Wolfsburg

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Wolfsburg
industria
L’ultima grande
città dell’auto
Cosa nasce dall’unione tra un castello
medievale e un campo di concentramento
nazista? L’incredibile storia di Wolfsburg,
il borgo dove Volkswagen ha visto la luce
di Piero Evangelisti con M.C.
N
el cuore della Germania c’è una città. Anzi, un
villaggio: Wolfsburg, che significa Il Borgo del
Lupo, dal soprannome di Adolf Hitler. All’inizio
non era nemmeno un borgo, era un castello del XIV secolo. E i soli lupi che si aggiravano nei paraggi avevano
due gambe e la divisa delle SS.
I primi abitanti di Wolfsburg venivano dal vicino campo
di concentramento di Arbeitsdorf. Hitler ordinò che gli
internati, condannati ai lavori forzati, dovessero costruire
una piccola macchina disegnata da Ferdinand Porsche.
Una vetturetta chiamata KDF-Wagen, dove Kdf stava per
Kraft durch Freude, “Forza attraverso la gioia”. Immaginiamo con quanta gioia i prigionieri-schiavi dovettero lavorare per mettere il popolo tedesco su quattro ruote.
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Sappiamo molto poco di questi sventurati, non è chiaro
nemmeno quanti ne morirono. Solo sei per i nazisti, almeno seicento per gli storici. Quel che è certo è che dal
progetto KDF-Wagen nacque l’auto del popolo, il Maggiolino prodotto da Volkswagen, che da allora ha legato il
suo destino a quello della città della Bassa Sassonia che
settant’anni fa nemmeno esisteva.
La città oggi può essere definita la capitale mondiale
dell’auto, dopo il declino industriale di Detroit e Torino.
Il Borgo del Lupo sta al centro del sistema-auto tedesco,
che è completato da Stoccarda (Mercedes-Benz) e Monaco (Bmw) dove si costruiscono però soltanto vetture
premium. Dal nucleo originario dei primi 800 deportati, Wolfsburg è cresciuta fino ai 120 mila abitanti di oggi.
Qui Volkswagen impiega oggi 50 mila addetti, i meglio
retribuiti e i più coccolati (ma anche fra i più produttivi) dei quasi 400 mila che rappresentano la forza lavoro
globale del gruppo. La cittadina è talmente dinamica da
aver trasformato Hannover, capitale del land e città ben
più popolosa, in un suo satellite (ad Hannover c’è lo stabilimento dei veicoli commerciali Volkswagen), e attorno
a Wolfsburg ruotano, con una regolarità impressionante,
tutte le attività del colossale konzern Volkswagen. Niente male per un borgo che fino a pochi decenni fa era considerato un posto qualsiasi lungo il triste corridoio che
attraverso la Germania Est portava alla Berlino spaccata
in due dal muro. Tanto che le guide turistiche addirittura
sconsigliavano di fermarsi. Oggi invece Wolfsburg è diventata una città-laboratorio dove si sperimentano nuove
forme di relazione industriale e soprattutto di “cittadinanza responsabile” tra la fabbrica e il suo territorio. Il che
l’ha resa una città vivissima sotto il profilo culturale, sede
di un notevole planetario, di un museo d’arte moderna
tra i più prestigiosi della Germania e del Phaeno Science
Center, uno dei musei scientifici più grandi e importanti del mondo, progettato dall’archistar iracheno Zaha Hadid e costato 80 milioni di euro.
Wolfsburg ha ricambiato con affetto le attenzioni della
sua fabbrica, e l’ha sempre accompagnata nei tanti alti e
bassi che hanno costellato la storia dell’industria automobilistica. Per una settimana ha accettato persino di cambiare nome in Golfsburg, quando la Volkswagen aveva
disperatamente bisogno di vincere la sfida del critico passaggio dal Maggiolino alla Golf. Fase delicata superata
brillantemente grazie alla visione “autocentrica”, molto
legata al prodotto, dell’allora presidente Rudolf Leiding.
Vinta la partita del rinnovamento, una seconda grana (casualmente coincidente con un’altra crisi energetica) era
piombata sul gruppo e sulla città agli inizi degli anni ’90,
questa volta legata alla politica sfrenata di acquisti di Carl
Hahn, che aveva trasformato la Volkswagen in “un’anatra
troppo ingrassata, incapace di volare”: parola del nipote di Ferdinand Porsche, Ferdinand Piëch, che succederà allo stesso Hahn al timone del gruppo. Ma alla lunga,
i fatti hanno dato ragione a Hahn: quelle spese non era-
Il paese che
ha offuscato
la metropoli
Wolfsburg ha fatto
diventare Hannover
un suo satellite,
destinandola a sede
della fabbrica dei
veicoli commerciali
della Volkswagen.
A destra, l’unione
tra lo stabilimento
produttivo e il
museo dell’auto, nel
punto dove
«due enormi torri
di cristallo e acciaio
spuntano da un lago
artificiale e servono
da magazzino di
stoccaggio per le
vetture prodotte nel
vicino stabilimento»,
come racconta un
vecchio operaio
italiano.
no follie, ma gettavano le basi per il rafforzamento futuro
della Volkswagen. Che di recente si è trovata a doversi difendere dalla scalata fratricida da parte di Porsche. Una
improbabile storia del pesce piccolo che mangia quello
grande, conclusasi malissimo per la rivale di Stoccarda
che, invece di conquistare, è stata conquistata, costretta
a entrare nella sala dei trofei di Wolfsburg. Il merger, abbastanza complesso, non è ancora completato, ma il marchio Porsche fa già bella mostra di sé, insieme a Skoda,
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Seat e a tutti gli altri, nella comunicazione del Gruppo.
L’attenzione di Volkswagen nei confronti di Wolfsburg
oggi si vede soprattutto nella grande attenzione del management a quella vasta rete di relazioni industriali - con
sindacati, governi, fornitori e costruttori - spina dorsale
dello “stile Volkswagen”. Ma com’è possibile un cambiamento così drastico, per un’azienda che era nata sfruttando il lavoro dei deportati?
operai al timone
Dal dopoguerra e fino ai primi anni ’60, Volkswagen era
controllata dallo Stato, al quale le truppe alleate di occupazione, che avevano rimesso in funzione lo stabilimento dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’avevano affidata. Ciò permetteva a Volkswagen di impiegare
mano d’opera non sindacalizzata, al di fuori della nascente organizzazione dei lavoratori metalmeccanici Ig Metall. Una posizione di vantaggio che non venne tuttavia
sfruttata per emarginare operai e impiegati, ma al contrario per coinvolgerli nella gestione dell’azienda. La partecipazione dei lavoratori è forse il capolavoro di Heinrich
Nordhoff, il primo presidente, il papà della Volkswagen
democratica e moderna, considerato uno degli artefici
della rinascita economica tedesca. E in particolare, del
land della Bassa Sassonia, uno dei più colpiti dalla guerra
e divenuto terra di confine con la nuova Repubblica Democratica. Impressionante, in quei primi anni, è la crescita di Wolfsburg. Fino a quando Nordhoff prende il timone, la mano d’opera è quasi interamente tedesca e al
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crescente bisogno di manodopera rispondono gli immigrati provenienti dalla Ddr. Il flusso però si interrompe di
colpo nel 1961, con la costruzione del reticolato che separerà per quasi trent’anni le due Germanie. Inizia così
l’immigrazione di lavoratori stranieri verso Wolfsburg:
nel 1962 sono già 4.500 contro i 730 dell’anno precedente. Sono gli anni della piena impetuosa dei gastarbeiter,
lavoratori ospiti, quasi tutti italiani (in gran parte calabresi) reclutati da vere task force della Volkswagen inviate
nel nostro Paese. Una bellissima, lunga e toccante testimonianza la troviamo su Internet, nel sito del ferrarese
Alberto Gavioli (web.freepass.it/agavioli/) che racconta
la sua esperienza di emigrato al Berliner Brücke, il quartiere italiano di Wolfsburg negli anni Sessanta.
Gavioli è tornato di recente nella città dove cominciò a
lavorare appena diciottenne, nel biennio 1963-1964, vivendo in prefabbricati che - sia pure immensamente più
confortevoli, piacevoli e igienici - derivavano da quelli del campo di concentramento. «Anche se sapevo che
non esistevano più, è stata una grande delusione vedere
che dove una volta c’erano gli alloggi degli operai italiani,
ora è in costruzione un enorme stadio di calcio. Ho sperato fino all’ultimo di poter rivedere qualcosa che ricordasse come era un tempo. Ma le ruspe, gli scavatori, le
enormi gru e una fila interminabile di camion ha cancellato questa debole speranza. Sono entrato nel cantiere e
sono riuscito, non senza qualche difficoltà, a rivedere alcune delle nostre vecchie baracche ora trasformate provvisoriamente in uffici per i lavori in corso. Anche l’ultimo
dagli schiavi
di hitler
ai lavoratori
nella stanza
dei bottoni
Nel dopoguerra
le truppe alleate
affidarono allo
Stato il controllo
dello stabilimento
Volkswagen.
Una opportunità
utilizzata per
coinvolgere
gli operai
nella gestione
dell’azienda.
segno della presenza italiana degli anni ’60 sta scomparendo. Allora mi sono seduto nei giardini davanti al Municipio, aspettando che battesse le ore. Con grande emozione ho risentito dopo tanti anni l’inconfondibile suono
di quel carillon di campane. Soltanto chi ha vissuto da emigrato in un Paese lontano può capire. È stato un momento
di profonda nostalgia. Sono contento di averlo rivissuto».
Beffardo destino quello dell’emigrante: condannato a
provare la struggente nostalgia di casa quando è in Germania, e a commuoversi per la nostalgia della Germania
da pensionato.
Wolfsburg oggi non è più solo l’appendice di una fabbrica, è una città che sull’auto ha costruito una cultura
antropologica, umana e industriale al tempo stesso. Un
sincretismo che prende vita nell’immenso Autostadt, il
museo dell’automobile che fa battere il cuore all’anziano operaio ferrarese, che nel descriverlo mescola emozioni e tecnicismi: «Soltanto chi lo ha visto può immaginare qualcosa di simile. È un universo tutto dedicato
al mondo dell’automobile. È come un enorme parco divertimenti: spiccano i padiglioni delle case automobilistiche del gruppo (Volkswagen, Audi, Skoda, Lamborghini,
Bentley, Seat e Bugatti). Due enormi torri di cristallo e
acciaio spuntano da un lago artificiale e servono da magazzino di stoccaggio per le vetture prodotte nel vicino
stabilimento. In uno dei grandi padiglioni di questo complesso c’è il museo dell’automobile, dove modelli di enorme valore come Cadillac e Bentley sono contrapposti a
prototipi del primo ’900. Esiste poi un padiglione interamente dedicato a simulazioni virtuali, sempre nel mondo dell’auto. Si possono vedere e provare accessori dei
nostri giorni: airbag, freni a disco con Abs, correttori di
assetto e tenuta di strada nelle varie situazioni di guida.
Una esperienza da fare. Ci si trova proiettati in un mondo così altamente tecnologico che sembra un film di fantascienza». Una fantascienza che col suo lavoro (montava la serratura del cofano motore del Maggiolino) Gavioli
ha contribuito a rendere reale.
Tedeschi o stranieri, i lavoratori continuano ad avere un
peso importante nella gestione dell’azienda. Tanto che
metà dei posti nel Consiglio di Sorveglianza (organismo
collegiale molto potente nel controllo di una società per
azioni secondo il diritto tedesco) di Volkswagen Ag è occupata da rappresentanti dei lavoratori. Alla presidenza
LE BARACCHE
DEGLI
«ITALIANER»
Scene di vita
quotidiana nelle
baracche degli
immigrati italiani
negli anni ‘60.
Oggi non c’è più
traccia della nostra
emigrazione.
Al posto delle
baracche c’è lo
stadio di calcio.
(foto di A. Gavioli)
siede dal 2002 Ferdinand Piëch, l’uomo che ha creato il
Gruppo che conosciamo oggi. Manager, ingegnere e tycoon allo stesso tempo, erede della genialità del nonno
progettista del Maggiolino, ha saputo conservare la rete
di relazioni industriali e sindacali guadagnandosi la stima di lavoratori e azionisti, agendo, a volte, con una certa
spregiudicatezza. Come nel caso di Ignacio Lopez de Arriortua, lo zar degli acquisti di General Motors, chiamato
nel 1992 alla Volkswagen per impostare un nuovo rapporto con i fornitori che sarebbe poi stato preso a modello da
tutta l’industria automobilistica. Lopez dovette abbandonare precipitosamente per pesanti accuse di spionaggio
ai danni di Gm, ma gettò le basi dei “supplier park”, gli
stabilimenti satellite dei fornitori accanto alle fabbriche
del cliente, disseminati in ogni parte del mondo.
Il land con la golden share
I lavoratori adorano Piëch, che per difenderli non esitò
a scontrarsi con il presidente Bernd Pischetsrieder, impegnato in una massiccia riduzione del personale. Piëch
ne uscì vittorioso e Pischetsrieder dovette andarsene a
fine 2006. L’altra variabile dell’equazione, oltre a management e maestranze, è il land della Bassa Sassonia, detentore per lungo tempo di una golden share che in molti
casi ha salvato il gruppo da scalate ostili. Ma con il quale i vertici hanno sempre dovuto fare i conti. Rimasto unico azionista pubblico, con quasi il 13% del capitale dopo
l’uscita di scena dello Stato Federale, il land ha sempre
occupato i due posti riservatigli nel Consiglio di Sorveglianza con politici di spessore: dal 2003 al 2010 è stato
membro del consiglio Christian Wulff, governatore del
land e oggi presidente della Germania, e il suo successore David McAllister, sia ad Hannover sia a Wolfsburg,
si sente particolarmente coinvolto come dimostra il recente viaggio di lavoro per visitare gli stabilimenti Volkswagen in Brasile e Argentina dove il gruppo è in forte
espansione.
il consiglio di sorveglianza
È il custode di una sana
gestione aziendale
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