Alfred Hitchcock e il suo cinema “Vorrei presentarvelo come l`uomo
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Alfred Hitchcock e il suo cinema “Vorrei presentarvelo come l`uomo
Alfred Hitchcock e il suo cinema “Vorrei presentarvelo come l’uomo che è stato.” dice il nostro Francesco Guerroni. “Come l’uomo che stava dietro ai film che lo hanno reso noto”. Francois Truffaut, regista della Nouvelle Vague, critico per i Cahiers du Cinéma, regista di film come Jules e Jim o La signora della porta accanto, è autore di un libro Il cinema secondo Hitchcock. Il libro ha consentito di rivalutare un regista che non era stato mai apprezzato dalla critica – specialmente americana - a lui contemporanea. In una lettera a Truffaut cogliamo l’essenza del cinema di Hitchcock: egli dice “in nessun soggetto che mi viene proposto trovo spunto per un conflitto umano”. “Ricordiamoci di questo concetto”continua Francesco Guerroni- “di questo nodo centrale del cinema del nostro regista”: il contesto storico fa solo da sfondo ai suoi film, ma quello che conta è l’uomo con la sua psicologia, i suoi conflitti, il suo animo. Regista inglese, nato nel 1899 da famiglia cattolica, sviluppa un forte senso del peccato, un sentimento fortissimo di paura nei confronti del male; da qui le ossessioni profonde, che si manifesteranno attraverso il suo cinema. Dal 1925, dal suo primo film muto (Il giardino del piacere), giungiamo al momento in cui arriva in America nel 1940, passando dal 1929 attraverso il sonoro. In America il rapporto tra il regista e il suo primo produttore americano David O. Selznick consente la realizzazione di un film come Rebecca, la prima moglie che riceverà l’Oscar come miglior film (si noti: non come miglior regia), e di Notorious (1946). Si aprirà così la strada per i capolavori degli anni ’50: La finestra sul cortile, L’uomo che sapeva troppo, La donna che visse due volte, Psycho, sino a Gli uccelli. Veniamo a Notorious. Il soggetto è del 1944, quando ancora è in corso la seconda guerra mondiale. Una donna, figlia di una spia nazista, si innamora di un agente dell’FBI che la porta in America Latina perché si avvicini e controlli un uomo che collabora coi nazisti. Serve però - pensa il regista - un pretesto per far partire e funzionare la storia: quello che in gergo si chiama Mac Guffin. Viene pensata questa soluzione: la donna scoprirà campioni di uranio nascosti in alcune bottiglie di vino della cantina del nazista. In realtà, il dramma sta tutto nella psicologia femminile che si trova combattuta tra l’amore per l’agente dell’FBI e il desiderio di aiutarlo e di essere utile ad una causa superiore. La scelta degli attori era per Hitchcock molto particolare e ne aveva di prediletti: Cary Grant e James Stewart sono gli interpreti maschili preferiti; molto amata Ingrid Bergman. In Notorious Francesco Guerroni invita ad osservare alcuni colpi di stile: la scena del bacio di tre minuti, tutta girata in primo piano; la carrellata durante la scena del ricevimento, che a partire dal lampadario del salone giunge fino alla mano della Bergman, che tiene nascosta la chiave della cantina (simbolo del dramma che sta per compiersi); il cammeo, cioè la citazione di sé che Hitchcock amava fare facendosi riprendere in una scena: Francesco ci sfida, anzi, a trovare il momento esatto in cui il regista, con la sua inconfondibile silhouette, compare. ******************************************************************************** La collaborazione con il produttore Selznick si conclude per Hitchcock alla fine degli anni ’40. Al regista non piaceva l’imposizione che il produttore gli faceva sulla scelta degli attori, cosa di cui il regista si occupò sempre personalmente e secondo criteri particolari. La fine del rapporto tra i due segna però l’inizio del decennio degli anni ’50 e dei capolavori di Hitchcock. Prendiamo Il delitto perfetto del 1953: in questo film si capisce cosa il regista intenda per suspence. Essa è una condizione diversa dalla ‘sorpresa’: una reazione immediata e diretta che potrebbe verificarsi all’accadere di un fatto anomalo ma non atteso, ignorato. Se il regista, invece, fa sapere ai suoi spettatori qualcosa di scomodo, di anomalo, che potrebbe accadere, si crea l’effetto dell’attesa e della suspence. Aggiunge Hitchcock che, se abbiamo scelto questa strada, meglio che la situazione preventivata e suggerita NON si verifichi, altrimenti c’è il rischio che ‘il pubblico si ribelli’: meglio lasciar intendere e ‘sospendere’ la situazione possibile, ma non portare a termine la condizione. Veniamo a La donna che visse due volte. Si tratta di un film che deriva da un romanzo francese, poco noto, come spesso Hitchcock faceva per i suoi soggetti: se egli avesse semplicemente ‘adattato un classico’ ad un film, avrebbe stravolto il senso stesso di ‘classico’, poiché in esso nulla è sostituibile né adattabile; ed inoltre, sarebbe mancata al regista la libertà che egli esigeva, assoluta, su tutte le operazioni di costruzione di un film. Capita così che certi libri di partenza subiscano profondissime modifiche, se trasposti nei film di Hitchcock. Film per i quali il lavoro di sceneggiatura era sempre minuzioso, spesso lunghissimo e sempre concluso prima di cominciare a girare effettivamente. Il tema de La donna che visse due volte è in sintesi questo: un uomo scopre di soffrire di vertigini, ragione per cui si pensiona dal suo lavoro di agente di polizia; assoldato da un amico per seguire sua moglie, che egli teme possa compiere un gesto estremo, dato che si comporta in modo strano (sembra posseduta dall’anima di una sua nobile antenata che si era suicidata), l’uomo impara a conoscere, pedinandola, la donna in questione. Se ne innamora, infine, ricambiato, ma non riesce ad impedire che lei si butti, al termine di una sorta di ‘prima parte’ del film, da un campanile. Si tratta di un film complesso, sulla forza devastante dell’amore, sul tema della perdita della razionalità dopo una vita -come quella dell’ex poliziotto- basata sulla ragione e l’affidabilità. Vertigo era il titolo originale del film: non solo come allusione alle vertigini di cui soffre il poliziotto, ma per il senso di smarrimento che la passione provoca. Gli attori James Stewart e Kim Novak vennero scelti da Hitchcock: lui per ben 4 volte, come l’attore adatto a impersonare ‘l’uomo della porta accanto’, l’uomo qualunque, senza misteri. Lei, meno amata dal regista e usata solo per questo film, era una donna molto bella, un’attrice allora 25enne, che, secondo Hitchcock, aveva il difetto di ‘arrivare sul set con troppe idee’ (il che contrastava con l’assoluta libertà ch’egli voleva). Solida la trama, atta all’inserimento delle grandi star già caratterizzate dai loro precedenti lavori, il film non manca di colpi di stile davvero particolari, come per esempio l’effetto vertigine ottenuto in soggettiva (come se fosse il personaggio a vederlo e provarlo in quel momento, esattamente come lo vediamo noi): una carrellata su rotaie associata alla zoomata in avanti della macchina da presa creano questo strano effetto distorto, che più volte nel film si ripete. ******************************************************************************** Francesco Guerroni ci fornisce ancora qualche nota sul cinema di Hitchcock. La donna che visse due volte appartiene al periodo dei capolavori degli anni ’50. In essi, un elemento costante è la capacità del regista di creare personaggi “comuni”, in cui il pubblico possa facilmente immedesimarsi. Ancora: trasporre nel cinema e nei suoi film, le paure che Hitchcock aveva. Quella della polizia, per esempio, forse legata ad un misterioso episodio dell’infanzia del regista, quando il padre gli fece consegnare una lettera alla polizia ed egli fu arrestato dall’agente per 15 minuti, senza mai saperne il motivo; oppure, la paura di essere scambiato per un’altra persona. Qualcuno disse dei film di Hitchock che affrontavano temi immorali. Egli precisò che semmai potevano dirsi a-morali, nel senso che non è compito del cinema occuparsi di moralità. Un film deve essere emozione. Come Psycho, che è tensione allo stato puro. Basato su un mediocre romanzo, venne girato con pochissimi mezzi, costò molto poco, trattandosi di un film “piccolo”, “interiore” più che spettacolare. La trama, almeno per i primi 50 minuti, ci parla di una donna, una segretaria, che decide di scappare coi soldi che avrebbe dovuto consegnare ad una banca. Lo spettatore pensa che il film sia su questo, almeno finché la donna giunge in un motel: qui si svolge la famosa scena della doccia e la donna viene uccisa. La vicenda prosegue, quindi, in altra direzione. Oltre alla suspence (noi sappiamo, da vari elementi -tra cui la musica- che qualcosa dovrà succedere, pur non sapendo cosa), vi è anche molta sorpresa, secondo la distinzione che dei due termini si è già fatta. Hitchcock gioca con lo spettatore, facendogli credere qualcosa che poi non è; riuscì anche, tempo dopo l’uscita e la diffusione di Psycho, a ottenere che nessuno spettatore entrasse nelle sale di proiezione a film cominciato, proprio perché non perdesse l’effetto sorpresa. Trattasi di film violento, ma non cruento. Girato in bianco e nero, il sangue si vede pochissimo. Tutto è come ricondotto ad una dimensione interiore, oscura, per cui diviene importantissimo anche il gioco delle ombre, che accresce il senso di attesa. Un aneddoto: poiché Hitchcock era diventato molto famoso per le sue comparse nei suoi film, decise, da un certo punto in poi, anche per non distogliere lo spettatore (che era portato a cercare dove fosse la silhouette del regista invece che seguire il film) di comparirvi nei primi 5 minuti di film. Lo faceva all’inizio per necessità, poi questo divenne un rituale scaramantico, infine uno sfizio. Dopo Psycho, per Hitchcock si apre una fase calante. Truffaut ci dice che egli non fu più soddisfatto di nessuno dei suoi film. Ad Hollywood non ci furono più, del resto, neppure le grandi star: Cary Grant, voluto da Hitchcock ne Gli uccelli, rifiutò, ad esempio. Le condizioni di salute del regista cominciarono a peggiorare. Cominciò anche ad avvertire con sempre maggior urgenza e intensità un bisogno di apprezzamento da parte del pubblico (quello della critica gli interessava decisamente meno). Il fiasco totale di un suo film del 1969 fu per lui motivo di grande dolore: non riusciva più ad esprimere ciò che voleva. Negli anni ’70, molto ritirato in se stesso, triste, scoraggiato, non povero, ma decisamente sconfortato, rispondeva ancora ad un critico che domandava come andasse: “Va bene se il film va bene; altrimenti non c’è via d’uscita”. Hitchcock muore nel 1980. Il 2 maggio, al suo funerale, pochi invitati di cui era stata fatta una lista, la bara non era esposta: era il funerale di un uomo timido, che per una volta aveva voluto evitare la pubblicità. Morto l’uomo, resta immortale il suo cinema.