Amelie fu

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Amelie fu
Amélie fu
— No, meglio “Amélie”, qui preferiamo usare solo nomi francesi.
— Cosa? Dio. E io che pensavo veniste veramente dalla Francia.
— Questo perché voi uomini sapete essere così deliziosamente ingenui!
In centrale di polizia Amélie c’è stata già quattro volte e non capisce ancora bene perché. Atti
osceni in luogo pubblico, dicono loro - non c’è nulla di osceno nell’essere se stessi, dice lei. Questa
volta però le cose sono diverse. Peggiori. E lei non c’entra.
La sala adibita agli interrogatori è sempre stata spoglia, ma mai così luminosa, una luce che rovina
il trucco. Amélie sa che non conviene lamentarsi, però protesta ugualmente; mal che vada passerà il
resto della sua vita in prigione ed è una cosa che tanto sarebbe successa comunque. L’agente
Righetti, perfido quanto la prima volta che si sono incontrati, le punta una lampada in faccia.
— Così va meglio, troietta?— chiede. Lui lo fa perché la odia. No, è solo paura.
— Finiscila. — lo riprende il suo compagno. Per quanto silenzioso, Amélie sente lo stesso. E
sorride. — Grazie agente Miller. — dice allora. — Ma non deve preoccuparsi, io e il suo amico
siamo vecchie conoscenze, abbiamo il nostro codice d’amore.
Dario Righetti è ora troppo imbarazzato per rispondere; potrebbe insultarla, ma non gli escono le
parole di bocca. Amélie ne è soddisfatta, Miller anche di più.
— Non siamo qui per parlare di questo, comunque. — dice allora. Ne avrebbe parlato lui dopo, e
con tutti gli altri colleghi. — Siamo qui perché lei è sospettata dell’omicidio di Monica De Bianchi.
— Invece sbaglia, agente. — sospira lei, chiudendo gli occhi. — Il suo nome era Monique,
Monique e basta.
— Credevo fosse solo un nome d’arte.
— Il nome di una persona è il nome con cui vive.
— Oh, certo. — risponde Righetti, feroce e vendicativo. — Comoda scusa per un frocio come te!
Ma se pensi che ti seppelliremo con quel nome da checca, o che qualcuno dimenticherà mai chi sei
veramente, allora preparati a una bella delusione, Sandro spaccameloinculo Sconde!
— Agente Righetti!— Miller si sconvolge, ma ad Amélie certi insulti non toccano più. È paura –
non odio, solo paura. Ipocrisia.
— Non si preoccupi. — tenta di dire. — Anche questo è amore.
Però Miller non lo sopporta ugualmente. Vorrebbe allontanare Righetti per l’irrispettoso
atteggiamento tenuto nei confronti di Amélie, ma sotto sotto teme l’immagine che i suoi colleghi si
sarebbero fatti di lui, da dietro lo specchio unidimensionale. E allora sta zitto.
— Stavamo parlando di Monique. — continua Amélie. Lo sta aiutando, glielo deve. Non ha fatto
nulla per lei, ma avrebbe voluto, e tanto basta.
— Giusto. Giusto. — grazie. — Quindi, dov’era la notte del quattro dicembre?
— Non importa dov’ero, tanto non ci credereste comunque, ma non sono stata io a ucciderla.
Monique era mia amica, voi non avete idea di quanto mi fosse amica. Voi non ne avete idea e basta.
— E quindi dovremmo crederle sulla parola?
Amélie si sporge sul tavolo. — L’ho già detto, agente Miller. Voi non mi crederete affatto.
Atmosfera rovente, clienti accaldati, musica inebriante: sul palco sta ballando Monique. Bionda,
alta e sexy – non ce li ha diciotto anni, e poco importa. Quando balla Monique il Pécheur va a
fuoco, un’insaziabile, sensualissima agonia; dicono che nemmeno l’Apocalisse riuscirebbe a
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distrarre gli uomini durante un suo numero da solista. C’è solo lei sul palco. Solo lei, il fuoco, la
dolcezza e la perfidia del demonio.
Sono quasi due settimane che Sandro lavora al Pécheur. Quando se n’è andato di casa sperava in
qualcosa di meglio, ma per uno che non ha mai saputo fare niente divenire primo cameriere in un
locale di Burlesque non è poi così male.
— Ti assumo solo perché sei gay.
— Io non…
— Lo sei. E va bene così. L’ultimo cameriere aveva preso di mira una delle mie ballerine.
E poi Sandro ama i vestiti da Burlesque. Meravigliosamente femminili, leggeri, sexy. Ricchi di
pizzo. Dio, che bello il pizzo…
— Quei vestiti dovrebbero essere nel camerino di Monique da almeno dieci minuti.
La voce di Maitresse Olympe lo coglie di sorpresa. Sa essere sensuale, ammaliante, deliziosa, o
semplicemente dura; ora è dura e la cosa fa veramente paura. Dieci minuti di ritardo possono
rovinare lo spettacolo e Olympe è perfettamente in grado di distruggere chiunque mandi a monte un
numero.
— Corro!— grida Sandro, senza nemmeno fingere di voltarsi verso la spaventosa Padrona del
Pécheur.
Monique non è mai stata un’artista capricciosa, ma appena acquisito un minimo di notorietà aveva
scongiurato Olympe di avere un proprio camerino privato. Le piace il silenzio, ecco cosa, e Sandro
concorda: nel camerino comune Caos imperversa pure quando il Pécheur è chiuso. Il suo è
abbastanza piccolo da non suscitare invidia nelle altre compagne di Burlesque: un banco, due sedie,
qualche scaffale per i trucchi, Monique non ha chiesto altro e altro non ha avuto. Fonti ignote le
hanno però fatto pervenire un meraviglioso specchio da parete, alto quasi fino al soffitto,
tragicamente sprecato per quell’insignificante buco di mondo. Ed è proprio su questo che Sandro si
vede ora riflesso, con il vestito da Burlesque stretto tra le mani. Il crimine perfetto non esiste, ma
due settimane al Pécheur sono state più che sufficienti a insegnargli come indossare uno di quei
meravigliosi tutù in tempo utile. I sensi di colpa, poi, sono morti quasi sette anni fa, dopo che sua
madre era riuscita a sorprenderlo con addosso uno dei suoi meravigliosi abiti da sera.
E comunque Monique ne avrà per altri cinque minuti.
— No, adesso spiegami. Quante volte è che ti saresti provata i miei vestiti nel mio camerino?
— Fidati, non vuoi veramente saperlo.
Cinque minuti diventano subito tre, e Sandro non può più permettersi di sprecare altro tempo per
allacciare il corsetto, rimasto molle sui fianchi. Però l’immagine riflessa sullo specchio è molto
meno ridicola di quanto avesse immaginato. Il gonnellino di pizzo nero oscilla deliziosamente a
ogni movimento, il rossetto segretamente steso sulle labbra è provocante, ma non troppo volgare;
mancherebbe solo una parrucca. Accenna qualche passo, canticchiando il ritornello di Moi, Lolita,
con cui Monique avrebbe dovuto esibirsi. Si lascia trasportare, forse un po’ troppo, dalla propria
meravigliosa fantasia, e chiude gli occhi. Immagina il palco, immagina il pubblico, immagina gli
applausi – quando però gli applausi arrivano veramente, ogni sottilissima lamina d’immaginazione
si frantuma in infinite, dolorosissime schegge di vetro.
Sandro apre gli occhi. Lo specchio non riflette più la sua sola immagine, ora così dannatamente
ridicola da spaventarlo. Monique lo sta squadrando dalla porta.
— Scusami! Scusami, Dio, scusami, non avrei dovuto, non dirlo a Olympe, Dio…
Sandro prova a spogliarsi dell’abito da Burlesque, troppo agitato per cogliere la possibilità che
qualcuno avrebbe potuto sorprenderlo nudo nel camerino privato di una minore.
— Oh no, non volevo spaventarti. Continua a cantare, eri così bravo!— fa però lei, battendo ancora
le mani. Sandro rimane prevedibilmente pietrificato sul posto.
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— E poi quel vestito dona più a te che a me. —, continua.
Ora lui si sente svenire.
— Olympe impazzirà di gioia quando le racconterò cosa ho appena visto. Sei proprio quello che
stavamo cercando!
Forse è svenuto veramente.
— Aspetta, non ho capito bene cosa sia successo. — L’agente Miller si concede un sorso di caffè,
poi continua: — Dopo essere stato sorpreso nel camerino di una famosissima ballerina di
Burlesque, questa si sarebbe pure complimentata con te?
— Monique era una persona particolare. — risponde Amélie — Allora penso di essermi sentita
male, ma poi ci ho fatto l’abitudine. Tutte le sue idee erano folli, alcune talmente tanto folli da
diventare geniali.
— E questa è una di quelle idee geniali?
— A quanto pare sì. O forse no, dipende dai punti di vista. — il suo sguardo si rabbuia — La mia
vita è cambiata radicalmente. In meglio? In peggio? Non lo so. Però ero felice e giuro, giuro, non
riuscirò mai a sdebitarmi a sufficienza per questo.
— E Olympe come ha reagito?
— Si è incazzata di brutto, ma solo perché mancavano meno di due minuti allo spettacolo e il
vestito di Monique lo stavo ancora indossando io.
— Sandro, come dipendente fai veramente schifo e io giuro sull’incolumità del mio preziosissimo
locale che se ai provini di questa sera non brilli quanto Monique mi ha promesso, io ti rispedisco
indietro a suon di sberle e calci in culo.
— Quindi siccome sai cantare e stai bene vestito da donna, lei ti ha assunto?— un altro sorso di
caffè. Brodaglia fredda, ormai, ma utile alla concentrazione.
— Non è così semplice, non basta “stare bene” vestito da donna, bisogna sentirsi una donna, essere
una donna, ma non apparire donna. Solo così si fa scandalo. E spettacolo.
— Quindi poi cos’è successo?
— Poi?— ora sorride — Poi è nata Amélie.
Atmosfera rovente, clienti accaldati, musica inebriante: sul palco sta cantando Amélie. Dicono che
nemmeno l’Apocalisse riuscirebbe a distrarre gli uomini durante un suo numero da solista, ma
perché Amélie è l’Apocalisse, la fine del mondo: distruttiva, spaventosa, meravigliosa. Perfetta.
E ora sì che si sente veramente bene. Può sopportare gli insulti, quando hanno voglia di insultarla.
Può sopportare le minacce, quando hanno voglia di minacciarla. Può sopportare tutto, perché è
perfetta, così è perfetta, così è se stessa.
A dispetto di tutto e tutti, Monique non se ne risente affatto. Qualcuno aveva ipotizzato che sarebbe
potuta diventare gelosa del successo di Amélie, ma questo qualcuno non deve aver mai conosciuto
Monique. Per lei, Amélie è arte e l’arte va amata.
— Io sono un’artista, tu la mia opera. E ne vado pure molto fiera.
— Finiscila Monique, sono una persona, non un bel quadro.
— Perché, le persone non possono essere arte?
Il Pécheur ha insegnato ad Amélie che esistono infinite forme d’amore e che è possibile viverle
tutte e tutte in una volta. Lo deve soprattutto a Monique – lei è Amore in forma pura. Tra Amélie e
Monique non c’è nulla di fisico, e nemmeno di spirituale: vivono un sentimento che non si
comprende. Anche perché Monique ama il mondo intero, ed è sempre amore totalizzante e sincero.
Amélie ha invece provato sulla pelle quell’amore, imbruttito dall’odio, sfalsato dalla paura, che gli
uomini sanno donare solo a chi credono di non amare affatto.
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Non sono mai solo Amélie e Monique: sono Amélie, Monique e tanti altri cuori, tutti diversi, unici
e indispensabili. È un’orgia di sentimenti variopinti: travolge, distrugge, crea. Poi sì – ci sono
persone che non capiscono l’amore e quindi non capiscono Monique. Le spezzano il cuore e
credono che lei lo abbia spezzato a loro, e così Amélie si assume il compito di confortarla,
sostenerla, amarla – in modo né fisico, né spirituale. Cerca di ripagare un debito che non ripagherà
mai.
Nonostante i tanti dolori, dovuti in parte all’odio che molti uomini fingono di riversarle addosso, in
parte alle infinite sofferenze di Monique, Amélie è ora straordinariamente felice. Sembra davvero
che nulla possa andare storto.
Tutto inizia ad andare storto dopo la sua seconda incarcerazione. Ai tre mesi di penitenziario
scontati la prima volta, seguono ora due anni di reclusione. “Atti osceni il luogo pubblico”, dicono
loro, ed è una definizione fuorviante, perché di “osceno” nell’amore non c’è e non c’è mai stato
niente. E in ogni caso Amélie era ubriaca, il suo uomo era ubriaco, ed entrambi assolutamente
convinti che quella stradina laterale fosse un vicolo sufficientemente riparato.
Le cose peggiorano ulteriormente quando Amélie scopre che Riccardo, suo amante del vicolo, ha
tentato di togliersi la vita il giorno dopo essere stato sbattuto dentro. O ancora, quando le compagne
del Pécheur smettono di andare a trovarla in prigione. Nessuna delle tante spiegazioni perfettamente
plausibili che Amélie è riuscita a mettere in piedi è stata mai abbastanza convincente da
tranquillizzarla, e i giorni sono diventati mesi, i mesi sono diventati anni, gli anni sembravano non
passare mai. Poi invece sono passati.
In un’ultima, illusoria speranza era arrivata perfino a pensare che qualcuno sarebbe venuta a
prenderla, il primo giorno di libertà. Ovviamente non è così. Torna a casa in autobus, rigorosamente
vestita da uomo.
— Sai Monique, non ci avevo mai pensato, ma credo di stare veramente bene solo quando
interpreto Amélie.
— Perché tu sei Amélie, tesoro.
— Non dire sciocchezze, lei è solo un personaggio da spettacolo.
— Allora non hai capito proprio niente!
Amélie contempla la propria immagine riflessa nello specchio. Le hanno fatto tagliare i capelli e ora
deve portare una parrucca, il volto smagrito ha perso colore, gli occhi sono meno azzurri di quanto
ricordasse, ma, nonostante tutto, si sente bene. Finalmente si sente bene.
Recupera il cellulare dalla tasca del cappotto. Non lo accende da quasi due anni, ormai, ed è
un’emozione che non si sarebbe aspettata di provare. Il primo pensiero va a Monique: non è mai
andata a trovarla, nemmeno una volta, ma Amélie se lo sarebbe anche dovuto aspettare — Monique
non sa reggere le delusioni, è un cuore straordinariamente fragile. Vorrebbe poterla chiamare,
sentire se sta bene, ma l’unico cellulare che Monique abbia mai ricevuto in regalo è stato
infelicemente abbandonato in un cassetto. Per contattarla, Amélie decide di chiamare direttamente il
Pécheur. Il telefono squilla una volta, due volte, tre volte – Olympe si sarebbe incazzata di brutto,
pensa — finché qualcuno non si degna di rispondere.
— Sì, chi parla? — una voce sconosciuta, una voce da uomo.
— Sono Amélie. — dice lei — Stavo cercando Monique.
— Chi?
— Monique.
— E chi è Monique?
Impossibile. Impossibile, è tutto ciò che Amélie riesce a pensare. Impossibile che qualcuno non
conosca Monique.
— Scusi, evidentemente ho sbagliato numero. Questo non è il Pécheur, vero?
— No, mi dispiace. Il Pécheur ha chiuso quasi un anno fa, ora qui c’è un ristorante.
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Impossibile, continua a pensare Amélie. Quasi quanto non conoscere Monique. Quasi quanto non
conoscere lei. Olympe non avrebbe mai permesso al Pécheur di chiudere, nemmeno da morta.
— Sei ancora in linea? Serve altro?— fa la voce. Amélie non risponde.
Cade la linea.
L’agente Righetti non è ancora rientrato. Bene, pensa Miller, meglio così. Forse l’hanno chiamato
altrove, forse si sono finalmente resi conto che insultare possibili testimoni durante gli interrogatori
rischia di costituire un grave ostacolo per le indagini. In ogni caso, Amélie parla molto più
tranquillamente quando lui non si presenta.
— Vuoi un caffè?— chiede, spezzando un momento di silenzio.
— No, grazie. — risponde Amélie. — Vedo che però lei ne è proprio dipendente. Quanti ne ha
bevuti, cinque?
— Forse. — borbotta lui. — Ma torniamo al discorso di prima. Mi stavi dicendo che, quando sei
uscita di prigione, hai trovato il Pécheur chiuso. Che cosa è successo?
Amélie sa cosa vuol dire sviare domande spiacevoli e per quanto tergiversare, in questo momento,
farebbe comodo pure a lei, decide di assecondarlo. — Mi sono messa in contattato con un’altra
ballerina, Lolie. O almeno noi la chiamavano Lolie. Quel giorno ho scoperto anche il suo vero
nome: Laura. È carino, non trova? Laura. Ha sposato proprio un bel giovanotto, ma ritengo che
forse il matrimonio sia stato un po’ troppo frettoloso.
— E cosa hai scoperto?— incalza Miller, già sufficientemente infastidito dal discorso sul caffè.
— Olympe è morta. Infarto. Io non ci credo – insomma, è Olympe! Quella avrebbe potuto
sopravvivere all’Apocalisse Nera, e invece… stroncata da un infarto. Il locale è finito in mano a suo
marito, un vero imbecille, se posso permettermi: perse tutto nel giro di sei mesi. Le ballerine furono
sbattute in strada. Erano ventisei.
— È stato terribile, Amélie! Non sapevo dove andare, cosa fare. Non volevo tornare a casa. Tutto,
ma non tornare a casa.
— E Monique? Questa Laura sapeva niente di lei?
— Sì, sapeva.
— Non cercare Monique. Davvero, non cercarla, non farti del male.
— Mi ha chiesto di non cercarla, di dimenticarmi di lei.
— Perché?
— Oh, Amélie! Non te lo voglio dire! Torna a casa, ricomincia da capo.
— Non voleva dirmelo.
— E non hai insistito?
— L’ho minacciata di raccontare a suo marito tutto quello che sapevo di lei.
— ‘Fanculo! Vuoi soffrire? Bene: vai in Via Flavis, numero 15. Divertiti.
— E cosa hai trovato?
Un condominio senza porta, pare. O comunque Amélie non sarebbe mai riuscita a considerare come
“porta” il cartone della Conad appoggiato sulla soglia. Manca perfino il campanello – o una targa,
una buca per la posta, lo zerbino, tutto. Cerca di sbriciare da un foro nel cartone, ma la stanza è
troppo buia.
— Monique!— chiama poi. — Monique, ci sei? Sono io, Amélie!
Se l’indirizzo fosse stato sbagliato, Amélie avrebbe trovato il modo di vendicarsi. Il viaggio è stato
lungo, la ricerca spiacevole e ora vorrebbe solo poter tornare a casa.
— Monique!— chiama un’ultima volta.
— Amélie! Sei proprio tu!
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Dalla finestra del secondo piano si affaccia un meraviglioso raggio di sole. I capelli –
straordinariamente ossigenati – sono un intricato ammasso di nodi; il maglione, sicuramente
maschile, una larga nube gialla fosforescente. Ma anche questa è Monique.
Amélie la sente correre frettolosamente giù per le scale, e in un irrefrenabile moto di
preoccupazione teme quasi possa incespicare e farsi del male. Invece Monique riesce a
raggiungerla, quasi completamente intera, in un abbraccio disperato.
È dimagrita, pensa Amélie. E se ne pente pure, perché dopo tanti anni di separazione una vera
amica avrebbe pensato solo a quanto meraviglioso fosse ritrovarsi. Quando però Monique fa un
passo indietro e Amélie riesce a guardarla bene in faccia, i sensi di colpa evaporano più
velocemente di quanto non fossero comparsi. Perché gli occhi della sua Monique erano verdi e
caldi, non rossi. Perché le guance di Monique erano tonde e soffici, non magre e infossate. Perché il
suo era un viso da bambina, dolce, innocente, puro; ora non sa più di niente.
— Che ti è successo? — chiede, senza toccarla.
Il sorriso di Monique muore improvvisamente. — Che vuoi dire? — sussurra poi. — Che non sei
felice di rivedermi? Che ti faccio paura? È così?
— Cosa? No!
— Invece sì, è quello che stai pensando, lo leggo nei tuoi occhi.— i suoi cominciano a inumidirsi.
— Anche te, anche te, anche te…
Amélie vorrebbe abbracciarla. Vorrebbe ricominciare tutto da capo, vederla scendere le scale,
stringerla tra le braccia, rassicurarla. Ma non capisce, non capisce più niente.
— Che cosa sta succedendo? — un ragazzo, più giovane di Monique, scende lentamente le scale.
Dal volto scarno, i capelli ricci, l’andatura pesante, ad Amélie sembra di riconoscerlo come uno dei
clienti del Pécheur — Chi sei? — chiede ancora lui.
— Amélie. — risponde lei. — Sono venuta a trovare Monique.
Il ragazzo sorride, rilassandosi. Ora viene loro incontro con più naturalezza e stringe energicamente
la mano ad Amélie.
— È un piacere, sono Alessio Passandri — si presenta — Monique mi ha parlato molto di te.
— Sparisci Al! Amélie non mi vuole, non le piaccio. Guarda come mi fissa. Rimango con te,
rimango con te, mettitela via, anche se mi odi.
Ma Alessio si mostra completamente indifferente alla crisi di Monique. Continua a stringere la
mano di Amélie, poi fa un mezzo cenno alla stanza.
— Ti inviterei a entrare, ma questo posto è un vero letamaio. Scommetto che muori dalla voglia di
tornare a casa subito, dico bene?
— Veramente…
— Monique, vai a prendere le valigie! Sono pronte da mesi, ormai.
— No, io non me ne vado!— grida lei. Poi scoppia a piangere. — Perché tutti mi odiano?
— Io non ti odio. — sussurra Amélie, sporgendosi verso di lei.
— Ecco, visto? Non ti odia. Quindi vai a prendere le valigie o giuro che chiamo tuo padre!— questa
minaccia costringe Monique ad allontanarsi. Qualsiasi attrito avesse con i suoi, perfino nei giorni
del Pécheur non era mai riuscita a trovare pace.
Quando la ragazza scompare su per la tromba delle scale, Alessio, ora serio, si porta una mano alla
fronte.
— Ti sembriamo proprio pazzi, vero?— sussurra. — Ma devo dirti una cosa: sono contentissimo
che tu sia qui. Ti stavamo aspettando.
— Perché? Cosa è successo?
— Cinque mesi fa Monique si è presentata a casa mia. Avevamo avuto una storia, un tempo, ed ero
contento di poterle dare una mano. Sembrava disperata: il Pécheur aveva chiuso, lei rispedita a casa
dei suoi…non so che problema abbiano, davvero, ma mi era sembrata una cosa gentile, ospitarla
qui. Non sapevo fosse impazzita. Cioè, è sempre stata un po’ pazza, ma non così tanto. Non così
tanto, vero?
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— Impazzita?
— È diventato impossibile averla attorno. — continua — Ripeteva sempre “prima o poi Amélie
verrà a prendermi, lei mi vuole bene, mi vuole bene!”. Finalmente sei arrivata, ma ora che l’hai
vista… ti prego, dimmi che hai intenzione di portarla a casa con te. Io non ne posso più.
Amélie ha un debito con Monique. Se dice “sì”, è anche per questo.
— I genitori di Monique sono convinti che tu l’abbia rapita.
— Non è così, volevo solo aiutarla.
L’Agente Miller annuisce. — Lo so, ma la cosa giusta da fare sarebbe stata riportarla a casa.
— Sarebbe stata la cosa giusta, sì, ma non potevo. Monique odiava i suoi genitori, e io ho sempre
pensato che loro odiassero lei. E poi ero sinceramente convinta di essere l’unica persona al mondo
in grado di aiutarla. Certo, se oggi potessi tornare indietro, la rispedirei a casa immediatamente, ma
allora volevo solo farla tornare la Monique di un tempo. Ridarle vita, come lei l’aveva data a me.
— Temo non abbia funzionato.
— No, infatti. È stato il periodo peggiore della mia vita.
Ora Monique è felice, ora Monique non lo è più. Ora tutto è bello, ora fuoco puro. Ora è energia,
figlia di un sole splendente, e canta, balla, ride, ama; ora è cupo baratro d’odio, e il mondo la
disprezza, e la vita è pura agonia, e Amélie non le vuole bene, ed è stanca, triste, sola.
Amélie cerca di supportarla, coccolarla, viziarla; un attimo è speranza, l’altro disperazione. Non ha
mai passato momenti più tragici in vita sua. I veri drammi infuocano sulla sera, quando –
sfortunatamente vestita da uomo – si costringe a lavorare presso uno scomodo baretto di periferia.
Non passa notte senza che Monique non la travolga di messaggi, e sono sempre più deliranti, folli,
spaventosi.
“Secondo me non è vero che stai lavorando, ti sei trovata un frocio da scopare, troia!”
“Si vede che mi odi. Non importa, anche io mi odio.”
“Oddio, che cose orribili che ho detto! Ti prego scusami, scusami, scusami, sono un mostro!”
“Che bello questo coltello. Farà male sulla pelle?”
“Amélie, io ti voglio bene.”
“Amélie, ti odio!”
“Amélie, mi odio”.
E lei ha paura.
Sabato, ore 23.45
Amélie crede che Monique stia dormendo — è tardi, tardissimo, sta sicuramente dormendo. Scivola
su per le scale in punta di piedi, spogliandosi di scarpe e cappotto per non rischiare di svegliarla.
Qualcuno ha dimenticato accesa la luce della cucina. Apre la porta, innocentemente convinta
d’essere sola – sbaglia, ovviamente sbaglia.
— Dove sei stata? — la voce di Monique è roca e bassa.
— Al lavoro, lo sai.
— Non è vero! Avevi detto che saresti tornata per le undici e venti.
Amélie lancia un’occhiata all’orologio. — È solo qualche minuto di ritardo.
— Dì la verità, sei stata con qualcun altro, vero? E a me non ci pensi più.
— Monique, ma cosa stai…?
— Sta sta’ zitta! Non ti voglio più vedere!
Corre nella camera da letto e si chiude a chiave dentro. Amélie questa notte dormirà sul pavimento.
Martedì, ore 19.30
— Sono una stupida, una stupida. Ecco perché tutti mi odiano. È colpa mia.
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Se avesse tentato di sfondare la porta, Monique avrebbe dato di matto. Ancora. E così Amélie
aspetta, e aspetta, e prega che tutto finisca presto.
— È colpa mia, mia. Sono una persona orribile.
Ma quella che si sente veramente orribile, qui, è Amélie.
— Sono orribile, devo cambiare, devo cambiare. Dove sono le forbici?
Non ci sono forbici, pensa Amélie. Lei non ce le ha, le ha buttate tutte.
— Eccole.
— No, Monique!
E non importa se in casa non ci sono forbici, ora ha paura. Amélie si getta contro la porta una, due,
tre volte, finché non riesce a buttarla giù. Poi si blocca.
Monique sta in piedi davanti allo specchio, con un piccolo paio di forbici tra le mani e un tappetto
di capelli ossigenati ai piedi.
— Speravo che così andasse meglio.
Mercoledì, ore 22.30
Amélie è stata già ripetutamente minacciata: non si usa il cellulare durante le ore di servizio. Se
avesse continuato a distrarsi, le avrebbero tolto il lavoro. Da qualche giorno a questa parte, si è
duramente costretta a spegnere il telefono; il pensiero di Monique a casa, pericolosamente sola, la
terrorizza, ma entro un paio di giorni avrebbe preso contatto con una giovane badante. Affidare
Monique a cure estranee sarebbe anche potuto diventare pericoloso: rischia di perdere fiducia in
Amélie, una fiducia che già non c’è. Ma lei non resiste più.
Ancora due giorni, pensa.
Ancora due giorni e poi potrà stare tranquilla.
— Sandro, ti vogliono al telefono!— il collega le passa sottobanco una cornetta. Se il boss fosse
venuto a conoscenza della telefonata avrebbero potuto anche nascere problemi, ma Amélie non
riesce a impedirsi di rispondere. Il profondo, angoscioso senso di orrida inquietudine le sta
lentamente rivoltando il cuore.
— Pronto?— chiede. Dall’altra parte, silenzio. — Monique? Sei tu?
Sa che è lei. Sa che è lei e ne è spaventata.
— Che cosa ho fatto… — sente sussurrare. La voce è roca, e non è una domanda.
— Che cosa hai fatto?
Silenzio.
— Monique, che cosa hai fatto?
Silenzio. Odia il silenzio. Cazzo, parla!
— Monique!
— Getterò il cellulare nella spazzatura.
— Monique?
Uccidete questo silenzio, vi prego.
— Cazzo, rispondimi!
— Non urlare, ho male alla testa.
— Che cosa hai fatto?
Silenzio. Ancora silenzio. Troppo, un mare di silenzio, non respira più.
— Che cosa ho fatto. Non lo so. Tu cosa hai fatto? — ora ride. — Amélie, sono pazza?
— No, sei solo stanca, ora ti raggiungo. Ho intenzione di organizzare una bella vacanza, che ne
dici?
E ora sta ridendo, isterica e malata. Ride, ride, ride! Era meglio il silenzio.
— No, vacci tu in vacanza. Te la meriti proprio. — le sfugge un singhiozzo, sta piangendo? Torna a
ridere, per favore — Amélie, ma tu mi hai mai voluto bene?
— Come puoi chiedermi questo?— lei sì, sta piangendo. — Come puoi? Sei tutto, ti devo tutto, io
esisto perché esisti tu. Te lo ricordi? La tua bellissima opera d’arte.
Ride, piange, ride, non capisce. È follia. E poi silenzio.
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— Scusami. — ora sussurra. — Era tutta una balla. Una bella favola. Mi piaceva essere Dio.
Prende un bel respiro. È l’ultima battuta, prima del sipario: il momento giusto per uscire di scena. E
non è banale, o scontato, o stupido, è la fine di una storia, e la storia finisce così.
— Addio, Amélie.
— Quindi, quando sei tornata a casa, Monique era già morta?
— Esattamente. — Amélie tiene basso lo sguardo. Ha combattuto un’eroica battaglia e ne è uscita
sconfitta, ora viene il momento della resa.
— Beh, se questo può essere di consolazione, l’autopsia ha rivelato che i tagli sul corpo della
ragazza possono essere stati autoinflitti. Sono inoltre convinto che questo Alessio Passandri sarà un
ottimo testimone, in tribunale.
— Agente, se con questo vuole farmi credere che uscirò pulita dal processo, la ringrazio
enormemente.
L’agente Miller sorseggia il fondo di un ultimo caffè, trattenendo, quanto possibile, il sorriso.
— Ora cosa farai?— le chiede. Amélie scrolla le spalle.
— Ho vissuto l’ultimo periodo della mia vita solo per Monique, ma penso di aver trovato pure un
bel lavoro, in fondo. Ho perfino stretto amicizia con alcuni colleghi, sanno chi sono veramente e ne
sembrano incuriositi. Uno di loro è gay. E carino. E io penso che siamo sulla via giusta per
approfondire questa conoscenza.
Miller ora non riesce proprio a impedirsi di sorridere.
— Quindi la vita continua?— chiede.
— Se supero il processo, forse sì. — Amélie chiude gli occhi e si lascia andare contro lo schienale
della sedia. — O forse ricomincia semplicemente da capo.
— Questa notte ho sognato io e te da vecchie. Ci dondolavamo su una strana altalena, ricordando
quanto bello fosse il Pécheur, e intanto ingozzavamo piccioni di briciole di pane.
— Ah, non contarci troppo, Amélie. Non credo sarò mai così vecchia.
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