STAR WARS TRILOGIA DI THRAWN TERZO

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STAR WARS TRILOGIA DI THRAWN TERZO
STAR WARS
TRILOGIA DI THRAWN
TERZO VOLUME
L’ULTIMA MISSIONE
di Timothy Zahn
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CAPITOLO 1
Nelle buie profondità dello spazio, lo Star Destroyer imperiale Chimaera puntò la sua enorme
sagoma cuneiforme verso la pallida stella del sistema bersaglio, a tre millesimi di anno luce di
distanza.
E si preparò alla battaglia.
“Tutti i sistemi sono pronti al combattimento, ammiraglio”, li informò l’ufficiale addetto alle
comunicazioni dalla sala operativa di sinistra. “La squadra d’attacco sta iniziando i controlli”.
“Molto bene, tenente”, annuì il grand’ammiraglio Thrawn. “Mi avvisi quando avranno
finito. Capitano Pellaeon?”
“Sì?”, disse Pellaeon, scrutando il volto del suo superiore in cerca della minima traccia di
tensione. La stessa tensione che provava certamente anche lui. Quello non era il solito attacco
strategico alla Ribellione, dopotutto; non era un’incursione minore o un attacco lampo, complesso
ma abituale, contro un’insignificante base planetaria. Dopo quasi un mese di frenetici preparativi,
stava finalmente per cominciare la grande campagna di Thrawn, quella per la vittoria definitiva
dell’Impero.
Ma se il grand’ammiraglio era teso davvero, non lo dava certo a vedere. “Cominci il conto
alla rovescia”, disse a Pellaeon, il tono calmo come se stesse ordinando la cena.
“Sissignore”, rispose Pellaeon, rivolgendosi al gruppo di immagini olografiche in scala
ridotta che si trovavano di fronte a lui sull’oloproiettore di poppa della Chimaera. “In posizione di
lancio. Bellicose: tre minuti”.
“Ricevuto, Chimaera”, rispose il capitano Aban, senza che il suo contegno militare riuscisse
a mascherare la voglia di dare alla Ribellione una bella lezione. “Buona caccia”.
L’ologramma crepitò e svanì mentre la Bellicose alzava gli scudi deflettori, interrompendo
ogni comunicazione a lungo raggio. Pellaeon si rivolse quindi all’ologramma successivo.
“Relentless: quattro punto cinque minuti”.
“Ricevuto”, disse il capitano Dorja, chiudendo il pugno destro nel sinistro in un antico gesto
di vittoria dei Mirshaf, mentre spariva anche lui dall’oloproiettore.
Pellaeon diede un’occhiata al suo data pad. “Judicator: sei minuti”.
“Siamo pronti, Chimaera”, rispose il capitano Brandei, a bassa voce. C’era qualcosa che non
andava nel suo tono...
Pellaeon corrugò la fronte. Gli ologrammi di quella dimensione non erano molto dettagliati,
ma era comunque facile interpretare l’espressione di Brandei. Era quella di un uomo assetato di
sangue.
“Questa è una guerra, capitano Brandei”, disse Thrawn, avvicinandosi silenziosamente al
fianco di Pellaeon. “Non c’è spazio per la vendetta”.
“Conosco i miei doveri, ammiraglio”, rispose rigido Brandei.
Le sopracciglia nero-blu di Thrawn si inarcarono leggermente. “Li conosce, capitano?
Davvero?”
Lentamente, quasi con riluttanza, il rossore sul volto di Brandei svanì. “Sissignore”,
farfugliò. “I miei doveri sono verso l’Impero, verso di lei e verso le navi e l’equipaggio al mio
comando”.
“Molto bene”, disse Thrawn. “Verso i vivi, in altre parole. Non verso i morti”.
Brandei fumava ancora di rabbia, ma fece un cenno di assenso “Sissignore”.
“Non lo dimentichi mai, capitano”, lo avvertì Thrawn. “In guerra si vince e si perde, e può
star certo che la Ribellione pagherà per la distruzione della Peremptory durante la battaglia per la
flotta Katana. Ma quel debito sarà saldato nel contesto della nostra strategia generale, e non come
un mero atto di vendetta”. Gli occhi fiammeggianti gli si strinsero appena. “E di certo non da parte
di un capitano al mio comando. Confido di essere stato chiaro”.
La guancia di Brandei ebbe una piccola contrazione. Pellaeon non l’aveva mai considerato
un uomo intelligente, ma era abbastanza sveglio da riconoscere una minaccia. “Chiarissimo,
ammiraglio”.
“Bene”. Thrawn lo scrutò ancora qualche istante, poi annuì. “Mi pare che le sia stata
assegnata la sua posizione di lancio”.
“Sissignore. Judicator, chiudo”.
Thrawn guardò Pellaeon. “Continui pure, capitano”, disse, e si allontanò.
“Sissignore”. Pellaeon guardò il suo data pad. “Nemesis...”
Completò la lista senza ulteriori contrattempi. Quando anche l’ultimo ologramma fu svanito,
i controlli della loro squadra d’attacco erano ormai terminati.
“Sembra che siamo in orario”, disse Thrawn mentre Pellaeon tornava alla sua postazione di
comando. “La Stormhawk ci informa che i mercantili guida sono partiti puntualmente con tutti i
cavi di traino funzionanti. E abbiamo appena intercettato un segnale di emergenza generale nel
sistema di Ando”.
“La base dei Ribelli su Ord Pardron deve essersene accorta”, disse Thrawn. “Sarà
interessante scoprire quanti aiuti invieranno”.
Pellaeon annuì. I Ribelli conoscevano già abbastanza Thrawn da sapere che quella di Ando
era una finta e reagire di conseguenza. D’altra parte, però, una forza d’attacco costituita da uno Star
Destroyer imperiale e otto Dreadnaught della flotta Katana era qualcosa che non potevano
permettersi di ignorare.
Non che avesse importanza. Avrebbero mandato qualche nave nel sistema di Ando per
affrontare la Bellicose, altre in quello di Filve per respingere la Judicator, e altre ancora nel sistema
di Crondre per combattere la Nemesis, e così via. Quando la Death’s Head avesse colpito la base,
Ord Pardron sarebbe già stata ridotta a uno scheletro senza difese in cerca di qualunque rinforzo la
Ribellione potesse racimolare.
Ed era lì che sarebbero andati tutti, lasciando indifeso e incolume il vero bersaglio
dell’Impero.
Pellaeon guardò dall’oblò di prua la stella morta nel sistema di Ukio, la gola che gli si
seccava mentre contemplava di nuovo la vastità dell’intero piano. Con gli scudi planetari in grado di
reggere ogni attacco, a parte i più potenti turbolaser e i bombardamenti con i siluri protonici, veniva
da pensare che l’unico modo per conquistare un pianeta avanzato fosse inviare una forza terrestre a
spostamento rapido sulla superficie a distruggere i generatori degli scudi. Tra il fuoco delle forze di
terra e il successivo assalto orbitale, l’obiettivo era sempre in pessime condizioni quando veniva
conquistato. L’alternativa, che consisteva nel far atterrare centinaia di migliaia di soldati per dare
inizio a una campagna che sarebbe potuta durare mesi se non anni, non era certo migliore.
Conquistare un pianeta relativamente illeso, ma con i generatori degli scudi ancora funzionanti, era
considerata un’impresa impossibile.
Quella convinzione sarebbe crollata quel giorno. Insieme a Ukio.
“Abbiamo intercettato una richiesta d’aiuto da Filve, ammiraglio”, riferì l’ufficiale addetto
comunicazioni. “Ord Pardron sta rispondendo di nuovo”.
“Bene”. Thrawn consultò il suo crono. “Ancora sette minuti, credo, e poi potremo
muoverci”. Le sue labbra si assottigliarono appena. “Immagino che faremmo meglio ad accertarci
che quell’esaltato del nostro Maestro Jedi sia pronto a fare la sua parte”.
Pellaeon fece una smorfia. Joruus C’baoth, clone pazzo del defunto Maestro Jedi Jorus
C’baoth, un mese prima si era proclamato il vero erede dell’Impero. Non gli piaceva parlare con
quell’uomo più di quanto piacesse a Thrawn, ma tanto valeva offrirsi di farlo. In caso contrario, il
grand’ammiraglio glielo avrebbe ordinato comunque. “Ci penso io, signore”, disse, alzandosi.
“Grazie, capitano”, rispose Thrawn, come se Pellaeon avesse avuto altra scelta.
Percepì il richiamo mentale nel momento in cui mise piede fuori dall’area protetta dalla
Forza dagli ysalamiri sparpagliati per tutto il ponte sulle loro strutture di biosupporto. Era chiaro
che il Maestro C’baoth non vedesse l’ora di dare inizio all’operazione. Preparandosi come meglio
poteva e combattendo la pressione mentale che C’baoth esercitava per fargli fretta, Pellaeon si
incamminò verso la sala di comando di Thrawn.
La stanza era illuminata a giorno, in netto contrasto con la pallida luce che il
grand’ammiraglio di solito preferiva. “Capitano Pellaeon”, lo chiamò con un gesto C’baoth, da
dietro il duplice anello di schermi al centro della sala. “Entri pure. La stavo aspettando”.
“Il resto dell’operazione ha richiesto tutta la mia attenzione”, disse freddamente Pellaeon,
cercando di nascondere il disprezzo che provava per quell’uomo, pur sapendo quanto futili fossero i
suoi tentativi.
“Ma certo”, sorrise C’baoth con un’espressione che mostrava più chiaramente di qualsiasi
altra parola quanto trovasse divertente il disagio di Pellaeon. “Non importa. Immagino che il
grand’ammiraglio Thrawn sia pronto, finalmente”.
“Quasi”, rispose Pellaeon. “Vogliamo sgombrare Ord Pardron il più possibile, prima di
partire”.
C’baoth sbuffò. “Siete ancora convinti che la Nuova Repubblica farà tutto quello che il
grand’ammiraglio vuole”.
“Esatto”, ribatté Pellaeon. “Il grand’ammiraglio ha studiato bene il nemico”.
“Ha studiato la loro arte”, ribatté C’baoth sbuffando di nuovo. “Ci sarà utile soltanto quando
alla Nuova Repubblica non saranno rimasti altro che artisti da mandare contro di noi”.
Un segnale proveniente dall’anello di schermi evitò a Pellaeon il bisogno di replicare.
“Siamo pronti”, disse a C’baoth iniziando il conto alla rovescia mentale dei settantasei secondi
necessari a raggiungere il sistema di Ukio dalla loro posizione e cercando di ignorare le parole del
Maestro Jedi. Neanche lui riusciva a capire come Thrawn potesse apprendere con così tanta
precisione i segreti di una specie soltanto attraverso lo studio delle loro opere d’arte. Tuttavia, aveva
avuto prova di quel sistema così spesso da potersi fidare ciecamente dell’istinto del
grand’ammiraglio in quel genere di cose. C’baoth invece no.
In ogni caso, C’baoth non era veramente interessato a discutere quell’argomento. In
quell’ultimo mese, fin da quando si era proclamato vero erede dell’Imperatore, C’baoth aveva
portato avanti una guerra silenziosa per minare la credibilità di Thrawn, lasciando intendere che le
vere intuizioni dipendessero dalla Forza e, quindi, da lui.
Lo stesso Pellaeon faticava a crederci. Anche l’Imperatore conosceva le vie della Forza,
eppure non era riuscito a prevedere la propria morte su Endor. Tuttavia, i semi dell’incertezza che
C’baoth stava cercando di piantare avevano cominciato lo stesso ad attecchire, soprattutto tra gli
ufficiali meno esperti.
Ragion di più, secondo Pellaeon, perché quell’attacco doveva riuscire. L’esito sarebbe
dipeso tanto dalla conoscenza della cultura ukiana da parte di Thrawn, quanto dalla tattica militare
pura e semplice, e si basava sulla convinzione del grand’ammiraglio che gli Ukiani, a un livello
psicologico elementare, fossero terrorizzati da ciò che ritenevano impossibile.
“Non avrà sempre ragione”, disse C’baoth, interrompendo le riflessioni di Pellaeon.
Pellaeon si morse la guancia, sentendosi accapponare la pelle per aver permesso quella
disinvolta incursione nei propri pensieri. “Lei non sa cosa sia la discrezione, vero?”, ringhiò.
“Io sono l’Impero, capitano Pellaeon”, replicò C’baoth, gli occhi che fiammeggiavano di
una sinistra luce fanatica. “Anche i suoi pensieri sono al mio servizio”.
“Io sono al servizio soltanto del grand’ammiraglio Thrawn”, ribatté secco Pellaeon.
C’baoth sorrise. “Lo creda pure, se preferisce. Ma torniamo agli affari, quelli dell’Impero.
Quando la battaglia sarà conclusa, capitano Pellaeon, voglio che sia inviato un messaggio a
Wayland”.
“Per annunciare il suo imminente ritorno, immagino”, disse acido Pellaeon. Era da quasi un
mese che C’baoth ripeteva di voler tornare presto su Wayland, dove avrebbe preso il comando della
fabbrica di cloni nel vecchio magazzino dell’imperatore Palpatine nel monte Tantiss. Ma fino ad
allora era stato troppo occupato a minare la posizione di Thrawn per andare oltre le semplici
chiacchiere.
“Non si preoccupi, capitano Pellaeon”, disse C’baoth, di nuovo divertito. “Quando sarà il
momento, tornerò su Wayland. È per questo motivo che voglio che prenda contatto con Wayland
quando la battaglia sarà finita e ordini la creazione di un clone per me. Un clone molto speciale”.
Sarà necessaria l’autorizzazione del grand’ammiraglio Thrawn, furono le parole che gli
vennero in mente. “Che tipo di clone?”, furono invece quelle che pronunciò. Pellaeon sbatté le
palpebre, ripensandoci un attimo. Sì, aveva detto proprio quello.
C’baoth sorrise di nuovo di fronte alla sua silenziosa confusione. “Voglio soltanto un servo”,
disse. “Qualcuno che mi aspetti al mio ritorno. Creato sulla base di uno dei preziosi ricordini
dell’Imperatore. il campione B-2332-54, se non vado errato. Ovviamente, si assicurerà con il
comandante della guarnigione che la faccenda sia svolta nella più totale segretezza”.
Non farò nulla del genere. “Sì”, disse invece Pellaeon. Il suono di quelle parole lo
sconvolse, perché non era certamente quello che voleva dire. Al contrario, alla fine della battaglia
avrebbe informato subito Thrawn di quel piccolo incidente.
“Anche questa conversazione resterà tra me e lei”, disse stancamente C’baoth. “Dopo aver
obbedito, si dimenticherà che ha avuto luogo”.
“Certo”, annuì Pellaeon, tanto per zittirlo. Sì, avrebbe senz’altro informato Thrawn. Il
grand’ammiraglio avrebbe saputo cosa fare.
Il conto alla rovescia finì, e il pianeta Ukio apparve sullo schermo della parete principale.
“Dovremmo attivare uno schermo tattico, Maestro C’baoth”, disse.
C’baoth agitò una mano. “Come vuole”.
Pellaeon si sporse sul duplice anello di schermi e premette il pulsante appropriato, facendo
apparire al centro della stanza lo schermo tattico olografico. La Chimaera si stava avvicinando
all’orbita sopra l’equatore della parte illuminata; le dieci Dreadnaught della flotta Katana nella loro
squadra d’attacco si stavano schierando in posizioni di difesa interna ed esterna; e la Stormhawk
stava sopraggiungendo per proteggere il lato buio del pianeta. Le altre navi, per lo più mercantili e
da trasporto, stavano attraversando i piccoli varchi aperti dal Controllo da terra nello scudo
energetico di Ukio, un caliginoso guscio azzurro che avvolgeva il pianeta a cinquanta chilometri
dalla superficie. Due puntini rossi lampeggiarono: erano i mercantili guida della Stormhawk,
innocui tanto quanto le altre navi che sfrecciavano all’impazzata in cerca di riparo. I mercantili
guida, e i quattro compagni invisibili che trainavano.
“Invisibili soltanto a chi non ha occhi per vedere”, borbottò C’baoth.
“Quindi ora riesce anche a vedere le navi?”, grugnì Pellaeon. “I poteri Jedi crescono in
fretta”
Aveva sperato di irritare un po’ C’baoth, almeno un po’, ma fu uno sforzo inutile. “Posso
vedere gli uomini dietro i vostri preziosi sistemi di dissimulazione”, replicò placido il Maestro Jedi.
“Posso vedere i loro pensieri e guidare le loro azioni. Che importanza hanno le navi?”
Pellaeon si morse il labbro. “Immagino che non le importino molte cose”, disse.
Con la coda dell’occhio vide C’baoth sorridere. “Quel che non importa a un Maestro Jedi
non importa all’universo”.
Le navi e gli incrociatori invisibili erano ormai in prossimità dello scudo. “Sganceranno i
cavi non appena saranno entrati”, ricordò Pellaeon a C’baoth. “È pronto?”
Il Maestro Jedi si raddrizzò sullo schienale e chiuse gli occhi. “Attendo l’ordine del
grand’ammiraglio”, rispose sardonico.
Pellaeon osservò per qualche secondo ancora l’espressione composta dell’altro con un
brivido che gli correva lungo la schiena. Ricordava bene la prima volta che C’baoth aveva provato a
usare quel tipo di controllo a distanza; ricordava l’espressione di dolore sul volto di C’baoth, la
sofferenza dovuta alla concentrazione e allo sforzo di mantenere il contatto mentale.
Meno di due mesi prima Thrawn gli aveva rivelato che C’baoth non sarebbe mai stato una
minaccia per l’Impero proprio per la sua incapacità di usare i suoi poteri Jedi per lunghi periodi di
tempo. Tuttavia, in qualche modo, C’baoth aveva imparato a controllarli.
E questo lo rendeva un pericolo per l’Impero. Una grave pericolo.
L’intercom trillò. “Capitano Pellaeon?”
Pellaeon si sporse sull’anello di schermi e premette un pulsante, scacciando per quanto
possibile i suoi timori riguardo a C’baoth. La flotta aveva bisogno del Jedi, almeno per adesso. E
per fortuna anche C’baoth aveva bisogno della flotta. “Siamo pronti, ammiraglio”, disse.
“Tenetevi pronti”, replicò Thrawn. “I cavi da rimorchio si stanno sganciando”.
“Sganciati”, disse C’baoth. “Sono partiti... in rotta per le posizioni designate”.
“Mi confermi che sono oltre lo scudo planetario”, ordinò Thrawn.
Per la prima volta, un’ombra di quella vecchia fatica passò sul volto di C’baoth. Non c’era
di che stupirsi; con lo schermo di dissimulazione che impediva alla Chimaera di vedere gli
incrociatori e neutralizzava i sensori degli incrociatori stessi, l’unico modo per sapere esattamente la
loro posizione era che C’baoth la controllasse tramite le menti che sfiorava. “Le navi hanno tutte e
quattro superato lo scudo”, disse.
“Deve esserne assolutamente sicuro, Maestro Jedi. Se si sbaglia...”
“Non mi sbaglio, grand’ammiraglio Thrawn”, lo interruppe bruscamente C’baoth. “Farò la
mia parte in questa battaglia. Lei pensi a fare la sua”.
Per un attimo l’intercom rimase in silenzio. Pellaeon trasalì, immaginando l’espressione del
grand’ammiraglio. “Molto bene, Maestro Jedi”, disse con calma Thrawn. “Si prepari a fare la sua
parte”.
Si udì il doppio clic di un canale di comunicazione che si apriva. “Qui Star Destroyer
imperiale Chimaera. Governo di Ukio, ci ricevete?”, disse Thrawn. “In nome dell’Impero, dichiaro
il sistema di Ukio di nuovo sotto il controllo della legge imperiale e sotto la protezione delle forze
imperiali. Vi ordino di abbassare gli scudi, di richiamare tutte le unità militari alle loro basi e di
prepararvi al trasferimento ordinato del potere”.
Non ci fu alcuna risposta. “So che ci state ascoltando”, proseguì Thrawn. “Se non
risponderete, lo interpreterò come un atto di resistenza. In quel caso, sarò costretto ad aprire le
ostilità”.
Di nuovo silenzio. “Stanno inviando un altro messaggio”, sentì dire Pellaeon dall’ufficiale
addetto alle comunicazioni. “Sembra un po’ più preoccupato del primo”.
“Sono certo che il terzo lo sarà ancora di più”, ribatté Thrawn. “Pronti alla prima sequenza
di fuoco. Maestro C’baoth?”
“Gli incrociatori sono pronti, grand’ammiraglio Thrawn”, rispose il Jedi. “E anch’io”.
“Si accerti di esserlo”, replicò Thrawn in tono calmo ma minaccioso. “Se i tempi non
saranno perfetti, quest’azione sarà del tutto inutile. Batteria turbolaser tre: prima sequenza di fuoco
al mio segnale. Tre... due... uno... fuoco”.
L’ologramma tattico visualizzò due linee verdi sparate dalle batterie turbolaser della
Chimaera in direzione del pianeta sottostante. Le scariche colpirono lo scudo azzurrognolo del
pianeta e furono deviate con un guizzo nello spazio.
E con tempismo perfetto i due incrociatori invisibili, sostenuti dai repulsori dall’altra parte
dello scudo proprio in quei due punti, fecero fuoco a loro volta. I colpi di turbolaser saettarono
attraverso l’atmosfera, colpendo due delle principali basi di difesa aerea di Ukio.
O almeno, fu ciò che vide Pellaeon. Gli Ukiani, ignari della presenza di due incrociatori
invisibili, videro invece la Chimaera che sparava due colpi attraverso il loro impenetrabile scudo
planetario.
“La terza trasmissione si è interrotta a metà, signore”, avvertì l’ufficiale addetto alle
comunicazioni con una punta di cupo sarcasmo. “Credo che li abbiamo colti di sorpresa”.
“Convinciamoli che non è stato un caso”, disse Thrawn. “Pronti alla seconda sequenza di
fuoco. Maestro C’baoth?”
“Gli incrociatori sono pronti”.
“Batteria turbolaser due: seconda sequenza di fuoco al mio segnale. Tre... due... uno...
fuoco”.
La linea verdognola apparve di nuovo e ancora una volta, con perfetto tempismo, gli
incrociatori invisibili ripeterono il trucco. “Molto bene”, disse Thrawn. “Maestro C’baoth, schieri
gli incrociatori in posizione per le sequenze di fuoco tre e quattro”.
“Agli ordini, grand’ammiraglio Thrawn”.
Pellaeon si fece forza senza accorgersene. I bersagli della sequenza quattro erano due dei
trenta generatori dello scudo di Ukio. Un attacco del genere significava che Thrawn aveva
rinunciato al proposito di prendere Ukio con il sistema di difesa planetario intatto.
“Star Destroyer imperiale Chimaera, sono Tol dosLla del governo feudale di Ukio”, disse
una voce un po’ tremolante al comunicatore. “Vi chiediamo di sospendere il bombardamento di
Ukio mentre discutiamo i termini della resa”.
“I miei termini sono molto semplici”, disse Thrawn. “Tanto per cominciare disattiverete lo
scudo planetario e lascerete che le mie forze atterrino sul pianeta, alle quali cederete il controllo dei
generatori dello scudo e di tutte le armi terra-spazio. Tutti i veicoli da combattimento più grandi di
uno speeder di comando saranno trasferiti nelle basi militari designate e consegnate agli Imperiali.
Anche se da questo momento in poi risponderete all’Impero, il vostro sistema sociale e politico
resterà sotto il vostro controllo. Purché la vostra gente si comporti bene, naturalmente”.
“E cosa succederà dopo che questi cambiamenti saranno stati attuati?”
“A quel punto farete parte dell’Impero, con tutti i diritti e i doveri che ne conseguono”.
“Non ci saranno tributi per la guerra?”, domandò sospettoso dosLla. “Nessuna leva
obbligatoria per i giovani?”
Pellaeon immaginò il sorriso cupo di Thrawn. No, l’Impero non avrebbe avuto più bisogno
di imporre l’arruolamento forzato. Non con i cilindri di clonazione Spaarti dell’Imperatore nelle
loro mani.
“La risposta alla sua seconda domanda è no e no con riserva alla prima”, disse Thrawn
all’Ukiano. “Come probabilmente saprà, la maggior parte dei mondi imperiali attualmente paga dei
tributi per la guerra. Tuttavia, ci sono delle eccezioni, e il vostro contributo allo sforzo bellico
saranno proprio la vostra vasta produzione alimentare e le vostre fabbriche”.
Seguì una lunga pausa dall’altro lato. DosLla non era uno sciocco, pensò Pellaeon, sapeva
bene che cosa voleva Thrawn dal suo mondo. Prima avrebbe preteso il diretto controllo delle difese
terra-spazio, poi del sistema di distribuzione alimentare, degli impianti di produzione e delle grandi
regioni di coltivazione e allevamento; in poco tempo, l’intero pianeta sarebbe diventato un semplice
deposito di riserve alimentari per la macchina da guerra imperiale.
Ma l’alternativa era restare in silenzio a osservare il suo mondo che veniva completamente
distrutto davanti ai suoi occhi. Lo sapeva bene anche lui.
“Abbasseremo gli scudi planetari, Chimaera, in segno di buona fede”, disse alla fine dosLla,
il tono sprezzante ma un po’ sconfitto. “Ma prima di cedere alle forze imperiali il controllo dei
generatori e delle armi terra-spazio, ci servono delle garanzie riguardo all’incolumità degli abitanti
di Ukio e della nostra terra”.
“Certamente”, disse Thrawn, senza la minima traccia della soddisfazione che a quel punto
avrebbe mostrato qualunque altro comandante imperiale. Un piccolo gesto di cortesia – e Pellaeon
lo sapeva – calcolato esattamente come il resto dell’attacco. Lasciare che i governanti di Ukio si
arrendessero con tutta la loro dignità avrebbe indebolito l’inevitabile resistenza nei confronti del
controllo imperiale prima che fosse troppo tardi. “Sarete presto raggiunti da un rappresentante che
discuterà ogni particolare con il vostro governo”, proseguì Thrawn. “Nel frattempo, immagino che
non abbiate alcuna obiezione a che le nostre forze assumano le posizioni di difesa preliminari”.
Seguì un sospiro, a malapena percepibile. “Nessuna obiezione, Chimaera”, rispose dosLla
con riluttanza. “Adesso abbasseremo gli scudi”.
Sullo schermo tattico, la foschia azzurrognola intorno al pianeta scomparve. “Maestro
C’baoth, schieri gli incrociatori ai poli”, ordinò Thrawn. “Non è il caso che le nostre navi da sbarco
li investano. Generale Covell, può cominciare a trasportare le truppe in superficie. Posizioni
difensive normali intorno a tutti i bersagli”.
“Ricevuto, ammiraglio”, disse la voce di Covell, un po’ seccata, e Pellaeon non poté fare a
meno di sorridere. Erano passate soltanto due settimane da quando i comandanti dell’esercito e
della Flotta erano stati informati del progetto segreto di clonazione del monte Tantiss , e Covell era
uno di quelli che non si era ancora abituato all’idea.
Probabilmente il suo scetticismo aveva a che fare con il fatto che tre delle compagnie che
stava per sbarcare sulla superficie erano composte interamente da cloni.
L’ologramma tattico mostrò la prima ondata di navi da sbarco e caccia TIE di scorta che
uscivano dalla Chimaera e dalla Stormhawk, dirigendosi verso i loro bersagli. Navi da sbarco con
equipaggi formati da cloni che si apprestavano a eseguire gli ordini, proprio come quelli che
avevano fatto un ottimo lavoro a bordo degli incrociatori invisibili.
Pellaeon si accigliò, assalito da una sensazione sgradevole. C’baoth era riuscito a controllare
gli incrociatori così bene perché i loro equipaggi, composti da mille unità ciascuno, erano formati
da nient’altro che varianti di una ventina di menti diverse? Ancora più inquietante: e se la capacità
di controllo del Maestro Jedi fosse dovuta al fatto che anche lui era un clone?
In entrambi i casi, significava forse che il progetto del monte Tantiss rientrava proprio nei
suoi piani per la conquista del potere? Forse. Un’altra domanda che Pellaeon avrebbe sottoposto
all’attenzione del grand’ammiraglio.
Pellaeon osservò C’baoth, ricordandosi troppo tardi che in presenza del Maestro Jedi i suoi
pensieri non erano una proprietà privata. Ma C’baoth non lo stava guardando, consapevole o meno.
Stava guardando proprio davanti a sé, lo sguardo perso nel vuoto, i muscoli del viso contratti. Un
lieve sorriso gli increspava le labbra. “Maestro C’baoth?”
“Sono arrivati”, sussurrò C’baoth con voce rauca. “Sono arrivati”, ripeté ancora una volta,
più forte.
Pellaeon corrugò la fronte, guardando lo schermo tattico. “Chi è arrivato?”
“Sono su Filve”, rispose il Maestro Jedi. All’improvviso guardò Pellaeon, gli occhi
spalancati e folli. “I miei Jedi sono su Filve”.
“Maestro C’baoth, confermi che gli incrociatori sono ai poli”, disse tagliente la voce di
Thrawn. “Poi faccia rapporto sulle battaglie...”
“I miei Jedi sono su Filve”, lo interruppe C’baoth. “Cosa vuole che mi importi delle sue
battaglie?”
“C’baoth...”
Il Jedi spense l’intercom con un gesto della mano. “E ora, Leia Organa Solo”, sussurrò
piano, “sei mia”.
Il Millennium Falcon virò bruscamente a dritta quando un caccia TIE gli sfrecciò sopra, i
laser che sparavano all’impazzata nel vano tentativo di seguire le manovre della nave. Stringendo i
denti, Leia Organa Solo vide il caccia esplodere in mille pezzi, colpito da uno degli Ala-X della loro
scorta. Il cielo vorticò intorno alla cabina del Falcon mentre la nave ritornava nella posizione
originaria...
“Attenzione!”, esclamò 3PO dal sedile dietro di Leia mentre un altro caccia TIE li superava
di lato con un boato. L’avvertimento fu inutile; con finta goffaggine, il Falcon si stava già
avvitando nella direzione opposta per rivolgere la batteria quadrinata ventrale verso il bersaglio.
Attraverso la porta della cabina, Leia udì un ruggito di battaglia wookiee, e il caccia TIE fece la
stessa fine del suo compagno appena abbattuto.
“Bel colpo, Chewie”, disse Han Solo all’intercom mentre raddrizzava il Falcon. “Wedge?”
“Ci sono ancora, Falcon”, rispose subito Wedge Antilles. “Via libera per ora, ma sta per
arrivare un’altra ondata di caccia TIE”.
“Già”. Han diede un’occhiata a Leia. “Decidi tu, dolcezza. Vuoi ancora provare ad
atterrare?”
3PO emise un piccolo gemito elettronico. “Capitano Solo, di certo non starà suggerendo...”
“Chiudi quella boccaccia, ferraglia dorata”, tagliò corto Han. “Leia?”
Leia guardò dall’oblò lo Star Destroyer imperiale e le otto Dreadnaught schierate sopra il
pianeta assediato di fronte a loro, accalcati come mynock intorno a un generatore senza protezione.
Doveva essere la sua ultima missione diplomatica prima di farsi da parte in attesa della nascita dei
gemelli: un breve viaggio per calmare il nervoso governo di Filve e dimostrare la determinazione
della Nuova Repubblica nel proteggere anche quel settore.
Davvero una bella dimostrazione.
“Non riusciremo mai a passare”, disse a Han con riluttanza. “E comunque dubito che i
Filviani rischierebbero di abbassare lo scudo per farci entrare. Faremmo meglio a tentare la fuga”.
“Mi sta bene”, grugnì Han. “Wedge? Ce ne andiamo. Seguici”.
“Ricevuto, Falcon”, rispose Wedge. “Ci serve qualche minuto per calcolare il salto di
ritorno”.
“Lascia perdere”, disse Han, girandosi sul sedile per premere dei tasti sul computer di
navigazione. “Ti invieremo noi le coordinate da qui”.
“Ricevuto. Squadriglia Rogue: formazione di difesa”.
“Sai, sto cominciando a stancarmi”, disse Han a Leia, girando di nuovo il sedile. “Credevo
avessi detto che i tuoi amici Noghri ti avrebbero lasciata in pace”.
“Non ha nulla a che fare coi Noghri”. Leia scosse la testa con uno strano senso di
preoccupazione. Era soltanto la sua immaginazione, o le navi imperiali intorno a Filve stavano
rompendo la formazione? “Questo è il grand’ammiraglio Thrawn che gioca con le sue nuove
Dreadnaught della Dark Force”.
“Già”, asserì piano Han, e Leia trasalì per quel suo moto di amarezza.
Nonostante tutti i loro sforzi per convincerlo del contrario, Han continuava a sentirsi
responsabile del fatto di aver lasciato che Thrawn si appropriasse delle vecchie navi della flotta
Katana – la cosiddetta Dark Force – prima della Nuova Repubblica. “Non pensavo che sarebbe
riuscito a rimetterle in sesto così presto”, aggiunse Han mentre girava il Falcon in direzione opposta
a Filve e puntava verso lo spazio profondo.
Leia deglutì. Aveva ancora quella strana sensazione, come una lontana forza maligna ai
confini della sua mente. “Forse ha abbastanza cilindri Spaarti per clonare anche qualche tecnico e
ingegnere, oltre ai soldati”.
“Non mi piace affatto”, disse Han e, nonostante la tensione, Leia riuscì a percepire un
cambiamento nelle emozioni del marito mentre premeva il pulsante dell’intercom. “Wedge, dai
un’occhiata a Filve e dimmi se ho le allucinazioni”.
All’intercom, Leia udì Wedge che sospirava, pensoso. “Ti riferisci all’intera flotta imperiale
che rompe la formazione per inseguirci?”
“Proprio così”.
“Non mi sembra che tu abbia le allucinazioni”, disse Wedge. “Forse è il momento buono per
toglierci di torno”.
“Già”, disse lentamente Han. “Forse sì”.
Leia si accigliò. C’era qualcosa nel tono di suo marito... “Han?”
“I Filviani avrebbero chiesto aiuto prima di alzare lo scudo, giusto?”, le domandò Han,
corrugando la fronte con aria perplessa.
“Esatto”, asserì Leia con cautela.
“E la base della Nuova Repubblica più vicina è su Ord Pardron, giusto?”
“Giusto”.
“D’accordo. Squadriglia Rogue, cambiamo rotta. Seguitemi”.
Premette qualche tasto, e il Falcon virò a dritta. “Attenzione, Falcon... così finiremo di
nuovo contro quel gruppo di caccia”, li avvisò Wedge.
“Non ci spingeremo così lontano”, lo rassicurò Han. “Ecco il nostro vettore”.
Raddrizzò la nave seguendo la nuova rotta e diede un’occhiata al retrovisore. “Bene, ci
stanno ancora seguendo”.
Dietro di lui, il computer di navigazione segnalò con un trillo che le coordinate per il salto
erano pronte.
“Wedge, abbiamo le tue coordinate”, disse Leia, allungando una mano verso il tasto di
trasmissione.
“Aspettate, Falcon”, la interruppe Wedge. “Abbiamo compagnia a dritta”.
Leia guardò in quella direzione e sentì un nodo alla gola quando vide ciò di cui parlava
Wedge. I caccia TIE si stavano avvicinando a gran velocità, ed erano abbastanza vicini per
intercettare qualsiasi trasmissione inviata dal Falcon alla sua scorta. Mandare le coordinate a
Wedge adesso sarebbe stato un po’ come invitare gli Imperiali ad accoglierli a destinazione.
“Forse posso essere d’aiuto, altezza”, intervenne 3PO allegramente. “Come ben sa, conosco
oltre sei milioni di forme di comunicazione. Potrei trasmettere le coordinate al comandante Antilles
in linguaggi commerciali come il Boordist o il Vaathkree, per esempio...”
“E poi gli mandi anche la traduzione?”, rispose secco Han.
“Certamente...”, cominciò il droide, poi si interruppe di colpo. “Oh, santo cielo”, disse in
tono imbarazzato.
“Sì, be’, lascia stare”, ribatté Han. “Wedge, tu c’eri su Xyquine due anni fa, vero?”
“Sì. Ah. Un manovra Cracken?”
“Esatto. Al due: uno, due”.
Fuori dalla cabina, Leia colse un guizzo degli Ala-X che assumevano una nuova e
complicata formazione di scorta intorno al Falcon. “A che serve?”, domandò.
“È la nostra via di fuga”, rispose Han, guardando di nuovo nel retrovisore. “Calcola le
coordinate, aggiungi un due al secondo numero di ciascuna e poi invia il tutto agli Ala-X”.
“Ho capito”, annuì Leia mettendosi all’opera. Alterando soltanto la seconda cifra, l’aspetto
del vettore di uscita non sarebbe cambiato così tanto da rivelare il trucco agli Imperiali, ma sarebbe
stato sufficiente ad allontanare gli inseguitori di almeno un paio di anni luce dal bersaglio. “Astuto.
E quella piccola manovra che hanno appena fatto era solo per distrarli?”
“Proprio così. Farà credere che sia tutto lì a chi ci osserva. Un trucchetto che è venuto in
mente a Pash Cracken durante quel disastro su Xyquine”. Han diede un’altra occhiata al retrovisore.
“Credo che siamo abbastanza in vantaggio da poterli seminare”, disse. “Proviamo”.
“Non facciamo il salto a velocità luce?”, domandò Leia accigliata, ricordando uno
spiacevole momento del loro passato: la folle fuga da Hoth, con l’intera flotta di Darth Vader alle
calcagna e l’iperguida guasta...
Han la guardò di sbieco. “Non preoccuparti, dolcezza. Oggi l’iperguida funziona bene”.
“Speriamo”, sussurrò Leia.
“Vedi, se ci inseguono non possono dar noie a Filve”, proseguì Han. “E più lontano li
portiamo, più tempo avranno i rinforzi per arrivare da Ord Pardron”.
Il brillante lampo verde di un colpo di striscio interruppe la risposta di Leia. “Credo che gli
abbiamo dato tutto il tempo che potevamo”, disse a Han. Dentro di sé, poteva sentire la paura dei
suoi bambini. “Ora possiamo andarcene, per favore?”
Un secondo colpo centrò lo scudo deflettore superiore del Falcon. “Mi sa che hai ragione”,
asserì Han. “Wedge? Pronti a lasciare questa festa?”
“Quando volete, Falcon”, disse Wedge. “Andate pure, vi seguiamo appena siete fuori
pericolo”.
“Bene”. Han allungò una mano e tirò delicatamente le leve dell’iperguida. Intorno alla
cabina, le stelle si trasformarono in scie luminose, e furono in salvo.
Leia trasse un profondo respiro ed espirò pian piano. Poteva ancora sentire l’ansia dei
gemelli, e per un attimo si concentrò per cercare di calmarli. Aveva sempre pensato che fosse una
strana sensazione sfiorare menti fatte di pensieri ed emozioni pure, piuttosto che immagini e parole.
Erano così diverse da quelle di Han e Luke o dei loro amici.
Così diverse anche da quella mente remota che aveva orchestrato l’intero attacco
dell’Impero.
Dietro di lei si aprì la porta, e Chewbacca entrò nella cabina. “Bel lavoro, Chewie”, disse
Han al Wookiee, mentre questi si accomodava in tutta la sua enorme stazza sul sedile del
passeggero accanto a 3PO. “Hai avuto ancora problemi con il braccio di controllo orizzontale?”
Chewbacca ruggì una risposta negativa. Guardando Leia con gli occhi scuri ringhiò una
domanda. “Sto bene”, lo rassicurò Leia, ricacciando le lacrime, improvvise e inspiegabili.
“Davvero”.
Leia guardò Han, e notò che anche lui la guardava perplesso. “Non eri preoccupata, vero?”,
le chiese. “Era la solita squadra d’attacco imperiale, niente di cui allarmarsi”.
Leia scosse la testa. “Non era soltanto quello, Han. C’era qualcos’altro. Qualcosa di...”
Scosse di nuovo la testa. “Non lo so”.
“Forse è stato un malessere come su Endor”, suggerì educatamente 3PO. “Ricorda, quando è
svenuta mentre Chewbacca e io riparavamo...”
Chewbacca ruggì in tono di avvertimento, e il droide si interruppe di scatto. Ma era troppo
tardi. “No, no, lascialo parlare”, disse Han, guardando Leia con aria insospettita. “Di che malessere
stava parlando?”
“Niente di importante, Han”, lo rassicurò Leia, prendendogli la mano. “Quando eravamo in
orbita intorno a Endor, siamo passati per il punto in cui era esplosa la Morte Nera. Per qualche
momento ho sentito qualcosa, la presenza dell’Imperatore. Ecco tutto”.
“Oh, ecco tutto”, ripeté sarcastico Han, schioccando un’occhiataccia a Chewbacca. “Il
defunto Imperatore cerca di tormentarti, e non credi valga la pena dirmelo?”
“Non fare lo stupido”, lo rimproverò Leia. “Non c’è nulla di cui preoccuparsi. È passato
subito e non ci sono state conseguenze. Davvero. In ogni caso, quello che ho sentito su Filve è stato
completamente diverso”.
“Mi fa piacere saperlo”, disse Han, non ancora pronto a lasciar perdere la questione. “Ti sei
fatta controllare da un medico o qualcosa del genere quando sei tornata?”
“Be’, non è che ci sia stato il tempo...”
“Bene. Lo farai appena torniamo”.
Leia annuì con un sospiro silenzioso. Conosceva bene quel tono, e sapeva che comunque
non sarebbe servito a niente discutere. “Va bene. Se avrò il tempo, lo farò”.
“Lo troverai, il tempo”, ribatté Han. “O appena torna Luke ti farò chiudere in infermeria.
Dico sul serio, dolcezza”.
Leia gli strinse la mano, sentendo una stretta anche al cuore. Luke, da solo nel territorio
dell’Impero... ma Han aveva ragione. Doveva farlo. “Va bene”, gli disse. “Mi farò controllare. Te lo
prometto”.
“Bene”, rispose lui, scrutandola in viso. “Allora, cos’è che hai sentito su Filve?”
“Non lo so”. Esitò. “Forse è stata la stessa cosa che Luke ha sentito sulla Katana. Sai...
quando gli Imperiali hanno fatto salire a bordo quella squadra di cloni”.
“Sì”, asserì Han un po’ dubbioso. “Forse. Quelle Dreadnaught erano molto lontane”.
“C’erano anche molti più cloni, però”.
“Già. Forse”, ripeté Han. “Be’... Suppongo che io e Chewie dovremmo metterci al lavoro su
quello stabilizzatore di flusso ionico prima che salti del tutto. Puoi gestire la situazione qui,
dolcezza?”
“Sto bene”, insistette Leia, contenta di cambiare finalmente argomento. “Voi andate pure”.
Anche perché all’altra possibilità ci aveva pensato proprio in quel momento. Si diceva che
l’Imperatore possedesse la capacità di usare la Forza per controllare i suoi eserciti. Se il Maestro
Jedi che Luke aveva affrontato su Jomark avesse avuto la stessa capacità...
Si accarezzò il ventre, concentrandosi sulle due piccole menti dentro di sé. No, non voleva
nemmeno pensarci.
“Suppongo”, cominciò Thrawn in quel suo tono calmo e glaciale, “che abbia una
spiegazione”.
Lentamente, C’baoth sollevò lo sguardo dal duplice anello di schermi nella sala di comando
e guardò il grand’ammiraglio e, con malcelato disprezzo, lo ysalamir sulla struttura di biosupporto
che Thrawn portava sulle spalle. “E lei ce l’ha una spiegazione, grand’ammiraglio Thrawn?”,
domandò.
“Ha interrotto l’attacco diversivo su Filve”, disse Thrawn, ignorando la domanda di C’baoth.
“Poi ha ordinato alla forza d’attacco un inutile inseguimento”.
“E lei, grand’ammiraglio Thrawn, non è riuscito a portarmi i miei Jedi”, ribatté C’baoth.
Pellaeon notò a disagio che la sua voce stava aumentando di volume. “Né lei, né i suoi Noghri
addomesticati, né l’intero Impero... nessuno di voi ci è riuscito”.
Gli occhi fiammeggianti di Thrawn si ridussero a due fessure. “Davvero? Ed è anche colpa
nostra se non è riuscito a trattenere Luke Skywalker dopo che l’abbiamo condotto su Jomark?”
“Non l’avete condotto voi, grand’ammiraglio Thrawn”, insistette C’baoth. “Sono stato io a
chiamarlo, attraverso la Forza...”
“Sono stati i servizi segreti imperiali a spargere la voce del ritorno di Joruus C’baoth e della
sua presenza su Jomark”, tagliò corto Thrawn, gelido. “È stato un mezzo di trasporto imperiale a
portarla laggiù, è stata la logistica imperiale a fornirle una sistemazione e i mezzi di sussistenza, ed
è stato il genio imperiale a costruire la sua personale piattaforma d’atterraggio mimetizzata
sull’isola. L’Impero ha contribuito a consegnarle Skywalker. È stato lei a farselo scappare”.
“No!”, scattò C’baoth. “Skywalker se n’è andato da Jomark perché Mara Jade le è sfuggita e
l’ha messo contro di me. E la pagherà, per questo. Mi ha sentito bene? Quella donna la pagherà”.
Thrawn rimase in silenzio per un lungo momento. “Ha inviato l’intera squadra d’attacco di
Filve contro il Millennium Falcon”, disse infine, la voce sotto controllo. “È riuscito a catturare Leia
Organa Solo?”
“No”, grugnì C’baoth. “Ma non perché lei non volesse venire. Lo vuole, proprio come
Skywalker”.
Thrawn lanciò un’occhiata a Pellaeon. “Vuol venire da lei?”, domandò.
C’baoth sorrise. “Moltissimo”, disse, con voce improvvisamente calma e quasi trasognata.
“Vuole che istruisca i suoi bambini”, proseguì, vagando con lo sguardo per la sala di comando.
“Vuole che insegni loro le vie dei Jedi. Che li plasmi a mia immagine. Perché sono io il Maestro.
L’unico e solo”.
Guardò di nuovo Thrawn. “Deve portarmela, grand’ammiraglio Thrawn”, disse, a metà tra
una richiesta solenne e una supplica. “Dobbiamo liberarla, è prigioniera di coloro che temono i suoi
poteri. Se non lo facciamo, la distruggeranno”.
“Certo che dobbiamo”, disse Thrawn in tono rassicurante. “Ma deve lasciare questo compito
a me. Ho bisogno soltanto di un po’ più di tempo”.
C’baoth corrugò la fronte, facendo scivolare la mano sotto la barba per giocherellare con il
medaglione appeso al collo, e Pellaeon rabbrividì. Non importava quante volte glielo avesse visto
fare, non riusciva proprio ad abituarsi a quegli improvvisi accessi di oscura follia dei cloni. Sapeva
che era un problema tipico dei primi esperimenti di clonazione: un’instabilità emotiva e mentale
permanente, proporzionalmente inversa alla lunghezza del ciclo di crescita del duplicato. Erano
poche le documentazioni sull’argomento sopravvissute alle Guerre dei Cloni, ma Pellaeon si era
imbattuto in una di esse in cui si sosteneva che nessun clone maturato in meno di un anno era
abbastanza stabile da sopravvivere in un ambiente che non fosse completamente sotto controllo.
Considerato il modo in cui avevano messo a ferro e a fuoco la galassia, Pellaeon aveva
sempre pensato che i mastri clonatori avessero trovato almeno una parziale soluzione al problema.
Se poi avessero anche individuato la causa principale della follia, era un’altra faccenda.
Era perfino possibile che Thrawn fosse stato il primo a capirla davvero.
“Molto bene, grand’ammiraglio Thrawn”, disse all’improvviso C’baoth. “Le do un’ultima
possibilità. Ma la avviso: è davvero l’ultima. Dopodiché mi occuperò personalmente della
questione”. I suoi occhi lampeggiarono sotto le folte sopracciglia. “E le do anche un altro
avvertimento: se non è in grado di risolvere un problema del genere, forse non è neanche degno di
guidare le forze militari del mio Impero”.
Gli occhi di Thrawn scintillarono, ma il grand’ammiraglio si limitò a inclinare il capo.
“Accetto la sfida, Maestro C’baoth”.
“Bene”. C’baoth si rimise cautamente a sedere e chiuse gli occhi. “Può andare adesso,
grand’ammiraglio Thrawn. Vorrei meditare, e pianificare il futuro dei miei Jedi”.
Per un attimo Thrawn rimase immobile, in silenzio, gli occhi incandescenti che fissavano
C’baoth. Poi spostò lo sguardo su Pellaeon. “Mi accompagni sul ponte di comando, capitano”,
disse. “Voglio che supervisioni le difese del sistema di Ukio”.
“Sissignore”, rispose Pellaeon, felice di avere una scusa per allontanarsi da C’baoth.
Si fermò un attimo, corrugando la fronte mentre guardava il Jedi. Non doveva dire qualcosa
a Thrawn? Ne era quasi certo. Qualcosa che aveva a che fare con C’baoth, i cloni e il progetto del
monte Tantiss...
Gli sarebbe tornato in mente; e così, scrollando le spalle fra sé, mise da parte la faccenda.
Col tempo se ne sarebbe sicuramente ricordato.
Facendo il giro dell’anello di schermi, Pellaeon seguì il comandante fuori dalla sala di
comando.
CAPITOLO 2
Si chiamava Calius saj Leeloo – la città di cristallo scintillante di Berchest – ed era una delle più
grandi meraviglie della galassia fin dagli albori della Vecchia Repubblica. L’intera città non era che
un gigantesco cristallo formato, nel corso di millenni, dagli spruzzi salini delle onde rosso scuro del
mar Leefari che si infrangevano contro la scogliera sottostante. Nel corso dei decenni la città era
stata meticolosamente scolpita dagli artigiani locali di Berchest, e i loro discendenti avevano
continuato l’opera.
All’apice della Vecchia Repubblica, Calius era un’importante attrazione turistica, la cui
popolazione viveva nell’agio grazie ai milioni di esseri che ogni giorno visitavano la splendida città
e i suoi dintorni. Ma il caos generato dalle Guerre dei Cloni e dall’ascesa dell’Impero aveva messo
un bel freno a quel genere di svaghi, e Calius era stata costretta a cercare altri mezzi di
sostentamento.
Il turismo, per fortuna, aveva lasciato in eredità una serie di importanti rotte commerciali tra
Berchest e i principali sistemi della galassia. Per i Berchestiani la soluzione più ovvia era stata
trasformare Calius in un centro di commercio, e nonostante la città non avesse ancora raggiunto il
livello di Svivren o Ketaris, avevano ottenuto un discreto successo.
Peccato, però, che fosse un centro di commercio imperiale.
Una squadra di assaltatori marciava lungo la strada affollata, l’armatura bianca che rifletteva
l’intenso arancione degli edifici spigolosi. Facendosi da parte il più possibile, Luke Skywalker si
tirò un po’ di più il cappuccio sulla testa. Non percepiva una particolare attenzione nella squadra,
ma nel cuore dello spazio imperiale non era proprio il caso di rischiare. Gli assaltatori lo superarono
senza neppure lanciare uno sguardo nella sua direzione, e con un sospiro di sollievo Luke tornò a
contemplare la città. Tra gli assaltatori, gli equipaggi della flotta imperiale di sosta tra i voli e i
contrabbandieri che si aggiravano in cerca di lavoretti, il cupo senso pratico della città era in netto
contrasto con la sua serena bellezza.
E da qualche parte, in quella bellezza, c’era qualcosa di ancora più pericoloso dei comuni
assaltatori imperiali.
Un gruppo di cloni.
O così pensavano le spie della Nuova Repubblica. Studiando scrupolosamente migliaia di
intercettazioni imperiali, avevano individuato in Calius e nel sistema di Berchest, uno dei punti di
trasferimento della nuova ondata di duplicati umani che stavano imparando a pilotare le navi e i
trasporti dell’esercito del grand’ammiraglio Thrawn.
Quel flusso doveva essere fermato, e alla svelta. E questo significava scoprire dove si
trovassero i cilindri di clonazione e distruggerli. E questo, a sua volta, significava seguire a ritroso i
loro spostamenti a partire da un punto di trasferimento, che a sua volta significava trovare la
conferma che i cloni passassero effettivamente per Calius.
Un gruppo di uomini in tuniche e turbanti tipici dei mercanti svivreni girò l’angolo a un paio
di isolati di distanza, e proprio come aveva fatto parecchie volte nei due giorni precedenti, Luke
espanse i sensi con la Forza. Gli bastò un rapido controllo: i mercanti non avevano la stessa strana
aura che aveva percepito nella squadra di cloni che li aveva attaccati a bordo della Katana.
Mentre si ricomponeva, qualcos’altro attirò la sua attenzione. Qualcosa che gli era quasi
sfuggito, in quella fiumana di pensieri ed emozioni umane e aliene che gli vorticavano intorno come
schegge di vetro colorato in una tempesta di sabbia. Una mente fredda e calcolatrice, in cui Luke
era certo di essersi già imbattuto, ma che non riusciva a identificare nella foschia di rumori psichici
che li divideva.
Ma quella mente, al contrario di lui, era perfettamente consapevole della presenza di Luke
su Calius. E lo stava osservando.
Luke fece una smorfia. Da solo, in un territorio ostile, la sua nave a oltre due chilometri di
distanza nel campo di atterraggio di Calius, con una spada laser come unica arma che lo avrebbe
smascherato nel preciso istante in cui l’avesse impugnata, non era certo lui quello in vantaggio.
Ma aveva pur sempre la Forza… e sapeva che qualcuno lo stava seguendo. Tutto sommato,
erano pari.
A un paio di metri, sulla sinistra, c’era l’ingresso della lunga galleria arcuata di un
sottopassaggio pedonale. Luke entrò allungando il passo, cercando di ricordare la mappa della città
che aveva studiato e dove conducesse quel ponte in particolare. Dall’altra parte del fiume ghiacciato
della città, concluse, dove si trovavano le regioni più elevate ed eleganti che si affacciavano sul
mare. Dietro di lui, Luke sentì che anche il suo inseguitore aveva imboccato il sottopassaggio, e
allontanandosi sempre di più dal frastuono mentale dei mercati alle sue spalle riuscì finalmente a
identificarlo.
Non era poi così male come temeva, ma di sicuro poteva diventarlo. Con un sospiro, Luke si
fermò e attese. Quel sottopassaggio, che curvava lievemente nascondendo entrambe le estremità,
era un luogo come un altro per affrontarlo.
L’inseguitore raggiunse l’ultimo tratto di curva e poi, come se si aspettasse che la preda lo
stesse già aspettando, si fermò appena al di fuori del suo campo visivo. Luke estese i suoi sensi,
percependo il rumore di un blaster che veniva estratto dalla fondina… “Va bene”, disse piano.
“Siamo soli. Fatti vedere”.
Ci fu un attimo di esitazione, e Luke colse un moto di sorpresa. Quindi Talon Karrde girò
l’angolo.
“L’universo non smette mai di stupirmi”, commentò il contrabbandiere con un mezzo
inchino mentre riponeva il blaster nella fondina. “Da come ti comportavi, ho pensato che fossi una
spia della Nuova Repubblica. Ma devo ammettere che sei l’ultima persona che mi sarei aspettato
che mandassero”.
Luke lo osservò, cercando di percepire le sue emozioni. L’ultima volta che l’aveva visto,
poco dopo la battaglia per la Katana, Karrde aveva dichiarato che lui e il suo gruppo durante la
guerra sarebbero rimasti neutrali. “E cosa avevi intenzione di fare, una volta che te ne fossi
accertato?”
“Non intendevo denunciarti, se è questo che intendi”, rispose Karrde, dandosi un’occhiata
alle spalle. “Se a te sta bene, preferirei proseguire. I Berchestiani in genere non si fermano a
chiacchierare nei sottopassaggi. E nella galleria le nostre voci si possono sentire da molto lontano”.
E se ci fosse stata un’imboscata ad attenderli dall’altra parte del sottopassaggio? In quel caso
Luke l’avrebbe saputo prima di arrivarci. “Per me va bene”, disse, facendosi da parte e facendo
cenno a Karrde di avvicinarsi.
L’altro obbedì con un sorriso beffardo. “Non ti fidi di me, vero?”, disse, superando Luke e
avanzando lungo il sottopassaggio.
“Sarà l’influenza di Han”, rispose Luke a mo’ di scusa, seguendolo. “La sua, o la tua. O
magari quella di Mara”.
Colse un cambiamento nelle emozioni di Karrde: un lampo di preoccupazione che fu subito
placato. “A proposito di Mara, come sta?”
“È quasi guarita”, lo rassicurò Luke. “I medici dicono che non è difficile riparare quel tipo
di danno neurologico, ci vuole soltanto del tempo”.
Karrde annuì, lo sguardo fisso sul percorso. “Apprezzo il fatto che te ne stia prendendo
cura”, disse, quasi controvoglia. “Le nostre strutture mediche non ci sarebbero riuscite”.
Luke liquidò il ringraziamento agitando una mano. “Era il minimo che potessimo fare dopo
tutto l’aiuto che ci avete dato con la Katana”.
“Può darsi”.
Raggiunsero l’uscita e si trovarono in una strada molto meno affollata di quella precedente.
Sopra e davanti a loro videro, oltre gli edifici, le tre torri meticolosamente scolpite del palazzo del
governo. Luke usò la Forza per sondare i passanti. Nulla. “Vai da qualche parte, di preciso?”,
domandò a Karrde.
Quello scosse la testa. “Giravo per la città”, disse con noncuranza. “E tu?”
“Anch’io”, rispose Luke, cercando di imitare il suo tono.
“E speravi di incontrare qualcuno che conosci? O magari più di uno?”
Quindi Karrde sapeva, o aveva intuito, perché il Jedi fosse lì. In un certo senso, Luke non ne
era davvero sorpreso. “Se ci sono, li troverò”, disse. “Immagino che tu non sappia qualcosa che
potrebbe tornarmi utile?”
“Forse”, rispose Karrde. “Hai abbastanza soldi?”
“Conoscendo i tuoi prezzi, probabilmente no”, replicò Luke. “Ma potrei farti aprire una
linea di credito al mio ritorno”.
“Se tornerai”, ribatté l’altro. “Considerando quanti soldati imperiali ci sono tra te e la
salvezza, al momento non sei proprio quello che definirei un investimento sicuro”.
Luke inarcò un sopracciglio. “Rispetto a un contrabbandiere in cima alla lista dei ricercati
dell’Impero?”, domandò piccato.
Karrde sorrise. “Si da il caso che Calius sia uno dei pochi luoghi nello spazio imperiale in
cui sono perfettamente al sicuro. Il governatore di Berchest e io ci conosciamo da molti anni. E
inoltre ci sono certi articoli cui tiene molto che soltanto io sono in grado di procurargli”.
“Articoli militari?”
“Non c’entro niente con la vostra guerra, Skywalker”, gli rammentò Karrde, gelido. “Sono
neutrale, e intendo restarlo. Mi sembrava di essere stato chiaro, con te e tua sorella, l’ultima volta
che ci siamo visti”.
“Oh, sei stato molto chiaro”, confermò Luke. “Ma pensavo che quello che è successo
nell’ultimo mese ti avesse fatto cambiare idea”.
L’espressione di Karrde non cambiò, ma Luke riuscì comunque a percepire un involontario
cambiamento nelle sue emozioni. “Non mi piace l’idea che il grand’ammiraglio Thrawn abbia
accesso a un impianto di clonazione”, ammise. “A lungo termine, potrebbe anche spostare
l’equilibrio di poteri a suo favore, cosa che nessuno di noi desidera. Ma penso che la reazione da
parte vostra sia eccessiva”.
“Non so come fai a ritenerla eccessiva”, disse Luke. “L’Impero ha la maggior parte delle
duecento Dreadnaught della flotta Katana, e un numero infinito di cloni per governarle”.
“Infinito non direi”, ribatté l’altro. “I cloni possono crescere velocemente fino a un certo
punto, se vuoi che siano abbastanza stabili mentalmente da affidargli le tue navi da guerra. Ci vuole
come minimo un anno per clone, se ricordo bene”.
Un gruppetto di cinque Vaathkree attraversò la strada davanti a loro. Finora l’Impero aveva
clonato soltanto umani, ma Luke controllò per sicurezza. Ancora una volta, nulla. “Un anno per
clone, hai detto?”
“Come minimo”, rispose Karrde. “Secondo i documenti precedenti le Guerre dei Cloni che
ho consultato, è meglio aspettare dai due ai cinque anni. Sono più veloci dei cicli di sviluppo umani
standard, certo, ma non c’è ragione di farsi prendere dal panico”.
Luke alzò lo sguardo verso le torri scolpite, il colore rossastro in contrasto con le nuvolette
bianche che si alzavano dal mare sotto di loro. “E se ti dicessi che i cloni che hanno attaccato la
Katana erano cresciuti in meno di un anno?”
Karrde si strinse nelle spalle. “Dipende da quanti mesi”.
“L’intero ciclo era durato dai quindici ai venti giorni”.
Karrde si fermò di botto. “Cosa?”, domandò, voltandosi verso Luke.
“Dai quindici ai venti giorni”, ripeté il Jedi, fermandosi al suo fianco.
Per un lungo istante, il contrabbandiere lo guardò negli occhi. Poi, lentamente, si girò e
riprese a camminare. “Impossibile”, disse. “Dev’esserci uno sbaglio”.
“Posso farti avere una copia degli esami”.
Karrde annuì pensieroso, lo sguardo perso nel nulla. “Questo almeno spiega Ukio”.
“Ukio?” Luke corrugò la fronte.
Karrde gli lanciò un’occhiata. “Sì, deve essere da un po’ che non ti aggiorni. Due giorni fa
gli Imperiali hanno lanciato una serie di attacchi contro diversi bersagli nei settori di Abrion e
Dufilvian. Hanno gravemente danneggiato la base militare di Ord Pardron e conquistato il sistema
di Ukio”.
Luke si sentì stringere lo stomaco. Ukio era uno dei cinque principali centri di produzione di
generi alimenti nell’intera Nuova Repubblica. Le ripercussioni, soltanto per il settore di Abrion…
“Quanto è stato danneggiato Ukio?”
“Per nulla, a quanto sembra”, rispose Karrde. “Le mie fonti mi dicono che è stato
conquistato con gli scudi e gli armamenti terra-spazio assolutamente intatti”.
La sgradevole sensazione si fece più intensa. “Pensavo fosse impossibile”.
“I grand’ammiragli venivano scelti proprio per la loro capacità di compiere l’impossibile”,
disse seccamente Karrde. “I dettagli dell’attacco sono ancora confusi; sarebbe interessante scoprire
come c’è riuscito”.
E così Thrawn aveva le Dreadnaught della Katana, dei cloni per governarle e adesso anche
le riserve alimentari per sfamare i cloni stessi. “Questo non è soltanto l’inizio di una nuova serie di
incursioni”, disse lentamente Luke. “L’Impero si sta preparando a un attacco in larga scala”.
“Sembra proprio così”, concordò Karrde. “Su due piedi, direi che avrete proprio un bel da
fare”.
Luke lo studiò. Il tono e l’espressione di Karrde erano calmi come al solito, ma le sue
emozioni non lo erano più così tanto. “E niente di tutto questo ti fa cambiare idea?”, lo sollecitò.
“Non mi unirò alla Nuova Repubblica, Skywalker”, disse Karrde, scuotendo la testa. “Per
vari motivi. Non ultimo il fatto che non mi fido di certi elementi nel vostro governo”.
“Credo che a questo punto Fey’lya sia stato parecchio screditato…”
“Non mi riferisco soltanto a Fey’lya”, lo interruppe l’altro. “Sai bene quanto me che ai Mon
Calamari non sono mai piaciuti i contrabbandieri. Ora che l’ammiraglio Ackbar ha ripreso la sua
carica nel Consiglio e come comandante supremo, dovremo ricominciare a guardarci le spalle”.
“Oh, andiamo”, sbuffò Luke. “Non crederai mica che Ackbar abbia il tempo di occuparsi dei
contrabbandieri, vero?”
Karrde fece un sorriso ironico. “Non proprio, ma non intendo nemmeno scommetterci la
testa”.
Erano a un punto morto. “E va bene”, disse il Jedi. “Mettiamola su un piano strettamente
economico. Dobbiamo conoscere i movimenti e le intenzioni dell’Impero, cose che probabilmente
tieni d’occhio comunque. Vuoi venderci queste informazioni?”
Karrde rifletté. “Si potrebbe fare”, rispose cauto. “Ma solo se starà a noi decidere cosa dirvi.
Non lascerò che ci trasformiate in spie della Nuova Repubblica”.
“D’accordo”, disse Luke. Era meno di ciò in cui aveva sperato, ma era meglio di nulla. “Al
mio ritorno ti farò aprire una linea di credito”.
“Forse dovremmo cominciare con uno scambio di informazioni”, replicò Karrde,
guardandosi intorno tra gli edifici cristallini. “Dimmi cosa state cercando su Calius”.
“Farò di meglio”, ribatté Luke. La pressione distante sui suoi pensieri era debole ma
inconfondibile. “Che ne dici se ti confermo che i cloni sono qui?”
“Dove?”, chiese secco Karrde.
“In quella direzione”, rispose Luke, indicando di fronte a sé e leggermente a destra. “A
mezzo chilometro, forse… Difficile a dirsi”.
“Dentro una delle torri”, concluse il contrabbandiere. “Un bel posto, al sicuro da occhi
indiscreti. Mi chiedo se ci sia un modo di entrare a dare un’occhiata”.
“Aspetta un attimo… Si stanno spostando”, disse Luke, aggrottando la fronte mentre
cercava di mantenere il contatto. “Sono diretti verso di noi, più o meno”.
“Probabilmente li stanno portando al campo di atterraggio”, disse Karrde. Si guardò intorno,
rivolto alla loro destra. “È probabile che passino per Mavrille Street, a due isolati in quella
direzione”.
Cercando il giusto equilibrio tra un passo veloce e la necessità di non dare nell’occhio,
percorsero quella distanza in tre minuti.
“Useranno probabilmente un mezzo commerciale o un trasporto leggero”, ipotizzò Karrde
mentre cercavano un punto da cui osservare la scena senza essere intralciati dal traffico pedonale ai
bordi della strada. “Qualcosa di visibilmente militare attirerebbe troppa attenzione”.
Luke annuì. Ricordava che Mavrille era una delle poche strade di Calius abbastanza larghe
da essere percorribili dai veicoli, con il risultato che il traffico era molto più intenso. “Come vorrei
avere un macrobinocolo”, commentò.
“Fidati, dai abbastanza nell’occhio già così”, ribatté Karrde allungando il collo sopra i
passanti. “Vedi nulla?”
“Stanno venendo proprio qui”, gli disse Luke. Usò la Forza per separare i cloni dalla
tempesta di menti e pensieri tutt’intorno. “Credo siano venti o trenta”.
“Un mezzo commerciale, allora”, decise Karrde. “Ne sta proprio arrivando uno, dietro
quello speeder Trast”.
“Lo vedo”. Luke trasse un profondo respiro, affidandosi a tutti i suoi poteri Jedi. “Sono
loro”, sussurrò con un brivido che gli correva lungo la schiena.
“Bene”, replicò l’altro in tono cupo. “Stai attento, potrebbero aver lasciato uno o più
pannelli di ventilazione aperti”.
Il trasporto si avvicinò sui repulsori, fermandosi improvvisamente a un isolato di distanza
quando il pilota dello speeder di fronte si accorse di colpo di dover girare. Con cautela, il veicolo
girò l’angolo, bloccando tutto il traffico alle sue spalle.
“Aspetta qui”, disse Karrde, tuffandosi nel fiume di pedoni che scorreva in quella direzione.
Luke continuò a perlustrare con gli occhi l’intera area, cercando di percepire se Karrde fosse stato
visto o riconosciuto. Se fosse stata tutta una complicata trappola per catturare delle spie, quello era
il momento giusto per farla scattare.
Lo speeder aveva finalmente girato l’angolo, e il mezzo commerciale arrancò in avanti.
Superò Luke e proseguì lungo la strada, scomparendo nel giro di pochi secondi dietro un edificio
rossastro.
Rintanandosi nel vicolo alle sue spalle, Luke attese; un minuto dopo, Karrde fu di ritorno.
“Due pannelli erano aperti, ma non ho visto abbastanza per essere sicuro”, disse a Luke, respirando
affannosamente. “E tu?”
Luke scosse la testa. “Non sono riuscito a vedere nulla neanch’io. Ma erano loro, ne sono
certo”.
Karrde lo studiò per un attimo, poi fece un breve cenno di assenso. “Va bene. E ora?”
“Vado a vedere se riesco a lasciare il pianeta prima di loro”, rispose Luke. “Se riuscissi a
tracciare il loro vettore iperspaziale, forse potrei capire dove sono diretti”. Inarcò le sopracciglia.
“Anche se due navi potrebbero seguirli meglio”.
Il contrabbandiere sorrise appena. “Mi scuserai se rifiuto l’offerta”, disse. “Volare insieme a
un agente della Nuova Repubblica non è esattamente quello che chiamo essere neutrali”. Diede
un’occhiata al vicolo alle spalle di Luke. “In ogni caso, preferirei seguire la pista che hanno lasciato
qui, per scoprire da dove sono arrivati”.
“Mi pare una buona idea”, annuì Luke. “Meglio che raggiunga il campo di atterraggio e
prepari la mia nave”.
“Mi farò vivo”, promise Karrde. “Assicurati che quella linea di credito sia generosa”.
Dietro la finestra più alta della torre numero uno del palazzo del governo centrale, il governatore
Staffa abbassò il macrobinocolo con un grugnito soddisfatto. “Era proprio lui, Fingal”, disse
all’ometto che gli stava a fianco. “Non ci sono dubbi. Era proprio Luke Skywalker”.
“Crede che abbia visto il trasporto speciale?”, domandò Fingal, rigirandosi nervosamente tra
le mani il macrobinocolo.
“Be’, certo che l’ha visto”, ringhiò Staffa. “Credi che fosse in Mavrille Street per
divertimento?”
“Pensavo solo che…”
“Non pensare, Fingal”, tagliò corto Staffa. “Non ne sei in grado”.
Andò alla scrivania, posando il macrobinocolo in un cassetto e richiamando la direttiva del
grand’ammiraglio Thrawn sul data pad. Era un ordine piuttosto bizzarro, secondo la sua personale
opinione, ancora più strano dei misteriosi trasferimenti di truppe che il Comando Supremo
imperiale conduceva ultimamente attraverso Calius. Ma in circostanze come quelle non si poteva
pensare che Thrawn non sapesse costa stesse facendo.
In ogni caso, in caso contrario, erano fatti suoi e non di Staffa, ed era quella la cosa più
importante. “Voglio che invii un messaggio allo Star Destroyer imperiale Chimaera”, disse a
Fingal, sedendosi cautamente sulla poltrona e allungando il data pad sulla scrivania. “Criptato,
come da istruzioni. Informa il grand’ammiraglio Thrawn che Skywalker è stato su Calius e che l’ho
visto personalmente vicino al trasporto speciale. E che gli abbiamo permesso di lasciare Berchest
incolume, come da ordine del grand’ammiraglio”.
“Sì, governatore”, disse Fingal, prendendo nota sul proprio data pad. Se l’ometto pensava
che fosse strano lasciare una spia ribelle libera di girovagare per un territorio imperiale, di certo non
lo dava a vedere. “E dell’altro uomo, governatore? Quello che era laggiù con Skywalker?”
Staffa storse la bocca. La taglia sulla testa di Talon Karrde aveva raggiunto i cinquantamila,
ormai: un sacco di soldi, anche per qualcuno con uno stipendio da governatore e vari extra. Aveva
sempre saputo che un giorno gli sarebbe convenuto porre fine al suo rapporto d’affari con Karrde.
Forse quel giorno era arrivato.
No, non con una galassia ancora in guerra. In seguito, forse, quando la vittoria fosse stata a
portata di mano e le linee di rifornimento private più affidabili. Ma non adesso. “L’altro uomo non
conta nulla”, rispose a Fingal. “Era un agente speciale che ho inviato a stanare la spia ribelle.
Lascialo perdere. Ora vai: fai criptare e spedire quel messaggio”.
“Sissignore”, annuì Fingal, andando verso l’uscita.
La porta si aprì… e per un attimo, mentre Fingal usciva, Staffa credette di aver notato negli
occhi dell’ometto uno strano scintillio. Un’illusione ottica prodotta dalle luci dell’ufficio, senza
dubbio. La sua incrollabile lealtà al governatore era seconda soltanto alla sua caratteristica più
importante e apprezzabile: la totale mancanza d’immaginazione.
Traendo un profondo respiro, e scacciando dai suoi pensieri Fingal, le spie ribelli e anche il
grand’ammiraglio, Staffa si appoggiò allo schienale della poltrona e cominciò a fantasticare su
come avrebbe usato la merce che gli uomini di Karrde stavano scaricando proprio in quel momento
nel campo di atterraggio.
CAPITOLO 3
Mara Jade si svegliò lentamente, quasi come se stesse salendo una scala immersa nell’oscurità. Aprì
gli occhi, si guardò intorno nella stanza poco illuminata, e si domandò dove fosse.
Era in un reparto medico, come indicavano chiaramente i biomonitor, i paraventi e gli altri
letti multiposizione intorno a quello su cui era sdraiata. Ma non era una delle basi di Karrde, non
una che conosceva, quantomeno.
Tuttavia ricordava fin troppo una camera di riabilitazione imperiale.
Per il momento era sola, ma sapeva che non sarebbe durato a lungo. In silenzio, scese dal
letto e si accovacciò sul pavimento, facendo un esame delle sue condizioni di salute. Non aveva
dolori, né vertigini o ferite evidenti. Infilandosi la vestaglia e le pantofole ai piedi del letto, Mara si
avvicinò silenziosamente alla porta, preparandosi mentalmente a mettere fuori gioco qualunque
cosa la aspettasse all’esterno. Fece un cenno verso la serratura, e appena la porta scorrevole fu
aperta, balzò nell’anticamera della riabilitazione...
Per fermarsi all’improvviso, un po’ disorientata.
“Oh, ciao Mara”, disse Ghent distrattamente, sollevando lo sguardo dal terminale su cui era
chino. “Come stai?”
“Non male”, rispose Mara, fissando il ragazzo mentre cercava di riordinare i ricordi
annebbiati. Ghent era un dipendente di Karrde e probabilmente uno dei migliori pirati informatici
della galassia. Se stava usando un computer, di sicuro non erano prigionieri, a meno che i loro
carcerieri non fossero così stupidi da mettere un pirata informatico vicino a un terminale.
Ma non aveva mandato Ghent nel quartier generale della Nuova Repubblica, su Coruscant?
Sì, decisamente. Per ordine di Karrde, poco prima di riunire il suo gruppo e affrontare la flotta
Katana.
Era stato allora che si era schiantata con il suo Z-95 contro uno Star Destroyer imperiale ed
era stata costretta a usare il sedile eiettabile... finendo in un fascio ionico, che aveva mandato in
corto il suo equipaggiamento, spedendola per sempre alla deriva nello spazio interstellare.
Si guardò intorno. A quanto pareva, non aveva vagato nello spazio poi così tanto. “Dove
siamo?”, domandò, anche se già sapeva la risposta.
E aveva ragione. “Nel vecchio Palazzo Imperiale, su Coruscant”, rispose Ghent, corrugando
un po’ la fronte. “Ala medica. Hanno dovuto ricostruirti un po’ di percorsi neurali. Non ti ricordi?”
“Vagamente”, ammise Mara, ma man mano che la nebbia tra i suoi pensieri si diradava, ogni
tassello stava andando al suo posto. Il sistema di supporto vitale del sedile eiettabile distrutto; una
strana sensazione di leggerezza mentre scivolava via, nell’oscurità dello spazio. Probabilmente era
rimasta senza ossigeno prima che riuscissero a trovarla e a recuperarla.
No. Non loro: lui. Soltanto una persona sarebbe stata in grado di trovare un sedile eiettabile
nel vuoto dello spazio, tra i rottami della battaglia. Luke Skywalker, l’ultimo dei Cavalieri Jedi.
L’uomo che doveva uccidere.
UCCIDERAI LUKE SKYWALKER.
Fece un passo indietro per appoggiarsi allo stipite, le ginocchia che le cedevamo
improvvisamente mentre le parole dell’Imperatore le riecheggiavano nella testa. Si era trovata
proprio lì, su quel pianeta e in quell’edificio, quando l’Imperatore era morto su Endor. Attraverso
la mente dell’Imperatore aveva visto Luke Skywalker ucciderlo, facendo a pezzi anche la sua stessa
vita.
“Vedo che si è svegliata”, disse una nuova voce.
Mara riaprì gli occhi. Il nuovo arrivato era una donna di mezza età con un camice da medico
che stava attraversando la stanza a passo svelto per raggiungerla con un droide MD al seguito.
“Come si sente?”
“Bene”, rispose Mara, sentendo l’impulso improvviso di insultarla. Quella gente – quei
nemici dell’Impero – non avevano alcun diritto di stare lì, nel palazzo dell’Imperatore...
Inspirò con calma, soffocando quell’impulso. Il medico si era fermato a studiarla con aria
professionale mentre Ghent, dimenticando per un attimo il suo computer, la osservava un po’
perplesso. “Mi dispiace”, mormorò Mara. “Credo di essere ancora un po’ intontita”.
“È comprensibile”, annuì il medico. “È stata a letto per un mese, dopotutto”.
Mara la fissò. “Un mese?”
“Be’, quasi un mese”, si corresse il medico. “Per un po’ è stata anche in una vasca di bacta.
Non si preoccupi, comunque: le perdite di memoria a breve termine sono comuni nei casi di
ricostruzione neurale, ma la situazione migliora quasi sempre dopo la cura”.
“Capisco”, rispose Mara meccanicamente. Un mese. Aveva perso un intero mese lì. E nel
frattempo...
“Le abbiamo preparato una stanza al piano di sopra per quando si sentirà pronta ad
andarsene da qui”, proseguì il medico. “Che ne dice?”
Mara si concentrò su di lei. “Va bene”, rispose.
Il medico prese un comlink e premette qualche tasto; mentre parlava, Mara si avvicinò a
Ghent. “Com’è andato questo mese di guerra?”, domandò.
“Oh, l’Impero ha causato qualche problema, come al solito”, rispose Ghent, indicando il
cielo. “O quantomeno ha dato un po’ di grattacapi a questa gente. Ackbar, Madine e tutti gli altri
non hanno fatto altro che correre di qua e di là. Cercano di respingerli o fermarli, qualcosa del
genere”.
Mara sapeva che da Ghent non avrebbe ricavato molto altro. A parte l’affascinante mondo
dei contrabbandieri, l’unica cosa che interessava a Ghent era inserirsi abusivamente nei sistemi
informatici.
Mara corrugò la fronte, cercando di ricordarsi perché Karrde avesse ordinato a Ghent di
stare lì. “Aspetta un attimo”, disse. “Ackbar è tornato al comando? Stai dicendo che l’avete già
scagionato?”
“Certo”, rispose Ghent. “Quel trasferimento bancario sospetto per il quale il consigliere
Fey’lya aveva fatto tanto baccano si è rivelato una frode: i tizi che hanno violato il sistema della
banca hanno anche trasferito contemporaneamente i fondi nel suo conto. Opera degli Imperiali
probabilmente, c’era il loro zampino dappertutto nel programma. Oh, sicuro, l’ho dimostrato due
giorni dopo essere arrivato qui”.
“Immagino che siano soddisfatti. Quindi perché sei ancora qui?”
“Be’...” Ghent sembrò quasi preso alla sprovvista. “Nessuno è tornato a prendermi, tanto per
cominciare”. Il volto gli si illuminò. “E poi, qui c’è un codice criptato davvero forte che qualcuno
sta usando per passare informazioni all’Impero. Il generale Bel Iblis dice che gli Imperiali lo
chiamano Fonte Delta, e che parte proprio dal palazzo”.
“E ti ha chiesto di decriptarlo”, annuì Mara, storcendo la bocca. “Per caso si è offerto di
pagarti?”
“Be’...”, rispose Ghent, con un’alzata di spalle. “Forse sì. Davvero, non mi ricordo”.
Il medico si rimise il comlink alla cintura. “La sua guida sarà qui a momenti”, disse a Mara.
“Grazie”, disse la donna, resistendo all’impulso di dirle che conosceva il Palazzo Imperiale
probabilmente meglio di qualsiasi guida. Collaborazione e cortesia: sarebbero state quelle le chiavi
per convincerli a darle una nave con cui lei e Ghent avrebbero lasciato quel posto e la loro guerra.
Alle spalle del medico la porta scorrevole si aprì di nuovo, e una donna dai capelli
bianchissimi scivolò nella stanza. “Salve, Mara”, disse con un sorriso solenne. “Mi chiamo Winter e
sono l’assistente personale della principessa Leia Organa Solo. Sono lieta di vedere che sta meglio”.
“Sono contenta anch’io”, replicò Mara, cercando di apparire educata. Ecco qualcun altro
vicino a Skywalker. Proprio quello di cui aveva bisogno. “Immagino che sia lei la mia guida”.
“Guida, assistente e qualunque altra cosa di cui possa aver bisogno nei prossimi giorni”,
disse Winter. “La principessa Leia mi ha chiesto di prendermi cura di lei finché non tornerà da Filve
con il capitano Solo”.
“Non ho bisogno di un assistente, né di qualcuno si prenda cura di me”, disse Mara. “Mi
serve soltanto una nave”.
“Me ne sto già occupando”, le disse Winter. “Spero che riusciremo a procurargliene una al
più presto. Nel frattempo, posso mostrarle la sua stanza?”
Mara trattenne una smorfia. Gli usurpatori della Nuova Repubblica che le offrivano
gentilmente la loro ospitalità in quella che una volta era stata casa sua. “Molto gentile da parte tua”,
rispose, cercando di non sembrare troppo sarcastica. “Vieni anche tu, Ghent?”
“Vai pure”, rispose Ghent con aria assente, fissando lo schermo del computer. “Voglio
esaminarlo un altro po’”.
“Qui sarà al sicuro”, la rassicurò Winter. “Da questa parte, prego”.
Lasciarono l’anticamera, e Winter la accompagnò verso il retro del palazzo. “La stanza di
Ghent è vicino alla sua”, spiegò Winter mentre camminavano, “ma non credo che ci sia stato più di
due volte nell’ultimo mese. Si è piazzato in quell’anticamera per tenerla d’occhio”.
Mara non poté fare a meno di sorridere. Ghent, che passava il novanta percento della sua
giornata completamente ignaro del mondo esterno, non era esattamente la persona cui avrebbe
affidato un incarico di infermiere o di guardia del corpo. Ma l’importante era il pensiero. “Apprezzo
che vi stiate prendendo cura di me”, disse a Winter.
“È il minimo che potevamo fare dopo che siete venuti ad aiutarci nella battaglia con la
Katana”.
“L’idea è stata di Karrde”, tagliò corto Mara. “Ringraziate lui, non me”.
“L’abbiamo fatto”, replicò Winter. “Ma anche lei ha rischiato la vita per noi. Non lo
dimenticheremo”.
Mara scoccò alla donna dai capelli bianchi un’occhiata di traverso. Aveva letto i dossier
dell’Imperatore sui capi della Ribellione, incluso quello di Leia Organa, ma il nome Winter le era
completamente nuovo. “Da quanto tempo lavora per Organa Solo?”, domandò.
“Sono cresciuta con lei alla corte di Alderaan”, rispose Winter con un sorriso agrodolce.
“Eravamo amiche d’infanzia, e quando ha cominciato a muovere i primi passi nella politica della
galassia, suo padre mi ha incaricato di assisterla. La seguo da allora”.
“Non ricordo di aver mai sentito parlare di lei, durante la Ribellione”, insistette
educatamente Mara.
“Ho passato la maggior parte della guerra a viaggiare da un pianeta all’altro mentre lavoravo
per i Servizi Logistici”, spiegò Winter. “I miei colleghi mi facevano entrare in un deposito o in un
magazzino con un semplice pretesto, ed ero in grado di disegnare una mappa per indicar loro dove
fossero le cose che cercavano. Rendeva le incursioni successive più rapide e sicure”.
Mara annuì, trovando la risposta al suo quesito. “Allora eri lei quella che chiamavano il
Pedinatore. Il ribelle dalla memoria perfetta”.
Winter corrugò appena la fronte. “Sì, era uno dei miei nomi in codice”, replicò. “Ne ho avuti
parecchi, nel corso degli anni”.
“Capisco”, disse Mara. Ricordava un bel numero di riferimenti nei rapporti dei servizi
segreti antecedenti a Yavin che menzionavano un misterioso ribelle chiamato Pedinatore e svariate
polemiche riguardanti la sua presunta identità. Si chiese se i loro informatori l’avessero mai intuita
davvero.
Intanto avevano raggiunto i turboascensori sul retro, una delle principali innovazioni
apportate dall’Imperatore all’antica struttura che aveva conquistato. Gli ascensori risparmiavano la
fatica di fare su e giù per le ampie scale nelle aree pubbliche del palazzo... e in più nascondevano
certi altri miglioramenti che l’Imperatore aveva apportato. “Allora, che problemi ci sono a trovarmi
una nave?”, domandò Mara mentre Winter premeva un tasto per chiamare l’ascensore.
“Il problema è l’Impero”, rispose Winter. “Hanno lanciato una potente offensiva che ha
bloccato praticamente qualunque risorsa disponibile, dai mercantili leggeri in su”.
Mara corrugò la fronte. Le offensive contro nemici numericamente superiori non erano
tipiche del grand’ammiraglio Thrawn. “Va così male?”
“Sì, abbastanza”, rispose Winter. “Non so se lo sapeva, ma ci hanno soffiato la flotta
Katana. Avevano già preso quasi centottanta Dreadnaught quando siamo arrivati. Grazie al loro
nuova fonte inesauribile di soldati e di membri degli equipaggi, l’equilibrio di forze si è spostato a
favore dell’Impero”.
Mara annuì, con un sapore amaro in bocca. Messa così, sembrava proprio tipico di Thrawn.
“In pratica, mi sono fatta quasi ammazzare per nulla”.
Winter sorrise a denti stretti. “Se può consolarla, non è stata l’unica”.
L’ascensore arrivò, vi salirono a bordo e Winter premette i tasti per l’area residenziale.
“Ghent ha detto che l’Impero vi stava dando dei grattacapi”, commentò Mara mentre
salivano. “Avrei dovuto immaginare che, se era qualcosa in grado di penetrare la nebbia in cui
cammina, doveva essere davvero grave”.
“‘Grave è un eufemismo”, disse a malincuore Winter. “Negli ultimi cinque giorni abbiamo
perso il controllo di quattro settori, e siamo sul punto di perderne altri tredici. La peggior perdita
sono stati gli stabilimenti alimentari su Ukio. In qualche modo sono riusciti a conquistarlo con le
difese ancora intatte”.
Mara storse la bocca. “Che facevano, dormivano?”
“Non secondo i rapporti preliminari”. Winter esitò. “Pare che gli Imperiali abbiano usato
una nuova superarma in grado di penetrare lo scudo planetario di Ukio. Stiamo ancora verificando”.
Mara deglutì, rammentando le specifiche tecniche della vecchia Morte Nera. Un’arma del
genere nelle mani di uno stratega come il grand’ammiraglio Thrawn...
Scacciò quel pensiero, scuotendo la testa. Non era la sua guerra. Karrde aveva promesso di
restare neutrale. “Credo sia meglio che contatti Karrde”, disse. “Magari manderà qualcuno a
prenderci”.
“Sarebbe probabilmente più rapido che aspettare che si liberi una delle nostre navi”, suggerì
Winter. “Ha lasciato una data card con il nome di un contatto cui potrà affidare un messaggio. Ha
detto che avrebbe saputo quale codice criptato utilizzare”.
Il turboascensore le lasciò al piano degli Ospiti del Presidente, una delle poche ali del
palazzo che l’Imperatore aveva espressamente ignorato durante il suo dominio. Per via delle antiche
porte a cardine e i mobili in legno esotico intagliato a mano, sembrava quasi di tornare indietro di
migliaia di anni. L’Imperatore in genere riservava quelle stanze agli emissari che erano nostalgici
del passato, o a coloro che si lasciavano facilmente impressionare dalla sua ricercata continuità con
quel periodo. “Dopo la battaglia per la Katana, il capitano Karrde le ha lasciato alcuni vestiti ed
effetti personali”, disse Winter, aprendo una delle porte intagliate. “Se le manca qualcosa, me lo
faccia sapere e farò il possibile per fargliela avere. Questa è la data card di cui le parlavo”,
aggiunse, tirandola fuori dalla tunica.
“Grazie”, disse Mara, inspirando profondamente mentre la prendeva. Questa stanza in
particolare era in legno Fijisi di Cardooine e l’odore delicato tutt’intorno le riportò alla mente i
giorni gloriosi del della potenza e della grandezza dell’Imperatore...
“Posso fare altro per lei?”
Il ricordo scomparve. Winter era proprio di fronte a lei... e i giorni gloriosi dell’Impero non
c’erano più. “No, va bene così”, disse.
Winter annuì. “Se le serve qualcosa, chiami il responsabile”, disse, indicando la scrivania.
“Per un po’ sarò occupata; è in corso una riunione del Consiglio alla quale devo partecipare”.
“Vada pure”, disse Mara. “E grazie”.
Winter sorrise e se ne andò. Mara inspirò di nuovo il profumo di legno fijisi, e con un ultimo
sforzo allontanò quei ricordi. Doveva concentrarsi sul presente; come le avevano ripetuto più volte
gli istruttori dell’Imperatore, la prima cosa da fare era sempre adattarsi all’ambiente. Non doveva
certamente assomigliare a qualcuno appena fuggito dall’ala medica.
Karrde le aveva lasciato un buon guardaroba: un abito abbastanza elegante, due completi
dall’aria qualunque che avrebbe potuto indossare per strada su centinaia di pianeti senza sembrare
fuori luogo, e quattro pratiche tute di volo che di solito indossava a bordo della nave. Mara si infilò
una di queste ultime, quindi diede un’occhiata alle altre cose che Karrde le aveva lasciato. Con un
po’ di fortuna, e forse un po’ di lungimiranza da parte di Karrde...
Eccola: la fondina da avambraccio del suo piccolo blaster. L’arma però non c’era,
ovviamente: gliel’aveva presa il capitano dell’Adamant, e dubitava che gli Imperiali gliel’avrebbero
restituita. Anche cercarne una simile nell’arsenale della Nuova Repubblica sarebbe stata soltanto
una perdita di tempo, ma era tentata di chiederlo a Winter soltanto per vedere la sua reazione.
Per fortuna aveva un’alternativa.
A ogni piano del Palazzo Imperiale c’era una grande biblioteca, e in ciascuna di queste c’era
una serie di card intitolata La storia completa di Corvis Minor. Considerando quanto fosse stata
irrilevante la storia di Corvis Minor, c’erano ben poche possibilità che qualcuno avesse preso quelle
data card dallo scaffale. D’altra parte, nel contenitore non c’era proprio nessuna data card.
Il blaster era leggermente diverso da quello che gli Imperiali le avevano confiscato. Ma
l’importante era che la cella energetica fosse abbastanza carica e che l’arma entrasse facilmente
nella fondina. Comunque fossero andate la guerra o le lotte interne nella Nuova Repubblica, adesso
almeno era in grado di difendersi.
Si fermò con il contenitore di data card finto ancora in mano, mentre alla mente le balenava
una domanda. A cosa si riferiva Winter quando aveva parlato di una fonte inesauribile di soldati e
membri degli equipaggi? Che uno o più sistemi della Nuova Repubblica fossero passati dalla parte
dell’Impero? O che Thrawn avesse scoperto un pianeta o una colonia con una popolazione già
pronta per il reclutamento?
Doveva ricordarsi di chiederlo, prima o poi. Adesso, però, doveva inviare un messaggio
criptato al contatto indicatole da Karrde. Prima se ne fosse andata da quel posto, meglio sarebbe
stato.
Rimise a posto la scatola vuota di data card, sentendo il rassicurante peso del blaster sul
braccio sinistro, e tornò nella sua stanza.
Thrawn sollevò gli occhi incandescenti dall’orribile scultura aliena visualizzata nel duplice anello di
videoripetitori che circondava la sua poltrona. “No”, disse. “È assolutamente fuori discussione”.
Lentamente, C’baoth si girò verso di lui, dando le spalle alla statua olografica woostroide
che stava ammirando. “No?”, ripeté, la voce che tuonava come una tempesta in avvicinamento.
“Che cosa significa no?”
“Mi sembra ovvio”, disse gelido Thrawn. “Com’è ovvia la logica militare. Non abbiamo i
numeri per attaccare direttamente Coruscant, né abbiamo le risorse e le basi necessarie a un assedio
tradizionale. Un attacco del genere sarebbe un inutile spreco e, di conseguenza, l’Impero non ne
lancerà alcuno”.
Il volto di C’baoth si rabbuiò. “Stia attento, grand’ammiraglio”, lo ammonì. “Comando io
l’Impero, non lei”.
“Davvero?”, ribatté Thrawn, allungando una mano per accarezzare l’ysalamir sulla struttura
di biosupporto che teneva sulle spalle.
C’baoth si erse in tutta la sua statura, gli occhi fiammeggianti. “Comando io l’Impero!”,
gridò, la voce che faceva eco nella sala di comando. “Mi obbedisca, se non vuole morire!”
Con cautela, Pellaeon entrò un altro po’ nel campo di annullamento della Forza che
circondava l’ysalamir di Thrawn. Quando C’baoth aveva il controllo di sé, come in quel momento,
sembrava molto più fiducioso del solito; tuttavia, quei violenti scoppi d’ira del clone stavano
diventando sempre più frequenti e inquietanti. Sembrava un sistema in corto circuito, che si
surriscaldava sempre di più, fino a bruciare.
Finora C’baoth non aveva ucciso nessuno o distrutto niente. Secondo Pellaeon era soltanto
una questione di tempo prima che la situazione cambiasse.
Forse l’aveva pensato anche Thrawn. “Se mi ucciderà, perderà la guerra”, ricordò al Maestro
Jedi. “E se dovesse perdere la guerra, non avrà mai Leia Organa Solo e i suoi gemelli”.
C’baoth fece un passo verso la poltrona di Thrawn, gli occhi ancora più infuocati... e poi,
improvvisamente, sembrò tornare alla normalità. “Non avrebbe mai parlato con quel tono
all’Imperatore”, disse in tono stizzito.
“Al contrario”, ribatté Thrawn. “In non meno di quattro occasioni ho detto all’Imperatore
che non avrei sprecato le sue truppe e le sue navi per attaccare un nemico che non ero ancora pronto
a sconfiggere”.
C’baoth sbuffò. “Soltanto gli sciocchi avrebbero parlato con quel tono all’Imperatore”, lo
derise. “Gli sciocchi, o quelli che sono stanchi di vivere”.
“La pensava così anche l’Imperatore”, ammise Thrawn. “La prima volta che mi sono
rifiutato, mi ha chiamato traditore e ha affidato la mia forza d’attacco a un altro”. Il
grand’ammiraglio accarezzò di nuovo l’ysalamir. “Dopo che quello fu distrutta, si rese conto che
non era il caso di ignorare i miei consigli”.
C’baoth studiò l’espressione di Thrawn per un lungo minuto, il volto che gli si contraeva
come se la stessa mente faticasse a seguire i propri pensieri e le proprie emozioni. “Potrebbe
ripetere il trucco di Ukio”, suggerì alla fine. “Quello con gli incrociatori invisibili e i colpi
sincronizzati di turbolaser. Io la aiuterei”.
“È molto gentile da parte sua”, disse Thrawn. “Ma sfortunatamente anche quello sarebbe
uno spreco. I capi della Ribellione su Coruscant non si arrenderebbero velocemente come i
contadini di Ukio. Per quanto precisi fossero i nostri colpi, alla fine si accorgerebbero che i
turbolaser che colpiscono la superficie non sono gli stessi sparati dalla Chimaera, e trarrebbero le
ovvie conclusioni”.
Indicò le statue olografiche nella stanza. “La gente e i capi di Woostri, d’altra parte, sono
una faccenda completamente diversa. Come gli abitanti di Ukio, hanno molta paura dell’ignoto e di
ciò che ritengono impossibile e, soprattutto, hanno l’abitudine di ingigantire le voci. Con loro il
nostro trucco degli incrociatori invisibili funzionerebbe a meraviglia”.
Il volto di C’baoth si stava facendo di nuovo paonazzo. “Grand’ammiraglio Thrawn...”
“Ma per quanto riguarda Organa Solo e i suoi gemelli”, lo interruppe Thrawn con cautela,
“potrà averli quando vuole”.
L’accenno d’ira svanì all’istante. “Che vuol dire?”, domandò diffidente C’baoth.
“Voglio dire che attaccare Coruscant per prendere con la forza Organa Solo non sarebbe
fattibile”, rispose Thrawn. “Inviare un commando a catturarla, invece sì. Ho già ordinato ai servizi
segreti di mettere insieme una squadra proprio a questo scopo. Dovrebbe essere pronta entro sera”.
“Una squadra di commando”. C’baoth storse la bocca. “Devo ricordarle i continui fallimenti
dei suoi Noghri?”
“Non c’è bisogno”, disse Thrawn, cupo. “Ecco perché i Noghri non ne faranno parte”.
Pellaeon guardò il grand’ammiraglio, sorpreso, e poi diede un’occhiata involontaria alla
porta dell’anticamera della sala di comando, dove la guardia del corpo di Thrawn, Rukh, era in
attesa. Da quando Lord Darth Vader aveva costretto i Noghri con l’inganno a servire per sempre
l’Impero, gli ingenui alieni dalle pelle grigia avevano insistito per mettere in gioco il loro onore
personale in ogni missione. Per loro sarebbe stato un bello schiaffo venire estromessi da un incarico
così importante come quello. “Ammiraglio?”, disse sottovoce. “Non sono sicuro che...”
“Ne parleremo più tardi, capitano”, lo interruppe Thrawn. “Per adesso ho soltanto bisogno di
sapere se il Maestro C’baoth è davvero pronto a ricevere i suoi piccoli Jedi”. Inarcò un sopracciglio
nero scuro. “O se preferisce soltanto discuterne”.
C’baoth fece un sorrisetto. “Devo prenderla per una sfida, grand’ammiraglio Thrawn?”
“Faccia come crede”, rispose Thrawn. “Sto soltanto dicendo che un buon stratega considera
i costi di un’operazione, prima di iniziarla. I gemelli di Organa Solo nasceranno da un giorno
all’altro, e questo significa che avrebbe a che fare non solo con Organa Solo, ma anche con due
neonati. Se non è sicuro di poter gestire questo tipo di situazione, sarebbe meglio rimandare”.
Pellaeon si preparò a un’altra esplosione di rabbia del clone ma, con sua sorpresa, non
accadde.
“La vera domanda, grand’ammiraglio Thrawn”, disse sottovoce C’baoth, “è se i due neonati
non siano troppi per i suoi commando imperiali”.
“Benissimo”, annuì Thrawn. “Il rendez-vous con il resto della flotta è tra trenta minuti;
salirà a bordo della Death’s Head per assisterla nell’attacco contro Woostri. Quando tornerà a bordo
della Chimaera” – di nuovo inarcò un sopracciglio – “dovremmo già avere i suoi Jedi”.
“Molto bene, grand’ammiraglio Thrawn”, disse C’baoth. Si alzò di nuovo, lisciandosi la
lunga barba bianca. “Ma la avviso: se mi deluderà anche questa volta, le conseguenze potrebbero
non piacerle”. Dopo essersi voltato, attraversò la sala e uscì dalla porta.
“È sempre un piacere”, commentò Thrawn sottovoce quando la porta si richiuse.
Pellaeon aveva la bocca secca. “Ammiraglio, con tutto il rispetto...”
“Si sta chiedendo come abbia potuto promettere di catturare Organa Solo nel luogo più
sicuro dello spazio ribelle?”, domandò Thrawn.
“A dire il vero, sì”, rispose Pellaeon. “Si dice che il Palazzo Imperiale sia una fortezza
inespugnabile”.
“Sì, infatti”, ammise Thrawn. “Ma è stato l’Imperatore a renderlo tale... e come in tanti altri
casi, l’Imperatore teneva alcuni segreti del palazzo per sé e per alcuni dei suoi collaboratori più
fidati”.
Pellaeon corrugò la fronte. Segreti... “Un ingresso segreto?”, azzardò.
Thrawn sorrise. “Precisamente. E ora che siamo sicuri che Organa Solo se ne starà buona a
palazzo per un po’, potrebbe essere il momento opportuno di inviare un commando”.
“Ma non un commando noghri”.
Thrawn abbassò lo sguardo sulla sua collezione di sculture olografiche. “C’è qualcosa che
non va nei Noghri, capitano”, disse sottovoce. “Non so ancora cosa sia, ma so che c’è. Lo avverto
ogni volta che comunico con i dinasti di Honoghr”.
Pellaeon ripensò a quell’imbarazzante momento di un mese prima, quando un emissario dei
dinasti noghri era salito a bordo, scusandosi più volte, con la notizia che il sospetto traditore
Khabarakh era sfuggito alla loro custodia. Nonostante tutti i loro sforzi, finora non erano riusciti a
ricatturarlo. “Forse sono ancora imbarazzati per la faccenda di Khabarakh”, suggerì.
“E farebbero bene a esserlo”, disse gelido Thrawn. “Ma c’è qualcosa di più. E finché non
scoprirò cosa sia, continuerò a diffidare dei Noghri”.
Si sporse in avanti, premendo due pulsanti sulla scrivania. Le sculture olografiche svanirono,
sostituite da una mappa tattica della loro posizione nei principali piani di battaglia. “Al momento
abbiamo questioni più urgenti da discutere”, proseguì, appoggiandosi allo schienale. “Prima di tutto,
dobbiamo cercare di far capire al nostro sempre più arrogante Maestro Jedi che non è lui a
comandare il mio Impero. Organa Solo e i suoi gemelli sono un’ottima distrazione”.
Pellaeon ripensò a tutti i tentativi di cattura di Organa Solo. “E se la squadra dovesse
fallire?”
“Ci sono delle alternative”, lo rassicurò Thrawn. “Nonostante il suo potere e la sua
imprevedibilità, il Maestro C’baoth può essere ancora manipolato”.
Indicò la mappa tattica. “La cosa più importante da fare, adesso, è assicurarci di stare al
passo con il nostro piano di battaglia. Finora la campagna prosegue come prestabilito. La Ribellione
ha resistito più di quanto avessi previsto nei settori di Farrfin e Dolomar, ma tutti gli altri sistemi
che abbiamo attaccato si sono arresi al potere imperiale”.
“Non le considererei delle conquiste definitive, per ora”, fece presente Pellaeon.
“Precisamente”, annuì Thrawn. “Ciascuna di esse dipende dalla nostra capacità di mantenere
forte e visibile la presenza dell’Impero. E per riuscirci è fondamentale la nostra riserva di cloni”.
Fece una pausa. Pellaeon osservò la mappa tattica, cercando mentalmente la risposta che
Thrawn stava ovviamente aspettando. I cilindri di clonazione Spaarti, nascosti da decine di anni nel
magazzino privato dell’Imperatore su Wayland, erano più al sicuro di qualunque altra cosa nella
galassia. Sepolti sotto una montagna, protetti da una guarnigione imperiale e circondati dagli
indigeni ostili, nessuno era a conoscenza della loro esistenza, eccezion fatta per i più importanti
comandanti imperiali. Si bloccò. I più importanti comandanti imperiali, e forse... “Mara Jade”,
disse. “È in convalescenza su Coruscant. Sapeva del magazzino?”
“È proprio quella la domanda”, assentì Thrawn. “Ci sono buone possibilità che non ne
sapesse nulla... Conoscevo molti segreti dell’Imperatore, eppure ho dovuto faticare per scoprire
Wayland. Ma non è un rischio che intendo correre”.
Pellaeon annuì, reprimendo un brivido. Si era chiesto perché il grand’ammiraglio avesse
scelto una squadra dei servizi segreti per questa missione. A differenza dei normali commando, le
unità dei servizi segreti erano ben addestrate nelle tecniche non militari come l’assassinio... “Sarà
una squadra soltanto a occuparsi di entrambe le missioni, signore, o ne invierà due?”
“Una squadra dovrebbe bastare”, rispose Thrawn. “I due obiettivi sono abbastanza vicini,
dopotutto. E neutralizzare Jade non significa necessariamente ucciderla”.
Pellaeon corrugò la fronte, ma prima che potesse chiedere cosa Thrawn intendesse, il
grand’ammiraglio aveva già premuto un tasto sulla scrivania, e l’ologramma della mappa tattica fu
sostituito da una mappa del settore di Orus. “Nel frattempo credo sia il caso di sottolineare
l’importanza di Calius saj Leeloo ai nostri nemici. Abbiamo un nuovo rapporto del governatore
Staffa?”
“Sissignore”, rispose Pellaeon, richiamandolo sul data pad. “Skywalker se n’è andato
insieme alla navetta che faceva da esca, e pensiamo ne abbia seguito il vettore. In quel caso,
dovrebbe raggiungere il sistema di Poderis tra circa trenta ore”.
“Eccellente”, commentò Thrawn. “Probabilmente farà rapporto a Coruscant prima di
raggiungere Poderis. La sua successiva scomparsa dovrebbe convincerli di avere trovato il percorso
del nostro traffico di cloni”.
“Sissignore”, disse Pellaeon, tenendo per sé i dubbi in merito alla loro capacità di far sparire
Skywalker. Thrawn sapeva sicuramente il fatto suo. “Un’altra cosa, signore. C’è stato un altro
rapporto dopo il primo inviato da Staffa, criptato nel codice dei servizi segreti”.
“Da parte del suo assistente Fingal”, annuì Thrawn. “Un uomo inaffidabile come il
governatore Staffa praticamente ci costringe a mettergli alle costole un cane da guardia. C’erano
delle differenze con il rapporto del governatore?”
“Soltanto una, signore. Questo rapporto ci fornisce una descrizione completa del contatto di
Skywalker, un uomo che Staffa considera uno dei suoi agenti. La descrizione di Fingal suggerisce
che questo individuo, in effetti, sia Talon Karrde”.
Thrawn sospirò, pensieroso. “Appunto. Fingal ha fornito qualche spiegazione riguardo alla
presenza di Karrde su Calius?”
“Secondo lui, parrebbe che il governatore Staffa abbia da anni degli accordi commerciali
con Karrde”, disse Pellaeon. “Fingal sostiene di aver cercato di catturarlo per interrogarlo, ma non è
riuscito a trovare un modo che non destasse l’attenzione di Skywalker”.
“Sì”, borbottò Thrawn. “Be’, quel che è fatto è fatto. E se stiamo parlando soltanto di
contrabbando, non abbiamo di che preoccuparci. In ogni caso, non possiamo permetterci che dei
contrabbandieri ronzino intorno alle nostre trappole e magari le facciano scattare per errore. E
Karrde si è già dimostrato un personaggio problematico”.
Thrawn osservò in silenzio per un attimo la mappa del settore di Orus. Poi guardò Pellaeon.
“Ma per adesso dobbiamo occuparci di altre faccende. Tracci la rotta per il sistema di Poderis,
capitano; voglio che la Chimaera sia lì entro quaranta ore”. Accennò un sorriso. “E avvisi il
comandante della guarnigione che mi aspetto un’accoglienza adeguata al nostro arrivo. Forse, tra
due o tre giorni, avremo un regalo inatteso per il nostro caro Maestro Jedi”.
“Sissignore”. Pellaeon esitò. “Ammiraglio... Cosa succederebbe se riuscissimo a catturare
Organa Solo e i suoi gemelli, e C’baoth non fosse in grado di cambiarli come crede? A quel punto
dovremmo occuparci di quattro Jedi, cinque se riusciamo a catturare Skywalker su Poderis”.
“Non c’è bisogno di preoccuparsi”, disse Thrawn, scuotendo la testa. “Per cambiare Organa
Solo o Skywalker, C’baoth impiegherà molto tempo e molti sforzi. Potrebbe volerci anche di più
prima che i gemelli diventino abbastanza grandi da rappresentare un pericolo, a prescindere da cosa
voglia farne di loro. E prima che giunga quel momento” – gli occhi di Thrawn scintillarono –
“saremo giunti a un accordo con il nostro Maestro Jedi circa la spartizione del potere dell’Impero”.
Pellaeon deglutì. “Ho capito, signore”, fu tutto quello che riuscì a dire.
“Bene. Vada pure, capitano. Torni sul ponte”.
“Sissignore”. Pellaeon attraversò la stanza, il muscoli del collo ancora tesi. Sì, aveva capito
bene. Thrawn sarebbe giunto a un accordo con C’baoth... o l’avrebbe fatto uccidere.
Se ci fosse riuscito. Non era uno scontro su cui Pellaeon avrebbe voluto scommettere.
O al quale avrebbe voluto assistere di persona.
CAPITOLO 4
Poderis era uno di quei pochi mondi che generalmente si definivano “marginali”: pianeti che erano
rimasti colonizzati non tanto per il valore delle risorse o la comodità della loro posizione, ma per la
testardaggine dei coloni stessi. A causa del disorientante ciclo di rotazione di dieci ore, delle vaste
paludi che avevano confinato i coloni in un grande arcipelago di altipiani e dell’asse praticamente
perpendicolare che generava venti fortissimi ogni primavera e ogni autunno, Poderis non era certo
un pianeta che i viaggiatori amavano visitare. La popolazione era forte e indipendente, tollerante nei
confronti dei visitatori ma abituata da tempo a ignorare la situazione politica del resto della galassia.
Tutto questo era il punto di trasferimento ideale per il nuovo traffico di cloni dell’Impero. E
il posto giusto per tendere una trappola.
L’uomo che pedinava Luke era basso e dall’aspetto comune, il tipo di persona che non si
sarebbe notata ovunque si trovasse. Era anche molto abile e la sua tecnica suggeriva che avesse
lavorato a lungo nei servizi segreti imperiali. Ciò nonostante, non gli era mai capitato di pedinare un
Cavaliere Jedi. Luke aveva percepito la sua presenza appena aveva cominciato a seguirlo, e un
minuto dopo era già riuscito a individuarlo tra la folla.
L’unico problema era decidere cosa fare.
“R2?”, chiamò sottovoce Luke al comlink che aveva nascosto nel colletto della sua tunica.
“Abbiamo compagnia. Imperiali, probabilmente”.
Dal comlink arrivò un basso trillo preoccupato, seguito da quella che era chiaramente una
domanda. “Non puoi far nulla”, rispose Luke, indovinando il contenuto della domanda e
desiderando che 3PO fosse lì a tradurre. In genere riusciva a intuire cosa volesse dire R2, ma in una
situazione come quella l’intuito non bastava. “C’è qualcuno intorno alla nave? O comunque sulla
piattaforma di atterraggio?”
R2 borbottò un no. “Be’, arriveranno presto”, lo avvisò Luke, facendo una pausa per
guardare una vetrina. Si accorse che il pedinatore aveva compiuto qualche altro passo, prima di
trovare una scusa per fermarsi a sua volta. Era davvero un professionista. “Avvia la sequenza
prevolo senza attirare l’attenzione. Ce ne andremo non appena sarò tornato”.
Il droide assentì con un cinguettio. Luke spense il comlink nel colletto e si guardò
velocemente intorno. La prima cosa da fare era seminare il pedinatore prima che gli altri Imperiali
si facessero vivi. E per farlo doveva creare un qualche genere di diversivo...
L’occasione buona era cinquanta metri più avanti, tra la folla: un altro uomo che indossava
una tunica di forma e colore molto simili a quella indossata da Luke. Allungando il passo con
cautela, senza dare l’impressione di aver fretta, Luke gli si avvicinò.
L’altro uomo in tunica proseguì fino all’incrocio a T successivo e girò l’angolo a destra.
Luke affrettò il passo un altro po’, percependo nel pedinatore il sospetto di essere stato scoperto.
Resistendo all’impulso di mettersi a correre, Luke girò l’angolo con aria indifferente.
Era una strada come tante altre in quella città: ampia, pavimentata e ragionevolmente
affollata, percorsa lungo i lati da una serie di edifici grigi. Automaticamente, usò la Forza per
esaminare l’area circostante, spingendosi il più lontano possibile...
E gli si mozzò il fiato. Di fronte a lui, ancora distanti ma già percepibili, c’erano delle zone
oscure in cui i suoi sensi Jedi non riuscivano a cogliere assolutamente nulla, come se la Forza che
gli trasmetteva le informazioni in qualche modo cessasse di esistere... o fosse bloccata.
Questo significava che non era un’imboscata qualsiasi per una spia della Nuova Repubblica
qualunque. Gli Imperiali sapevano che lui era lì, e si erano portati dietro degli ysalamiri.
E se non avesse trovato una soluzione alla svelta, sarebbero riusciti a catturarlo.
Diede un’occhiata agli edifici circostanti: per la maggior parte erano strutture basse e
quadrate a due piani con facciate lavorate e balaustre decorative. Quelli a destra componevano
un’unica schiera; proprio di fronte, alla sua sinistra, la facciata curva del primo edificio dopo
l’incrocio a T formava uno stretto passaggio con quello successivo. Non era un granché come
riparo, e doveva comunque raggiungerlo, ma non aveva molte alternative. Attraversò la strada di
corsa, temendo che la trappola scattasse ancor prima di arrivare e s’infilò nel varco. Dopodiché
piegò le ginocchia, lasciò che la Forza attraversasse i suoi i muscoli, e saltò.
Ce la fece per un pelo. Il parapetto proprio sopra di lui era liscio e spiovente, e per un attimo
Luke sembrò quasi restare appeso nel vuoto, mentre cercava di afferrarlo con le dita. Poi trovò un
appiglio, e con uno scatto si issò su, appiattendosi sul tetto.
Appena in tempo. Sbirciando con un occhio solo oltre il bordo del parapetto, Luke vide il
suo inseguitore arrivare di corsa da dietro l’angolo, abbandonando ogni cautela. Facendosi largo tra
i passanti, disse qualcosa al comlink nella mano che Luke non riuscì a sentire...
E dall’altra parte della strada, a un isolato di distanza, spuntò una squadra di assaltatori in
armatura bianca. Con i fucili blaster imbracciati e gli ysalamiri scuri sulle strutture di biosupporto
sulle spalle, gli assaltatori crearono un posto di blocco in fondo alla strada.
Era una trappola pianificata ed eseguita alla perfezione, e Luke ebbe sì e no tre minuti per
attraversare il tetto e scendere giù, prima che si accorgessero che la loro preda era scappata.
Allontanandosi piano piano dal bordo del tetto, Luke si girò verso il lato opposto.
Ma non c’era nessun altro lato. A meno di sessanta centimetri dal punto in cui si trovava, il
tetto diventava improvvisamente un muro liscio che precipitava verso il basso per almeno un
centinaio di metri, allungandosi in entrambe le direzioni a perdita d’occhio. Oltre il bordo non si
vedeva altro che la nebbia distante delle paludi sotto l’altopiano.
Aveva fatto un errore di calcolo, forse fatale. Distratto dall’uomo che lo stava pedinando,
Luke non si era minimamente accorto che quel percorso lo stava portando al confine dell’altopiano.
Il muro inclinato era una delle gigantesche barriere progettate per deviare sopra la città le violente
correnti stagionali.
Luke era sfuggito alla trappola degli Imperiali... soltanto per ritrovarsi in un vicolo cieco.
“Fantastico”, mormorò, appoggiandosi al parapetto per osservare la strada. Altri assaltatori
si erano uniti alla prima squadra, e adesso stavano controllando la folla stupita presa in trappola;
dietro di loro, due squadre erano giunte dalle altre strade dell’incrocio a T per sbarrare l’altro lato
della strada. L’uomo che aveva pedinato Luke si faceva largo tra i passanti con un blaster in mano
adesso in direzione dell’altro uomo con la tunica che Luke aveva notato prima.
L’altro uomo con la tunica...
Luke si morse il labbro. Non era un bello scherzo da giocare a un innocente, ma d’altra parte
gli Imperiali sapevano chi stavano cercando, e lo volevano sicuramente vivo. Mettere in pericolo
quell’uomo non era un comportamento da Jedi, e Luke lo sapeva bene, ma ora poteva soltanto
sperare che non si potesse dire lo stesso di un po’ di manipolazione.
Stringendo i denti, usò la Forza per strappare il blaster dalla mano dell’inseguitore e, dopo
averlo fatto vorticare sopra la folla, lo fece cadere proprio nella mano dell’uomo con la tunica.
Il pedinatore gridò qualcosa agli assaltatori, ma quello che era iniziato come un urlo di
trionfo divenne ben presto un grido di avvertimento. Concentrandosi il più possibile, Luke usò la
Forza per puntare il blaster verso il suo possessore originale e fare fuoco.
Sparò sopra la folla, ovviamente: non gli era possibile mirare con precisione agli Imperiali,
per quanto lo volesse, ma anche quel colpo mancato bastò ad attirare l’attenzione degli assaltatori.
Gli Imperiali impegnati a controllare i passanti e le identità abbandonarono immediatamente il loro
compito per farsi largo verso l’uomo con la tunica, mentre quelli di guardia in fondo alla strada
accorsero in loro aiuto.
Ovviamente, per l’uomo con la tunica le cose si mettevano male. Gettando via il blaster che
si era inspiegabilmente trovato in mano, sgusciò tra i passanti paralizzanti accanto a lui e scomparve
in uno stretto vicolo.
Luke non perse altro tempo. Nel momento in cui avessero visto in faccia l’uomo in fuga il
suo diversivo sarebbe andato in fumo. Prima che accadesse, doveva scendere da quel tetto e
dirigersi verso la piattaforma di atterraggio. Avvicinandosi furtivamente al bordo del parapetto, il
Jedi diede un’occhiata in basso.
Non prometteva nulla di buono. Costruita per sopportare venti di duecento chilometri orari,
la superficie era perfettamente liscia, senza sporgenze che potessero formare correnti più impetuose.
Non c’erano neanche finestre, porte di servizio o altre aperture visibili. Quello, comunque, non era
un problema: se necessario, Luke si sarebbe potuto aprire da solo un varco con la spada laser. Il
vero problema era riuscire a seminare gli Imperiali prima ancora che cominciassero a dargli la
caccia.
Si diede un’occhiata alle spalle. Doveva sbrigarsi. All’orizzonte, in direzione della
piattaforma di atterraggio ufficiale all’altro capo della città, poteva già vedere le minuscole sagome
degli speeder sopra i bassi edifici. Non poteva saltar giù in strada senza attirare l’attenzione. E non
poteva strisciare lungo lo stretto bordo della barriera, almeno non abbastanza velocemente da
sparire prima che arrivassero gli speeder. Gli restava un’unica soluzione: scendere.
Ma non necessariamente in linea retta...
Stringendo gli occhi, guardò il cielo. Il sole di Poderis stava per tramontare, seguendo
visibilmente la sua rotazione di dieci ore. Proprio in quel momento proiettava la sua luce dritta negli
occhi dei piloti degli speeder in avvicinamento, ma nel giro di cinque minuti sarebbe scomparso
dietro l’orizzonte, dando ai piloti un completo campo visivo e lasciandosi alle spalle un’oscurità che
avrebbe rivelato immediatamente la sua spada laser.
Ora o mai più.
Luke tirò fuori la spada laser da sotto il mantello e l’accese, assicurandosi che gli speeder in
arrivo non notassero la sua lucente lama verde. Con la punta incise un piccolo taglio a destra e
qualche grado più in basso nella superficie della barriera. La sua tunica era di un materiale sottile, e
gli ci vollero pochi secondi per strapparne un lembo dalla manica sinistra e arrotolarlo intorno alle
dita della mano. Le dita fasciate scivolarono facilmente nel piccolo solco che aveva appena
prodotto, e c’era abbastanza spazio per seguirlo scivolando. Tenendosi forte, Luke affondò la punta
della spada laser fino in fondo al solco e poi si lasciò cadere oltre il bordo. Sostenuto dalle dita della
mano sinistra, la spada laser stretta in quella destra che incideva un varco per lui mentre si spostava,
Luke scivolò agilmente lungo la superficie della barriera.
Fu esaltante e terrificante allo stesso tempo. Gli tornarono alla mente un sacco di ricordi: il
vento che gli sfrecciava intorno mentre precipitava al centro di Cloud City su Bespin; quando era
rimasto appeso per un pelo, soltanto pochi minuti dopo, proprio sotto la città; la terrificante furia
dell’Imperatore, gettato nel vuoto da Vader, mentre lui giaceva esausto sul pavimento della seconda
Morte Nera. Sotto il petto e le gambe la liscia superficie della barriera scivolava via, avvicinandolo
sempre più al bordo e al vuoto oltre di esso...
Sollevò la testa, strizzò gli occhi contro il vento che gli sferzava il volto e diede un’occhiata
verso il basso. Il bordo letale era ormai visibile e gli correva incontro a velocità folle. Sempre più
vicino... e poi, all’ultimo momento, Luke cambiò l’angolazione della spada laser. Il tragitto in
discesa delle sue dita si raddrizzò, e pochi secondi dopo Luke si fermò.
Rimase appeso per un momento, dondolandosi pericolosamente con una sola mano mentre
riprendeva fiato e rallentava i battiti del cuore. Sopra di lui poteva vedere il solco appena inciso che
si estendeva verso l’alto e un po’ a sinistra, illuminato dagli ultimi raggi di sole. Aveva percorso
centinaia di metri verso sinistra, calcolò: con un po’ di fortuna, era abbastanza lontano dalla
trappola degli Imperiali.
L’avrebbe scoperto presto.
Dietro di Luke, il sole sprofondò dietro l’orizzonte, cancellando la sottile linea del suo
passaggio. Muovendosi con cautela, ben attento a non slogarsi le già stanche dita della mano, il Jedi
cominciò a incidere un buco nella superficie della barriera.
“Rapporto dal comandante degli assaltatori, ammiraglio”, annunciò Pellaeon facendo una smorfia
mentre leggeva lo schermo. “Pare che Skywalker non sia più all’interno del perimetro”.
“Non mi sorprende”, disse cupo Thrawn, guardando il proprio schermo. “Ho avvisato più
volte i servizi segreti di non sottovalutare la potenza delle percezioni di Skywalker. È chiaro che
non mi hanno preso sul serio”.
Pellaeon deglutì. “Sissignore. Ma sappiamo che era lì, e non può essere andato troppo
lontano. Gli assaltatori hanno stabilito un perimetro secondario e stanno perlustrando ogni edificio”.
Thrawn tirò un profondo respiro. “No”, disse con il suo solito tono pacato. “Non è entrato in
nessun edificio. Non Skywalker. Quel piccolo diversivo con l’esca e il blaster...” cominciò, poi
guardò Pellaeon. “In alto, capitano. È salito sui tetti”.
“Gli osservatori stanno già seguendo quella pista”, disse Pellaeon. “Se è lassù, lo
troveranno”.
“Bene”. Thrawn premette un tasto sulla console, richiamando la mappa olografica di quella
sezione dell’altopiano. “Che mi dice della barriera sul versante occidentale del perimetro? Si può
scalare?”
“I nostri dicono di no”, rispose Pellaeon, scuotendo la testa. “Troppo liscia e spiovente,
senza ringhiere o altro sul fondo. Se Skywalker è salito sui tetti, è ancora lì. Oppure è ai piedi
dell’altopiano”.
“Forse”, disse Thrawn. “Ordini a una squadra di perlustrare comunque quell’area. E la nave
di Skywalker?”
“I servizi segreti stanno ancora cercando di identificarla”, ammise Pellaeon. “C’è qualche
problema con i registri. Dovrebbe volerci ancora qualche minuto”.
“Minuti che non abbiamo, grazie alla negligenza del nostro pedinatore”, commentò
infastidito Thrawn. “Che sia degradato”.
“Sissignore”, disse Pellaeon, registrando l’ordine. Era una punizione piuttosto severa, ma
poteva andare molto peggio. Lord Vader l’avrebbe semplicemente strangolato. “Naturalmente
abbiamo circondato la piattaforma d’atterraggio”.
Thrawn si sfregò il mento, pensieroso. “Probabilmente è una perdita di tempo”, disse
lentamente. “D’altra parte...”
Si volse verso l’oblò per guardare il pianeta che ruotava lentamente nello spazio. “Li
richiami tutti, capitano”, ordinò. “Tutti, eccetto i cloni: quelli li lasci a guardia delle navi che
potrebbero appartenere a Skywalker”.
Pellaeon sbatté le palpebre. “Signore?”
Thrawn si voltò a guardarlo con un lampo negli occhi incandescenti. “Nel perimetro alla
piattaforma d’atterraggio non ci sono abbastanza ysalamiri per fermare un Jedi, capitano, quindi
non vale nemmeno la pena provarci. Lasceremo che si riprenda la sua nave, e poi lo cattureremo
con la Chimaera”.
“Sissignore”, disse Pellaeon, aggrottando la fronte. “Ma allora...»
“Perché lasciare i cloni?”, completò la domanda Thrawn. “Perché se Skywalker è
importante, lo stesso non si può dire del suo droide astromeccanico”. Sorrise appena. “A meno che,
naturalmente, gli eroici tentativi di Skywalker di scappare da Poderis non lo convincano che il
pianeta è in effetti il nostro punto di trasferimento per il traffico di cloni”.
“Ah”, esclamò Pellaeon, capendo dove volesse arrivare. “In quel caso, faremo in modo che
il droide torni dai Ribelli?”
“Esatto”, confermò Thrawn, indicando la postazione di Pellaeon. “Inoltri gli ordini,
capitano”.
“Sissignore”. Pellaeon tornò alla sua postazione, sentendo quasi una punta di esaltazione
mentre inoltrava gli ordini del grand’ammiraglio. Forse questa volta sarebbero davvero riusciti a
catturare Skywalker.
R2 stava borbottando nervosamente quando Luke salì a bordo della loro navetta, chiudendosi il
portello alle spalle. “Siamo pronti a partire?”, domandò al droide mentre correva verso la cabina di
pilotaggio.
R2 trillò una risposta affermativa. Luke si sedette al posto del pilota, controllando
velocemente la strumentazione mentre si allacciava la cintura di sicurezza. “Bene”, replicò.
“Andiamo”.
Accendendo i motori a repulsione, Luke fece decollare la navetta, virando a dritta. Insieme a
lui si sollevarono un paio di Skipray che assunsero una formazione di inseguimento mentre Luke si
dirigeva verso il confine dell’altopiano. “Tieni d’occhio quegli Skipray, R2”, disse Luke, dividendo
l’attenzione tra lo spazio sopra di loro e il confine sempre più vicino della città. Lo scontro con i
cloni a guardia della piattaforma di atterraggio era stato intenso, ma troppo breve per essere vero. O
l’Impero aveva lasciato dei soldati davvero incapaci, oppure gli avevano fatto raggiungere la
navetta di proposito, per condurlo attentamente alla vera trappola...
Il bordo dell’altopiano sfrecciò sotto di lui. Luke diede una rapida occhiata al retrovisore per
accertarsi di essere ormai lontano dalla città, poi accese il motore subluce.
La navetta schizzò via come un mynock in fiamme, lasciandosi alle spalle i pesanti Skipray
lanciati all’inseguimento. Gli ordini ufficiali di fermarsi che sbraitavano al comunicatore si
trasformarono in un guaito sorpreso quando Luke interruppe di colpo la comunicazione. “R2? Tutto
bene, là dietro?”
Il droide squittì una risposta affermativa e sullo schermo di Luke apparve una domanda. “Sì,
erano cloni”, confermò cupo, sentendosi rabbrividire. La strana aura che circondava i nuovi cloni
dell’Impero da vicino era ancora più inquietante. “Ti dico un’altra cosa”, aggiunse. “Gli Imperiali
sapevano che stavano seguendo proprio me. Quegli assaltatori giravano con degli ysalamiri sulle
spalle”.
R2 fischiettò pensieroso, borbottando una domanda. “Già, la Fonte Delta”, concordò Luke,
leggendo il commento del droide. “Leia mi ha detto che se non riusciamo a fermare alla svelta
questa fuga di informazioni, potrebbe essere costretta a proporre di spostare le operazioni fuori dal
Palazzo Imperiale. Forse perfino fuori da Coruscant”.
Ma se la Fonte Delta era una spia umana o aliena e non un qualche sistema di intercettazione
impossibile da rilevare, spostarsi altrove sarebbe stato soltanto uno spreco di tempo. A giudicare dal
silenzio di R2, Luke immaginò che anche il droide stesse pensando la stessa cosa.
L’orizzonte lontano del pianeta, a malapena visibile contro un cielo buio ma stellato,
cominciava finalmente a mostrare una visibile curvatura. “È meglio che cominci a calcolare il salto
nell’iperspazio, R2”, lo esortò Luke. “Probabilmente dovremo andarcene da qui alla svelta”.
Quando il droide emise un bip di assenso, Luke si rivolse nuovamente verso l’orizzonte.
Oltre di esso e fuori dalla portata dei suoi strumenti, lo sapeva bene, poteva esserci un’intera flotta
di Star Destroyer ad aspettare che si allontanasse abbastanza da ogni possibilità di riparo per
attaccarlo. Fuori dalla portata dei suoi strumenti, certo, ma forse non da quella dei suoi sensi di Jedi.
Luke chiuse gli occhi, calmò la mente ed espanse i sensi con la Forza...
Se ne accorse un attimo prima che esplodesse lo strillo preoccupato di R2. C’era proprio uno
Star Destroyer imperiale, ma non a sbarrargli la strada come aveva pensato: gli stava arrivando alle
spalle, in orbita forzata negli strati alti dell’atmosfera per aumentare di velocità senza sacrificare il
riparo offerto dal pianeta.
“Tieniti forte!”, gridò Luke, inviando l’energia di emergenza al motore. Fu comunque un
gesto completamente inutile, e lo sapevano sia lui sia gli Imperiali. Lo Star Destroyer si stava
avvicinando a tutta velocità, il raggio traente già attivo e puntato su di lui. Lo avrebbero catturato
nel giro di qualche secondo.
Ma avrebbero preso soltanto il mercantile...
Luke si slacciò la cintura di sicurezza, aprendo contemporaneamente un pannello nascosto e
premendo i tre interruttori al suo interno. Il primo inserì il pilota automatico; il secondo attivò il
lanciamissili protonico a poppa e cominciò a sparare alla cieca contro lo Star Destroyer.
Il terzo interruttore, invece, avviò la sequenza di autodistruzione della navetta.
Il suo Ala-X si trovava incuneato con il muso in avanti nella stiva dietro la cabina di
pilotaggio e sembrava uno strano animale metallico che sbirciava fuori dalla sua tana. Luke balzò
sul tettuccio aperto, rischiando quasi di sbattere la testa contro il basso soffitto del mercantile.
R2 si era già sistemato nel suo alloggiamento e stava borbottando tra sé mentre preparava i
sistemi del caccia stellare. Mentre Luke si allacciava la cintura e infilava il casco, il droide lo avvisò
che erano pronti a partire.
“Bene”, disse Luke, appoggiando la mano sinistra sull’interruttore speciale che era stato
aggiunto alla sua console di comando. “Per riuscirci dovremo essere assolutamente precisi. Tieniti
pronto”.
Ancora una volta chiuse gli occhi, lasciando che la Forza espandesse i suoi sensi. Aveva già
affrontato gli Imperiali in quel modo la prima volta che aveva cercato di localizzare il Maestro
C’baoth: il suo Ala-X contro uno Star Destroyer. Anche quella era stata un’imboscata, ma non
l’aveva capito finché non aveva scoperto la scellerata alleanza tra C’baoth e l’Impero. In quella
battaglia erano stati l’abilità, la fortuna e la Forza a salvarlo.
Questa volta, se gli specialisti su Coruscant avevano fatto bene il loro lavoro, la sorte era già
dalla sua parte.
Profondamente concentrato nella Forza, Luke percepì il raggio traente un attimo prima che
lo bloccasse. Il mercantile sobbalzò nella potente presa del raggio traente; Luke azionò l’interruttore
e il muso del mercantile esplose in una nube di schegge metalliche. Un istante più tardi, spinto
dall’esplosione del ponte, l’Ala-X schizzò via tra i detriti scintillanti. Per un lungo e terrificante
attimo sembrò quasi che il raggio traente riuscisse a mantenere la presa nonostante la nube di
particelle che lo oscurava ma poi, tutto a un tratto, cedette e lo lasciò libero.
“Ce l’abbiamo fatta!”, gridò Luke a R2, facendo vorticare l’Ala-X verso lo spazio profondo.
“Manovra evasiva, tieniti forte”.
Luke fece ruotare di nuovo l’Ala-X mentre un paio di brillanti lampi verdi sfrecciavano
sopra il tettuccio in trasparacciaio. Ormai troppo distanti per usare il raggio traente, gli Imperiali
sembravano aver deciso di sistemare la faccenda facendolo saltare in aria. Lo superò un’altra raffica
di fiamme verdi e R2 gemette mentre qualcosa che aveva bruciato i deflettori si schiantava contro il
ventre dell’Ala-X. Luke si concentrò e lasciò che la Forza guidasse le sue mani sui comandi...
E poi, quasi senza alcun preavviso, fu il momento giusto e Luke tirò la leva dell’iperguida.
Con un guizzo di pseudomovimento, l’Ala-X balzò al sicuro nell’iperspazio mentre i turbolaser
della Chimaera continuavano a sparare nel punto in cui si era sparito. Le batterie tacquero e
Pellaeon emise un lungo respiro per paura di girarsi verso la postazione di comando di Thrawn. Era
la seconda volta che Skywalker sfuggiva a una trappola come quella... e la prima volta un uomo
aveva pagato con la vita quel fallimento.
Neanche il resto dell’equipaggio sul ponte lo aveva dimenticato. In quel silenzio carico di
tensione si udì chiaramente il fruscio degli indumenti quando infine Thrawn si alzò in piedi.
“Bene”, cominciò il grand’ammiraglio, sorprendentemente calmo. “Bisogna dare atto ai Ribelli
della loro bravura. Ho già visto mettere in pratica questo trucchetto, ma mai così bene”.
“Sissignore”, disse Pellaeon, cercando, senza riuscirci, di nascondere la tensione.
Con la coda dell’occhio vide che Thrawn lo osservava. “Stia tranquillo, capitano”, disse
piano il grand’ammiraglio. “Skywalker sarebbe stato un bel regalo per il Maestro C’baoth, ma la
sua fuga non mi preoccupa affatto. L’obiettivo principale di questa messinscena era convincere la
Ribellione di aver scoperto il percorso dei cloni, e ci siamo riusciti”.
La stretta al petto di Pellaeon cominciò ad allentarsi. Se il grand’ammiraglio non era
arrabbiato...
“Questo comunque non significa che si debbano ignorare le azioni dell’equipaggio della
Chimaera”, proseguì Thrawn. “Mi segua, capitano”.
Pellaeon si alzò, di nuovo preoccupato. “Sissignore”.
Thrawn fece strada giù per le scale di poppa, fino alla sala operativa a dritta. Passò davanti
ai tecnici alle loro console e agli ufficiali immobili alle loro spalle fino a fermarsi davanti alla
stazione di comando dei raggi traenti. “Nome?”, ordinò calmo a un giovane sull’attenti.
“Guardiamarina Mithel”, rispose quello, il volto pallido ma composto di un uomo che
affrontava la propria morte.
“Mi dica cos’è successo, guardiamarina”.
Mithel deglutì. “Signore, avevo appena agganciato il mercantile quando questo è esploso in
un ammasso di particelle. Il sistema di acquisizione del bersaglio ha cercato di agganciarle tutte
contemporaneamente e si è bloccato”.
“E lei cos’ha fatto?”
“Io... signore, sapevo che se avessi aspettato che la nube si dissipasse da sola, il bersaglio
sarebbe stato fuori portata, così ho cercato di dissiparla io orientando il raggio traente sull’asse
perpendicolare”.
“Non ha funzionato”.
Mithel si lasciò sfuggire un sospiro. “Nossignore. Il sistema di agganciamento non ha retto e
si completamente bloccato”.
“Sì”. Thrawn piegò leggermente il collo. “Ha già avuto un po’ di tempo per riflettere sulle
sue azioni, guardiamarina. Sa dirmi cos’altro avrebbe potuto fare?”
L’uomo storse la bocca. “Nossignore. Mi dispiace, ma non lo so. Non mi pare che nel
manuale ci sia nulla riguardo a questo tipo di situazione”.
Thrawn annuì. “Infatti”, confermò. “Non c’è nulla. Negli ultimi decenni sono stati suggeriti
vari modi per contrastare questo tipo di stratagemma, ma nessuno si è mai rivelato efficace. Il suo è
stato uno dei tentativi più originali, soprattutto se consideriamo il poco tempo che ha avuto a
disposizione per elaborarlo. Il fatto che non abbia funzionato non lo sminuisce in alcun modo”.
Mithel fece un’espressione vagamente incredula. “Signore?”
“L’Impero ha bisogno di menti rapide e creative, guardiamarina”, disse Thrawn. “Di
conseguenza lei è promosso a tenente... e il suo primo incarico è quello di trovare un modo per
contrastare questo tipo di manovra. Dato che ha funzionato questa volta, in futuro la Ribellione
potrebbe riprovarci”.
“Sissignore”, sospirò Mithel, riacquistando un po’ di colorito. “Gra... grazie, signore”.
“Congratulazioni, tenente Mithel”. Thrawn annuì, poi si rivolse a Pellaeon. “Le affido il
comando, capitano. Riprenda il volo come da programma. Sarò nella mia sala di comando, se ha
bisogno di me”.
“Sissignore”, riuscì soltanto a dire Pellaeon.
Poi se ne restò lì, accanto al tenente fresco di promozione, avvertendo lo stupore generale
sul ponte mentre osservava Thrawn allontanarsi. Se già prima l’equipaggio della Chimaera
rispettava il grand’ammiraglio, adesso sarebbe stato pronto a morire per lui.
E per la prima volta in cinque anni, Pellaeon seppe nel profondo del suo cuore che il vecchio
Impero non esisteva più, e che era nato un nuovo Impero con il grand’ammiraglio al comando.
L’Ala-X era sospeso nell’oscurità dello spazio, ad anni luce di distanza da una massa più grande di
un granello di polvere. Sembrava quasi di rivivere l’altra battaglia con lo Star Destroyer, pensò
Luke, quella che lo aveva lasciato alla deriva nello spazio e che alla fine l’aveva condotto da Talon
Karrde e Mara Jade, sul pianeta Myrkr.
Per fortuna in comune avevano solo l’apparenza, o quasi.
Dall’alloggiamento del droide dietro di lui provenne un borbottio nervoso. “Dai, R2,
rilassati”, lo tranquillizzò Luke. “Non va poi così male. Non ce l’avremmo fatta comunque a
raggiungere Coruscant senza fare rifornimento. Dovremo farlo soltanto un po’ prima del previsto,
ecco tutto”.
La risposta fu una specie di grugnito indignato. “Ti sto prendendo sul serio, R2”, disse Luke,
paziente, inviando al droide l’elenco sullo schermo del suo navigatore. “Guarda, questi sono tutti i
posti che possiamo raggiungere con metà della nostra cella energetica primaria. Vedi?”
Per un attimo sembrò che il droide stesse analizzando l’elenco e Luke ne approfittò per fare
altrettanto. In effetti, c’erano varie alternative; il problema era che molte di esse non erano il posto
ideale per un Ala-X della Nuova Repubblica. Almeno metà era sotto il diretto controllo dell’Impero,
e la maggior parte delle altre simpatizzavano con l’Impero o non avevano ancora preso una precisa
posizione politica.
In ogni caso, anche su un mondo dell’Impero c’erano dei varchi tra i sensori in cui sarebbe
potuto sgusciare un caccia stellare. Avrebbe potuto atterrare in qualche posto isolato, raggiungere lo
spazioporto più vicino a piedi e comprare un po’ di celle energetiche con la valuta imperiale che gli
era rimasta. Sarebbe stato un po’ più difficile tornare all’Ala-X con le celle energetiche, ma nulla
che R2 non potesse risolvere.
Il droide pigolò un suggerimento. “Potrebbe andar bene Kessel”, ammise Luke. “Però non
ne sono certo, ho sentito che Moruth Doole è ancora al comando, e Han non si è mai fidato di lui.
Forse sarebbe meglio Fwillsving, o magari...”
Si interruppe quando uno dei pianeti dell’elenco attirò la sua attenzione. Un pianeta che Leia
aveva inserito nel suo sistema di navigazione poco prima che partisse per quella missione.
Honoghr.
“Ho un’idea migliore, R2”, disse lentamente Luke. “Andiamo a trovare i Noghri”.
Dietro di lui, R2 emise uno strillo preoccupato e incredulo. “Oh, andiamo”, lo ammonì
Luke. “Leia e Chewie ci sono già stati ed è andato tutto bene, no? E c’era anche 3PO”, aggiunse.
“Non vorrai mica che 3PO dica che tu hai paura di andare in un posto in cui è stato lui, vero?”
R2 grugnì di nuovo. “Non importa se aveva o meno un’alternativa”, disse Luke, deciso. “Il
punto è che lui ci è andato”.
Il droide emise un borbottio rassegnato. “Così va meglio”, lo incoraggiò Luke, iniziando i
calcoli per il viaggio verso Honoghr con il computer del navigatore. “Leia voleva che ci andassi,
comunque. In questo modo prenderemo due dewback con un colpo solo”.
R2 emise un ultimo borbottio frustrato e poi tacque. Luke, che pure si fidava del giudizio di
Leia sui Noghri, ammise fra sé che forse non era stato il modo di dire più rassicurante da usare.
CAPITOLO 5
I dati della battaglia nel sistema di Woostri scorsero fino in fondo allo schermo del data pad e si
fermarono. “Ancora non ci credo”, disse Leia scuotendo la testa e posando il data pad sul tavolo.
“Se l’Impero avesse una superarma in grado di attraversare gli scudi planetari, l’avrebbe già usata in
ogni sistema che ha attaccato. Dev’esserci un genere di trucco o qualcosa del genere”.
“Sono d’accordo”, disse a bassa voce Mon Mothma. “La domanda è: come convinciamo il
resto del Consiglio e dell’Assemblea? Per non parlare dei sistemi esterni...”
“Dobbiamo scoprire cos’è successo davvero su Ukio e su Woostri”, intervenne l’ammiraglio
Ackbar con una voce ancora più roca del solito. “E dobbiamo farlo alla svelta”.
Leia riprese il data pad, lanciando un’occhiata ad Ackbar all’altro capo del tavolo. Le
palpebre dei grandi occhi del Mon Calamari sembravano stranamente pesanti e il suo colore rosa
salmone era decisamente più sbiadito del solito. Era stanco, stanchissimo... e con le offensive
dell’Impero ancora in corso in tutta la galassia, non si sarebbe certo riposato presto.
Nessuno di loro l’avrebbe fatto, se per questo. “Sappiamo già che il grand’ammiraglio
Thrawn ha la straordinaria capacità di comprendere i suoi avversari”, ricordò agli altri. “Magari
potrebbe aver previsto che gli Ukiani e i Woostridi si sarebbero arresi in poco tempo”.
“Al contrario dei Filviani, per esempio?”, annuì lentamente Mon Mothma. “È un punto di
vista interessante. Potrebbe voler dire che il loro trucco non può funzionare a lungo”.
“O che richiede troppa energia”, aggiunse Ackbar. “Se l’Impero ha scoperto un modo per
concentrare una forma di energia invisibile contro uno scudo, potrebbe indebolire una sezione
abbastanza a lungo da far fuoco con i turbolaser attraverso la breccia. Ma una cosa del genere
richiederebbe un enorme consumo di energia”.
“E dovrebbe mettere visibilmente alla prova lo scudo”, precisò Mon Mothma. “Le
informazioni in nostro possesso non indicano nulla del genere”.
“Le nostre informazioni potrebbero essere sbagliate”, ribatté Ackbar con una breve occhiata
al consigliere Borsk Fey’lya. “O potrebbero essere state manipolate dall’Impero”, aggiunse. “È già
successo”.
Anche Leia guardò Fey’lya, chiedendosi se quell’insulto velato alla sua gente avrebbe
finalmente costretto il Bothan a dire qualcosa. Ma Fey’lya se ne rimase lì, seduto, gli occhi fissi sul
tavolo, la pelliccia color crema immobile. Non parlava, non reagiva, forse non pensava nemmeno.
Leia immaginò che alla fine avrebbe riacquistato il coraggio di parlare e un po’ della sua
vecchia forza politica. Per adesso, però, con le sue false accuse nei confronti di Ackbar ancora
fresche nei ricordi dei presenti, Fey’lya faceva penitenza nel modo tipico della sua specie.
Tutta quella frustrazione le stringeva lo stomaco. Ancora una volta, l’atteggiamento
inflessibile ed estremista del Bothan nei confronti della politica andava contro gli stessi interessi
della Nuova Repubblica. Alcuni mesi prima, le accuse di Fey’lya ad Ackbar avevano fatto sprecar
loro tempo ed energie preziose; adesso, proprio quando il Consiglio aveva bisogno di ogni minima
risorsa o informazione possibile, comprese le sue, il Bothan giocava a fare la vittima.
C’erano giorni, e notti lunghe e buie, in cui Leia credeva che non sarebbe riuscita a tenere
unita la Nuova Repubblica.
“Naturalmente ha ragione, ammiraglio”, asserì Mon Mothma con un sospiro. “Ci servono
più informazioni, e il più presto possibile”.
“L’organizzazione di Talon Karrde è ancora la nostra migliore possibilità”, disse Leia.
“Hanno dei contatti, sia con noi sia con gli Imperiali. E da quel che ha detto Luke nel suo ultimo
messaggio, Karrde sembrava interessato”.
“Non possiamo permetterci di aspettare i comodi di un contrabbandiere”, grugnì Ackbar, i
barbigli della bocca che gli si irrigidivano per il disprezzo. “E per quanto riguarda il generale Bel
Iblis? Ha combattuto da solo contro l’Impero per molti anni”.
“Il generale ci ha già comunicato i suoi contatti”, disse Mon Mothma, contraendo un
muscolo del volto. “Al momento li stiamo ancora integrando nei nostri sistemi”.
“Non mi riferivo ai suoi contatti”, replicò Ackbar. “Mi riferivo proprio al generale in
persona. Perché non è qui?”
Leia guardò Mon Mothma con un’altra stretta allo stomaco. Garm Bel Iblis era stato uno dei
primi a unificare le singole cellule della resistenza nell’Alleanza Ribelle, che aveva guidato per anni
nell’ombra insieme a Mon Mothma e al padre adottivo di Leia, Bail Organa. Ma quando Organa era
morto con tutta la sua gente durante l’attacco della Morte Nera ad Alderaan, e Mon Mothma aveva
cominciato ad accentrare il potere, Bel Iblis aveva lasciato l’Alleanza e aveva deciso di combattere
da solo contro l’Impero. Da allora, aveva condotto la sua guerra privata... finché non aveva
incrociato, quasi per caso, la strada di un altro Corelliano come lui: Han Solo.
Era stata l’insistenza di Han a coinvolgere Bel Iblis e le sue sei Dreadnaught nella battaglia
della Nuova Repubblica per la flotta Katana. Mon Mothma aveva parlato di lasciarsi il passato alle
spalle e aveva riaccolto Bel Iblis.
Poi però l’aveva inviato a rafforzare le difese nei settori esterni della Nuova Repubblica, il
più lontano possibile da Coruscant.
Leia ancora non se la sentiva di imputare la decisione di Mon Mothma al suo rancore. Ma
alcuni, fra i ranghi della Nuova Repubblica, ricordavano bene Bel Iblis e il suo genio tattico... e non
tutti erano disposti a dare a Mon Mothma il beneficio del dubbio.
“L’esperienza del generale è richiesta al fronte”, disse Mon Mothma in tono neutro.
“La sua esperienza è richiesta anche qui”, replicò Ackbar, ma Leia avvertì la rassegnazione
nella sua voce. Anche Ackbar era appena tornato da un giro d’ispezione delle difese di Farrfin e
Dolomar, e il giorno dopo sarebbe partito per Dantooine. Con la macchina bellica dell’Impero in
movimento, la Nuova Repubblica non poteva permettersi il lusso di spedire i suoi migliori
comandanti a svolgere incarichi d’ufficio.
“Comprendo le sue preoccupazioni”, disse Mon Mothma, un po’ più gentile. “Una volta che
avremo di nuovo la situazione sotto controllo, intendo richiamare il generale Bel Iblis e affidargli la
pianificazione tattica”.
Se avremo di nuovo la situazione sotto controllo, la corresse mentalmente Leia, sentendosi
di nuovo stringere lo stomaco. Finora le cose andavano bene soltanto all’Impero...
Quel pensiero si interruppe a metà quando si rese conto all’improvviso che non era lo
stomaco...
Ackbar aveva preso di nuovo parola. “Scusatemi”, lo interruppe Leia, alzandosi in piedi.
“Mi dispiace interrompervi, ma ho bisogno di andare in infermeria”.
Mon Mothma spalancò gli occhi. “I gemelli?”
Leia annuì. “Credo che stiano per nascere”.
I muri e il soffitto della sala parto erano di un caldo marrone chiaro, illuminati da una serie di luci
intermittenti che erano state sincronizzate con le onde cerebrali di Leia. In teoria, avrebbero dovuto
aiutarla a rilassarsi e a concentrarsi. In pratica, dopo dieci ore che le fissava, Leia aveva deciso che
non servivano più a nulla.
Arrivò un’altra contrazione, la più dolorosa fino a quel momento. Leia usò automaticamente
la Forza, mettendo in pratica i metodi per tenere a bada il dolore muscolare che le aveva insegnato
Luke. Se non altro, il parto le stava dando la possibilità di allenarsi nelle tecniche Jedi.
E non soltanto quelle per controllare il dolore. Va tutto bene, pensò rivolta alle piccole menti
dentro di lei. Va tutto bene. La mamma è qui.
Non servì a molto. In balia di forze che non potevano comprendere, spinti verso l’ignoto, i
due piccoli gemelli tremavano di paura.
A essere sinceri, il loro papà non se la passava molto meglio.
“Come va?”, domandò per l’ennesima volta Han da quando erano arrivati, e per l’ennesima
volta le strinse forte la mano, quasi a imitare la tensione della schiena inarcata.
“Sto ancora bene”, lo rassicurò Leia. La contrazione finì e Leia rilassò i muscoli delle spalle,
stringendogli la mano in risposta. “Tu no, però”.
Han fece una smorfia. “Di solito a quest’ora dormo”, disse in tono sarcastico.
“Sarà sicuramente per questo”, disse Leia. Han era nervoso come un tauntaun in equilibrio
sui cuscinetti a sfera da quando erano iniziate le doglie, ma si stava sforzando in tutti i modi di non
darlo a vedere. Leia sospettava che lo facesse più per il suo bene che per il danno che
un’ammissione del genere avrebbe potuto arrecare alla sua immagine. “Scusa”.
“Non fa niente”. Han diede un’occhiata al medico e ai due droidi MD ai piedi del lettino di
Leia. “A quanto pare ci siamo quasi, dolcezza”.
“Contaci”, gli disse Leia, la voce strozzata dall’ennesima contrazione. “Oh”...
La tensione di Han salì ancora. “Stai bene?”
Leia annuì, i muscoli della gola così tesi da non riuscire a parlare. “Stringimi, Han”,
bisbigliò quando riuscì di nuovo a parlare. “Stringimi e basta”.
“Sono qui”, disse Han sottovoce, facendo scivolare delicatamente la mano libera sotto la sua
schiena.
Leia lo udì a malapena. Dentro di lei, le vite che aveva creato insieme a lui stavano
cominciando a muoversi... e tutto a un tratto la loro paura divenne terrore.
Non abbiate paura, pensò Leia. Non abbiate paura. Andrà tutto bene. Sono qui. Presto
staremo insieme.
Non si aspettava che la capissero davvero; le menti dei gemelli erano troppo poco sviluppate
per comprendere qualcosa di così astratto come le parole o il concetto del futuro. Ma Leia insistette,
avvolgendoli più che poté, insieme alla loro paura, nel suo amore, nella pace e nella serenità. Arrivò
un’altra contrazione: l’inesorabile movimento verso l’esterno continuò...
E poi, con sua somma gioia, una delle piccole menti le rispose, sfiorandola come mai i due
gemelli avevano fatto quando li aveva accarezzati col pensiero. La paura cominciò a calmarsi e Leia
vide mentalmente l’immagine improvvisa della mano di uno dei bambini aggrappata forte al suo
dito.
Sì, disse al figlio. Sono la tua mamma, e sono qui.
La piccola mente sembrò rifletterci su. Leia continuò a rassicurarlo, e i pensieri del neonato
si allontanarono un po’ da lei, come se la sua attenzione fosse stata attirata altrove. Leia decise che
si trattava di un buon segno; se si fosse distratto da ciò che stava per succedere...
E poi, con suo grande stupore, la paura cominciò a dileguarsi anche nella seconda mente,
una mente che per quanto Leia ne sapeva non era ancora consapevole della sua presenza...
In seguito la cosa le sarebbe sembrata ovvia, se non addirittura inevitabile. Ma in quel
momento ne era rimasta così sorpresa da rabbrividire nell’animo. I gemelli, crescendo insieme nella
Forza come erano cresciuti dentro di lei, erano in armonia l’uno con l’altro in un modo e con una
tale profondità che Leia sapeva non sarebbe mai riuscita a comprendere pienamente.
Fu allo stesso tempo uno dei momenti più belli e più intensi di tutta la sua vita. Scorgere uno
scorcio del futuro, vedere i suoi figli crescere e consolidarsi nella Forza... pur sapendo che ci
sarebbe stata una parte della loro vita che non avrebbe mai condiviso.
Le contrazioni cessarono mentre quella magnifica visione del futuro, insieme dolce e amara,
svaniva in una fitta di dolore nei più remoti recessi della sua mente. Ciò che le fece più male fu la
vergogna, in quell’ondata di emozioni egoistiche, di non aver nemmeno pensato che Han avrebbe
condiviso le loro vite ancor meno di lei.
E all’improvviso le sembrò quasi che una luce le scoppiasse negli occhi in mezzo a tutta
quella confusione. Di riflesso strinse la mano di Han ancora più forte. “Cosa...?”
“Arriva”, strillò Han, stringendola a sua volta. “Il primo è uscito per metà”.
Leia sbatté le palpebre, mentre la luce che aveva quasi immaginato svaniva e la sua mente si
liberava dal contatto con i suoi figli. I figli che non avevano mai visto una luce più intensa di un
tenue bagliore. “Spegnete quella luce”, ansimò. “È troppo forte. I loro occhi...”
“Va tutto bene”, la rassicurò il dottore. “I loro occhi si abitueranno. Coraggio: un’altra
spinta”.
Poi, senza preavviso, la prima parte ebbe fine. “Eccone uno”, le disse Han, stranamente
senza fiato. “È...”, cominciò, allungando il collo. “È nostra figlia”. Si girò verso Leia, la tensione
dipinta sul volto con quel sorriso un po’ sghembo che conosceva così bene. “Jaina”.
Leia annuì. “Jaina”, ripeté. In qualche modo, i nomi che avevano deciso non erano mai
sembrati così belli come in quel momento. “E Jacen?”
“A quanto pare, non vede l’ora di raggiungere sua sorella”, disse il dottore con fare in tono
ironico. “Stia pronta a spingere, sembra quasi che voglia uscire da solo. Bene... spinga”.
Leia inspirò profondamente. C’era quasi. Dopo dieci ore di travaglio – e nove mesi di
gravidanza – era quasi alla fine.
No. Non era alla fine. Era all’inizio.
Le adagiarono i gemelli tra le braccia soltanto pochi minuti dopo... e posando lo sguardo su
di loro per la prima volta, e poi su Han, si sentì davvero in pace. Là fuori, tra le stelle, poteva anche
esserci una guerra in corso; ma lì, in quel momento, nell’universo andava tutto a meraviglia.
“Attento, capo Rogue”, gridò la voce di Rogue dieci nell’orecchio di Wedge. “Ti stanno seguendo”.
“Lo vedo”, disse Wedge, virando con forza il suo Ala-X. Il caccia TIE lo superò, sparando
una raffica di laser, e tentò di imitare la manovra di Wedge. Un altro Ala-X comparve dietro
l’Imperiale nel giro di mezzo secondo e lo fece esplodere in una nuvola di fuoco.
“Grazie, Rogue otto”, disse Wedge, asciugandosi il sudore dalla punta del naso e dando
un’occhiata ai sensori. Almeno per adesso sembrava che il loro piccolo angolo di spazio fosse
pulito. Virando lentamente l’Ala-X, diede una rapida occhiata al campo di battaglia.
Era peggio di quanto temesse, molto peggio di soltanto cinque minuti prima, quando erano
usciti dall’iperspazio altri due Star Destroyer classe Victory e avevano attaccato a bruciapelo uno
dei loro ultimi tre incrociatori stellari Mon Calamari. E con il ritmo con cui stavano facendo fuoco i
loro turbolaser...
“Squadriglia Rogue: virare in direzione ventidue punto otto”, ordinò, lanciandosi in una
rotta d’intercettazione e chiedendosi come diamine ci fossero riusciti gli Imperiali. Fare un salto
così preciso era difficile in circostanze ideali, ma nel caos di una battaglia sarebbe dovuto essere
praticamente impossibile. Era solo un altro esempio della nuova, incredibile capacità dell’Impero di
coordinare le proprie forze.
Udì un trillo di avviso da parte del droide astromeccanico alle sue spalle: adesso erano vicini
a una massa troppo grande per effettuare il salto nell’iperspazio. Wedge si guardò intorno
aggrottando la fronte e individuò finalmente l’incrociatore d’interdizione in lontananza che si
teneva lontano dalla battaglia. A quanto pareva, gli Imperiali non volevano lasciarsi scappare
nessuna nave della Nuova Repubblica.
Proprio davanti a loro, alcuni caccia TIE degli Star Destroyer Victory stavano sfrecciando
nella loro direzione.
“Formazione Porkins”, ordinò Wedge alla squadriglia. “Occhio ai fiancheggiatori.
Incrociatore stellare Orthavan, qui squadriglia Rogue. Arriviamo”.
“Restate dove siete, capo Rogue”, disse la voce rauca di un Mon Calamari. “La situazione è
troppo grave. Non potete aiutarci”.
Wedge strinse i denti. Il Mon Calamari probabilmente aveva ragione. “Ci proveremo
comunque”, disse all’altro. I caccia TIE erano ormai a portata di tiro. “Tenete duro”.
“Squadriglia Rogue, qui Bel Iblis”, si intromise una nuova voce. “Interrompete l’attacco. Al
mio ordine, virate di trenta gradi a dritta”.
Wedge si sforzò di trattenersi dal dire qualcosa che l’avrebbe portato probabilmente davanti
alla corte marziale. Per come la vedeva lui, finché una nave era tutta intera c’era ancora la
possibilità di salvarla.
A quanto pareva, il generale Bel Iblis non era della stessa opinione. “Ricevuto, generale”,
sospirò. “Squadriglia Rogue: tenetevi pronti”.
“Squadriglia Rogue... via”.
A denti stretti, Wedge obbedì e virò di lato l’Ala-X. I caccia TIE cambiarono rotta per
seguirlo e parvero improvvisamente in difficoltà...
Con un ruggito che sembrò echeggiare anche nei gas rarefatti dello spazio interplanetario,
una formazione d’assalto di Ala-A comparve nel punto appena abbandonato dalla squadriglia
Rogue. I caccia TIE, già all’inseguimento degli Ala-X, furono colti alla sprovvista e, prima che
potessero assumere una formazione difensiva, furono superati dagli Ala-A, diretti a tutta velocità
verso l’incrociatore stellare sotto attacco. “Bene, squadriglia Rogue”, disse Bel Iblis. “Ora tocca a
voi. Copritegli le spalle”.
Wedge ghignò. Avrebbe dovuto aspettarselo da Bel Iblis. “Ricevuto, generale. Squadriglia
Rogue: facciamoli fuori”.
“Poi”, aggiunse in tono cupo Bel Iblis, “preparatevi alla ritirata”.
Wedge sbatté le palpebre, il ghigno che svaniva. Ritirata? Rivolgendo l’Ala-X verso i caccia
TIE, osservò l’area dello scontro.
Alcuni minuti prima, la situazione era già brutta. Adesso era praticamente un disastro. Le
forze di Bel Iblis erano ridotte ad appena due terzi delle quindici navi con cui aveva cominciato la
battaglia, la maggior parte delle quali strette in una disperata formazione difensiva. Erano
circondate da oltre venti Star Destroyer e Dreadnaught, che le attaccavano senza tregua.
Wedge guardò di nuovo i caccia TIE in avvicinamento e l’incrociatore d’interdizione alle
loro spalle, i cui proiettori gravitazionali impedivano alle forze sotto assedio di effettuare il salto
nell’iperspazio...
E poi ebbero addosso i caccia TIE e non ci fu più tempo per pensare. La battaglia fu breve,
ma intensa: l’improvvisa comparsa degli Ala-A alle spalle della squadriglia Rogue aveva confuso
abbastanza i caccia TIE. Dopo tre minuti, o forse quattro, la zona della squadriglia Rogue era di
nuovo libera.
“E adesso che facciamo, capo Rogue?”, domandò Rogue due mentre la squadriglia
riprendeva la formazione in mezzo ai resti della battaglia.
Incrociando mentalmente le dita, Wedge lanciò uno sguardo all’Orthavan. Se il trucco di
Bel Iblis non avesse funzionato...
Ma funzionò. Gli Ala-A avevano distratto gli Star Destroyer classe Victory abbastanza a
lungo da permettere all’incrociatore stellare di riprendere fiato e tornare all’attacco. I potenti
turbolaser e i cannoni ionici dell’Orthavan continuavano a sparare, mettendo fuori gioco i sistemi
degli Imperiali e danneggiando le loro navi. Mentre guardava, uno spruzzo di gas surriscaldato
eruppe dalla sezione centrale dello Star Destroyer più vicino, facendolo ruotare su se stesso.
Muovendosi sotto il relitto della nave, l’incrociatore stellare si allontanò dalla battaglia, diretto
verso l’incrociatore d’interdizione.
“Modificare la rotta e seguire l’Orthavan”, ordinò Wedge. “Potrebbero aver bisogno di
rinforzi”.
Non fece in tempo a finire la frase: un paio di Dreadnaught apparvero all’improvviso
dall’iperspazio a fianco dell’Orthavan. Wedge trattenne il fiato, ma l’incrociatore stellare si stava
spostando troppo velocemente e le Dreadnaught lo mancarono per un soffio. L’incrociatore li
superò senza fermarsi e mentre le navi viravano per seguirlo la squadriglia di caccia Ala-A riprovò
la manovra precedente. Ancora una volta, l’efficacia del diversivo fu molto più grande dei danni
inflitti. Quando le Dreadnaught riuscirono a disimpegnarsi, l’Orthavan era ormai fuori della loro
portata.
E gli Imperiali lo sapevano. Dietro di Wedge, il droide astromeccanico cinguettò: il campo
pseudogravitazionale cominciava a svanire, poiché il lontano incrociatore d’interdizione stava
spegnendo i proiettori gravitazionali per prepararsi a fuggire nell’iperspazio.
L’incrociatore d’interdizione...
All’improvviso fu tutto chiaro. Si era sbagliato: per uscire così vicini all’incrociatore
stellare, quegli Star Destroyer Victory non avevano avuto bisogno di nessun coordinamento
pseudomistico. Tutto quello che avevano dovuto fare era stato seguire il vettore iperspaziale fornito
dall’incrociatore d’interdizione e attendere che il campo gravitazionale li attirasse nuovamente nello
spazio normale.
Wedge fece una smorfia. Molto tempo prima aveva imparato che sopravvalutare le capacità
del nemico poteva essere pericoloso quanto sottovalutarle. Era una lezione che avrebbe dovuto
cominciare a ricordare.
“Il campo gravitazionale dell’incrociatore d’interdizione è spento”, disse la voce di Bel Iblis.
“A tutte le unità: confermare e prepararsi alla ritirata”.
“Squadriglia Rogue, ricevuto”, disse Wedge con una smorfia mentre virava sul loro vettore
di fuga prestabilito e dava un’occhiata a ciò che restava della loro forza d’attacco. Non c’erano
dubbi: avevano subito una sconfitta, una sonora sconfitta, e con tutta la sua leggendaria abilità
strategica Bel Iblis era riuscito soltanto a impedire che la loro sconfitta si tramutasse in una vera
disfatta.
E il prezzo da pagare sarebbe stato un altro sistema in mano all’Impero.
“Squadriglia Rogue: via”.
“Ricevuto”. Wedge sospirò e tirò la leva dell’iperguida. Mentre le stelle diventavano scie
luminose, pensò con amarezza che, almeno per un po’, sottovalutare l’Impero non sarebbe stato
molto difficile.