticava non si
insinuasse nella bocca. Alle orecchie di Alhamar giungevano nitriti, bramiti di
cammelli, rumori di armature, rullio di tamburi che scandivano la marcia dei
104
soldati pronti all’adunata. Prima delle ore più calde del giorno le truppe si
dispiegarono in tutta la loro potenza.
Sceso da cavallo il sultano entrò dentro la sua splendida tenda eretta su una
piccola altura e si sedette a pensare con le gambe stese su un canapè di
broccato con borchie di rame. Probabilmente pensava al discorso da tenere per
incitare gli uomini.
All’interno della gran tenda l’aria era satura del profumo dell’incenso rosso di
Soqotra che si sprigionava dagli incensieri posti ai lati dell’imboccatura.
Dopo essersi rilassato e rifocillato uscì ad arringare le truppe. Appena ebbe
alzate le mani verso il cielo, migliaia di gole proruppero in un boato
d’esultanza. Tutti volevano dimostrare che c’erano ed erano pronti a seguirlo,
assetati di vendetta, di gloria e di bottino.
In piedi accanto al sultano stavano da un lato il suo aiutante in campo Auda e
dall’altra il cadì Nasir che lo sovrastava in altezza con tutta la testa e che il
sultano avrebbe voluto volentieri mozzare seduta stante perché sminuiva la
sua figura agli occhi di quella moltitudine osannante. Kunar però non c’era!
Anche quei due erano là per godere di quei momenti d’esaltazione e, come
Alhamar ,calzavano, strano a vedersi, stivali di spesso cuoio muniti di tacchi di
ferro.
Un perché naturalmente c’era: bisognava guardarsi dai morsi dei serpenti
velenosi che abbondavano e spesso e volentieri si insinuavano dentro le tende
e perfino sotto le coltri per stare al calduccio la notte. Bisognava quindi
prendere tutte le precauzioni e badare a dove si mettevano i piedi. Non pochi
al campo erano stati morsi da quei maledetti rettili ed erano morti. Molti
provavano verso quelle creature grande orrore e repulsione, solo alcuni, come
l’intrepido Abdulla, che ne aveva uccisi a centinaia, non li temevano.
Il sultano continuò a tenere le braccia alzate, volgendole un poco verso
occidente e poi verso oriente. Egli portava ai fianchi due scimitarre con l’elsa
tempestata di smeraldi e che improvvisamente fece roteare gridando:” Allah,
Akbar! La mano di Allah ci protegge, protegge la nostra jihad e mi darà
l’illuminazione per poter vincere!”
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Il suo viso appariva tutto infiammato di zelo e lo sguardo era quello di un
invasato. Si sentiva uomo pio, devoto, d’estremo rigore, investito di una
missione sacra, era forte, coraggioso, fiero e non aveva dubbi sulla via da
seguire e così incantava ed incitava quella folla di combattenti fieri ed indomiti
tra cui le schiere dei muhalliq, dei Kharsa e degli Zakrad.
Quella pomeriggio Omar, sempre pronto a rendere i suoi servigi al miglior
offerente, entrò nella tenda del sultano pronto a chiedere un’ulteriore somma
di danaro. Anche in quella occasione, viscido ed astuto, riuscì a spuntarla
intascando un bel gruzzolo.
Il suono di un liuto giungeva da lontano insieme ad un coro sommesso di voci:
“ Non fermatevi, soldati!
Avanzate e non tremate!
Il loro coraggio è come fumo,
solo fumo che si disperde,
il loro valore è vanità.
Vengono dalle tenebre
che sono la loro casa,
covando odio e malvagità.
Non desistete dalla lotta,
siate saldi e non temete,
per Allah voi vincerete!
Viva, viva la jihad!”
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LE RICERCHE DANNO FRUTTO
Il tam-tam avviato da Kalima stava già dando i primi frutti. Mentre all’inizio
Pietro, da persona molto riflessiva, si era spaventato all’idea d’essere gravato
di una responsabilità che d’istinto respingeva in quanto gli sembrava d’essere
troppo vile ed inadatto ad un incarico d’azione, ora si era fatto più audace e
non vedeva l’ora di buttarsi nell’impresa.
Quella sera era seduto al tavolo di legno del piccolo vano che fungeva da
cucina e mangiava con gusto del formaggio di capra molto saporito insieme a
riso dai chicchi piccoli e scuri. Era solito cenare abbastanza presto e, mentre
consumava il pasto lentamente assaporando ogni singolo boccone, meditava
sui fatti della giornata e sul comportamento di Orso che gli sembrava ancor più
assurdo.
L’equipe degli artisti ed operai stava svolgendo un lavoro da certosini in una
sala lunga più di trenta metri sul lato est del Cortile dei Leoni, dedicata alle
feste, ricevimenti e riunioni presiedute dal sultano. Lavoravano alacremente a
risistemare una parte della zoccolatura con degli azulejos, i pannelli di stucco
ed i dipinti su cuoio e tutto stava procedendo bene.
Mentre pensava a ciò che avrebbe fatto il giorno seguente, sentì un tocco
leggero alla porta. Per istinto estrasse il coltello dalla lunga lama affilata che
teneva sempre sotto il guanciale e che era la sua unica arma di difesa.
Pietro temeva la solitudine, ma ancor più le tenebre della sera che potevano
nascondere un agguato.
Dischiuse cautamente la porta, spiò a destra ed a sinistra senza vedere
nessuno, nulla d’insolito, ma il cielo era nerastro di nubi che avevano avvolto
tutto con il loro manto scuro e misterioso, quindi c’era poco da fidarsi e non
mise fuori dall’uscio neppure un piede, ma solo la testa. Lo stava richiudendo
quando gli si parò davanti un’ombra bassa e sottile che si rivelò quella di una
bambina dai capelli lunghi e le braccia esili che gli porse un rotolo di
pergamena e scomparve come risucchiata dalla notte.
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Pietro rimase di stucco come se fosse stato contattato da un fantasma.
Rintanatosi e sprangato l’uscio, si sedette con le mani tremanti ed iniziò a
srotolarla.
Che sorpresa! Al chiaror della torcia appesa al muro lesse solo una data, un’ora
ed un luogo. Era chiaro che non poteva trattarsi d’altro se non di un
appuntamento. Un trabocchetto od una comunicazione importante?
Bussò allora alla parete di comunicazione con Giuseppe il quale, lesto, lesto si
infilò in casa dell’amico che gli mostrò subito il foglio. Il capomastro apparve
contento e soddisfatto, anche per lui quello era un appuntamento e bisognava
che Pietro vi si recasse.
“ O la va o la spacca, ci andrò! In fin dei conti dobbiamo portare a termine un
incarico ben remunerato”.
I due amici andarono a letto tutti agitati e non riuscirono a chiudere occhio per
i troppi pensieri e
il giorno dopo Giuseppe consigliò a Pietro di recarsi da Fratel Barnaba.
Sui gradini della chiesetta sedeva un cantastorie male in arnese che suonava
uno strano strumento a corda e cantava con voce melodiosa le gesta di un
eroe antico.
Stese la mano verso Pietro e la ritrasse felice nel vedervi scivolare dentro una
piccola fortuna che nascose lesto nella logora custodia dello strumento e
scappò via mormorando qualche parola di ringraziamento.
Entrato nel sacro luogo, Pietro vide il frate che parlava a pochi fedeli con gli
occhi ed il palmo delle mani rivolti al cielo e gli sembrò molto somigliante ad
una statua di San Patrizio, l’evangelizzatore dell’Irlanda, che aveva visto in una
chiesetta di Firenze.
Tutto infervorato Barnaba proseguì:”Io vi dico che Dio è sempre vicino a chi Lo
cerca e Lo ama, non vi abbandonerà mai e vi proteggerà perché siete Suoi figli.
Nutritevi quindi del Suo Spirito, pregateLo con tutto il cuore e non temete le
tenebre di questo mondo! Infatti la luce divina bandirà qualsiasi oscurità ed
illuminerà i vostri cuori che saranno così nella gioia. Sentite come suona la
campana della Sua dimora? Essa chiama tutti noi ad ascoltare il Suo messaggio
di verità che ci fa liberi, di gioia, di speranza e di salvezza. Oh, clementissimo
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Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, che avete operato tanti miracoli per
noi peccatori: in virtù del Vostro Santo Nome i demoni prendevano la fuga, i
sordi udivano, gli zoppi camminavano, i muti parlavano, i lebbrosi erano
mondati ed i morti risuscitavano. Il Vostro Santo Nome è come una dolce
melodia all’orecchio, miele nella nostra bocca! All’udirLo ogni ginocchio si
piega, gli spiriti celesti si rallegrano, le contese del mondo ed il demonio sono
uccisi e molti beni ne derivano. Chiunque Lo invocherà sarà salvo!”
Pietro si unì alla preghiera recitata dai fedeli, parte in Spagnolo e parte in
Italiano ed attese che la funzione terminasse.
Quando anche gli ultimi lasciarono la chiesa, Pietro si avvicinò al frate che si
voltò e gli sorrise.
“ Fratello pregate anche per me e per tutti quelli che combattono per una
giusta causa?” gli chiese Pietro e quello di rimando:” Caro amico, lo faccio ogni
giorno. Qual buon vento ti porta qui?”
“ Vorrei prelevare una parte delle monete che vi ho dato in custodia. Siamo
giunti infatti ad una svolta, spero positiva, delle nostre indagini e dovremo
ricompensare chi ci darà informazioni certe”.
“ Vieni allora in canonica e prendi quello che ti occorre, prima però
inginocchiati chè desidero darti una benedizione speciale!”
Pietro si inginocchiò tutto compunto e la ricevette con gioia e grande speranza.
Poi seguì il saio svolazzante del frate che andava sempre di fretta. Barnaba gli
consegnò più della metà del danaro esortandolo ad usarlo bene e a non
sperperarlo, cosa che Pietro gli promise solennemente.
Dobbiamo dire che lo usò subito bene. Infatti, corso in casa di Adelaid, regalò a
lei ed a sua madre una discreta somma consigliando loro di servirsene
parsimoniosamente e di non far mancare nulla a Tommasino.
Le due
donne non finivano più di ringraziarlo ed,
inginocchiatesi gli
abbracciavano e baciavano i piedi, tanto che alla fine Pietro, sensibilmente
commosso, fu costretto a divincolarsi bruscamente
finchè quelle non lo
lasciarono andare.
Pensò di elargire un congruo compenso anche all’informatore che gli aveva
fissato quello strano appuntamento ed all’acquisto del piccione Ary, ma
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dubitava che i Veneziani glielo avrebbero venduto, semmai glielo avrebbero
dato solo in prestito senza pretendere alcun compenso.
Poi pensò:” Un piccione vale l’altro! Può darsi che quel vanitoso di Ary faccia
più chiacchiere che fatti!”
MORTE DI UN SANTO FRATE
Isabel visitò l’Alhambra, che il sultano stava facendo ampliare ed abbellire,
scortata da una guardia. Attraversò i cortili ed ammirò il suggestivo giardino,
uno dei più belli del mondo di allora. Il suo scopo era quello di raggiungere la
sala degli scrivani e di vederli all’opera. Entrò in una stanza ampia, piena di
oggetti antichissimi e di inestimabile valore dove c’erano alcuni tavolini con il
calamaio. Alhamar era anche collezionista di reperti storici: antichi manoscritti,
statuine di divinità indiane in legno e in avorio, vari oggetti d’ebano finemente
intarsiati, una gran quantità d’armi antiche, modellini di vascelli e di fortezze e
molto altro ancora.
Uno scriba, spia molto abile e scaltra e ben nota ad Isabel, era intento a
trascrivere su pergamena una lettera formale indirizzata dal sultano al Re
Ferdinando di Castiglia in cui chiedeva consiglio ed assicurava il suo appoggio
in vista di una eventuale battaglia contro le truppe cristiane.
110
Quella lettera non poteva cadere in mani peggiori!
ordinò allo scriba di farne una copia
In un sussurro Isabel
in più da far recapitare ad Omar
attraverso i canali a lui ben noti.
Il sultano, chiamato anche “Il Magnifico”, era a capo di un grande regno che
comprendeva le province di Granada, Malaga ed Almeria e parte di quelle di
Jaen,Cordoba, Siviglia e Cadice. Scriveva al Re Ferdinando perché gli era
vassallo ed alleato per assicurarsi così la stabilità del regno.
Gli scribi del sultano scrivevano su una pergamena fatta di pelle di pecora,
bianchissima, in quanto macerata nella calce e levigata. Un tempo venivano
usate
le pelli di gazzella e di antilope ed anche il velino che era morbido,
sottile e raro, proveniente da vitelli, agnelli e capretti nati morti, non si
sgualciva, era solido, ma troppo liscio per potervi scrivere bene e quindi caduto
in disuso.
L’uso della pergamena era stato introdotto dal Re Emmene II di Pergamo verso
il 200 a.C. ( il nome deriva appunto da quella località).
Venne presto impiegata per scrivere missive, trascrivere ordini del sultano,
lunghi elenchi commerciali con quantità, pesi e misure, importi di tasse e
gabelle da riscuotere.
Isabel guardava con finto interesse lo scriba intento al suo lavoro di precisione
e, avvicinatasi per esaminare meglio la pergamena,
gli ordinò quello che
doveva fare e, nel contempo, gli fece scivolare in grembo un sacchetto di
monete come compenso.
La ragazza agì con tale sveltezza che la guardia che l’accompagnava non se
ne’accorse neppure; quell’uomo era un gran chiacchierone che, pensando che
Isabel non costituisse nessun pericolo, ma fosse solo desiderosa di osservare e
d’ammirare, si era messo a conversare animatamente con uno scriba suo
amico.
Tornando verso l’odiato harem, Isabel volle fermarsi ad ammirare il Cortile dei
Mirti ed i suoi rivestimenti a mosaico la cui posa era stata avviata da poco
tempo e di cui si faceva un gran parlare.
Lì stava lavorando la squadra di Giuseppe al gran completo e fu in
quell’occasione che la ragazza conobbe Pietro che le avrebbe cambiato la vita.
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Il Fiorentino la vide avvicinarsi e sorridere in modo aggraziato salutando tutti
gli artefici di quello splendido lavoro, ma gli parve che il saluto fosse indirizzato
solo a lui.
Sapendo della gelosia del sultano e non volendo dare adito a chiacchiere,
chinò il capo e si mise di lato in disparte.
Ma Isabel, che non era usa a perder tempo invano, gli si avvicinò e gli disse
alcune parole d’elogio in italiano, lingua che, come sappiamo, conosceva bene.
Scorgendo poi un interesse particolare negli occhi dell’artista, lo informò che
quella notte non era il suo turno di giacere con quel despota geloso
che
sarebbe partito nel giro di pochi giorni e che aveva ben altro che l’amore per la
testa. Un servo a lei fedele avrebbe bussato alla sua porta e gli avrebbe
indicato dove andare ad incontrarla. Non doveva preoccuparsi d’esser seguito,
quella non era una trappola! Voleva solo parlare con lui e costruire un buon
rapporto di sincera amicizia. Tutto qui, niente inganni!
Pietro era un uomo ancor giovane ed attraente ed Isabel pensava che forse
sarebbe stato un suo buon alleato ed anche un valido aiuto per una fuga nel
caso gli avvenimenti avessero preso uno piega sfavorevole. Per Pietro e non
per lei fu amore a prima vista! Per Isabel fu mero calcolo; l’amore sarebbe
venuto dopo.
Pietro e Giuseppe cenarono insieme per tenersi compagnia chiacchierando del
più e del meno e commentando la visita di quella Isabel, tutta grazia e
bellezza.
Il capomastro propose all’amico di andare insieme alla chiesetta per salutare e
ringraziare
ancora
collaboratore.
Ma
Barnaba,
Pietro
loro
disse
amico
che
non
ed
in
poteva
un
in
certo
senso
quanto
anche
aveva
un
appuntamento galante con la bella della mattina.
Giuseppe si meravigliò un poco, ma poi congratulandosi con l’amico per tanta
fortuna, gli raccomandò di stare attento e di aprire bene gli occhi dato che non
poteva permettersi passi falsi. Concordarono quindi di andare dal frate il giorno
dopo, lo stesso in cui Alhamar sarebbe partito per l’oasi.
112
Si erano incamminati allegramente nella frescura serale e Pietro, ormai
innamorato cotto di Isabel, non faceva che decantarne la bellezza all’amico che
lo ascoltava con una certa indulgenza.
Ma che amara sorpresa li attendeva al loro arrivo nella piazzetta! I gradini
davanti al portone erano gremiti di gente che parlottava concitata. Alcune
donne piangevano con la testa bassa coperta dallo scialle.
Giuseppe udì gli uomini discutere dicendo:” Qualcuno lo ha ucciso oppure è
scivolato ed ha battuto la testa. Abbiamo perso un amico, Barnaba era uno
di noi, capiva le nostre necessità, era come un fratello!”
I due si fecero largo a forza di spallate e spintoni ed entrarono in chiesa.
Videro che il cerusico, prontamente chiamato da Hector, scuoteva la testa
sconsolato. Non c’era più niente da fare, sorella morte era venuta a prendersi
l’umile frate.
Hector sedeva sui gradini dell’altare vicino al corpo esanime dell’amico e
protettore, si teneva la testa tra le mani e piangeva sconsolato. Chi avrebbe
sostituito quel santo frate che aveva avuto una pazienza infinita ed una gran
carità nei suoi riguardi? Il povero sagrestano si sentiva solo, abbandonato e
nuovamente senza famiglia. Ricordava le parole rasserenanti di Barnaba, il suo
sorriso cordiale, la sua sollecitudine ed il suo amore verso tutti, specialmente
per i più deboli e derelitti. Chi mai avrebbe potuto sostituirlo e perché mai il
Buon Dio lo aveva tolto così improvvisamente dalla scena di questo mondo?
La costernazione di Pietro e Giuseppe divenne terrore. Che qualcuno avesse
rubato il malloppo ed ucciso il frate buttandolo a terra? La perdita di liquidità li
avrebbe fortemente penalizzati!
Nonostante le circostanze luttuose ne sconsigliassero l’opportunità, i due si
avvicinarono al sagrestano e, commentando l’accaduto, gli chiesero
a
bruciapelo se sapeva dove fratel Barnaba teneva la chiave dell’armadietto della
sagrestia.
Intanto il cerusico aveva osservato, voltato e rivoltato la salma, affermando,
senza timor di smentite, che Barnaba non era stato ucciso né con arma da
taglio e neppure con un corpo contundente, ma che probabilmente aveva
113
avuto un malore ed era caduto malamente battendo la testa contro il freddo
marmo.
Hector, che era vecchio e catarroso ma non stupido, ed a cui il frate aveva
deputato la salvaguardia della somma,
precedette i due amici in sagrestia
dove consegnò loro il danaro.
Rivolse loro uno sguardo implorante senza però chiedere nulla esplicitamente
perché se ne vergognava. Ora che il frate non c’era più aveva assolutamente
bisogno di qualcosa per vivere e non era certo che il successore di Barnaba lo
avrebbe tenuto al suo servizio.
Anche se il gruzzolo si era notevolmente rimpicciolito in opere di beneficenza,
Pietro e Giuseppe non se la sentirono di deludere quel poveretto speranzoso e
gli diedero una discreta somma.
Hector l’accolse come una benedizione del cielo e si asciugò non solo le copiose
lacrime di dolore ma anche quelle di gratitudine.
Intanto era arrivato fratello Uberto che doveva comporre e benedire la salma,
coadiuvato da altri due frati inviati subito dal priore di un grande monastero
vicino Granada.
Verificata la dipartita del confratello, gli chiuse gli occhi che erano rimasti
sbarrati e gli incrociò le braccia sul petto prima che il rigor mortis glielo
impedisse.
Componendo pietosamente la salma si era accorto di una ferita sul fianco
destro provocata non da un’arma, ma dal duro cilicio che il santo frate portava
nascosto sotto un ruvido saio.
“Un vero penitente, un uomo di Dio!”, pensò Uberto commosso. Era rimasto
sconvolto per la sorpresa, lo credeva sì uomo devoto e pio, ma non avrebbe
mai creduto che si macerasse la carne a quel modo.
Spinto da quella scoperta, Uberto volle fare davanti a tutti coloro che
affollavano la chiesa, non solo ai parrocchiani, ma anche ai molti curiosi, una
profonda riflessione sulla brevità della vita.
“ Quanto miserabile sarebbe il vivere per poco tempo nella prosperità, nei
piaceri e negli agi di questo mondo e correre ogni giorni ad occhi chiusi ed in
lettiga verso la perdizione!
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La morte è sempre vicina, insidiosa e si acquatta per colpirci quando meno ce
lo aspettiamo.
Quanto è breve la vita umana che, con le sue lusinghe, ci fa rincorrere la
felicità che invece abbiamo a portata di mano e che è solo in Dio amore.
Vi scongiuro, svegliatevi amici, datevi da fare, aprite bene gli occhi, guardate il
cielo e non perdete, per inseguire una momentanea illusione, il premio della
beatitudine eterna!
Preghiamo ora per l’anima di Barnaba, devoto fratello ed amico di tutti!”
La predica, sincera e non preparata in precedenza, impressionò molto
l’uditorio, rattristando l’animo di coloro che alle agiatezze ci tenevano, eccome!
Giuseppe e Pietro furono molto commossi da quelle parole e vi meditarono
sopra a lungo.
Seguì la veglia funebre e le esequie del giorno appresso registrarono una
grande affluenza di fedeli e non.
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APPUNTAMENTO AL BUIO
La sera era calda e l’aria immobile avvolgeva la reggia, la città con i suoi
dintorni, le terrazze di palme ed i vecchi pozzi. La campana della chiesa, che
era stata di Barnaba ed ora era
retta da un nuovo frate non paragonabile
neppure lontanamente al suo predecessore né come carisma, né come
premura verso i parrocchiani, batteva rintocchi pigri e distanti.
Pietro fu preso da un inspiegabile senso di tristezza e di sconforto che però
scaccio subito. Il sole al tramonto emanava deboli raggi brunodorati e la calura
andava lentamente attenuandosi. L’acqua di un ruscello che scorreva poco
distante, quasi nascosto tra i cespugli, cantava gorgogliando la sua perenne
melodia ed era la sola voce ad infrangere il silenzio.
Quella era l’ora preferita da Pietro: piena di pace, odorosa di fiori. Pace che
regnava intorno, ma non nel suo cuore e, mentre aspettava con trepidazione il
momento di avviarsi al fatidico appuntamento, pregava per il suo buon esito.
Preso nei lacci di un amore romantico e sincero per Margherite, non vedeva
l’ora di incontrarla, di parlarle e fantasticava di un avvenire felice con lei.
“ Devo avviarmi ora! La pergamena parla chiaro: il luogo è quel torrione
lontano fatto di blocchi squadrati di pietra bianca e fredda, l’ora è quella del
tramonto ed il punto preciso su cui dovrò fermarmi è quello da cui, alzando
appena lo sguardo, si vedono due bifore in alto”.
Si fece coraggio, uscì e procedette guardingo col coltello infilato nella cintola
mormorando una breve preghiera al suo santo protettore, Pietro appunto!
Andava avanti come un automa, fermandosi ogni tanto per guardare ora a
116
destra, ora a sinistra e talvolta volgendosi indietro Qualcuno poteva essere
stato messo al corrente di tutto e quel qualcuno avrebbe potuto colpirlo alle
spalle. Ma niente e nessuno! Solo fantasmi dettati da una fifa boia! Lo stavano
osservando solo le ombre degli alberi e del fogliame, lo seguiva il concerto
delle piccole creature notturne che popolavano il verde intorno. Si ricordò del
nino e gli augurò buona caccia. Ed eccolo arrivato alla torre, rasente al muro e
proprio sotto le bifore.
Aspettava fermo impalato da un po’, innervosito dal ritardo e, quando ormai
convinto di essere stato gabbato stava per andarsene, un’ombra tutta curva gli
si avvicinò piano di lato. Era quella di una donna, una vecchia con un lungo
velo che le avvolgeva le spalle e copriva il volto.
Mentre Pietro avanzava di un passo verso di lei, la donna si chinò quasi a
toccare con la faccia il suolo erboso e prese a tracciare un gesto circolare con
la mano ossuta e, sempre tacendo, gli fece capire che là c’era l’ingresso alla
torre.
Pietro si chinò a sua volta e tirò con forza l’erba ed un alberello nano che erano
finti e ricoprivano una grande botola, tonda e leggera da sollevare per mezzo
di un anello posto al centro.
Pietro la aprì con facilità, ma non potè vedere all’interno perché la luce della
luna non bastava. Ipotizzò che si trattasse di una scala o di un passaggio che
conduceva all’interno della torre fino in alto dove si aprivano le bifore.
Intanto la vecchia si era sollevata di scatto rivelando un’agilità insolita per la
sua età. Era pronta a sgaiottolare via ma Pietro, più lesto di lei, l’afferrò per
braccia e spalle bloccandola.
“Fermati, fermati, maledizione! Comprendi quello che ti sto dicendo? Non
voglio farti del male, ma solo sapere! La regina è lassù? Chi c’è con lei?”
La vecchia pronunciò lentamente un nome: Safyiah e gli fece capire che era
sua figlia la giovane che serviva la prigioniera. Intanto continuava a divincolarsi
con rabbia e cercava di colpire Pietro con calci sparati all’indietro.
Solo dopo che l’uomo le ebbe messo in mano un sacchetto di monete
tintinnanti, lei smise si scalciare e piagnucolare, afferrò tutta tremante il dono,
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sbalordita, quasi incredula e, borbottando parole indecifrabili, si dileguò nella
notte.
Pietro richiuse lesto la botola e la ricoprì bene col verde. Si sentiva sollevato,
felice, finalmente aveva visto, finalmente sapeva dove e come.
Jacobbe gli aveva quindi predetto il vero, avrebbe portato a termine l’impresa!
Non stava più nella pelle e, se avesse potuto, avrebbe gridato la sua gioia alle
stelle.
Corse verso casa e picchiò tanto forte alla parete di Giuseppe da buttarlo giù
dal giaciglio su cui stava riposando pacifico. Lo accolse dentro casa e gli narrò
tutto colorendo il racconto ed ingigantendo il proprio coraggio.
Giuseppe, forse perché era ancora assonnato, si rivelò molto meno entusiasta
dell’amico e lo calmò osservando in tono grave:” Sì, dovremmo brindare alla
salute nostra e della regina, ed alla sua liberazione ma, per non guastare tutto,
sarebbe meglio progettare alla svelta un buon piano facilmente attuabile.
Il tempo stringe ed il sultano non tarderà a tornare. Parla alla tua fiamma!
Sì,sì, parla ad Isabel o Margherite o come diavolo si chiama la ragazza e
chiedile di contattare quella tal Safyiah che ci dica con precisione in quale
camera è imprigionata la regina e la prepari psicologicamente a rivedere le
figlie ed alla fuga!
Mi sento molto responsabile del buon esito di questa chiamiamola “operazione”
e più presto ne veniamo fuori, meglio sarà. Scusami se ti ho parlato molto
duramente. Voglio solo dire “sbrighiamoci!”. Le notizie sono buone, ci danno
coraggio e ci spingono ad agire con rapidità”.
Le principesse furono felici di sapere che la loro mamma era viva e che le
probabilità di liberarla erano buone.
Zaida intonò con l’ud una melodia nuova che le sgorgava dal cuore come un
canto di vittoria.
118
PIETRO ED ISABEL
Pietro ed Isabel si erano già incontrati due volte. Il giorno seguente all’incontro
di lui con la vecchia, sedevano su una panca in un angolo remoto del parco.
Mancavano uno o due ore all’alba e la notte tiepida trascorreva tranquilla con
la luna che rischiarava le cime degli alberi e l’acciottolato.
Nessuno avrebbe notato l’assenza di Isabel dall’harem e lei sarebbe rientrata
prima del sorger del sole. Se qualche curiosa le avesse chiesto dove aveva
passato la notte, lei avrebbe inventato qualche scusa. Aveva pensato bene a
quell’eventualità e ne aveva pronte molte.
Aveva raccontato a Pietro la sua storia ed ora gli chiedeva di chiamarla
Margherite, cioè con il suo vero nome.
Nessuno l’aveva più chiamata così e quel nome suonava dolce sulle labbra del
suo innamorato che la teneva stretta tra le braccia e la stringeva al cuore
cullandola come una bambina.
Pietro le aveva narrato solo una parte della sua vita, di come era scampato alla
peste ed al naufragio ed anche del suo cocente dolore per aver perduto moglie
e figlia.
Margherite pensò bene di attendere prima di parlargli di Omar e della sua
attività di spionaggio, Pietro invece le confidò subito le difficoltà che lui e
Giuseppe dovevano affrontare per liberare la regina ripudiata e tenuta
segregata dal sultano in una torre dell’Alhambra.
Il cuore di Pietro iniziava a battere in una frenetica corsa quando pensava a
Margherite ed il suo amore per lei cresceva ogni giorno di più.
119
Giuseppe aveva già capito che il motivo della permanenza di quella ragazza
all’Alhambra non era certo l’amore per il sultano, c’era qualcosa che non gli
quadrava nei modi di lei e dal disinteresse che mostrava nei confronti dei favori
di Alhamar che la colmava di doni che lei palesemente disprezzava.
Egli aveva già allertato Pietro di questa sua sensazione, ma al giovane tutto
sembrava plausibile, anzi normalissimo, tanto era preso dalla passione per
quella splendida creatura bionda.
L’aveva vista una volta montare a cavallo, salda e fiera accanto al sultano che
le faceva l’onore di accompagnarlo in alcune sue passeggiate a cavallo, cosa
che non aveva mai permesso a nessuna donna che non fosse la regina.
Isabel era adorabile, dolce amante e lo rallegrava cantandogli talvolta canzoni
del suo paese d’origine. La voce melodiosa della ragazza era come il sussurro
del vento, a volte come il suono del flauto o il tubare di una colomba.
L’amicizia con Pietro, allacciata così per curiosità e calcolo, si trasformò presto
in affetto e poi in amore anche per Margherite.
Quando sedevano vicini Pietro le prendeva la testa tra le mani e respirava il
profumo dei suoi capelli lisci come seta e della sua pelle color ambra.
Guardandola negli occhi vi scorgeva un amore sincero. Si stava forse
ingannando? No, non poteva crederlo! Era vero sentimento quello che lei gli
dimostrava.
Prima che Margherite rientrasse le posava sempre un bacio delicato sulla fronte
ed uno sulle labbra su cui premeva con forza come a suggerle l’anima.
Erano quelli i primi baci d’amore dopo tanta amarezza e solitudine! Si accorse
con un certo timore di essere troppo innamorato di lei e che il suo cuore
ardeva se solo l’aveva accanto; lei era diventata la sua speranza, la sua legge,
la sua vita.
Se manca l’esperienza dell’amore uomini e donne non possono raggiungere la
pienezza del loro essere. Dopo la morte della moglie e della figlioletta Pietro
aveva rifuggito l’amore come se fosse un ostacolo, un pericolo per la sua
tranquillità. Lo sentiva come una forza avversa e non certo un bene, ragion per
cui si era tenuto alla larga dalle belle fanciulle di Granada.
120
Ora, contemplando il viso di Margherite che gli parlava al cuore, Pietro pensava
esattamente il contrario ed era lieto che un nuovo amore stesse sciogliendo le
catene che lo legavano al passato.
Spinto da un impulso irrefrenabile e senza pensarci neppure un attimo le
chiese a bruciapelo:” Mi vorresti accanto a te per tutta la vita?”
Margherite rispose prontamente tutta eccitata: “ Ora che ti ho incontrato non ti
lascerò certo scappare! Sono pronta a seguirti ovunque andrai. Sposarmi ed
avere dei figli è sempre stato il mio desiderio, ma prima dovremo lasciare
questo luogo che mi incatena.
Il sultano non avrà mai un erede da me, il suo seme non potrà germogliare.
Per evitare una maternità sgradita ho spalmato le mie parti intime con un
unguento portentoso che impedisce la procreazione. Non lo userò più quando
sarò tua moglie per darti una prole numerosa e farti felice.” La ragazza era in
vena di confidenze e pensò che fosse giusto confessare a Pietro anche il motivo
del suo arrivo e della sua permanenza in quel luogo che odiava tanto. Gli disse
che il suo compito era quello di passare al nemico dettagliate informazioni sui
progetti del sultano, sull’equipaggiamento delle sue truppe e sugli ordigni di
guerra a sua disposizione.
Gli raccontò di Omar, finto amico di Alhamar ed alleato dei Francesi, che
l’aveva ospitata a lungo nel suo vasto accampamento dei beduini del deserto.
Aggiunse poi:” Ho molti amici ed informatori insediati a palazzo che mi aiutano
e che sono ben remunerati. Dispongo di piccioni viaggiatori veloci e ben
addestrati per inviare messaggi importanti e riceverne.
Ma perché mi guardi così? Ti sembra impossibile che una donna possa essere
una spia? Mi reputi forse meschina e spregevole per questo? Devo pur vivere,
caro Pietro! Non ho la fortuna d’aver un lavoro onesto e ben remunerato come
il tuo. Spero solo in un avvenire di pace insieme a te e lontano da qui.
Qualunque cosa tu pensi di me, sappi che ti voglio un gran bene!”
Margherite capiva d’aver deluso Pietro, ma voleva essere sincera fino in fondo
e dirgli tutta la verità prima che la scoprisse da solo o che ne venisse a
conoscenza tramite altri.
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Dobbiamo dire che Pietro era rimasto davvero male nell’udire dalla bocca della
fanciulla quello che Giuseppe sospettava e da cui lo aveva messo in guardia.
Gli dispiaceva che Margherite fosse costretta a tradire l’ospitalità del sultano e
temeva che venisse scoperta e giustiziata senza tanti complimenti o ancor
peggio torturata ed amputata degli arti prima di essere uccisa.
Riflettendo però,
dovette ammettere che quello che poteva essere un lato
oscuro e negativo della personalità della ragazza, gli sarebbe tornato utile
nell’ardua impresa di liberare la regina. Fu quindi felice quando Margherite gli
assicurò che avrebbe aiutato sia lui che Giuseppe in ogni modo possibile. Lei
aveva sempre covato un odio feroce verso chi teneva prigioniere donne
indifese ed ingiustamente accusate per vendetta, venduti poveri schiavi in
catene, sfruttati bambini ed uccisi vecchi inermi. Era anche certa che ad
Alhamar non importava più niente della regina, ma che la odiava ancora tanto
da farla marcire reclusa e lontana da tutti fino alla morte.
Sospirando aggiunse:” Se sapete dov’è rinchiusa, sarà un giochetto da ragazzi
liberarla. Si spera non sia stata portata in qualche posto inaccessibile lontano
dalla reggia e dalla città. E’ piantonata da guardie armate oppure e custodita e
servita da una serva fedele? Cosa sapete? Siate comunque molto prudenti,
Alhamar non gradisce certo essere gabbato!”
Quando Pietro le disse che era rinchiusa nella torre ed accudita dalla serva
Safyiah, Margherite quasi esplodeva dalla gioia! Avrebbe organizzato tutto, la
cosa poteva ritenersi fatta!
Abbracciò con trasporto Pietro e gli raccomandò di ripresentarsi il giorno dopo
alla stessa ora, intanto lei avrebbe ideato un piano semplice e da attuare alla
svelta.
122
IL CALIFFO DI KARABAKH
Prima di presentarvi il califfo di Karabakh, dobbiamo parlare brevemente di
Kunar il quale, col pretesto di star male, aveva chiesto ed ottenuto dal sultano
che lo esentasse dal partire con lui.
Alhamar, che lo sapeva fedele, se ne dolse, ma lo lasciò tranquillo a palazzo. Il
motivo che spingeva il gigante crudele a starsene rintanato all’Alhambra era
l’odio verso Taqi e Rashid, le guardie delle principesse.
Dal giorno in cui i due erano stati posti alla sorveglianza delle figlie del sultano,
Kunar li aveva presi in antipatia. Era certo che fossero molto ben remunerati,
certamente più di quanto lo era lui e poi, tutto quello stare attaccati alle gonne
delle ragazze, tutte quelle lezioni di ud, le gaie conversazioni, le risate, le
uscite con loro nel giardino, tutto gli dava il voltastomaco.
L’antipatia si tramutò in odio e nel desiderio di eliminarli al più presto.
Sospettava che fossero delle spie anche se non ne era certo e non poteva
provarlo. Aveva giurato a se stesso che, alla prima occasione favorevole, li
avrebbe uccisi. E l’occasione venne con la partenza del sultano. Nessuno badò
a Kunar, nessuno lo cercò, anzi i pochi rimasti erano contenti di non averlo fra i
piedi, ma Kunar c’era ed era in agguato.
Marguerite apprezzava molto le qualità militari cioè obbedienza, puntualità e
precisione, si fidava del suo intuito ed era solita pensare con la propria testa e
contare sulle proprie forze.
Per attuare subito il suo piano le occorreva però un valido aiuto esterno e,
pensa che ti ripensa, le venne in mente un’idea brillante che le avrebbe
facilitato di molto le cose.
Mandò a mezzo piccione viaggiatore e firmandosi con il nome Isabel, con cui
era conosciuta dai più, una pressante richiesta d’aiuto ad un vecchio amico, lo
sceicco Nesib di Karabakh, l’uomo straricco e potente che risiedeva vicino ad
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Algeri in un lussuoso castello fortificato, simile ad una roccaforte, che si diceva
fosse inespugnabile.
Lo sceicco, noto per lo straordinario potere carismatico che faceva già di lui
una leggenda, esercitava un gran fascino ed aveva un’ indubbia forza
d’attrazione anche sulla nobiltà musulmana di Granada e dintorni ed era più
temuto che amato. Il suo coraggio e la sua energia erano risapute e non vi era
stata mai nessuna avventura troppo pericolosa per lui, né aveva mai fallito
nelle sue imprese.
Era fisicamente un uomo splendido, non troppo alto, né troppo grasso e
straordinariamente forte ed allenato all’uso delle armi. Si diceva che potesse
sollevare, in ginocchio e con le braccia tese, due uomini e poi rialzarsi. Balle?
Non si può mai dire, a quel tempo di uomini forzuti ce n’erano tanti!
Saltava dritto in sella al suo purosangue con grande agilità anche in corsa,
otteneva tutto quello che si prefiggeva, era molto testardo sia nel bene che nel
male, molto sicuro si sé ed anche impertinente, esercitava un certo fascino
sulle donne che se lo contendevano.
Molti anni prima aveva conosciuto la regina Aisha ad un ricevimento tenuto dal
sultano ed era rimasto incantato dalla bellezza di quella donna ed al contempo
turbato dalla tristezza che traspariva dal suo volto. Teneva spesso la testa
bassa e, seduta in un angolo con una coppa in mano ed alcune leccornie su un
piatto, faceva la bella statuina invece che la padrona di casa. Capì che lei si
teneva in disparte perché odiava il sultano e spesso lo guardava di sottecchi
con disprezzo.
Ora veniva informato da Isabel che il sultano la teneva segregata da tempo e,
dopo aver garantito il suo aiuto, comandò ai suoi sottoposti di stanza in una
piccola località vicino Granada, di inviare cavalli veloci e cavalieri armati quanti
ne bastavano per liberare Aisha approfittando dell’assenza del sultano.
Isabel fu avvertita da un garzone fidato che, da lì a due notti, cavalieri armati
di tutto punto si sarebbero trovati fuori dalle pesanti porte del castello dove
avrebbero lasciato in custodia i loro cavalli e che uomini prezzolati li avrebbero
aiutati ad introdursi all’interno dell’Alhambra.
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Chiunque avrebbe chiuso gli occhi e rischiato davanti ad un bel gruzzolo di
monete, cosa che quelli fecero ben volentieri.
IL CORAGGIO DI AISHA
Il sultano aveva preteso da Aisha che sputasse sopra il cadavere martoriato del
suo Zaal e lei era tanto furiosa che le sembrava di poter esplodere da un
momento all’altro mandando in frantumi tutta l’Alhambra e l’apparato ipocrita
che circondava Alhamar.
Alzò il viso pieno di lacrime che teneva chinato poi, scattando in avanti, si andò
a parare di fronte al sultano e, guardandolo con occhi pieni d’odio e di sfida, “
Bastardo!” sibilò e “Maledetto!” “ Non sputerò mai su di lui, ma sputo su di te!”
e gli sputò contro.
Per tutta risposta il sovrano la fece mettere in catene e, dopo averle bendato
personalmente gli occhi, la fece battere selvaggiamente in sua presenza.
Aisha resse alla ferocia degli aguzzini, pensava infatti che ormai la sua povera
vita non aveva più alcun senso. Come rimpiazzare la tenerezza e l’affetto che
l’uomo amato le dava? Come poteva dimenticarlo?
Fu fatta vestire di ruvido sacco ed allontanata dalle figlie ancora ragazzine e
dalla reggia, in breve da tutta tutte le gioie dell’esistenza serena ed agiata che
aveva menato fino a quel momento.
“ Con rivedrai mai più le tue care figlie e non giacerai mai più con me. Sarai
rinchiusa finchè io vorrò e dimenticata per sempre”, disse il sultano con
sarcasmo.
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Aisha, il cui odio verso il sultano le montava ogni minuto di più nel cuore, osò
rispondere senza tentennamenti: “ Risparmiatevi le minacce! Solo un verme
può rivolgersi ad una donna in tal modo! Sì, certo, mi dichiaro colpevole, ma
tutti gli anni passati al vostro fianco non valgono certo i brevi anni trascorsi
con colui che hai fatto trucidare barbaramente. Ripeto con maggior forza:”Sii
Maledetto!”
Suggellando con quelle parole la sua condanna, fu trascinata fino in cima alla
torre, gettata tutta livida, con gli occhi tumefatti, i capelli scarmigliati ed una
gamba ferita, su un giaciglio in una camera angusta e con poca aria e luce. Poi
le guardie chiusero la porta con il chiavistello e se ne andarono.
Il male fisico che Aisha provava era nulla a confronto del dolore per
l’umiliazione subita e lo strazio che sentiva nel cuore; in un solo giorno aveva
perso le figlie, il suo amato e la libertà.
Pianse amaramente per ore poi, sopraffatta dalla stanchezza, si addormentò in
preda ad un sonno agitato e pieno d’incubi. Quando si svegliò non si rese
assolutamente conto di che ora fosse.
Riuscì ad aprire piano il solo occhio sinistro, operazione che le causò un dolore
atroce e realizzò che era giorno dato che una lama di luce, quella del sole e
non della luna, filtrava debolmente dalla bifora. Girandosi su un fianco sul suo
giaciglio, realizzò che il suo carcere era una stanza angusta con pareti nude ed
umide, un tavolo ed una sedia di legno sgangherata.
Niente specchio, niente acqua, avrebbe dovuto fare i suoi bisogni dentro un
buco che si apriva in un angolo del pavimento posto che le avessero portato da
mangiare e da bere. Nutrirsi era l’ultimo suo pensiero, aveva lo stomaco chiuso
ed un cattivo sapore di bile in bocca.
Cosa le importava ora morire di fame? Quello che la deprimeva era invece il
pensiero di morire sola e senza conforto alcuno. Pensò che fosse meglio non
agitarsi, ma dormire, continuare a dormire, fare scorrere il tempo, pregare
Allah misericordioso che qualcuno l’aiutasse!
L’aiuto venne nel momento in cui il Gran Visir fece notare al sultano, che era
anche superstizioso, che Aisha lo aveva maledetto e che quella maledizione
sarebbe probabilmente ricaduta su di lui, sul suo regno e sulle sue imprese. Di
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solito le maledizioni scagliate dai condannati sortivano un effetto rapido e
funzionavano bene, quindi sarebbe stato opportuno, curare, nutrire e tenere in
vita la regina per stornare e vanificare la iattura.
All’inizio Alhamar mandò il visir a farsi friggere, lo umiliò, strapazzò, gli inveì
contro con tutto il veleno che aveva in corpo, poi si calmò, ci ripensò e disse
che forse aveva ragione.
Fece chiamare un serva quindicenne di nome Safyiah, figlia di una vedova
ebrea e le disse:” Da oggi dovrai prenderti cura della regina che ho ripudiato
ed imprigionato. Salirai sulla torre prima dell’alba e lascerai la sua stanza dopo
l’imbrunire. Bada a non farti notare da nessuno, nessuno deve saperlo! La
torre la conosci già!
Portale acqua, viveri, indumenti puliti e gli unguenti che la guaritrice ti
consegnerà. Curala bene perché, se mai dovesse morire, pagherai la tua
negligenza con la vita. Ti verrà spiegato bene come entrare nella torre e ti
verranno consegnate anche due chiavi: la prima apre la porta della grande sala
di sotto, quella più piccola è la chiave della cella. Conservale gelosamente
perché non ne riceverai altre nel caso tu dovessi perderle.
Sarai esentata dai lavori di pulizia nelle cucine e non confidare a nessuno,
tranne che a tua madre, che hai un incarico importante”.
Safyiah, tremante come una foglia e seriamente preoccupata, dovette
accettare. Le furono consegnate quelle odiate chiavi che per anni avrebbero
negato anche a lei una vita normale e la libertà.
Dovette imparare a prendersi cura della poveretta e, col tempo, le si affezionò
molto perché Aisha si comportava con gentilezza verso di lei.
Se la regina fosse morta, non avrebbe dato al sultano il piacere di farla
giustiziare dal boia, ma sarebbe fuggita nottetempo il più lontano possibile da
quel luogo lugubre, infestato dagli spiriti dei carcerati disperati che non
avevano avuto la possibilità di sopravvivere e si diceva che ne fossero morti
molti tra quelle mura.
Le prime notti trascorse in quella stanza angusta erano state per Aisha lunghe
ed angosciose. Sentiva spesso lugubri lamenti, pianti soffocati, altre volte
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grida, ma non vedeva nessuno e si convinse che fossero le anime dei giustiziati
che non trovavano pace.
Aveva freddo dentro al cuore, nelle viscere e nelle ossa doloranti. Pensava che
non sarebbe mai riuscita a scaldarsi e che quel gelo l’avrebbe accompagnata
fino alla tomba. Avrebbe voluto alzasi, ma non riusciva a muovere un passo e
rimaneva stesa sul giaciglio, come inchiodata ad esso da una forza sovrumana.
Tutto cambiò quando un giorno, prima dell’alba, udì echeggiare sul pavimento
di pietra dei passi che si avvicinavano. Qualcuno stava salendo per le strette
scale che conducevano alla stanza dove lei era rinchiusa. Trasalì per lo
spavento, pensava infatti che le guardie fossero venute a prelevarla per
consegnarla al carnefice, ma la porta cigolò sotto la spinta leggera di una mano
bruna.
Un braccio della visitatrice si introdusse nel vano reggendo a stento un
canestro troppo grande e pesante per lei. Aisha stentò molto a mettere a fuoco
la figura snella che le si stava avvicinando con cautela, perché i suoi occhi
tumefatti erano ancora gonfi e semichiusi.
Posato il fardello Safyiah si appressò al giaciglio sussurrando:” Non abbiate
timore! Da oggi sono al vostro servizio come cameriera personale”.
La giovinetta si rivelò all’altezza della situazione, confortò la regina, le curò
piaghe e tumefazioni, la lavò ed imboccò come fosse una bambina. Col passar
dei giorni la poveretta riacquistò lentamente le forze ed infine guarì.
Safyiah cercava di alleviarle la solitudine raccontandole i pettegolezzi che
correvano fuori dalle mura della torre e cantava per lei canzoni nostalgiche ed
appassionate degli ebrei sefarditi, le teneva quindi molta compagnia e si
sforzava di esaudire i semplici desideri della donna.
Era già passato un anno quando la serva arrivò con un prezioso corano ed una
piccola arpa da viaggio come quella dei cantastorie e menestrelli di
professione. Quelli erano doni del visir che si preoccupava molto dell’umore e
della salute della poveretta e che stava tentando in tutti i modi di sventarne la
morte. La musica e le preghiere del Corano tennero occupata la mente di Aisha
per un bel po’ di tempo e sembrò che la donna avesse recuperato il bel sorriso
di un tempo. Poi però perse interesse per quei passatempi e ripiombò
128
nell’apatia. Non parlava più, non rispondeva alle domande della serva e
dormiva la maggior parte del tempo. Ciò rendeva molto triste Safyiah che si
avviava a divenire una bella ventenne con tutti i desideri e le aspirazioni
proprie della sua età: un fidanzato, il matrimonio e dei figli che la tirannia del
sultano continuava a precluderle ed aveva incominciato ad odiarlo con tutto il
cuore.
“ Se non uscirò da qui, se dovrò trascorrere tutta la mia giovinezza tra queste
mura, credo che impazzirò!”
Cominciò quindi a progettare un piano per
fuggire. Ciò che la tratteneva ancora dall’attuarlo era il pensiero che Alhamar
se la sarebbe presa con sua madre che non c’entrava nulla.
Per ridestare l’attenzione di Aisha, la ragazza chiese alla mamma di acquistare
del materiale per dipingere, forse così
l’attenzione della reclusa si sarebbe
ridestata, non riuscì invece a risollevarla dall’apatia che si era impossessata di
lei. La poveretta aveva la vista indebolita, le tremavano le mani e faceva una
gran fatica a tracciare segni puliti senza sbavature.
Aisha disegnava sempre le stesse cose: scheletri di alberi, soli senza raggi e
lune senza luce, dune, colline, rocce aguzze, tutti aspetti tristi e spenti della
natura, suggeriti dalla depressione. Safyiah fingeva comunque di interessarsi
alle sue creazioni, batteva le mani e diceva che erano bellissime.
Aisha aveva preso l’abitudine di alzarsi prima dell’alba quando la serva se ne
andava chiudendo a chiave la porta e la stella del mattino riluceva in tutto il
suo splendore.
Per molte sere aveva sentito in lontananza il suono di un ud e si era stesa sul
giaciglio ad assaporarne la melodia, sapendo, perché glielo aveva detto
Safyiah, che era Zaida a suonarlo e lo suonava molto bene.
Poi un giorno, guardando dalle bifore e scorgendo un lembo di cielo azzurro, il
suo cuore affranto si riempì di una strana speranza che cresceva sempre di più
tanto da diventare la certezza della liberazione prossima ad arrivare.
La magica eccitazione di Aisha aveva contagiato anche Safyiah che credeva nei
sogni. La ragazza aveva sognato dei cavalieri su neri cavalli alati che entravano
attraverso le bifore della torre e liberavano sia lei che la regina. Sì,sì, ci
credeva! Avrebbero lasciato la torre e molto, molto presto!
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ECCO IL PIANO!
I cavalieri sarebbero passati inosservati dal portone rimasto opportunamente
non sorvegliato dalle guardie.
Taqi, Rashid e Pietro, muniti di torce, i cavalieri del califfo, Margherite nonché
la madre di Safyiah, si sarebbero introdotti all’interno della torre attraverso la
botola ed avrebbero raggiunto la stanza liberando sia Aisha che la serva.
Una volta fuori dall’Alhambra, la serva e sua madre avrebbero trovato ad
attenderle un carretto tirato da una bestia da soma e guidato da un contadino
loro amico che le avrebbe condotte dove loro avessero voluto.
A Pietro dispiacque molto l’affermazione perentoria di Giuseppe:” Non lascerò
mai né il mio lavoro, né i miei operai e neppure Kalima. Sono troppo legato a
questo posto, a questa vita e poi mi accorgo che sto invecchiando in fretta. Ce
la farete anche senza di me e vi auguro buona fortuna e tanta felicità,
prosperità e pace, soprattutto pace! Tu Pietro sarai sempre nel mio cuore, sei
stato e sarai sempre un grande amico. Non dimenticarmi! Se per caso dovessi
tornare qui anche fra degli anni, vieni a trovarmi e ne sarò felice!”
Chiuse così il discorso e non volle tornare sulla sua decisione molto sofferta,
ma saggia.
Era la sera del loro incontro e Pietro vide giungere Margherite bella, col corpo
snello e le movenze aggraziate di sempre e gli parve la donna più desiderabile
del mondo. Lei si affrettò a raggiungerlo e lui le sorrise dicendo:” Sei la
persona più adorabile che io conosca!”
Risalendo a passi lenti il viale delle palme, Marguerite confidò con amarezza a
Pietro che sarebbe stata felice se il sultano non fosse tornato mai più o se
fosse tornato cadavere. Le premesse per uno scontro armato con le truppe
130
cristiane c’erano tutte anche se non era quello il momento in cui gli eserciti si
sarebbero affrontati. Lei aveva informato Omar di quello che aveva appreso
sulle mosse di Alhamar, sul numero dei soldati e sulle armi di cui disponevano,
di più non avrebbe potuto fare!
Aveva provveduto a comprare il silenzio di molte guardie notturne che
solitamente circolavano sui bastioni e sorvegliavano le porte garantendo così
un’azione rapida e poi la fuga.
Non gli disse però chi le avrebbe dato tutto l’aiuto possibile, poiché il Califfo
Nesib non voleva pubblicità e si sarebbe infuriato se lei avesse fatto il suo
nome. Per fortuna Pietro non era curioso e sorvolò sui particolari. Chiese
invece quale sarebbe stato lo svolgimento del piano cui avrebbero dovuto
prendere parte attiva e Margherite gli spiegò tutto dettagliatamente.
L’aria fredda della notte, le stelle che somigliavano a diamanti sospesi in alto,
le grida degli uccelli cacciatori ed il frusciare setoso dei pipistrelli, la maestosa
mole dell’Alhambra, contribuivano a rendere quei momenti sospesi nel tempo
ed indimenticabili. Margherite si fermò e si appoggiò al tronco di un albero
respirando a pieni polmoni la frescura prima di riprendere a parlare:” I piccioni
viaggiatori hanno svolto egregiamente il loro compito e tutti i dispacci
importanti sono stati recapitati in tempo utile! Anche i Veneziani tuoi amici mi
hanno dato una mano, non li avrei mai creduti tanto generosi, tanto pronti a
collaborare!”
Pietro l’abbracciò con tenerezza accarezzandole i bei capelli biondi che
profumavano di loto e gelsomino. Il suo abito bianco e la bella cintura color oro
rilucevano al lume della luna.
Mentre Pietro sospirava, la ragazza parlò lentamente levando al cielo le braccia
nude. La sua voce dolce e vellutata sembrava quella della fata buona delle
favole. “ Guarda quante stelle in cielo, mi ricordo quando le contemplavo
sdraiata sulla sabbia del deserto. Come mi manca ora la libertà!
Non mi spaventavano né il sole cocente, né la dune infuocate e neppure
l’immensa distesa di sabbia! Amavo stare all’aria aperta anche quando il calore
era forte, volevo perlustrare ogni possibile sentiero e pendio vicino al campo e
131
nessuno mi sorvegliava o seguiva perché sapevano che sarei tornata. Pensi che
tra poco potremo vivere lontano da qui per sempre? Pensi che ce la faremo?”
Pietro le rispose che credeva fermamente nel loro amore e che sarebbero
partiti insieme mentre i suoi occhi grigioverde luccicavano e cambiavano
d’espressione col mutare del suo stato d’animo. Era certo che ce l’avrebbero
fatta, ma dovevano essere coraggiosi. In quel momento aveva il viso
atteggiato ad un’espressione fiduciosa e beata.
Tornando indietro verso le rispettive dimore incontrarono la cagnolina che
Giuseppe ospitava amorevolmente e che gli faceva tanta compagnia. Sbucando
da dietro una siepe, dove aveva fatto pipì, si era avvicinata a Margherite,
l’aveva annusata col musetto umido ed appuntito mentre lei le andava
lisciando il pelo corto e morbido e la coda folta. Gli occhi nocciola di Vispa
erano adoranti e scodinzolava felice.
Il capomastro l’aveva comprata, pagandola bene, da un fruttivendolo che la
teneva vicino al carretto perché azzannasse al polpaccio e tenesse bloccati
eventuali ladri. Era una cagnolina coraggiosa, dai riflessi pronti e di ladruncoli
ne aveva bloccati parecchi.
Quando Giuseppe ritornava stanco dal lavoro e a volte anche preoccupato,
Vispa gli faceva le feste, guaiva ed uggiolava per la gran felicità. Non si
calmava se non quando lui l’aveva accarezzata dolcemente e le aveva grattato
le orecchie!
Parlando e parlando, ripassando il piano, accordandosi per bene su tutto, il
tempo era volato.
Margherite posò un bacio morbido sulle labbra di un Pietro felice, pago
dell’amore che lei gli dimostrava.
Non la trattenne più del dovuto perché conscio che ogni ritardo o mossa
sbagliata potevano insospettire le abitanti dell’harem, molte delle quali erano
malevole, ciarliere, curiose e gelose.
“ Tra due notti alla torre e all’ora che tu sai! Chi arriva prima deve attendere gli
altri nascosto nell’ombra e massima prudenza, non possiamo sbagliare! Non
dimenticare di portare con te il coltello affilato ed i due sacchetti col danaro e
132
naturalmente qualche indumento di ricambio. Io farò altrettanto!” Accennando
poi un breve saluto si dileguò.
GIUSEPPE E KALIMA
Anche Giuseppe si era innamorato. Non avrebbe mai creduto possibile
d’affezionarsi
tanto a Kalima che all’inizio gli era sembrata bruttina,
insignificante ed anche un po’sgraziata, poi aveva imparato a volerle un gran
bene per la sua generosità ed indiscussa fedeltà.
Appena poteva sgaiottolare fuori, lei correva da lui, gli portava il cibo migliore
e, senza dare nell’occhio, gli lavava i panni. Gli preparava dolci particolari come
quello fatto con farina selvatica mischiata a latte ed a datteri che, cotto a
puntino, era veramente squisito. Quando Giuseppe si complimentava con lei
per le pietanze ben riuscite, arrossiva tutta andando in solluchero. Si può dire
che quella donna gli rendeva amabile la vita ed anche il lavoro, lo accontentava
sempre, cosa non certo facile per un tipo come lui preciso, metodico e
puntiglioso.
Non avrebbe abbandonato Kalima, cui era grato per tutte le informazioni che
lui e Pietro avevano ricevuto, neppure se gli avessero offerto tutto l’oro del
mondo. L’amore di quella donna non più giovane era tutto quello che gli
restava e lo compensava largamente di tanti sacrifici fatti.
Margherite(Isabel) aveva fatto riferire a Safyiah l’ordine di rimanere notte e
giorno insieme ad Aisha e di lasciare aperta sia la porta della sala al piano
basso che quella della camera che la teneva prigioniera. Doveva preparare
133
anche poche cose essenziali: danaro, biancheria di ricambio, e tutto ciò che di
utile si poteva portare in un fagotto non ingombrante. La informò, tramite la
madre, che mancava poco alla liberazione della regina La cameriera doveva
già preparare psicologicamente Aisha e dirle che tra breve avrebbe rivisto le
principesse e sarebbe partita insieme a loro.
Safyiah non avrebbe creduto a quelle parole se non le fossero state dette dalla
madre e se non si fosse ricordata dello strano sogno che aveva fatto, quindi
seguì a puntino le istruzioni ricevute e rimase in attesa piena di paura e
perplessità. Doveva comunque dimostrarsi coraggiosa per rincuorare la regina
come aveva fatto in tante occasioni nel passato.
La città di Granada si svegliava ancor prima del sorgere del sole che veniva
salutato dalla preghiera dei muezzin. Il mercato cominciava ad animarsi e le
donne esperte nell’arte di truccare la bilancia si davano un gran daffare ad
esporre la loro merce: carne, pesce, vino, olio, una gran varietà di ortaggi, ,
dolci, frutta fresca, spezie, profumi, abiti, scialli, babbucce, sandali.
Le massaie mercanteggiavano tirando sul prezzo ben sapendo che le venditrici
lo rincaravano per poi praticare uno sconto irrisorio.
Dalla piazzetta, attraverso la porta dei Sette Pavimenti, si accedeva a tutto lo
spazio urbano chiamato Medina, attraversato dalla Calle Real Alta e gremito di
edifici: semplici abitazioni, laboratori di artigiani, uffici amministrativi, grandi
case e palazzi nobiliari protetti da muri di calce bianca, rosa e rosso vermiglio.
Detta porta era una delle più grandi e si diceva che nei sotterranei
nascondesse un favoloso tesoro.
La Medina era chiassosa ed il suo frenetico ritmo quotidiano metteva allegria.
Era bello percorrere la via principale ed incontrare scolari con le loro tavolette
sotto il braccio o sulla testa.
Ora che Alhamar era partito con il grosso della guarnigione, pochi soldati erano
rimasti a difesa delle torri d’osservazione che costeggiavano il perimetro
dell’Alhambra.
IL Barrio Castrense, dove vivevano i soldati d’elite del sultano e quelli che
proteggevano l’Alhambra e la sua strada principale con case, botteghe, silos,
134
magazzini, forni e prigioni, i bagni, il deposito dell’acqua che li alimentava, era
quasi sguarnito di difesa.
La Torre dell’Omaggio, punto strategico di rifugio dentro la fortezza e che si
poteva difendere meglio dagli attacchi dei nemici, sembrava desolata. Da essa,
costituita da sei piani, i soldati sorvegliavano la città ed il territorio circostante.
Era in questa torre, fornita di una piccola abitazione di quattro stanze, che
Alhamar( Il Magnifico) alloggiava prima della partenza per le sue imprese.
Partendo egli era solito voltarsi verso la costruzione e salutarla pensando che
forse non l’avrebbe più rivista.
Perché i Francesi non avevano colto l’occasione propizia per attaccare in forze
la fortezza?
Molto semplice: Il traditore Omar, tradito a sua volta da una spia del sultano,
era stato pugnalato alla schiena nella sua tenda e le truppe si erano trovate
disorientate senza una guida. Pochi giorni dopo era stato nominato loro capo il
berbero Kerfer che era di carattere opposto al suo predecessore.
Cauto, grande nemico della cristianità e fedele al sultano non si sarebbe mai
sognato di tradire il popolo musulmano, ragion per cui Granada e l’Alhambra
rimasero indisturbate e questa fu una vera fortuna per i fuggiaschi.
135
EPILOGO
Arrivò presto il giorno cruciale e sulle spalle di Pietro e Margherite gravava un
rischio, quello di perdere la vita o di venir allontanati l’uno dall’altra. Cercarono
di scacciare quel pensiero angoscioso concentrandosi sull’azione.
Margherite aveva preparato un fagotto leggero con un vestito, un paio di
sandali, qualche gioiello di valore ricevuto in dono dal sultano e che voleva
vendere, un po’ di danaro.
Per calmare l’agitazione che si stava impadronendo di lei, si mise ad osservare
un sicomoro che profumava come il miele. La incantavano le sue foglie color
turchese e la sua scorza liscia come maiolica. Quando era piccola la mamma le
diceva che l’albero aveva un’anima tenera ed un frutto rosso come il rubino.
Non lontano dal sicomoro crescevano palme da datteri con le teste al sole ed i
piedi nell’acqua formando una barriera vegetale contro il vento che spesso
soffiava forte.
Diventavano centenarie ed in autunno offrivano con dovizia i loro frutti squisiti.
Tutte quelle palme erano modelli di generosità, infatti ogni parte dell’albero era
utile all’uomo. Il legno serviva per la costruzione di mobili e le fibre per
fabbricare stuoie e sandali, le foglie coprivano i viottoli mantenendoli freschi.
Anche
Pietro stava vivendo momenti di grande incertezza ed era agitato.
Pensò di dover pregare e pregare molto per potersi sentire meglio ed
acquistare coraggio.
Anche quella mattina la scimmietta Re, mascotte delle concubine del sultano,
saltava allegra da un albero all’altro del parco, infatti era libera di starsene
seduta sul suo ramo preferito o di girare qua e là. Qualche odalisca la viziava
136
dandole noccioline, allora lei le saltava su una spalla ed aspettava di ricevere
qualche carezza. Aveva anche il vizio di tirare i capelli alle donne, occupazione
che la divertiva moltissimo, ma che mandava in bestia quelle che portavano
qualche ciocca finta.
La scimmia, che aveva il pelo rossiccio screziato di verde, era comunque amata
dai più.
L’unico
personaggio
che
non
poteva
sopportarla
ed
aveva
giurato
di
sopprimerla, era il nubiano che portava il becchime agli uccelli esotici rinchiusi
nella gigantesca voliera del sultano.
Re gli grattava la testa a tradimento fino a farla sanguinare e gli aveva anche
morso un orecchio. Doveva certo trattarsi di antipatia reciproca!
“ Perfido, stupido animale!” sbraitava l’uomo cercando d’afferrarla per la coda
e di colpirla. Tutto inutile, lei gli si aggrappava al collo come per soffocarlo poi,
allentata la presa, saltava sul ramo di un albero e gli lanciava contro un grido
acuto e canzonatorio scoprendo i denti aguzzi.
Un giorno o l’altro sarebbe finita male se l’uomo non avesse finalmente deciso
di cambiare strada facendo un giro lunghissimo solo per poter consegnare il
cibo al guardiano della voliera.
Margherita aveva spesso osservato la scenetta divertendosi un mondo, ma
quel giorno nulla riusciva a distrarla e le pareva che il tempo non passasse
mai.
Calò la sera e con le ombre la tensione, chissà perché, s’allentò. Solo Aisha
continuava a misurare la stanza avanti ed indietro con passo incerto,
Margherite aspettava il segnale convenuto, un fischio lanciato da Rashid, Pietro
si stava assicurando il coltello alla cintola e sistemando il danaro nella cintura
che nascondeva una lunga tasca di morbida pelle con l’apertura nascosta dal
fermaglio. L’interno della cintura era stato diviso per comodità in tre scomparti
in ognuno dei quali vi aveva introdotto un sacchetto di monete. Avrebbe anche
preparato un fagottino con indumenti di ricambio, tutta roba leggera da
trasportare.
Anche Safyiah aveva preparato due fagotti, uno per la Aisha ed uno per sé e li
aveva sistemati in un angolo vicino alla porta. Vedendo la regina agitarsi, la
137
confortava dicendo: “ Ormai è ora, tra poco saremo fuori di qui. Non perdete la
calma! Andrà tutto liscio e saremo nuovamente felici!”
Il carretto che doveva trasportare Safyiah e la madre era pronto e nascosto in
un luogo vicino alle porte. Il pianale del veicolo era stato pulito perché coperto
di sporcizia e foglie e vi avevano steso sopra pezzi di sacco su cui le donne si
sarebbero sedute comodamente.
Quella notte il chiaror della luna era coperto da dense nubi, cosa che permise
ai cavalieri dai neri mantelli di procedere invisibili nell’oscurità. Quelli erano i
cavalieri mandati dal califfo, armati di un’ascia pesante e di una daga temibile,
molto ben informati sul da farsi, coraggiosi e guidati da Rashid e Taqi.
Kunar non aveva ancora scorto il gruppo e si teneva pronto su una torretta con
arco e frecce, prima o poi li avrebbe beccati anche se avesse dovuto rimanere
sveglio in agguato per intere notti. Non voleva uscire allo scoperto per timore
d’esser visto e rimaneva rintanato là in alto.
I cavalli erano già stati affidati agli stallieri ben ricompensati che li avrebbero
foraggiati, abbeverati e fatti riposare per poi tenerli pronti per i fuggitivi.
Giunti tutti sotto la torre, Pietro aprì la botola nascosta e scesero nel ventre
buio tramite una scala di pietra, quella di cui Safyiah si serviva ogni santo
giorno. I muri erano sgradevolmente umidi ed odoravano di muffa, i gradini
erano scivolosi ed incrinati. Con le torce in mano sbucarono in uno stretto
corridoio e, attraverso la porta lasciata intenzionalmente aperta dalla serva,
entrarono dentro una sala sorretta da colonnine con fregi fioriti dai colori vivaci
che, al chiaror delle fiamme guizzanti, sembravano belle danzatrici. In mezzo
alla sala c’era un tempietto greco con un piccolo stagno la cui acqua era
lambita dalle foglie di un salice e, meraviglia delle meraviglie, vi crescevano
ranuncoli e fiordalisi.
Girando a sinistra, non c’era infatti altra via da seguire, trovarono una scala più
agevole che saliva fino ad una saletta riccamente scolpita con una vegetazione
in legno dagli intrecci vertiginosi, con volute, tortiglioni, radici, foglie e fiori a
formare un finto regno vegetale.
138
Salirono ancora per un’ultima rampa, che sembrò loro interminabile, e
giunsero in cima. Un tenue bagliore proveniente da una porta aperta li guidò
verso la camera squallida dove Aisha era rinchiusa da molto tempo.
Entrarono piano per non spaventare la regina che, immersa nei suoi pensieri,
sedeva con le braccia intrecciate ed il capo chino sul tavolo. Non li vide subito,
ma intuì la presenza di altri oltre quella
della serva. Alzò il viso ed urlò
vedendo ombre scure venire avanti. La poveretta ci vedeva pochissimo e, solo
quando la luce di tante torce venne ad illuminare quel tugurio, si avvide delle
tre giovani dall’aspetto familiare e le riconobbe.
Credeva d’essere vittima di un’allucinazione e, solo quando le figlie le si
avvicinarono e l’abbracciarono e baciarono, si rese conto che tutto era realtà,
che erano venute per liberarla. Mentre le tre giovani le sorridevano felici,
cominciò a singhiozzare ed a gemere da far pietà.
“ Mamma, mamma, dopo tanti anni sei di nuovo con noi!Siamo venute per
liberarti aiutate da questi cavalieri e da amici fidati. C’è anche la mamma di
Safyiah che vuole riverirti!”
La vecchia, rigorosamente velata, fece un passo avanti, si inchinò umilmente e
le baciò le mani che tremavano.
Aisha era confusa, frastornata, non sapeva cosa dire, ma si costrinse a tornare
la donna dolce ed insieme autoritaria di un tempo e disse: “ Figlie mie, non
sono più la bella mamma piena di vita che conoscevate. Il mio viso è diventato
scarno e rugoso, gli occhi sono tanto stanchi e deboli che stentano a
riconoscere ciò che mi sta intorno, le gambe mi reggono poco e sono tutta
dolorante ed afflitta, il mio cuore però arde d’amore per voi. Vi seguirò
dovunque pur di abbandonare questa prigione e tornare a vivere. Libertà,
libertà ed amore, le uniche cose per cui vale la pena di resistere e lottare!
Andiamo, sono pronta!”
Si sistemò il velo sui capelli grigi ed opachi che erano stati color dell’ebano e
lucenti e si alzò.
Quanto aveva pregato che giungesse quel momento! Giorno dopo giorno aveva
sentito la speranza crescerle dentro al cuore e mutarsi in certezza ed aveva
atteso con ansia la liberazione.
139
Aggiunse:“ Safyiah sa quanto ho sofferto e le sarò eternamente grata per
essermi stata amica premurosa e fedele. Care figlie, lei merita tutta la vostra
stima ed il vostro rispetto”.
“ Safyiah, per favore,
prendi tutto lo stretto necessario per te e per mia
madre, dobbiamo fuggire in fretta. Non avrete alcun problema di danaro
perché partiamo con una grossa somma. Dobbiamo la vostra liberazione al
nostri amici Giuseppe e Pietro ed alla cara Isabel. Senza il loro aiuto non
saremmo qui con te adesso. I cavalieri che vedi, mamma, ci condurranno con i
loro destrieri dove voi vorrete. Potremmo anche dirigerci verso il castello di
nostro nonno, che si trova non lontano da Gerusalemme, posto che non sia
stato distrutto e che riusciremo a raggiungerlo! Quella non è una località
pacifica e sicura, ma dobbiamo correre il rischio. Noi figlie verremo con te e ce
la faremo!” Poi Zorahaida tacque poiché Taqi e Rashid volevano dire la
propria:” Il sultano rientrerà presto e l’unica cosa che ora gli importa è
preparare l’offensiva contro i nemici di Allah ed assicurarsi la vittoria. Andiamo
via subito!”
Percorsero a ritroso in fila indiana la stessa via dell’andata, ma impiegarono più
tempo del previsto ad uscire dalla botola, poichè Zaida doveva sostenere la
mamma malferma sulle gambe che rischiava di cadere ad ogni passo e Safyiah
portava due fagotti un po’ pesanti sulle spalle.
Aisha capì di essere ormai uscita fuori all’aperto quando sentì l’aria della notte
carezzarle il viso ed il profumo del verde e dei fiori entrarle nelle narici come
una benedizione. Tremava di paura pensando che qualcuno potesse individuare
il gruppo e bloccarlo. Quel qualcuno c’era, ma non era minimamente
interessato a lei.
Arrivarono alle porte senza problemi e l’avanguardia riuscì ad attraversarle e
ad uscire. A Taqi e Rashid, che chiudevano e proteggevano il gruppo, non
toccò la stessa sorte.
Kunar, dalla mira infallibile, si era eretto in tutta la sua persona su un punto
strategico del cammino di ronda e scoccò la prima freccia avvelenata
trafiggendo la schiena di Taqi e mirando con un’altra al cuore di Rashid che si
era voltato di scatto sentendo un grido ed il tonfo di un corpo sul lastricato.
140
L’uno cadde vicino all’altro, contorcendosi in un’atroce agonia perché le frecce
erano avvelenate.
Kunar gongolante ed euforico, si sfregò soddisfatto le mani e scomparve nelle
tenebre da dove era sbucato.
Non
vedendoli
arrivare
e
pensando
che
fosse
accaduto
l’irreparabile,
Margherite voleva tornare indietro per rendersi conto della situazione, ma
Pietro la bloccò dicendo: “ Montiamo a cavallo e fuggiamo, altrimenti ci
uccideranno come cani!”
Safyiah e la madre corsero al carretto e partirono col contadino alla guida,
avviandosi subito per la masseria di certi amici che abitavano lontano oltre il
Darro e qualche tempo dopo se ne andarono a Cadice.
La regina e le figlie, scortate dai cavalieri neri, proseguirono verso il porto dove
li attendeva un vascello messo a loro disposizione dallo Sceicco di Karabakh.
Pietro e Marguerite partirono con un’altra imbarcazione che salpava all’alba.
Avevano condotto al porto Adelaid e Tommasino. La mamma di Adelaid, sorda
alle lacrime ed alle preghiere della figlia, si rifiutò di partire. Continuava a
ripetere:” Non voglio partire. Rimango nella mia casa dove ho tanti ricordi del
mio povero marito! Non preoccuparti per me, figlia cara, me la caverò
lavorando come ho sempre fatto. Sii coraggiosa ed alleva bene il tuo bambino.
Spero che tornerai con lui a trovarmi quando sarà grande. Pensa al tuo
avvenire Adelaid e non a me!”
Non ci fu nulla da fare, la donna aveva preso la sua decisione ed era
irremovibile. Quindi Adelaid e Tommasino si imbarcarono soli con Pietro e
Marguerite per l’Italia.
I due giovani si tenevano per mano felici e più innamorati che mai. Adesso
potevano pensare ad un futuro insieme.
Adelaid trovò un marito premuroso e fedele ed un lavoro a Genova e vi rimase
per molto tempo.
Pietro portò Marguerite a Firenze ove si sposarono, aprirono vari cantieri edili e
diventarono molto ricchi. Dopo molti anni, ormai anziani, tornarono a Granada
ove si stabilirono con i figli ed i nipoti e dove ritroviamo Pietro, molto vecchio,
nel prologo di questo racconto.
141
INDICE
Prologo
3
La tempesta
5
La taverna
9
Pietro va a trovare Orso
14
Le figlie del sultano
18
Orso e Adelaid
21
Le principesse si decidono ad agire
24
Savinio ed Emanuele
29
Orso si decide
32
La ricchezza a portata di mano
38
La torre
43
Pietro va da Orso
51
Isabel ovvero Margherite
54
Un incubo ricorrente
56
Suonatrice di ud
61
Orso è partito
65
Jacobbe ebreo di Ancona
69
Pietro contatta Jacobbe
72
Fratel Barnaba
77
Un gruzzolo che scotta
80
Il sultano parte
85
Pietro da Savinio e Marco
89
Isabel e il responso dell’indovina
93
Il genetliaco del sultano
99
Il sultano è partito
103
Le ricerche danno frutto
106
Morte di un santo frate
110
Appuntamento al buio
114
Pietro ed Isabel
118
142
Il califfo di Karabakh
123
Il coraggio di Aisha
125
Ecco il piano!
130
Giuseppe e Kalima
133
Epilogo
136
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio tutti coloro che mi hanno dato preziosi suggerimenti ed un valido
aiuto nella stesura di questo racconto. Esso ha basi storiche, ma alcuni
personaggi sono di pura fantasia.
Se vi è piaciuto, fatelo leggere ad amici cui piacciono le storie avventurose.
Un grazie di cuore dall’autrice.
143
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