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Il Foglio Letterario
DICIASSETTE ANNI DI EDITORIA INDIPENDENTE
Il Foglio Letterario dal 1999 - Editore in Piombino dal 2003
EDIZIONE PRIMAVERA - ESTATE 2015 - Anno 17 - Numero 1
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EDITORIALE
Pronti ad affrontare una nuova primavera ma anche l’estate, ché per i libri sono i mesi migliori, pare
che si venda soltanto adesso e a Natale, ma non ci lamentiamo, possono venire pure tempi peggiori,
tipo l’invasione delle cavallette (leggi e-book) con i libri piratati e scaricabili on line. Lasciateci dire:
Viva la carta!, allora, soprattutto in un mondo come quello che viviamo, dove tutto è in rete, persino
il cervello delle persone. Molte novità nel 2016. Prima di tutto il distributore: LIBROCO, del cui
lavoro preciso e puntuale siamo molto soddisfatti. Altro che PDE! Altro che MESAGGERIE! Piccolo è bello e piccolo chiama piccolo. Non ci servono i cannoni per uccidere le zanzare. In ambito locale abbiamo fatto cose interessanti: Piombino com’era - personaggi piombinesi, di Franco Micheletti, si aggiunge a una collezione di titoli invidiabile, completando un quadro dipinto a base di racconti, leggende e storia della nostra città. Il cinema resta il fiore all’occhiello nazionale: libri su Guida, Kinski, Cavara, Caligari, Scattini, Jacopetti, Western Italiano (è uscito il ponderoso volume
tre!), Horror Italiano, squali, esorcisti e chi più ne ha più ne metta, li facciamo solo noi! Con buona pace di chi invidia e disprezza perché non è capace di fare le stesse cose. E i nostri libri restano,
come resteranno narratori e poeti che stiamo lanciando, spesso selezionati per il Premio Strega, ancor
più frequentemente opzionati da grandi editori. Diciassette anni e siamo ancora qui a raccontarcela.
Chi l’avrebbe detto? Chi avrebbe potuto pensare che da una rivistina come quella che tenete ancora
in mano - e che non è morta! - sarebbe sorto un fenomeno editoriale a livello nazionale? Non vendiamo decine di migliaia di copie, chiaro, ma chi le vende? Noi almeno non raccontiamo balle. E facciamo la vita degli editori underground, poveri ma belli, per parafrasare un titolo di un film che amo
particolarmente. A proposito di titoli e di cinema, leggetevi anche il mio Miracolo a Piombino Storia di Marco e di un gabbiano, edito da Historica del giovane Francesco Giubilei, presentato
al Premio Strega (come Calcio e acciaio - Dimenticare Piombino nel 2014), questa volta da Marcello Rotili e Simonetta Bartolini. Pure questo è un successo del Foglio Letterario. Ho parlato e scritto anche troppo. Adesso vi lascio alla lettura della rivista Primavera - Estate, piena zeppa di fumetti e
racconti, per tacer delle poesie, nemmeno fosse un catalogo Postal Market! Se siete di Piombino, ci
vediamo in corso Italia o in qualche festa di piazza, Unità o pesce fritto cambia poco...
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
IL FOGLIO LETTERARIO
Rivista fondata nel 1999
Numero 1 - Anno 17
EDIZIONE PRIMAVERA - ESTATE
Testata Registrata al Tribunale di Livorno
Patrocinio del Comune di Piombino
Direttore Responsabile: Fabio Zanello
Direttore Editoriale: Gordiano Lupi
Redazione: Via Boccioni, 28
57025 Piombino (LI) - CP 66
Sito Internet: www.ilfoglioletterario.it
Mail: [email protected] - Telefono 056545098
La collaborazione è gratuita e per invito.
Catalogo libri: www.ilfoglioletterario.it
Manoscritti e materiale inviato (non richiesto) non verrà restiMail: [email protected]
Una piccola Casa Editrice che ha partecipato 6 tuito. Il Foglio Letterario è il bollettino aperiodico della omonima casa editrice, pubblica materiale selezionato dai direttori
volte al PREMIO STREGA e ha lanciato scrittodi collana, in sintonia con il programma editoriale.
ri per GUANDA, RIZZOLI, BOMPIANI,
NEWTON & COMPTON, STAMPA
Cover di Sascha Ciantelli
ALTERNATIVA, MINIMUM FAX…
www.electricsheepcomics.com
Patrocinio del Comune di Piombino dal 1999
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LA COLLANA FUMETTO
La Collana Fumetto delle edizioni Il Foglio, coordinata da Alessandro Napolitano con il supporto dell’associazione culturale Electric Sheep Comics, si rivolge principalmente a un pubblico di lettori appassionato di graphic novel. I titoli del catalogo, tutti in rigoroso bianco e
nero, strizzano l’occhio al genere pulp, proprio della produzione americana di metà ‘900; ai
fumetti d’inchiesta e nel prossimo futuro ai generi fantascienza e fantastico. Blood Washing
(arrivato alla seconda ristampa) e Touch & Splat sono i titoli guida della nostra collana. I
disegni, caratterizzati da taglienti chiaro scuri, le trame violente e bel lontane dal
“politicamente corretto” sono i marchi di fabbrica di una produzione vincente in termini di
vendite e gradimento da parte di un pubblico composto da giovani e adulti. Tutti i titoli della
collana Fumetto possono essere richiesti nelle librerie e fumetterie, ordinate nei maggiori
store on-line oppure direttamente alle edizioni Il Foglio. La www.electricsheepcomcs.com,
con i suoi oltre 50 fumettisti, si occupa della selezione dei lavori che giungono in redazione,
garantendo fumetti di qualità e l’attenzione nel pubblicare comics che rispondono alle richieste del mercato. È possibile proporre il proprio progetto scrivendo a [email protected]. L’illustrazione che appare in copertina, tratta dal graphic novel Blood
Washing, è eseguita da Sascha Ciantelli.
SASCHA “KOTTO” CIANTELLI è nato a Firenze nel 1988. Fin da giovanissimo ha nutrito una inarrestabile passione per il disegno e per i fumetti, in particolare modo per quello
italiano e americano. Diplomato alla Scuola Internazionale di Comics di Firenze (2010) ha
eseguito illustrazioni per band musicali, manifesti per locali, romanzi, grafiche per siti Web
e decorazioni da arredo. Nel 2013 entro a far parte di Electric sheep comics disegnando
il graphic novel Blood Washing, partecipando all’ antologia Sci-Fi Visione dal Futuro
pubblicata nel 2015. Attualmente è impegnato in diversi progetti che lo vedono disegnare
graphic novel di genere horror e fantascienza. Lavora su commissione per illustrazioni web e
cartacee, oltre a scrivere e sceneggiare un progetto personale che presto verrà svelato.
Blood Washing è il secondo graphic novel della Electric Sheep Comics. Il fumetto, disegnato in bianco e nero, è ambientato negli anni settanta in una non meglio identificata periferia
americana. Microcriminalità diffusa, droga e sesso in abbondanza, comportamenti ambigui e
politicamente scorretti sono gli ingredienti di questa storia omaggio alla narrativa Pulp di
inizi ‘900, dalle quali trae ispirazione per tematiche e struttura narrativa. Il comics è firmato
da Claudio Fallani, Alessandro Napolitano e Alessio Ottaviani. L’opera, suddivisa in quattro
capitoli, è disegnata da Sascha Ciantelli, Roberta Guardascione, Riccardo Iacono, Valerio
Mezzanotte con un cameo di Andrea Palloni.
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La stanza murata
di Simone Manservisi
Quando il dottore disse che gli rimanevano al massimo tre mesi di vita, la prima cosa che fece Alessandro fu riunire i
genitori e i fratelli Samuele e Sara per annunciar loro le sue ultime volontà.
“Lo so che sembra una follia e se ci penso non riesco a dare una spiegazione logica, ma vi prego, quando sarò morto,
oltre a spargere le mie ceneri nei luoghi che mi hanno visto crescere, vorrei che faceste murare questa stanza, la mia
camera da letto da quando sono nato. Porta e finestra, così che nessuno vi possa più entrare.”
I famigliari si guardarono senza lasciar trasparire ciò che in realtà pensavano tutti, e cioè: “Boh, una cosa più assurda
non poteva chiederla, ma se è questo che vuole vedremo di accontentarlo…”
Papà Piero tranquillizzò il moribondo dicendogli che lo avrebbe fatto. Erano i primi giorni di maggio del 1994. Alessandro spirò nel suo letto il 17 luglio di quell’anno. Esalò l’ultimo respiro proprio nel momento in cui Baggio sbagliava a Pasadena il rigore che decretava il Brasile Campione del Mondo. L’Italia era in lutto.
Dopo il funerale Piero fece ciò che gi aveva chiesto il figlio. Lui stesso murò la stanza così com’era, con tutto ciò che
conteneva: libri e soprammobili sugli scaffali, foto alle pareti, vestiti negli armadi, carte, documenti, diari e scritti
vari nei cassetti. Mamma Paola aveva spolverato e rassettato la camera del giovane scomparso – aveva 27 anni ancora da compiere – fino a un momento prima che il marito cominciasse a posare i primi mattoni, rifacendo il letto come
se Alessandro dovesse tornare da un momento all’altro e ripetergli quelle parole che se prima non ascoltava neppure,
adesso pesavano sul suo cuore di madre come un macigno: “Dai Ma’, lascia stare il letto che tanto stasera lo disfo di
nuovo. Che lo rifai a fare?!”
Per oltre vent’anni la stanza di Alessandro rimase murata.
Nel novembre del 2015, nella casa dove aveva vissuto Alessandro con i genitori e i fratelli per tanti anni, abitava
Mattia con la futura sposa Jessica. Mattia era figlio di Samuele, il fratello maggiore di Alessandro, che viveva anch’esso lì con la moglie Loretta. I genitori Piero e Paola erano morti a un paio d’anni di distanza nei primi anni del Duemila, mentre Sara si era trasferita a Firenze a convivere con la compagna Naike.
Mattia decise che era ora di abbattere quel muro che impediva ad una stanza della casa di essere sfruttata. Non ci
mise molto a convincere il padre che era una stupidaggine tenere murata la camera dello zio morto ormai da “secoli”.
“E poi babbo” disse per sgombrare il campo dalle ultime titubanze, “visto che io Jessica stiamo per sposarci, avremo
bisogno di una camera per i bambini.”
Samuele telefonò a un amico muratore che a fine novembre eseguì il lavoro, riaprendo la porta e la finestra murate
anni addietro. Quando Samuele e Mattia entrarono nella stanza preceduti dal muratore, rimasero tutti a bocca aperta.
Sembrava che Paola fosse appena passata a pulire. Ma la cosa più strana – tant’è che più tardi si chiesero se non lo
avevano sognato – fu quella specie di aurora boreale che videro apparire nel centro della stanza e che si dissolse dopo
una decina di secondi dal loro ingresso. Nei giorni successivi Mattia pensò di sbarazzarsi di tutta la roba contenuta
nella stanza.
“Babbo, che ne dici di regalare i libri al tuo amico che fa i mercatini e i vestiti alla Caritas?”
“Buona idea. Però non gettare i diari e i racconti. Lo zio amava molto scrivere e buttarli sarebbe offenderne la memoria. Comunque decidi tu, ci sono già troppe scartoffie in questa casa.”
Mattia si mise a scartabellare tra le migliaia di fogli sparsi nei cassetti. Lesse qualche racconto.
“Che cazzate!” commentò prima di mettere tutta quella mole cartacea in un sacco che sarebbe finito nella spazzatura.
Passò ai diari. Su quelli si soffermò un po’ più a lungo, perché era curioso di leggere del passato della sua famiglia.
Lesse saltando in qua e in là per oltre un’ora poi cominciò ad annoiarsi e ritenne che nemmeno i diari meritassero di
essere conservati. Gettò nel sacco anche quelli e chiamò mamma Loretta ad aiutarlo a trasportare il tutto nel bidone
della spazzatura. Quella notte riapparve per un istante l’aurora ma nessuno la vide.
Alcuni giorni dopo Mattia cadde in una profonda depressione. Faceva incubi terribili che non ricordava mai nitidamente al risveglio; gli sembrava solo che fossero ambientati nella stanza di Alessandro.
Incominciò ad avere paura di quella camera. Le volte che metteva il naso al suo interno gli sembrava di vedere lo
zio sdraiato sul letto che lo fissava con sguardo demoniaco.
Passarono i giorni. Mattia era sempre più depresso e terrorizzato. La mattina della Vigilia di Natale, papà Samuele,
non vedendo scendere il figlio per il pranzo, lo andò a chiamare nella stanza che condivideva con Jessica. Lo shock
lo colpì come un pugno nello stomaco appena entrò. I pezzi del corpo di Jessica ricoprivano il letto matrimoniale.
Sangue e budella imbrattavano pareti e pavimento. La testa della ragazza era appoggiata sul comodino.
Samuele si diresse sconvolto nell’ex stanza del fratello, come attirato da una forza misteriosa. Socchiuse la porta,
che era stata montata giorni prima, e un alito gelido lo investì. Prima di vedere il figlio Mattia sdraiato sul letto, senza
vita, con le vene tagliate e il sangue che ancora sgorgava, notò un’aurora fascinosa ma sinistra aleggiare nella stanza.
Simone Manservisi (Roma, 1974) vive in provincia di Bologna dove scrive per passione e allena piccoli calciatori
per vocazione. Con Il Foglio ha pubblicato: Il fardello (2011), Mondemer (2012), Sull’orlo di un dirupo – Storie
di calcio e di anarchia (2012), Appunti di un naufrago sentimentale (2014), Far West Lazio – Il volo di Uccellino (2014) e L’arte della Morte (2015). Il racconto La stanza murata fa parte della raccolta che uscirà a breve Edizioni Il Foglio - intitolata Volevo solo essere normale.
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La Buona Azione Quotidiana
di Nicola Lombardi
Appena si accorse dell’anziana signora ferma sul ciglio della strada, a ridosso delle strisce pedonali, Martino
pensò a un miraggio. Erano quasi le cinque del pomeriggio e ancora non aveva compiuto la sua Buona Azione
Quotidiana. Quel mattino, è vero, aveva raddrizzato con la punta della scarpa uno scarafaggio che si era ribaltato nel tentativo di scendere da un gradino (salvo poi averlo inavvertitamente schiacciato mettendo il piede in
fallo). Ma aveva il sospetto che un’azione del genere non valesse granché, ed era certo che non avrebbe potuto
trascriverla sul Diario del Perfetto Boy-Scout. Ma ora… Affiancò con passo baldanzoso l’anziana, una vecchierella bassina e secca che tremolava come un fuscello, e scandendo per bene le parole domandò: “Posso
esserle d’aiuto, signora?”. La donnina rimase per qualche istante immobile, continuando a fissare il lato opposto della strada; infine torse il collo rugoso e puntò sul ragazzino i suoi acquosi occhi castani.
“Io…” balbettò. “Io… vorrei…” E tornò a guardare verso l’altro marciapiede, al di là della carreggiata. Nessun
veicolo stava transitando in quel momento, per cui Martino, dando sfoggio della sua collaudata affabilità, si
permise di prendere sottobraccio la vecchietta e di annunciare: “Permette, signora, che l’aiuti?”
La donna balbettò ancora, abbozzando un sorrisetto deformato dalla dentiera troppo larga. “Io… sì… io… vorrei…” E con un dito poco stabile indicò genericamente lo spazio davanti a sé.
“Prego, signora, si fidi di me!” Così dicendo Martino prese a sospingere la donna, la quale assecondò docilmente il suo giovane cavaliere. Quando i due si trovarono esattamente a tre passi dal marciapiede opposto, però, la vecchietta si bloccò. Letteralmente, piantò in maniera inamovibile i piedi sull’asfalto; e nello stesso tempo, con la mano libera artigliò in una presa d’acciaio il braccio di Martino. Questi la fissò con uno sguardo in
cui lo stupore non tardò a cedere il passo allo sgomento. Una corriera stava ora sopraggiungendo a velocità
sostenuta, e non dava l’impressione di potersi fermare in tempo.
“Signora, la prego…” La vecchietta guardò il ragazzino, e sempre sorridendo lo informò:
“Io… vorrei… morire.” Martino cominciò a urlare, ma il suo gridò non poté competere con l’indiavolata tromba bitonale della corriera.
Nicola Lombardi (Ferrara, 1965) si lega negli anni Novanta al movimento letterario romano Neo Noir pubblicando racconti, articoli e traduzioni su varie riviste e antologie, per diverse case editrici. Suoi sono i romanzi
tratti dai film di Dario Argento Profondo Rosso e Suspiria, entrambi pubblicati da Newton & Compton. I suoi
libri: Ombre - 17 racconti del terrore (1989); I racconti della piccola bottega degli orrori (2002); La fiera della paura (2004); Striges (2005); I ragni zingari (2010); Madre nera (2012); La Cisterna (2014). Il suo sito è
www.nicolalombardi.com.
Una terribile eredità è un romanzo in cui il buon Luigi Bernardi aveva creduto, pubblicandolo con Perdisa.
Adesso lui non c’è più - purtroppo - e Perdisa... pure. Lo abbiamo ristampato con Il Foglio, usando una vecchia
copertina firmata Ardolino - Boccia. Sono di parte, ma dico che vale la pena leggerlo. Ve lo diamo a 5 euro.
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LA NOSTRA DISTRIBUZIONE
È possibile acquistare i nostri libri direttamente dal sito dell’editore: www.ilfoglioletterario.it
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anticipato. Nessuna spesa postale per le librerie, anzi, sconto 30% sul prezzo di copertina.
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Jenny dei pesci
di Federico Guerri
Jenny dei pesci cammina per strada portando un secchio pieni di lische, teste, code e interiora. Lo fa ogni sera
alle sette quando il negozio sta per chiudere. La mamma le consegna il secchio e le dice vallo a svuotare nell’organico. Jenny dei pesci, invece, imbocca Vicolo Lalleri, attraversa la Via Principale di Serpenseno, scivola
tra due baracche di pescatori e scende in spiaggia. La Via Principale, specie in inverno, è piena di gente e di
luci. I fari delle auto si riflettono nelle vetrine e accecano Jenny. I ragazzini seduti sui motorini davanti al Tabacchi o alla Pizzeria a taglio la vedono passare e urlano guardate chi c’è, è Jennydeipesci, sentite come puzza,
scommetto che Jenny puzza di pesce anche nelle mutande e ridono. Lei cerca di non ascoltarli perché deve attraversare la strada e non le riesce bene per via dei riflessi. Si ripete devo guardare a destra e poi a sinistra
come mi ha detto la mamma ma stasera è ancora più difficile per via delle urla e del fatto che non ci sono più le
strisce pedonali, le hanno spostate più avanti sulla via e io non sono abituata ad attraversare lontano.
Jenny passa senza guardare. I clacson le scoppiano all’improvviso nelle orecchie e lei si ferma in mezzo alla
strada come un animale terrorizzato. Anche le auto si fermano e ragazzi sui motorini e passanti se ne stanno
zitti: tutti sanno che, quando Jenny si blocca, solo il silenzio la farà muovere di nuovo. Passa.
Quando lo racconterò alla mamma mi carezzerà i capelli. La mamma ha sempre le mani unte ma mi vuole bene. Il babbo, invece, dirà qualcosa come “ti potevi far buttar giù così riscuotevamo l’assicurazione”. Il babbo
non mi vuole bene. Sono stupida ma capisco chi mi ama e chi no.
Jenny dei pesci controlla di non aver rovesciato niente: organi, sangue, puzza e lische e teste dagli occhi bianchi che però ti guardano lo stesso. Un secchio pieno di tutte quelle cose che non ci fa voglia di sforzarci a utilizzare. Oggi non c’è più l’arte di inventarsi. Ogni cliente vuole la parte migliore del pesce ma – la mamma lo
dice sempre – ogni parte è la migliore se sai come cucinarla. La mamma di Jenny è una cuoca bravissima perché sa che quando i clienti chiedono la parte migliore in realtà vogliono la più facile, quella già pronta. Ci
sforziamo tutti di mostrare la parte migliore di noi, la più semplice, e il resto lo buttiamo via. Siamo creature
disperate che fanno finta di non essere brutte, di non avere difetti. Jenny dei pesci, invece, sa di essere tutta
parte peggiore, scarto, e mentre scivola tra le baracche e arriva sulla spiaggia pensa che in un mondo diverso
dal nostro, in un mondo giusto, tutti saprebbero come cucinarla, qual’è il posto nella città in cui vive.
La spiaggia d’inverno è deserta. Solo qualche luce da una baracca di pescatori e la luna. Jenny dei pesci cammina fin quasi sul bagnasciuga. Ama annusare il freddo, il vento. Ama la pioggia che punge la faccia, quando
c’è. Le piacerebbe spogliarsi ma la mamma le ha detto che non ci si deve spogliare in pubblico anche se ne
abbiamo tanta voglia. Jenny dei pesci pensa che sarebbe bello se qualcuno la vedesse nuda, magari quel ragazzo che suona il basso e abita con la zia dietro quella finestra laggiù. Quello che – gliel’hanno detto – ha scritto
pure una canzone su di lei.
Jenny dei pesci sa che, tolte le gambe storte e le dita adunche e la curva della schiena, il suo è un bel corpo. I
vecchi del Bar Nave di Serpenseno a volte glielo dicono. Una volta uno ha pure detto alla mamma venti euro
per portarla in un vicolo e farsi un giro su di lei che tanto non capisce e ci guadagniamo tutti. La mamma ha
tirato uno schiaffo forte sulla mano del vecchio e gli ha detto Raniero sei un maiale anche se Jenny lo sa che i
soldi potevano servire. In fondo, a fare un giro con quel vecchio ci sarebbe pure andata. Per vedere che effetto
faceva. Solo perché sono scema non vuol dire che non sappia cosa vuol dire scopare fare sesso fare l’amore.
Jenny comincia a fare un grosso cerchio d’avanzi sulla sabbia rovesciando il contenuto del secchio. Finito il
lavoro, ci si mette in mezzo. Fa sempre così. Il tempo che impiega è, ormai, lo stesso di cui i gabbiani hanno
bisogno per sentire l’odore del pesce e staccarsi in volo dalla scogliera. Jenny sta in mezzo al cerchio quando
gli uccelli arrivano e cominciano a urlarle attorno buttandosi in picchiata per strappare i pezzi più grandi in una
violenta danza d’ali. La ragazza stringe gli occhi finché, attorno, non ci sono solo grida assordanti e lampi bianchi di piume e zampe e becchi e il vento che cambia direzione e ogni tanto qualcosa che la sfiora e la taglia;
urla, imitando i gabbiani, e salta sulle gambe storte e batte le mani forte e le dita come artigli s’incastrano e
liberano e volano e Jenny dei pesci ride sguaiata e viva e libera mentre il banchetto continua, turbine e tornado
e vortice e pesce e sangue e interiora, e al culmine di esso Jenny spalanca gli occhi. Jenny dei pesci spalanca gli
occhi e vede.
Federico Guerri, maremmano trapiantato a Pisa, è drammaturgo, insegnante di teatro e scrittura creativa, regista, improvvisatore, padre di famiglia e Sindaco di Mondo di Nerd. I suoi romanzi – “Questa sono io” e
“24:00:00 – Una commedia romantica sulla fine del mondo” (Candidato al Premio Strega 2015) – sono usciti
per le Edizioni Il Foglio. E’ autore di più di 60 testi teatrali rappresentati – se ne possono leggere alcuni in
“Anche Shakespeare ha avuto i brufoli” (ETS) e “Teatri di Guerra” (Il Foglio). Il suo ultimo progetto –
“Bucinella – 25.000 abitanti (circa)”, la costruzione di una cittadina di provincia persa tra mare e colline nere
come inchiostro al ritmo di un racconto al giorno – può essere trovato sull’omonima pagina Facebook.
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La città vecchia
di Gordiano Lupi
Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi
ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi…
La mia città vecchia non è quella di Fabrizio De Andrè anche se in fondo la ricorda. È la città vecchia dei primi anni Sessanta, la periferia industriale d’un approdo marino, un porto dall’aria spessa,
carica di sale, gonfia di odori, inconsapevole del suo mare, delle sue spiagge, protesa soltanto a seguire una vocazione siderurgica. La mia città vecchia ricorda i quattro pensionati mezzo avvelenati
al tavolino, a stramaledir le donne, il tempo e il governo. Sono i pensionati di piazza Dante che passano il tempo ricordando il passato, mio nonno che beve un gotto di vino e mangia una granfia di
polpo dal venditore ambulante all’angolo del Bar Nedo, locale scomparso, un pezzo di storia che se
n’è andato per lasciare il posto al progresso. Il Bar Nedo, gloriosa sede dell’Inter Club, dal quale partire nelle mattine d’inverno alla volta di Firenze o Roma, per vedere le partite della squadra del cuore, naturalmente in treno, ché l’auto mica ce l’avevamo, il boom doveva ancora arrivare. E poi mio
padre era ferroviere, guadagnava poco, il suo unico privilegio era viaggiare gratis in treno, quel che
avevamo lo dovevamo sfruttare. Il Bar Nedo aveva persino un squadra di calcio che partecipava ai
tornei estivi organizzati allo Stadio Magona, campionati aziendali, tornei dei bar, roba da civiltà paleoindustriale, dei tempi che vedevi le partite solo il mercoledì, quando c’erano le coppe, e la domenica sera, ma registrate; tempi che il pomeriggio festivo lo passavi ad ascoltare Tutto il calcio minuto
per minuto, ti facevano compagnia la voce roca di Sandro Ciotti e il timbro squillante di Enrico Ameri. Era prima dei telefonini e delle pay-tv, del calcio che ti piove in casa a ogni istante del giorno,
un tempo che è esistito, pure se a molti può sembrare strano, quando la televisione era in bianco e
nero, soltanto due canali che cominciavano a trasmettere alle cinque del pomeriggio e finivano a
mezzanotte. La mia città vecchia è via Gaeta, piccola strada del centro dove passano poche auto, di
tanto in tanto qualche Seicento familiare, poche Cinquecento, biciclette, Vespe, il barroccio di Pino il
cenciaio a raccattare stracci e cartone, ma anche il materassaio a rifare imbottiture di poveri letti. Una
strada dove i bimbi giocano tutto il giorno senza temere pericoli: buchette, biglie di vetro, tappi di
bottiglia, palline con immagini di ciclisti, calcio, nascondino, campana, saltando tra quadrati informi
disegnati col gesso. Via Gaeta cominciava da via Pisacane e finiva in corso Italia, confinava con le
Acciaierie che un tempo si chiamavano Italsider. Mio nonno non ha mai smesso di chiamarle così, è
morto convinto che fossero la stessa industria dove era venuto a lavorare scendendo dai monti dell’Amiata, dopo aver combattuto la prima guerra mondiale, tornato a casa vivo per miracolo dopo lunga
prigionia e tante avventure. In via Gaeta potevi veder passare Don Claudio, prete operaio del Sacro
Cuore che si avventurava nella bolgia infernale popolata da comunisti, poveri miscredenti tra i quali
c’eravamo anche noi. Cercava di convincerti ad andare a messa o a iscriverti a dottrina, con la scusa
della squadra di calcio, del torneo di biliardino, della partita a ping-pong, del film con Gianni e Pinotto nella sala parrocchiale, ma difficilmente t’incastrava. Ricordo Don Claudio e le interrogazioni
di latino improvvisate per strada, quando chiedeva il genitivo di unusquisque, non so neppure se l’ho
scritto bene, ma erano altri tempi, anni Settanta, io più grandicello, lui invecchiato, stanco di rincorrere comunisti per portarli a messa, sembrava rassegnato. Pure io mi sono arreso, caro Don Claudio,
ho passato comunione e cresima per sposarmi, avrei fatto meglio a darti ascolto, avresti avuto la soddisfazione d’aver convertito un figlio di comunisti. Ora non dico più d’esser comunista, ci mancherebbe altro dopo aver visto cos’hanno fatto i comunisti a Cuba, ma resto miscredente, proprio come
mio padre, morto leggendo Bertrand Russell. Fedele al mio non poter credere nel trascendente, a un
malinteso materialismo dialettico, a quel che resta del sogno d’una cosa. La mia città vecchia ricorda
l’umanità di Pasolini, le borgate, i quartieri popolati da operai convinti che il futuro dei loro figli sarà
migliore, mentre si lasciano scandire la vita dal sibilare acuto delle sirene, tre volte al giorno, una per
ogni fine turno. Via Gaeta era un brulicare di attività, adesso scomparse, un falegname, un fabbro, un
carrozziere, un deposito di acque minerali, vera manna dal cielo perché ci potevi trovare tappi colorati d’ogni tipo, buoni per giocare per strada in mancanza di biglie. Via Gaeta si svegliava alle cinque
del mattino con i rumori delle botteghe artigiane, gli operai che andavano a farsi inghiottire dalle
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fauci d’un’immensa acciaieria, un poco più tardi impiegati e mezze maniche sfrecciavano in bicicletta, bambini andavano a scuola, stringendo forte le mani delle madri, si fermavano al negozio
Coop di corso Italia, compravano schiacciate e bocche di leone. Un piccolo mondo antico ormai
perduto: la tabaccheria all’angolo con via Antonio da Piombino, l’edicola dal nome comunista con
il padrone dal volto rotondo e lunare, la trattoria da Alberta dove potevi mangiare con poche lire e
bere vino rosso da fiaschi impagliati, il Bar Imperia davanti al muro dell’acciaieria che copriva il
mare. E su tutto lei, l’immane distesa di ferro e lamiere, la rumorosa compagna della nostra vita che
accompagnava risvegli e notti inquiete passate a pensare al futuro, ché un bambino non ricorda il
passato, pensa al domani, desidera che giunga in fretta, per vedere cosa l’attende. Non può sapere
che sarebbe meglio fermare gli attimi prima che diventino tempo perduto, giocare con gli istanti e
godere il profumo della primavera. Prima che sia troppo tardi.
Gordiano Lupi ha scritto e pubblicato tanto, per i suoi detrattori - critici colti e dal palato fine usi a
legger Giulio Mozzi sulla tazza del cesso - persino troppo. Lui dei critici se n’è sempre fregato, per
il futuro conta di fregarsene ancora di più e di scrivere finché la vita gliene darà tempo, ché scrivere
è la sola cosa bella e possibile della sua esistenza. Tutto il resto è noia, direbbe Califano.
Ultimamente bevo mate e scrivo pensieri in spagnolo
di Maura Fioroni
Ultimamente bevo in spagnolo e scrivo pensieri.
Ultimamente scrivo pensieri e bevo mate in spagnolo.
Ultimamente scrivo pensieri in spagnolo e bevo mate.
Ultimamente bevo pensieri in spagnolo e scrivo mate.
Scrivo pensieri in spagnolo e ultimamente bevo mate.
Scrivo mate in spagnolo e ultimamente bevo pensieri.
Bevo mate ultimamente e scrivo pensieri in spagnolo.
Ultimamente scrivo mate in spagnolo e bevo pensieri.
Scrivo pensieri in spagnolo e ultimamente bevo mate.
Scrivo spagnolo in pensieri e bevo mate ultimamente.
Bevo mate in spagnolo e ultimamente scrivo pensieri.
Ultimamente bevo in spagnolo e scrivo mate in pensieri.
Maura Fiorini è una ligure giramondo che per Il Foglio Letterario ha scritto I colori di Cuba.
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Rettangolo di scatole
di Alessandra Altamura
Quattro scatole della frutta piazzate ai quattro angoli di un posto macchina raccontano una
storia di uggia pomeridiana e antica solitudine. A due a due sono tenute ferme da un bastone
della scopa, lungo i lati corti, un accorgimento contro il vento serale. Quattro occhi e un ricciolo di capelli bianchi spuntano da una fessura della porta appena socchiusa, di fronte al
parcheggio. Non so dire cosa aspettino e da quanto: un figlio, un nipote, un parente, un’amica… Certamente è un’attesa densa di anni, nascosti tra quattro mura, in compagnia del silenzio, sbadato testimone.
Alessandra Altamura è nata il 30 novembre 1973, si è laureata in lettere classiche all’Università di
Pisa e insegna lettere in una scuola media della provincia di Lucca. Con Il Foglio ha pubblicato
Music club Toscana- Storie a tempo di musica (2012), tradotto anche in inglese, Maschio e femmina
li creò (2014), Viaggio in bianco e nero (2015).
Per un nonnulla d’amore
Sfiori con un dito tra i capelli
i miei sipari filiformi,
siepi di lance inermi
sul mondo.
Ed ecco che subito
per un nonnulla d’amore
il fondale disarciona la mia pelle.
Scorro come sangue nudo
tra le tue mani
e un tasto risibile, sbadato
foggia ritornelli
di questo caos primordiale.
Solo l’uomo
dotato di anima
disegna il mare e il cielo
di colori diversi.
Solo l’uomo
dotato di ragione
assolda i pensieri
come soldati di mestiere
per far guerra alle ombre.
Solo l’uomo
dotato d’amore
sopravvive ai delitti
che compie nel suo branco.
Solo l’uomo
ha tutte le doti
per essere orribile.
Solo l’uomo
Solo l’uomo
tra tutti gli animali
sa dividere alcune gocce
dall’oceano
e convincere l’universo
della loro differenza.
Solo l’uomo
tra tutti gli dei
separa certi granelli
nella distesa di sabbia
e motiva allo sguardo del vento
la loro indegnità
a stare nel deserto.
VIAGGIO IN BIANCO E NERO
PRESENTATO
Al PREMIO STREGA 2016
(Pg. 370 - Euro 16)
Celeste è una donna bianca, ma la sua anima si
è formata nel cuore dell’Africa. Vive a Firenze,
qui insegna danza e percussioni africane. Bamba è un uomo nero, ma è cresciuto a
Milano, dove fa il giornalista. Entrambi viaggiano per lavoro, ma soprattutto per l’instancabile desiderio di ricerca, di conoscenza, di verità. Drissa è un bambino originario di un piccolo villaggio della Costa d’Avorio. Arriva sulle
coste italiane come profugo a bordo di un barcone e, rimasto orfano, viene accolto in una
Comunità per minori. Queste tre vite si incontrano attraverso il viaggio...
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Il pesco
di Melisanda Massei Autunnali
Il gatto siamese sospirò con aria contrita. Tutta la primavera di un limpido mattino di aprile non lascia spazio alle attese. L'aria chiama forte e trascina dietro sé l'energia di cento e più profumi. Profumi che a sentirli qualche volta sembra addirittura di vederli: avvertirne forme e colori, tanto più palpabili e concreti quanto più l'olfatto sa Concedersi la spinta oltre l'immaginazione. Fosse pure quella
di un gatto. Jacopo poteva esserne ben certo. Quella forma concreta e colorata era un pesco. Bello,
florido, carico di infiorescenze appena sbocciate. Un bellissimo e odorosissimo pesco. Dove? Non
lontano. Non lontano quanto? Nel raggio di cinquecento metri. Anzi, duecento. Sicuro. Non più di
duecento metri da quella finestra che lo divideva dal resto del mondo come una prigione. Certo, le
sue aspirazioni di gatto colto non erano solite fargli interpretare in questo modo la sua permanenza a
scuola. Studiare a Jacopo - almeno un poco - piaceva. Però era anche vero che lo studio e i peschi
odorosi avevano poco a che fare l’un con gli altri. Così come era chiaro come il sole alto nel cielo
che aprile dura un solo mese all’anno e che - da che mondo è mondo - quasi sempre ad aprile piove
un giorno e l’altro pure. Insomma, la mattinata profumava - oltre che di pesco - di irripetibilità. Di
occasioni da cogliere. Prima di vederle volare via per sempre. Ma in quale modo? Jacopo sapeva che
non sarebbe stato facile uscire di classe, tantomeno dalla scuola. Sa, professore, ho sentito non lontano un bel pesco che profuma e muoio dalla voglia di arrampicarmici sopra. No, non si poteva fare.
Non con quel professore. Uno capace di fulminarti con lo sguardo soltanto a chiedergli di uscire per
raggiungere il bagno - va beh, la lettiera. Bisognava studiare per forza un’altra strategia. Una scusa
credibile. Professore, mi faccia uscire perché mamma gatta è di nuovo incinta e forse i cuccioli nascono stamani. No, no. E poi lasciamo fuori da queste storie mamma gatta. Per carità del Cielo. Allora: professore, mi pare di sentire che giù al piano di sotto ci sia un topo, mi permetta di andare a catturarlo. Questa è peggio di quella di prima. Come se non si sapesse in giro che a mal fatica so come è
fatto un topo. Jacopo stava quasi per desistere dall’infausto proposito, quando una luce si accese nel
suo cervellino di gatto irrequieto.
«Professore - esclamò con aria flautata al grosso uomo barbuto con in mano l’Inferno di Dante - mi
duole una zampa davanti». «Se la lecchi» sbottò il professore senza alzare il naso dal libro.
«Ho idea di aver preso un pruno - seguitò il gatto, sgranando i begli occhioni azzurri - Posso andare
dalla bidella a farmelo togliere?».
Il professore borbottò qualcosa che assomigliava a un sì e il gatto si diresse verso l’uscita, lo zampino
trascinato con moto pietoso. La porta non si era ancora del tutto chiusa che il gatto già era schizzato
lungo il corridoio, e poi via verso le scale, fino al piano di sotto, e poi quello sotto ancora, il pianoterra, la finestra lasciata aperta, la grata a proteggere, certo, ma non a scongiurare via vai felini, gatti
capaci di entrare e di uscire a volontà, al solo patto di eludere la sorveglianza. Jacopo sgusciò tra i
ferri e il grande giardino davanti alla scuola si spalancò di fronte ai suoi occhi azzurri come una meraviglia. Ma non c’era tempo da perdere. Bisognava trovare il pesco, un bel salto, e poi via, sui rami,
a riempirsi la testa di primavera. Ma il pesco non c’era. O meglio, da qualche parte doveva pur esserci. Quell’odore che già a scuola gli era sembrato intenso adesso gli appariva addirittura vertiginoso.
A lungo Jacopo si girò attorno, la testa sempre in moto, da un lato all’altro, il naso colto da estasi
irrefrenabile. Poi, finalmente, lo vide. Bello, florido, carico di fiori, proprio come se lo era immaginato, e la sua felicità di micio salì fino al cielo. Rapido come un lampo, il gatto balzò lungo il tronco
fino al ramo più basso, e poi ancora su, di ramo in ramo. Un’espressione beata si dipinse sul suo muso, mentre gli occhioni azzurri si volgevano distratti verso la scuola. Appena il tempo di un sussulto.
L’intera classe era là, dietro la finestra, il professore in piedi, i compagni ritti sui banchi, gli sguardi
rivolti verso di lui. Non c’era neanche tempo di nascondersi. Al limite, sprofondare tra i fiori per la
vergogna, tra il sollazzo generale della compagine.
«Se non torna qua subito vengo a prenderla per la coda!» strillò il professore mentre le zampe posteriori del micio sparivano nella coltre dei petali. Un musetto baffuto spuntò da dietro un ramo. Il professore si portò le mani sui fianchi. «Non ci sono parole! - sbottò - Lei è veramente un cretino!».
Melisanda Massei Autunnali è nata nel 1978 a Piombino, dove vive. È laureata in filosofia. Con le
Edizioni Il Foglio ha pubblicato tre romanzi che hanno per protagonista la classe di gatti.
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Foto di Ricccardo Marchionni
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Piombino X-files
Caso 3972 – Fausto Melandri detto “Pipo”
di Simone Giusti
La fatina apparve nell’acqua davanti a lui, proprio dove pescava.
Tutta ignuda, pareva un capolavoro.
Fausto Melandri (detto “Pipo” per via delle parecchie tresche giovanili degli anni Sessanta, tanto che
mezza Piombino si diceva fosse figlia sua) allargò un sorrisino incrostato. Aveva settant’anni suonati, passava i pomeriggi accovacciato nel porticciolo vecchio, lui e la sua canna, a cercar d’agguantar
du’ pesci. Ma anche se sembrava da reusorio, tra le sue cosce, proprio lì, l’impianto idraulico funzionava ancora bene. E così, quando lei gli porse la manina chiamandolo a sé, lui non se lo fece ripetere
due volte e n’andò dietro.
Maremma ’mpestata ’ane!
Sul fondale davanti a Piombino c’era un tripudio di lucine.
Torri, palazzi larghi e argentati, tutti tempestati di sbrilluccichi. Il rosso e il blu andavan per la maggiore. Era un Capodanno, uno di quelli seri. E a Fausto Melandri, detto “Pipo”, ni venne a mente Parigi, ni venne in mente la via di Pigalle e soprattutto il Moulin Rouge, dove c’era stato nel Settantatré
con un pugno d’amici (prima di cader vittima del matrimonio), e anche laggiù s’era dato da fare e
aveva ingravidato. Insomma, a Fausto Melandri ni venne quasi un colpo al cuore.
La fatina ignuda arretrò a passettini nascondendo tra le cosce quella spazzolina appena accennata.
Aveva due tettine tonde e lo chiamava con la manina. Il sorrisino sembrava l’avesse sbiancato col
bicarbonato. Fausto Melandri la seguì finché non le comparvero accanto due bistecconi lunghi e secchi, con le testine gnude. Gli sembravano le statuine degli Etruschi chiamate Ombre della sera. E lui
ne sapeva qualcosa, non perché avesse studiato, seh!, ma perché per diec’anni era stato guardiano al
Museo Archeologico di Piombino. E anche se era duro, qualcosa aveva imparato.
Anche loro, quei due tizi lì, ni porsero la mano. E il mitico Pipo non ci pensò due volte.
Dé! Per inda’ dietro a una fatina ’osì, ne varrà siuramente la pena.
La Simca mille del Melandri, azzurrina mare, venne ritrovata sopra il porticciolo con le chiavi nel
quadro. Tutti gli effetti personali erano nella cassetta da pesca, la canna infilata nel sostegno e la lenza nel mare. Non c’erano tracce di colluttazione.
Il maresciallo Antonio Cotone (detto “Cazzo di mare” per la passione per le nuotate che praticava
anche in inverno, tipo Montalbano, ma a differenza di Montalbano la gente del posto lo riteneva “un
cazzone”) portò avanti le indagini per mesi finché giunse a una conclusione: che il pensionato Fausto
Melandri, detto “Pipo”, era caduto in mare per un malore e poi se l’era mangiato uno squalo. Riguardo alla testimonianza di Ciro Badalauoppo, rappresentante nord-maremmano del “Comitato Ufologi
Toscani” che si presentò in caserma con un fascicolo sottomano su cui era scritto “Caso 3972 – Fausto Melandri detto Pipo”, il maresciallo non lo lasciò neanche finire. Si sorbì venticinque secondi
netti di discorsi su strane luci avvistate sul braccio di mare di fronte a Piombino, nei giorni precedenti
e successivi alla sparizione del pescatore, poi, quando il Badalauoppo arrivò a dire «Abduction!»,
spiegando che si trattava di un caso evidente di rapimento alieno, il maresciallo Cotone, detto “Cazzo
di mare”, lo spedì fuori a calci nel culo intimandogli di non farsi mai più vedere, o gli avrebbe mandato una volante al circolino e l’avrebbe fatto smantellare.
“Seh oh! E tanto son nato ieri! Ma con chi pensano d’ave’ a che fa’, quer popo’ di branco di
’oglioni!”
Il caso venne archiviato come annegamento in mare.
Simone Giusti è nato a Pisa nel Settantasette, quando scrive è Buddha, quando non può è
frustrazione.Ha pubblicato “Incubo” (Robin Edizioni 2008), “Guerre Corporative” (Il Foglio
Editore 2014), “Il giardino di Boscofitto” (Marchetti Editore 2015), “Pisa
connection” (Marchetti Editore 2015) e “Ragnarok” (Centoautori 2015). È curatore di “Sex
Grindhouse” (Il Foglio Editore 2015) e direttore della collana PULP di Marchetti Editore. È
anche il padre del progetto “Evoc” che si può vedere in parte su Youtube. Di racconti ne ha
pubblicati a decine. P.s. Una volta era archeologo.
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Charlotte Square
di Alessandro Del Gaudio
Il cielo al crepuscolo mostrava una linea cremisi all’orizzonte, su cui nubi rosate pascolavano come
un gregge purpureo sospinto dal vento di aprile. L’aria era calda e frizzante, spandeva profumi nelle
vie di San Donato e un insolito senso di fiducia e gratitudine, quello di certe giornate in cui il mondo
sembra bello e accogliente.
C’eravamo lasciati un rigido inverno alle spalle e subito era esplosa una primavera gradevole come
una carezza, in cui la città non aveva un colore o un suono fuori posto.
Come tutti i giorni stavo per entrare allo Charlotte Square, dove ero tornato a lavorare stagionalmente
mentre aspettavo di trovare un’occupazione altrove. Mi dava una strana sensazione ricapitare in quel
locale che quasi dieci anni prima avevo aperto con Lisa e Riccardo e che era stato palcoscenico della
nostra tormentata amicizia. In qualche modo il “nostro” pub era al centro dei fatti passati come di
quelli recenti. Non eravamo riusciti a liberarci di quel periodo della nostra vita, neanche dopo che
Riccardo si era sposato e Lisa era andata via per sempre.
Rodrigo mi accolse con il suo solito sorriso amichevole. Un tempo era stato il mio assistente al bancone, quando mi destreggiavo come barman tra liquori e distillati. Poi lo Charlotte aveva chiuso per
alcuni anni e lui l’aveva rilevato, riportandolo a nuova vita. Solo per questo, per nostalgia dei tempi
andati, avevo accettato di tornare a lavorarci, mentre aspettavo di trovare un lavoro che non stavo
neanche cercando.
“Sei in ritardo”, sottolineò. Mi sembrava strano quell’appunto, ma nella sua voce non c’era rimprovero, semmai rammarico. Non capii quel registro insolito nella sua voce, fino a quando non proseguì.
“Oggi abbiamo avuto visite”, rivelò.
Pensai che fosse venuta la finanza e che avesse trovato qualcosa che non andava nella contabilità.
“È passata una nostra vecchia conoscenza”.
Ebbi un lampo di intuizione. Parli del diavolo…
“A che ora?”
“Alle sei e mezza. Avevo appena aperto”, disse. “Ma tu… lo sapevi?”
Scossi il capo. “Cinque anni fa le avevo proposto di tornare a trovarmi, ma non immaginavo sarebbe
più ripassata in città. Non ha mai amato particolarmente Torino. Viveva a Malta e sembrava stare
molto bene là”.
Malta. La ricerca, l’incontro, la notte insieme e quel biglietto d’addio. Nel frattempo mi ero sposato
con una ragazza originaria di Milano e avevamo avuto una figlia, e per un certo periodo sembrava
che questo bastasse a chiudere con il passato. Ma evidentemente mi sbagliavo.
“È andata via da molto?”
“Cinque minuti. Mi ha detto che doveva fare una commissione di fretta perché aveva da prendere un
volo alle nove”.
“Lisa non si ferma mai nello stesso posto”, dissi sopprimendo l’improvviso senso di mancanza che
mi suscitava anche solo pronunciare il suo nome. Ma poi pensai a Sandra e alla nostra piccola Rebecca.
“Dai, mettiamoci al lavoro”, tagliai corto ingoiando a vuoto. Rodrigo rimase immobile a fissarmi
ancora per qualche minuto, poi distolse lo sguardo e andò ad accogliere i primi clienti.
Alessandro Del Gaudio è nato a Torino nel 1974. Ha pubblicato i romanzi: Il candore dei
ciliegi (2001), Lungomare (2002), Italoamericana (2005), Le note di Nancy (2009), Aziza
(2011) e Aurora d’Inverno (2012), Metallo d’Ombra (2012) e Lacrima d’Ombra (2014). È
autore di un’antologia di racconti - Luna all’alba (2004) - e ha pubblicato due saggi: L’identità segreta (2008), Kyoko mon amour - Vent’anni di manga giovanili (2009), editi da Il Foglio Letterario. Sempre per lo sdtesso editore - nel 2013 - ha curato l’antologia di racconti
fantastici Tonirica. Nel 2015 ha pubblicato per la casa editrice Sereture il romanzo Il tuo nome in versione ebook. Collabora con il circolo letterario Letture Corsare di Borgaro Torinese e con la rivista Nuovo Progetto, come curatore della rubrica di fumetto.
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Solo quattro bracciate
di Nicola Pera
Non sembrava uno scherzo e non lo era, ma, se dovevo provarci, era quello il momento giusto. Erano giorni che non succedeva nulla e, nei discorsi in giro per il paese, dicevano tutti
che il fronte si fosse spostato verso Nord, anche se non si capiva se erano parole dettate solo
dalla speranza. L'unica cosa certa era che di tedeschi, a sorvegliare la riva e il ponte, se ne
vedevano sempre di meno e quelli arrivati per ultimi avevano l'aria stanca di chi una guerra
non aveva nessuna voglia di farla.
Quando mi sono convinto che si potesse scendere verso il fiume, mi sono confidato con Andrea. Volevo provare ad attraversarlo a nuoto e andare a trovare la mia ragazza che era rimasta dalla parte degli americani. Erano mesi che non avevo sue notizie e stavo impazzendo per
questo. Lui ha detto subito che la mia idea era una stupidaggine ed era meglio lasciare stare.
Ma io non mi sono lasciato scoraggiare, sono un buon nuotatore ed ero convinto che, con
quattro bracciate, potevo arrivare sull'altra riva. Gli ho mostrato anche il coltello che mi ero
procurato, perché per rivederla ero disposto a tutto, anche a uccidere.
All'ora che avevo stabilito, sono scivolato fuori di casa. Fuori la notte era tiepida e il mio
piano semplice, semplice. Arrivare al fiume e attraversarlo senza farmi vedere. Non era un
problema aggirare il coprifuoco, per le strade non c'era nessuno e io sapevo come non farmi
notare. Il difficile sarebbe venuto una volta in acqua, perché se qualche soldato mi vedeva
ero sicuro che mi avrebbe sparato.
Avevo in mente un punto dove la corrente era più lenta e pensavo non ci fosse nessuno a sorvegliare. Sono strisciato lungo la golena erbosa per arrivare vicino alla riva e ho aspettato
qualche minuto per essere sicuro che non mi avessero notato. Mentre mi stavo levando i vestiti ho sentito dei passi alle mie spalle e mi sono immobilizzato in mezzo alle canne. La sentinella che mi camminava vicino sembrava più stanca che attenta e io non respiravo nemmeno per non farmi sentire, mentre stringevo in mano il coltello con l'idea che, se si girava in
quell'istante, lo avrei usato per tagliargli la gola.
Sentivo i suoi passi sulla ghiaia delle sponde e, mentre mi passava davanti, pregavo solo che
non si voltasse. Fumava guardando la corrente e pensando ai fatti suoi, più o meno come avrei fatto io se non avessi nulla da fare e sono quasi sicuro che, se avesse potuto, si sarebbe
messo a pescare. Poi ha tossito, ha buttato via la sigaretta nell'acqua scura e si è girato verso
di me con il fucile spianato.
Io ero a un paio di metri da lui, mezzo nudo e con in mano il mio ridicolo coltello. Mi ha
dato un'occhiata tenendomi sotto tiro e ho alzato le braccia, pensando che fosse arrivata la
fine. Nell'ombra dell'elmetto vedevo i suoi occhi chiari. Non aveva l'aspetto di un ragazzo,
poteva avere l'età di mio padre. E io, forse, quella di suo figlio.
Ha abbassato il fucile, ma sono rimasto immobile con il coltello in mano e allora ha rimesso
l'arma in spalla e mi ha fatto un cenno con la testa, come per farmi passare. Sono entrato in
acqua mentre lui mi guardava nuotare. Quando sono stato all'altra riva mi sono voltato e ci
siamo salutati.
Nicola Pera (Livorno, 1961), diploma Accademia di Belle Arti di Firenze, studia informatica e web design, collabora con la casa editrice Editions Mille et Une Nuits. Riprende a scrivere da qualche anno, frequenta il laboratorio di scrittura QWERTY a Livorno e pubblica in
Galileo vs Modì (Historica, 2013), RisoMare (Erasmo, 2013), Scritto Misto (Erasmo, 2014),
Piombinoir (Il Foglio, 2015), Déathlon (Erasmo, 2015) e SEX GRINDHOUSE (Il Foglio,
2015). Nel 2014 vince il concorso ObiettivoLibro e pubblica con Edizioni SensoInverso il
suo primo romanzo (La fine del tempo). Nel 2015 pubblica con Edizioni Il Foglio la sua prima raccolta di racconti (Acque sporche).
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“Attenti Dotto’ che San Pietro sta cor capello !”
di Patrizio Avella
In Piazza Campo de’ Fiori, Guido Gian si era addentrato nelle corsie delle bancarelle del mercato
dalle quali provenivano profumi di ciuffi di basilico fresco, fragranze di rosmarino ed effluvi di
formaggi che lo “teletrasportarono” in un paesino dell’Abruzzo. Salutò, gioviale, gli ambulanti
intenti a urlare. Al centro della piazza troneggiava, malinconico come il destino, la statua cupa di
Giordano Bruno, filosofo giudicato miscredente dalla Santa Inquisizione e condannato al supplizio
dei malviventi, sorte riservata ai trasgressori della Legge. Guido lo salutò, come faceva ogni volta
che gli passava davanti, quasi fosse un amico, il suo unico amico.
«Nemico di ogni Legge, e di ogni Fede!»
Ma la statua non gli rispose. Guido la scrutò, deluso, ringraziando Mussolini di essersi opposto alla
sua distruzione imposta da papa Pio XI. Gian abitava da poco nell’ attico di un vecchio palazzo del
quartiere in pieno centro storico, vicino al Senato e al suo caffè. Malgrado l’aspetto vetusto della via,
gli interni erano ornati con pavimenti di marmo di Carrara, colonne di gesso che imitavano quelle
antiche, e c’era una grande terrazza alberata che offriva una vista panoramica sul colle verdeggiante
del Gianicolo. Il proprietario precedente era un usuraio giustamente noto come Er Cravatta, perché
strangolava i debitori con interessi esorbitanti. Fu tradito dalla sua avarizia, quando fece l’errore di
tagliare con del lattosio la droga che spacciava per proprio tornaconto. Alcuni giovani tossici ne
avevano subito le tragiche conseguenze. Questa pessima immagine conferita alla «Professione» non
fu apprezzata per niente. I malviventi che non rispettavano la «mentalità della Malavita», dovevano
rendere conto al capo della Banda, Franco Marcantonio, un cafone soprannominato Er Negro, per il
muso abbronzato. Per regolare i conti, il capo invitò Er Cravatta a confessare, durante una
passeggiata notturna in auto lungo i golfi limpidi del mediterraneo. La mattina seguente, in una
spiaggia deserta di Ostia, l’usuraio fu ritrovato carbonizzato nel cofano della sua vecchia Lancia. La
legge della Mala è intransigente e la sua giustizia più efficiente di quella della Repubblica. Quando
un membro sgarra, l’offesa viene punita all’istante. La Malavita non apprezza l’anarchia. È una
società con delle regole primitive che rispetta le gerarchie, con un a capo un pezzo grosso che funge
da “giudice istruttore” e che prende le decisioni scegliendo punizioni adeguate, compresa a volte la
pena di morte. Er Negro si appropriò dell’appartamento e dei beni del defunto, come risarcimento.
Con un gioco di prestanomi, lo affittò a Gian con legale contratto.
Er Negro, capo potente e autoritario, regnava sulla Malavita del quartiere di Trastevere. Ma di fronte
alla mancanza di coordinamento dell’organizzazione, contattò Gian, un membro dell’Arma corrotto
fino all’osso, che aveva già partecipato a qualche transazione con la Mala. Questo intellettuale era
riuscito a convincerlo che Roma era una terra di conquista dove non erano presenti le grandi
organizzazioni mafiose, come ad esempio quelle napoletane, calabresi e Siciliane. Uniti, Er Negro e
Gian avevano stabilito una strategia di potere. Le alleanze o le eliminazioni delle varie bande romane
erano finanziate dal mercato della droga in forte crescita. Er Negro diventò il capo di Roma e quelli
al comando degli altri quartieri, i suoi vassalli. Da quel momento, tutti cominciarono a pagare il
pizzo a Er Negro. Guido Gian, malgrado la reticenza dei membri della Banda, impose un nuovo
sistema di spartizione: la grana. Questo sistema democratico ed egalitario di condivisone permise una
pax romana fra tutte le Bande. Tutti dividevano i propri profitti con gli altri, in modo equo. Se un
capo o il membro di una squadra veniva imprigionato, tutta la malavita lo aiutava con denaro e
viveri, e a nessuno mancava nulla. Tale intesa moltiplicò i guadagni. Guido venne “affrancato” dalla
Malavita e soprannominato Pepe Er Tosto. Per ogni lavoro, oltre al suo compenso, Gian beneficiava
dei servizi di una guardia del corpo che proteggeva anche il marchese. Alcuni membri colti e
provenienti dalla borghesia accettavano a malincuore la presenza del carabiniere: lo consideravano
un traviato.
L’ingresso dell’appartamento era pervaso dai profumi della cucina. Appoggiò l’uniforme nel vis-àvis e si sistemò i capelli di fronte all’anta a specchio. Riconobbe il profumo del sugo alla puttanesca.
Quell’odore risvegliò nelle sue papille il vero sapore della cucina casereccia, quella verace. Si
rallegrò per non aver licenziato l’anziana Addolorata Rosolis, detta Dora, la governante del
compianto Er Cravatta. Era una vera mamma napoletana, furba e scorbutica, …ma una cuoca
eccellente!
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«Ueh Diretto’! Siete lloco sié?»
«La tavola è apparecchiata? C’ho ‘na fame!»
«Ah vuie! Site venute finalmente?»
«Sissi ! Mi son liberato presto…»
«Ve potete pure assettà sul terrazzo.»
Mentre si sedeva per gustare gli squisiti spaghetti, la volle avvisare di andare dal« tajere », il sarto, a
ritirare l’uniforme per il ricevimento. Tacque e aggrottò le sopracciglia per sentire meglio il brontolio
della donna.
«Uh, mannaggia! E addo’ sta?»
«Qui vicino, a Campo de’ Fiori… accanto al fornaio, fronte vicino a…» tentò invano di spiegarle.
«Neh! E chi lo sape?»
«Ma...e va bene lasciamo perdere...va fà chello che haie da fà… sbriga le tue faccende» rispose il
padrone di casa, scoraggiato da tanta cattiva volontà.
«Vabbuo’, dimanne iammo ! Ve servo u secundu mo ?»
« Aho, Dora un momento che sto ancor ar primo»
«Jamme, facite presto! E col dolce Le piacene li cannuli a la siciliana ?»
«Assai! Assai ! Mah ! Mi lascia respira mo !»
Ogni volta che la governante gli cucinava quei manicaretti, Gian sapeva che sarebbe stata di cattivo
umore per la stanchezza. E lui, gustandoli, ogni volta le perdonava tutti i discorsi irriverenti. Dopo il
dolce di ricotta, sazio di tutti quei sapori napoletani, si concesse un bicchierino di amaro, il Nerone, e
approfittò della terrazza ombreggiata. C’era una vista magnifica, i cipressi si stagliavano
all’orizzonte. Ispirato, decise di rilassarsi su una sdraio per favorire la digestione. Era in pace con se
stesso e con il mondo. Si sistemò comodamente « pè ‘na bella pennichella romanesca»!
«Ah vuie! Attenti Dotto’ che San Pietro sta cor capello ! » mugugnò la governante.
Sentendo le campane della Basilica, considerò la prospettiva del « Cupolone » che troneggiava
lontano sotto un caldo soffocante. Decise di proseguire la siesta, nonostante tutto. Ma Dora aveva
ancora ragione. Da lontano giungevano le nuvole nere del temporale.
Patrice Avella - Testo tratto dal romanzo Piazza Fontana, Il Foglio Letterario, 2016 (in
uscita). Primo volume della trilogia Caffè Sangue un thriller ispirato della strage di Piazza
Fontana di Milano negli anni 69 e l’inizio degli anni di piombo in Italia. Autore francese che
vive in Toscana, nella Maremma da un anno. Questo romanzo scritto in francese col titolo
Rome Criminelle ha ricevuto Le Prix du Livre Européen et Méditerranéen de la Fondation
Jean Monnet nella categoria Roman et cinéma nel 2012 a Parigi. Traduzione dal francese di
Chiara Seri.
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Il treno del Sole
di Gianfranco Benedettini
Avevo accompagnato Romeo Fusca a casa sua ed ora tornavo alla mia. Ero salito su un treno che
portava un nome solatio, che suggeriva un’idea di omogeneità, di velocità e, nella specie dei suoi
frequentatori, un che di esotico e di dominante: era la “Freccia del Sud”. Un treno lungo che, a Messina, sarebbe divenuto lunghissimo: dodici carrozze ordinarie e due vagoni letto.
Le scene che più mi colpirono, fin dal principio, erano quelle patetiche che accadevano sulla banchina. Stentavo a passare per l’ingombro che vi facevano filze e mucchi di valigie, la maggior parte di
qualità scadente, gonfie da scoppiare, perciò legate con doppio e triplo giro di cordicella da imballaggio. Poiché ad ogni filza o mucchio, appariva interessato un solo viaggiatore, mi veniva da pensare che egli avesse vuotato la propria casa e che se la portasse dentro impaccata.
Chi partiva, generalmente, era giovane, indossava un vestito nuovo con pantaloni che smagrivano
verso la caviglia, calzava mocassini di pelle zigrinata oppure scarpine di un vivo giallo ocra, aveva
il volto insolitamente raso, una sciarpa intorno al collo, in testa un berretto con visiera molle che
gettava un’ombra su un’espressione un po’ contratta. Intorno gli stava un fitto stuolo di parenti, che
reggevano sporte, fiasche, involti di cibarie.
Una vecchia, la madre, già lacrimava. Le sorelle si guardavano intorno frastornate dalla curiosità e
dall’emozione, gli uomini, avendo già detto tutto, tacevano assorti. Questo quadro si ripeteva, con
poche varianti, ogni paio di metri del lungo marciapiede.
Ad un tratto i gruppi si animarono, si confusero in un affannoso disordine per il lento avvicinarsi del
convoglio che rinculava sul binario di partenza. Si vedevano uomini che lottavano a testa bassa per
raggiungere con un piede il predellino, altri correre in su e in giù con fagotti e valigie da issare al
partente ricomparso, con aria vittoriosa, al finestrino, i ferrovieri incalzavano perché la Freccia era
già in ritardo. Nella folla degli accompagnatori risuonavano esclamazioni e singhiozzi, spuntavano i
fazzoletti dell’addio. Come il convoglio si mosse, il marciapiede popolato ondeggiò, s’incolonnò, si
mise a marciare, era una marcia ineguale, i giovani sopravanzavano i vecchi rimasti immobili a
guardare in avanti, i più lesti già correvano fuori della massicciata, sul ciottolato unto e nero, ripetendo gli ultimi gesti. Mi ritrassi e sedetti quasi con vergogna nella cabina di prima classe tutta luccicante di bardature: la comodità quando sovrabbonda in modo sfacciato, mi ha sempre cagionato
un certo disagio morale. Come cittadino, che aveva pagato il biglietto, potevo anche considerare
assurda quella punta di rimorso, nondimeno la sentivo nei confronti di chi aveva concepito quel treno dal nome enfatico e dalla composizione così maliziosa, atta a sottolineare un contrasto sociale.
Era la dimostrazione, sulle rotaie, del problema del Mezzogiorno e del nessun scrupolo di celarlo
agli occhi del forestiero.
Quelle scene si ripeterono su su fino a Salerno. Il Mezzogiorno emigrava come alla vigilia di uno
sbarco di saraceni. Ad ogni stazione gli agenti della Polizia Ferroviaria riuscivano a chiudere gli
sportelli solo dopo averli spinti con forza contro i lombi degli ultimi arrivati. Mi venne da pensare
alle acciughe che venivano inscatolate a Venturina, in Caldana. Eppure, molti rimanevano a terra
con le loro valigie gonfie e con lo sguardo intontito.
Fui avvertito dal bigliettaio che, per raggiungere la carrozza ristorante, mi conveniva scendere a Paola e salire sopra dall’esterno e così feci. Dentro ci ritrovammo in pochi, ognuno poteva disporre di
un tavolo. Ero il più giovane e gli altri mi guardavano con una certa curiosità e ciò mi infastidiva.
Intanto, il treno aveva ripreso la propria marcia, lenta, influenzata da curve e controcurve e già si
riaffacciava il problema di come raggiungere il proprio posto.
Il “maitre”, sopraggiunto per riscuotere, consigliava Sapri dove il treno si sarebbe fermato un minuto ma avrebbe raddoppiato ed anche triplicato la sosta. Mi sembrava di essere Carlo Pisacane. La
prossima sarebbe stata Salerno, dopo due ore. Ripassavo mentalmente le tappe percorse dai Mille di
Garibaldi.
Stetti un po’ perplesso poi decisi di attraversare le dodici carrozze.
“Dove vuole andare?” cominciarono ad apostrofarmi. “A raggiungere il mio posto” rispondevo e
sentivo ancora quel senso di vergogna che veniva dal fatto che avevo per me una cabina con tutti i
comodi.
Le carrozze erano così zeppe che, un tratto di corridoio ove si passava fra una fila di valigie alta fino
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al finestrino ed un’altra di siciliani e di calabresi insardellati contro le portiere, mi faceva pensare, di
nuovo, alla “fabbrica” del pesce di Venturina..
Viluppi di esseri addormentati occupavano i terrazzini davanti ai gabinetti ed erano così tanti che
non si riusciva a scorgere il colore del pavimento.
Dovevo rimuovere gambe, destare dormienti, scavalcare corpi, pestare piedi, contorcermi, lasciarmi
issare per le ascelle sopra cataste di bagagli.
Sostando per riprendere fiato domandavo :”Dove andate?”.
La risposta era univoca: “In Svizzera”.
Non era vero. Tutti scendevano a Milano, solo quelli provvisti di contratto di lavoro proseguivano
per Chiasso o per Brega; i più scomparivano nella metropoli inghiottiti dal perimetro della ricchezza
nazionale, Lombardia, Piemonte, Liguria allargando le periferie intorno alle città.
Il miraggio del nord-ovest (il Veneto, regione depressa, non vi era compreso) agiva sugli animi oppressi dalla miseria come quello della California e dell’Alaska ai tempi della corsa all’oro.
Facevo progressi nella mia marcia di avvicinamento e già ero giunto alla fine, quando mi fecero segno che non si poteva più proseguire.
Il conduttore aveva chiuso le carrozze di prima classe affinché non fossero invase. Rimasi allibito: il
conduttore era venuto a Paola e non si era più fatto vedere.
Stavo stretto fra i corpi, le parole mi arrivavano prima come fiato e poi come suono, mi pareva di
indovinare una sottile gioia vendicativa in quel potermi trattenere come ostaggio di una classe sociale.
Domandai che cosa sapevano fare e perché avevano lasciato i loro paesi.
Erano contadini, dicevano di saper far tutto e lasciavano la terra perché non valeva niente: si lavorava per mangiare e non per pagare le tasse!
Un vecchietto mi chiese se mi sembrava giusto far viaggiare dei cristiani in quel modo. Non era giusto ma non detti corda.
Finalmente arrivò il controllore, giunse perché doveva mangiare e non per dovere, ma fu un gran
bene, almeno per me.
Appena in cabina, stetti alquanto a pensare. Grazie alla bislacca composizione di un treno avevo sentito farsi dramma il problema del Mezzogiorno.
Allora, mi ricordai dei libri di Gaetano Salvemini, di Manlio Rossi-Doria e di Ignazio Silone, che mi
aveva consigliato il mio amico Romeo Fusca, un giovane del Sud.
Gianfranco Benedettini, nato il 10 marzo 1940. Diploma di scuola superiore. Dirigente dell'azienda sanitaria
locale in pensione. Consigliere comunale dal 1970 al 1985 e dal 1990 al 1995 del Comune di Campiglia M.ma.
Assessore dal 1973 al 1980 e dal 2011 al 2014. Promotore e fondatore di molte associazioni sportive e culturali
del territorio. Autore di numerose pubblicazioni sulla storia della Val di Cornia. Ha collaborato a Storia popolare di Piombino di Gordiano Lupi.
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Ricordi d’una Piombino perduta
PIOMBINO COM’ERA - PERSONAGGI PIOMBINESI
Il nuovo libro di Franco Micheletti
Franco Micheletti ci ripropone una carrellata dei suoi personaggi, quelli che compongono la storia con la esse minuscola, in fondo la vera storia di una comunità, alcuni figli d’un Dio minore, altri sciroccati di provincia, altri ancora
piccoli furfanti, dandy, cantanti, attori, pugili, o più semplicemente tipi strani. Un Amarcord felliniano, questo libro
di Micheletti, che ci racconta come e quanto sia cambiato il nostro angolo di provincia, sempre più spersonalizzato,
sempre più uniformato ai gusti nazionali, sempre meno dotato d’una specificità culturale. Piombino è meno globalizzato di altri luoghi, per fortuna, ancora riesce a salvare qualcosa di soltanto suo, vuoi per la posizione geografica quasi da isola - che lo tiene distante dai grandi centri, dai luoghi vitali e produttivi. Nonostante tutto il tempo passa e
le cose cambiano, i gelati non hanno il sapore d’un tempo, a volte sanno di rimpianto, le bocche di leone sono fredde
madeleines del passato, ricordano in un sol boccone quel che siamo stati, ma i profumi non restano, lo zucchero non
è lo stesso, la meringa neppure. E allora fa bene Micheletti a fermare il tempo e ad accendere la radio dei ricordi,
l’aveva già fatto in passato con Cronache maremmane, Piombino in bianco e nero, Piombino tra storia e leggenda,
ci riprova adesso - con maggiore efficacia - tornando in groppa al suo cavallo vincente: i personaggi. Non mi dilungo
sui molti di cui ha già parlato e che leggerete nelle prossime pagine, illustrate dalla matita di Elena Migliorini
(autrice di una splendida copertina), ma aggiungo qualche nota su alcuni personaggi che hanno fatto parte del mio
passato di bambino dei primi anni Settanta.
Tre persone guardavo un po’ allibito: Fabio, Ferruccio e Sabatino. Personaggi, a modo loro, ché me li vedevo scorrere davanti come protagonisti del mio film neorealista, della mia commedia felliniana di cui ero semplice comparsa,
al massimo un caratterista alla Alvaro Vitali. Loro no. Erano nei titoli di testa. Fabio percorreva ogni giorno la città a
tutta velocità in sella a un motorino scassato, faceva il radio amatore, perso nei suoi pensieri, se gli rivolgevi la parola rispondeva sempre le solite cose, in compenso lanciava messaggi nell’etere. Non era cattivo, Fabio. Viveva nella
sua realtà, rischiava di travolgere chissà quante donnine con le borse della spesa per la velocità folle con cui sfrecciava su quel motorino d’epoca. Piccolo, tarchiato, baffetti alla Hitler, modi bruschi ed essenziali. Sabatino, invece, era
una specie di nano dalla testa grossa, pure lui un bonaccione, ma da piccolo mi faceva paura, per quel suo aspetto
truce e un po’ trasandato. Parlava a scatti, tartagliava, o meglio farfugliava sempre le solite cose, ma era un personaggio della corso Italia d’un tempo, di piazza Dante, era impossibile non incontrarlo per le strade della Piombino
vecchia. Ferruccio, infine, è il mio ricordo più distinto, capelli rossi e parlottare a scatti, come una raffica di mitraglia, non molto amico di Sabatino, anzi proprio per niente. Ferruccio a suo modo era un tipo colto, ché passava le
giornate al cinema, di solito al Sempione, ma lo potevi vedere anche al Metropolitan, dare una mano al mercante di
lupini e poi accomodarsi in sala, soprattutto quando passavano film erotici, oppure spettacoli di cinema e rivista.
Ferruccio è rimasto nella piccola storia cittadina perché quando lo incontravi non potevi fare a meno di chiedere:
“Ferruccio, quanti film danno oggi al Sempione?”. E lui, pronto, ti rispondeva come una raffica di mitraglia: “Due!
Due! Due! Due!”. E già perché il vecchio cinema Sempione, palcoscenico della nostra fanciullezza, sul finire degli
anni Sessanta ma anche nei primi Settanta, dava sempre due spettacoli. Altri tempi. Entravi poco dopo pranzo e uscivi a ora di cena, dopo aver mangiato semi e cinema per tutto il pomeriggio, tra un’indigestione di duri alla menta
conditi da Ercole e la regina di Lidia e un Fra’ Diavolo con Stanlio e Ollio che si perdeva in un groviglio di stringhe
alla liquirizia. Vecchio e indimenticabile Cinema Sempione che ci andavo con mia nonna, innamorata del cinema dai
tempi del neorealismo rosa. Pane amore e Sempione, parafrasando il titolo d’un vecchio film.
Personaggi ce ne sono stati tanti, alcuni hanno attraversato lo spazio d’una stagione, altri si sono fermati nel tempo
ed è giusto conservarne la memoria storica in un libro che è una sorta di pensiero rivolto al passato. E allora tra questi voglio citare anche Antonio Bindani, detto il Bersagliere, perché non si fermava mai, aveva quasi ottant’anni e
camminava senza sosta per le strade d’una Piombino che conosceva a menadito. Era mio nonno. Non c’era luogo che
non avesse frequentato e che non conoscesse, è stato lui a farmi scoprire questa città, presentandomela dall’alto dei
Tre Pini, verso Villa Marina, che non c’era ancora. Ecco perché quando ascolto le note malinconiche de Il vecchio e
il bambino di Francesco Guccini mi viene a mente lui che mi tiene per mano, anche se le sue favole non erano tristi e
le sapeva raccontare bene. Parlava di Seggiano, della montagna abbandonata per andare in America a far fortuna,
della Grande Guerra combattuta, d’una lunga prigionia, della fuga dall’Austria e del ritorno in patria quando tutti lo
credevano morto. Era Cavaliere di Vittorio Veneto, uno dei pochi superstiti, teneva quel diploma e quella medaglia
come un dono d’amore, anche se non volevano dire denaro e gloria, ma solo sofferenza. Pure mio nonno è stato un
personaggio di un tempo passato, come tanti nonni e nonne delle nostre famiglie, impegnato a combattere i tedeschi,
a fare l’interprete in fabbrica per gli americani, perché sapeva l’inglese. E dopo la Seconda Guerra Mondiale una vita
normale, una moglie, una figlia, una storia da raccontare ai nipoti, perché in fondo è vero che il più grande atto di
eroismo è vivere.
Piombino com’era, è il titolo più adatto a questo Amarcord lieve e soffuso di nostalgia che Franco Micheletti regala
ai suoi concittadini perché niente vada perduto, perché il passato resti insieme a noi, a futura memoria. Come ho già
scritto da qualche parte, se vivere di ricordi fa morire in fretta, vivere con i ricordi è bellissimo, ti riempie il cuore
d’una struggente felicità. (Gordiano Lupi)
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Dada
di Simone Colombo
Ci misi… non so quanto, ma alla fine il sole inondava di una luce nebbiosa il bagno. Forse addirittura
un paio d’ore.
Non ho mai avuto un buon rapporto con lo specchio, non sono mai stato coordinato e la mia immagine riflessa mi ha sempre disorientato. Proprio come quella mattina.
Non so cosa mi prese, forse semplicemente persi qualcosa o, dipende dai punti di vista, ottenni qualcosa. Forse persi la ragione o forse guadagnai una consapevolezza superiore. Usai il vecchio rasoio
elettrico di mia moglie, o meglio, la mia ex-moglie, quello con cui era solita rapare in modo orribile i
nostri figli… cosa stavo dicendo?... ah, ok… quella mattina presi il rasoio elettrico e mi tosai per bene la testa, davanti allo specchio del bagno, aiutandomi con un secondo specchio portatile, perdendomi nel tortuoso mondo della decorazione scalpica (si dice scalpica?).
Ci misi due ore per rasarmi la testa in modo che una zolla di capelli a forma di stella spiccasse sul
mio cranio nudo, messo a dura prova dalla mia incapacità di muovermi correttamente osservando la
mia immagine speculare.
In qualche modo riuscii a finire, ad un orario sconosciuto. Ero rimasto così a lungo concentrato sulla
mia testa che quando ritornai a guardarmi attorno persi l’equilibrio e piombai a terra. Mi rialzai con il
bisogno di respirare aria fresca e uscii di casa senza pensarci. Indossavo un paio di jeans vecchi e una
canottiera, ma non ricordavo di essermeli messi. Tuttavia in quel momento il mio problema più grande, quello a cui avrei dovuto pensare se la gravitazione terrestre me ne avesse dato il tempo, era il
primo gradino della scala che scendeva dal mio pianerottolo. Non me ne accorsi e persi di nuovo l’equilibrio, rotolando rovinosamente fino al piano terra.
Mi rialzai, malconcio, per la seconda volta in pochi minuti ed uscii in strada, dove vidi quello zombie
che altro non era che la mia immagine riflessa sulla vetrina di un negozio.
Un bel esempio di “vedere se stessi nella merce”. Ovvero il prodotto di quel quotidiano comprare,
usare, sprecare che ci riflette nella misura in cui crea e accetta la nostra identità. Ciò che ci siamo
fatti diventare.
Non ero ubriaco né drogato quella mattina, ma lo zombie che vidi mi piacque da impazzire: i pantaloni erano lisi e spiegazzati (probabilmente ci avevo dormito), la canottiera giallognola di sudore esalava un odore palpabile (potevo vederlo riflesso nella vetrina!); il viso, smagrito e impallidito da una
dieta casuale e per lo più take-away, metteva in risalto due splendide occhiaie viola scuro, forse marroni, che a loro volta nascondevano gli occhi, che dopo un’intera vita finalmente intravedevo brillare
per la prima volta. Causa: sconosciuta. Forse erano solo i neon del negozio che si mischiavano al riflesso; la testa rasata con la stella in rilievo era la new-entry nella hit-parade dei motivi per non aver
nulla a che fare con me e ora che un bel taglio, procuratomi in una delle cadute, lasciava colare un
liquido che non avrei osato definire sangue, la nuova entrata in classifica scalava posizioni su posizioni, superando in squisitezza la trasparenza cadaverica della pelle, la presenza solitaria di un’unica
ciabatta ai miei piedi, l'abbigliamento sciatto, fermandosi al secondo posto, senza possibilità alcuna
di scavalcare la mia espressione da larva, senza forma ma trionfalmente fastidiosa.
La mia immagine era l’unica ad affascinarmi, in mezzo ai riflessi dei passanti, così mostruosamente
umani, incredibili nel senso che era impossibile credere che l’evoluzione avesse generato creature del
genere; più plausibile l’ipotesi che quelle persone fossero state partorite in tempi primordiali direttamente in quella forma, con quei vestiti e con quella città attorno.
Io ero eccezionale, l’eccezione a conferma di un'assurda regola lampante di fronte ai miei occhi ma
non al mio cervello, e quindi inafferrabile, impossibile da comprendere.
Simone Colombo (1984), vive a Bologna, laureato in Storia dell'Arte Contemporanea e lavora nel
campo della comunicazione. Affianca alla passione per la scrittura quella per la fotografia e la grafica. In uscita con Il Foglio Letterario il suo romanzo d'esordio: Radio Heads.
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Agata Matteucci
LE TERRIBILI LEGGENDE METROPOLITANE
CHE SI TRAMANDANO I BAMBINI
Copertina flessibile: 128 pagine
Editore: Nicola Pesce Editore (3 dicembre 2015)
Lingua: Italiano - Prezzo: € 9,90
In vendita nelle fumetterie, da Feltrinelli e nelle librerie online.
Una serie di vignette per illustrare i falsi miti a cui tutti i bambini hanno creduto, almeno per
un po’ di tempo. «Se mangi i semi del cocomero te ne cresce uno nella pancia!», «Nell’acqua del water ci sono i serpenti!», tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo avuto qualcuno accanto, un nonno, una nonna (o addirittura il papà e la mamma) che ci
hanno ripetuto almeno una di queste frasi. Chi non ci ha creduto e ripensato a lungo? Ammettetelo e fate insieme a noi un tuffo nel passato con questo volume.
Le terribili leggende metropolitane che si tramandano i bambini è articolato in una serie di
vignette che illustrano i falsi miti a cui, per un motivo o per l’altro, abbiamo ciecamente creduto durante la nostra infanzia. Vignette che sulla omonima pagina Facebook stanno spopolando tra bambini e genitori, anche se qualche volta si incontra qualche genitore che crede
fermamente che «Se guardi la televisione da vicino ti si bruciano gli occhi!»e qualche bambino crede altrettanto fermamente che «Ognuno di noi ha un sosia nel mondo e se lo incontri
poi muori.»
Dai mille divieti più o meno infondati, alle credenze popolari tipiche di ogni regione e paese,
fino agli aneddoti e alle leggende tramandate di generazione in generazione, come quella,
per esempio, che «se ti viene la febbre cresci più in fretta», «se fai il cattivo viene l’uomo
nero», Agata Matteucci li ripercorre tutti con ironia e sarcasmo. Il suo tratto è semplice e i
suoi colori intensi, una piccola festa per gli occhi.
AGATA MATTEUCCI nasce a Ravenna nel 1982, vive a Bologna dove lavora come
designer creativa in un’agenzia di comunicazione e pubblicità e come fumettista e illustratrice.Nel 2002 crea Leo & Lou, un fumetto a tavole autoconclusive a sfondo 'comicoesistenzialista'. Nel 2003 si trasferisce a Los Angeles, dove frequenta la UCLA per un anno
e porta a termine uno stage di graphic designer e webmaster con la rivista antiproibizionista
"HighTimes". Nel 2005 è tra i tre fumettisti segnalati del Festival Iceberg 2005. Nel 2009
pubblica il libro-raccolta Leo & Lou per la casa editrice Il Foglio Letterario. Nel 2012 coordina un collettivo di 20 artisti che autoproduce il libro 12/24/36 – Reality draws, una raccolta di storie brevi a fumetti. Nel 2013 vince il primo premio Take... Action! 2013, concorso
per giovani videomaker indetto da AIL per l’ideazione e realizzazione di uno spot animato
di sensibilizzazione sulla lotta ai tumori del sangue. Nel 2014 diventa giornalista pubblicista
e dottoressa magistrale in Scienze della Comunicazione. Dall'inizio del 2015 pubblica vignette satiriche sul sito dell'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna. ll suo ultimo progetto è il web comic (da cui è nato il libro raccolta edito da NPE) "Le terribili leggende metropolitane che si tramandano i bambini"
In questo numero pubblichiamo la copertina del volume e due tavole estratte dall’albo.
Ricordiamo che Agata Matteucci ha pubblicato per Il Foglio Letterario l’albo Leo & Lou,
ancora disponibile al prezzo di euro 10. Un’altra scoperta della nostra piccola ma attiva casa
Editrice fieramente UNDERGROUND.
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PICCOLI AUTORI CRESCONO
L’ultimo giorno d’estate
di Laura Lupi
L’ultimo giorno d’estate, addio spiaggia, addio mare. Da domani inizierà un anno lunghissimo che
può sembrare infinito, da domani il cielo si colorerà di grigio e i genitori andranno di nuovo a lavoro.
Noi bambini ritorneremo a scuola e tutti riprenderanno una vita normale, calma, con poche avventure, piena di tristezza e di cappotti. Mi sembra già di sentire le mamme raccomandarsi: “Abbottonati,
altrimenti prenderai il mal di gola!”. Addio gelati squagliati e granite rovesciate sui costumi che devi
andare in mare altrimenti diventi un ghiacciolo. Addio abbronzatura che arrivi a casa e credi di avere
la pelle ambrata, invece sei rossa come un peperone. Il mio ultimo giorno d’estate dello scorso anno
lo ricordo con dispiacere. Come ogni pomeriggio mi recai sulla spiaggia di Salivoli, ma a un certo
punto mi accorsi che intorno a me non c’era anima viva. Andai di corsa dalla mamma, guardavo il
mare con tristezza, i sassi abbandonati accanto a buche scavate per mettere gli ombrelloni e le alghe
che invadevano la spiaggia. Si sentiva nell’aria l’odore dell’autunno e sembrava che il vento portasse
via con sé l’estate, spingendola verso paesi più caldi. Mentre lasciavo la spiaggia mi sembrava di
rivedere i bambini che giocavano con la sabbia, i secchielli e le palette. Purtroppo era soltanto un
sogno, un triste fantasma della mia malinconia: da domani saremmo tornati a scuola!
Laura Lupi è nata a Piombino, il 16 novembre 2006. Vive a Piombino, frequenta la quarta elementare. Appassionata lettrice di Topolino e di fiabe. Ama le filastrocche di Gianni Rodari, le canzoni di
Marco Mengoni e di Jovanotti. Il suo sport preferito è il nuoto; nel tempo libero le piace andare al
mare (è fortunata perché ha la spiaggia sotto casa) e scrivere piccoli racconti e poesie.
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Adriana Pedicini
Il sogno
Negli occhi di Nina vi era tanta luce e allo stesso tempo tanta tristezza. Anche lo sguardo
brillava, sì, ma di pianto represso. Aveva a lungo camminato per trovare l’amore. Non l’aveva trovato lungo le vie bianche di polvere del suo paese e sfinita, sul brecciame, nascosta tra
i roveti, spesso passava le sue notti insonni, sperando che passasse di lì un pietoso viandante
pronto a chinarsi e a portarla via con sé. La vita non va come la si desidera e questo Nina lo
sapeva. Molte volte un ardente desiderio di vita e di morte la coglievano a fasi alterne, ma
ella non morì, né visse immersa nella vita, piuttosto la sfiorava, almeno fino al momento in
cui una torbida ombra di sonno l’avvolse, pesante, velando i suoi occhi bruni fissi nel nulla.
Il treno correva veloce e il dondolio interrotto solo a tratti da brusche frenate favoriva il riposo tanto desiderato. Sentiva sulla guancia ora il freddo che dal finestrino semiaperto filtrava
impietoso, ora il respiro affannoso del suo vicino di viaggio. Nell’agitato stormire delle foglie degli alberi che si rincorrevano dal finestrino immaginava di sentire un rantolare di morte ma, a zaffate di vento più forte, coglieva il grido di vita, grido rauco, selvaggio. Sentiva
bisbigliare il suo nome: l’ombra greve di sonno e di sogni l’avvolse.
C’era il sole e in mille tonalità sfumava l’immensa distesa del grano. Leggeri e più bianchi
del cielo d’alabastro si levarono, accarezzati dal vento, due straordinari uccelli nella luce del
sole. Quel barbaglio d’oro bruciava gli occhi e l’aria primaverile sferzava forte le carni donando l’oblio dei sensi. Com’essi, anche Nina e il suo innamorato volarono e fuggirono: sparì la pianura, sparì il sereno del cielo. Passarono tra l’intrico dei rami e le fronde ricurve sfiorarono i loro visi, mentre gli sterpi e le spine graffiarono i corpi fino a farli sanguinare. Un
cupo tremore s’impossessò di loro tra il convulso agitarsi dei rami mentre fili di luce tra i
tronchi filtravano testimoni del loro amore. Ebbrezza di muti baci, delirio puro d’amore.
Altro tempo passò. Nina guardava il volto di lui e rideva, stridula e lieve, nella gola uno strano singulto di pianto, e gli occhi, specchiandosi gli uni negli altri, fondevano la luce di quella penombra. Il sole calò e i monti ambrati dileguarono in un profilo viola sotto le ultime
lontane strie rosate. Sui volti flutti di ombre viola e un dolce sopore nelle membra affaticate.
Il cuore pacato di entrambi cedette al sonno.
All’improvviso si sentì un tormentoso fruscio e più nulla; nell’ombra Nina vide o credette di
vedere solo un’ombra allontanarsi ma accanto a sé più nulla. Restò lì a spiare, rannicchiata
per la paura. Vedeva apparire tra gli alberi e poi svanire piccole bolle d’argento. Più volte
chiamò il nome del suo amato, ma le ritornava solo il roco fischio di un uccello notturno.
Allora prese una pietra e la scagliò contro l’ignoto uccello che con la voce crudele irrideva al
tormento del suo animo che aveva cercato di far sopravvivere l’ombra incolore di un amore.
Restò nel cuore soltanto la delusione, arida come nudo tronco che si staglia contro un cielo
intessuto di voli e di colori, mentre stringe disperatamente il nulla tra i rami ormai inerti.
Pianse, pianse tanto come bimbo che ha smarrito la via.
Tutto intorno c’era freddo fin quando al mattino il sole incominciò a pungere gli occhi tra le
palpebre socchiuse. Si stemperò l’amarezza, in quella strana fase del risveglio in cui rivisse
il suo sogno, avendo sulle gote ancora l’umidore del pianto. Si avvide attraverso la finestra
socchiusa che l’azzurro del cielo si confondeva con il biancore dei monti lontani e che il suo
uomo era lì, accanto a lei, con il capo poggiato sul suo seno. Con la bocca fremente inondò
le sue labbra di baci chiedendosi cosa mai volesse significare lo strano sogno che quella notte l’aveva assalita.
Adriana Pedicini ha pubblicato con Il Foglio Letterario I luoghi della memoria (2016).
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Riccardo Marchionni (Piombino, 1981), affascinato sin da piccolo dalla macchina fotografica e dal desiderio
di scattare foto. Frequenta un corso e a piccoli passi migliora la tecnica fotografica grazie al Fotoclub Il Rivellino. Da segnalare una mostra personale: Istantanee fotografiche, che ha riscosso un grande successo, e il contributo fotografico per il libro Miracolo a Piombino di Gordiano Lupi. Pagina Facebook: Riccardo Marchionni
fotografo, ricca di scatti. Nickname Marcatrice su Instagram. L’ultima di copertina e sua!
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