La Spoon River di Fabrizio De André

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La Spoon River di Fabrizio De André
SAGGI
La Spoon River di Fabrizio De André
Donatella Izzo
per Camilla
Le vicende dell’Antologia di Spoon River in Italia sono una storia esemplare di traduzione culturale, oltre che un vero e proprio capitolo di storia culturale. È questa
storia a spiegare come una raccolta poetica del 1915, all’epoca di straordinario successo ma già da tempo poco frequentata dal pubblico e per nulla dai critici negli
Stati Uniti,1 sia stata e continui a essere uno dei libri di poesia più letti, venduti e ristampati in Italia. Un libro che di fatto costituisce per molti il primo o unico accesso alla letteratura americana e che dalla letteratura è transitato con successo nella
musica popolare, accentuando così ulteriormente la propria diffusione, non solo
grazie a De André, ma anche attraverso le sue più recenti riprese da parte di cantanti e musicisti dell’ultima generazione. Vale la pena, dunque, di ripercorrere le
tappe e interrogarsi sui motivi di tanta insolita vitalità.
Quando la cultura italiana comincia a occuparsi di lui e quando viene tradotta l’Antologia, Edgar Lee Masters (1868-1950) è ancora vivo, e ancora pubblica e riceve premi, anche se da tempo non è più uno scrittore di punta negli Stati Uniti: la Spoon River Anthology è il suo unico successo, che da allora cercherà invano di replicare. Avvocato di successo a Chicago, già autore di alcuni volumi di poesie e di saggi di tema politico, Masters già da tempo pensava di scrivere un romanzo che narrasse le
storie a lui note delle cittadine dov’era cresciuto, Petersburg (sul Sangamon River)
e Lewistown (vicino allo Spoon River), nella corn belt dell’Illinois. Un impulso decisivo gli arriva da William Marion Reedy, editor della rivista di St. Louis “Reedy’s
Mirror”: i due si incontrano nel 1907 e nel 1909 Reedy gli segnala l’Antologia Palatina. “Fu dalla contemplazione delle sue epigrafi che la mia mano passò senza che
me ne rendessi conto ai bozzetti [...] della Spoon River Anthology”, gli scriverà Masters.2 Un ulteriore impulso importante gli arriva da Theodore Dreiser, conosciuto
nel 1912, con il quale discute di letteratura e della necessità di spezzare la cosiddetta genteel tradition. Alla visita nell’area di Spoon River, compiuta non molto tem-
Donatella Izzo insegna Letteratura angloamericana all’Università di Napoli “L’Orientale” e fa parte della redazione di “Ácoma”. Fra le sue ultime pubblicazioni, la cura di
Suzie Wong non abita più qui, un volume a più
mani dedicato alla letteratura asiatica americana (Shake 2006).
1. Una ricerca sulla bibliografia della MLA
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dà solo 27 titoli, alcuni dei quali recensioni o riviste medico-pedagogiche, contro, per esempio, i 960 della Waste Land o i 253 di Paterson.
2. Citato in Herbert K. Russell, Edgar Lee
Masters, in Peter Quatermain, a cura di, Dictionary of Literary Biography, Vol. 54: American
Poets, 1880-1945, The Gale Group, New York
1987, pp. 293-312.
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po prima di dare inizio alla stesura dei propri epitaffi, si aggiungerà una visita della madre, nel maggio del 1914. Questa dà il via a una serie di reminiscenze familiari su personaggi e episodi delle cittadine della sua giovinezza: Masters racconta
nella propria autobiografia, Across Spoon River, del 1936, che dopo la partenza della madre tornò a casa e scrisse di getto “The Hill” e tre altre poesie; quando ne ebbe 8 in tutto le mandò a Reedy, a fine maggio. A luglio, ormai convinto del senso e
della direzione del lavoro intrapreso, scrisse a Dreiser di voler riversare in esso “diverse filosofie”, “prendendo i barattoli di pomodoro vuoti dei morti di campagna
per riempirli con le acque del macrocosmo”.3 Pubblica la serie a partire dal maggio
del 1914 sul “Reedy’s Mirror” di St.Louis, in puntate di 8-15 per volta, lungo un arco di mesi, sotto lo pseudonimo di Webster Ford. Il nome scelto richiama i due drammaturghi giacomiani John Webster e John Ford, le cui opere sono piene di sesso, di
violenza e di politica: forse un’allusione ai materiali e alle tonalità del proprio testo, nonché alla forma drammatica degli epigrammi.
Le poesie (244) vengono raccolte in volume nel 1915, vincendo il titolo di “libro
dell’anno” per il “Publisher’s Weekly” non solo nel 1915 ma anche l’anno successivo. Prima ancora dell’uscita in volume, intanto, hanno avuto enorme risonanza
e grande successo di pubblico e di critica. Le prime recensioni – uscite nel 1914 su
“Current Opinion” e su “Poetry” – sono positive, e giornali e riviste in tutti gli Stati Uniti – dal “Chicago Evening Post” al “New York Times”, dal “Chicago Tribune”
al “Boston Evening Transcript” a “The New Republic” e “The Nation“ – parlano
della raccolta che sta per uscire. Si tratta in parte di un successo di scandalo, dovuto alla franchezza e alla mancanza di perifrasi e di inibizioni con cui si parla di temi come il sesso, la prostituzione, la violenza domestica, la repressione sessuale e
sociale legata all’idea della “rispettabilità” (una realtà, quest’ultima, con la quale
Edgar Lee Masters aveva avuto lui stesso conflitti: sposato, si era ripetutamente innamorato di altre donne e aveva tentato più d’una volta di divorziare, cosa che la
moglie gli aveva sempre impedito). Per questo, non mancano anche le critiche: alcuni lo attaccano per motivi morali, altri per la sua totale mancanza di rispetto per
i codici stilistici della poesia dell’epoca. William Dean Howells nel settembre 1915
scrive su “Harper’s Magazine” che quella di Masters non è poesia ma solo “shredded prose”, prosa fatta a brandelli; Amy Lowell descriverà Spoon River come “un’unica lunga cronaca di stupri, seduzioni, tresche e perversioni”.4 Ma altri, come Carl
Sandburg, esaltano la sua capacità di dare voce alla gente comune dell’America
profonda, affermando che “i volti che si affacciano dalle pagine del libro sono quelli della vita stessa”.5 Ezra Pound, da Londra, esulta enfaticamente: “FINALMENTE! Finalmente l’America ha scoperto un poeta”, e prosegue paragonando Webster
Ford a Whitman e sostenendo che “[f]inalmente l’America dell’ovest ha prodotto
un poeta forte abbastanza da resistere al clima, capace di trattare la vita direttamente, senza circumlocuzioni, senza frasi sonanti e prive di significato. Pronto a
3. Ibidem.
4. Amy Lowell, Tendencies in Modern American Poetry, Macmillan, New York 1917, p.174.
5. Carl Sandburg, Notes for a Review of The
Spoon River Anthology, “The Little Review”, II,
3, Maggio 1915, pp. 42-3.
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dire quel che ha da dire, e stare zitto quando l’ha detto”. Nella Spoon River Anthology si trova “il discorso d’un uomo che sta cercando di dire qualcosa, e che non è
in cerca soltanto di decorazioni polisillabe”. “Gli sciocchi vi diranno che: questa
non è poesia. I decrepiti vi diranno che non è poesia. […] Col che intendono: non è
decorazione. È parte integrante di un’emozione. È un’affermazione, la nuda affermazione di qualche cosa che fa parte del sentimento, qualche cosa che contribuisce
al sentimento, non un semplice pezzetto di chiffon applicato sopra”.6 Nel 1930, nel
suo discorso di accettazione del Nobel, Sinclair Lewis citerà Masters come l’iniziatore di una nuova scuola autoctona di poesia americana.
Eppure, su molti piani la novità della raccolta non era poi così clamorosa. La sua
fonte più immediata è ovviamente il libro VII dell’Antologia Palatina, che raccoglie
gli epigrammi funebri.7 L’altra fonte, sempre negata da Masters forse per timore di
diminuire la propria originalità, è la poesia di Edwin Arlington Robinson, il poeta
del Maine autore al volgere del secolo di due raccolte di sonetti dedicati a personaggi e episodi della vita nel villaggio, The Children of the Night (1897) e The Town
Down the River (1910): alcune delle poesie, come quelle di Masters, hanno per titolo il nome e cognome del personaggio. A queste si potrebbero aggiungere i monologhi drammatici di Robert Browning, notissimi nell’America di fine Ottocento e
noti a Edgar Lee Masters, benché di nuovo egli abbia tentato di negarlo. E per tornare a precedenti più remoti nel tempo, il tradizionale motivo poetico dell’ “ubi
sunt?” e più specificamente la poesia di François Villon, col famoso refrain “où sont
les neiges d’antan?” nella Ballade des dames du temps jadis, che infatti Pound cita nella sua recensione.
La novità della raccolta, dunque, non sta tanto nella forma epigrammatica e
drammatica scelta, o nel verso libero adottato, o nella piccola città assunta come tema poetico, e neppure nella volontà di dare voce ai morti con assoluta e retrospettiva sincerità sulle loro motivazioni – sesso, denaro, potere, erano temi già ampiamente messi in luce dal romanzo naturalista fin dagli anni Novanta dell’Ottocento – ma piuttosto nella combinazione di tutti questi elementi in un momento in cui
la dizione poetica di fine Ottocento, edificante e musicale, era ormai una stanca ripetizione di se stessa, mentre la coeva sperimentazione modernista e d’avanguardia allontanava la poesia dalla comprensione del lettore comune, costituendo un
proprio pubblico ristretto e culturalmente elitario. Le poesie di Masters erano leggibili da tutti, ma al tempo stesso non tradizionali, tanto per la forma metrica scel-
6. Ezra Pound, Webster Ford, “The Egoist”,
II, 1, 1915, pp. 11-12.
7. L’Antologia Palatina è una raccolta di
3700 epigrammi antichi risalenti a un lungo
periodo, dal IV secolo a.C. al X d.C., così detta
perché ritrovata nella Biblioteca palatina di
Heidelberg all’inizio del XVII secolo. Nel contesto poetico americano, l’unica voce alla quale si possano riconoscibilmente attribuire
componimenti brevi e incisivi, a carattere
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spesso satirico o sentenzioso, come gli epigrammi è quella di Emily Dickinson, la cui poesia assume spesso quella concisione e capacità
di stupire con un giro di frase, una sentenza
meditativa o un’arguzia finale che è tipica dell’epigramma nella tradizione non solo classica ma anche inglese (dove spesso, nei sonetti
di Shakespeare o nella poesia augustea, un distico finale di tipo epigrammatico conclude la
poesia).
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ta (epigrammi di lunghezza variabile, in verso libero) quanto per i temi affrontati
e per la pretesa di dire la verità su di sé infrangendo, dalla morte, ogni velo e ogni
tabù sociale. Al tempo stesso, la scelta del verso libero e di una (relativamente) franca rappresentazione della sessualità, e l’adozione del villaggio come un microcosmo, paradigma al tempo stesso sociologicamente attendibile e (attraverso il punto di vista dei morti, nonché la tipologia presentata) universalizzato, pongono queste poesie chiaramente nella linea autoctona di Whitman, che aveva rappresentato
e celebrato in verso libero l’America come mondo a metà Ottocento. Dalla Spoon
River Anthology, però, sono del tutto assenti la spinta espansiva e la centralità dell’io rappresentativo che si estende e si contrae, al tempo stesso universale e soggettivo, tipiche della poesia di Whitman: e basta un colpo d’occhio sulla lunghezza del verso e dei componimenti per capire che quello che era espansione in Whitman, qui s’è contratto e ridotto in termini sia spaziali sia ideologici – da un’ampiezza continentale e universale a un microcosmo borghese, chiuso sui propri codici di riferimento anche quando li sfida e cerca di spezzarli. Un ultimo elemento:
le poesie di Spoon River sono un chiaro esempio di quello che Bachtin ha chiamato
la “romanzizzazione” dei generi letterari: a differenza di quanto avviene in Whitman – dove non c’è mai dubbio che di poesia si tratti, per quanto atipica e innovativa rispetto al panorama dell’epoca – qui siamo di fronte a brevi poemi di andamento assolutamente narrativo, ciascuno dei quali potrebbe essere la sintesi (o il
germe) di un racconto, e che nel loro insieme potrebbero comporre un romanzo della piccola città, di quelli che sarebbero poi stati frequenti nella letteratura degli anni Venti e Trenta, dallo Sherwood Anderson di Winesburg, Ohio (1919) a My Antonia di Willa Cather e Main Street di Sinclair Lewis (1920), ma anche a tante opere di
Faulkner: le singole storie spesso si intrecciano e vengono raccontate da diversi
punti di vista, alcuni nomi ricorrono, e l’effetto complessivo è assolutamente realistico-romanzesco. Anche il tipo di verso libero adottato non è soltanto un verso non
rimato, ma è anche prevalentemente privo di ritmo interno (a differenza di quello
che si trovava in Robinson, e dal blank verse adottato da Browning, ma anche dagli
altri più famosi poeti della tradizione inglese della seconda metà dell’Ottocento,
come Tennyson, fortunatissimo negli USA). Non sbagliava troppo Howells, sia pure in un’ottica tradizionalista, a dire che si trattava di “prosa a brandelli”. Al tempo stesso, però, alcune di queste poesie si focalizzano sui dettagli di un episodio e
di un momento con una tale intensità di percezione e investendoli di un tale significato esistenziale, da risultare a tratti liriche e folgoranti come frammenti di Emily
Dickinson.
Su questi aspetti ritmici e stilistici tornerò più avanti, in relazione alle operazioni
compiute nel suo adattamento da Fabrizio De André. Prima di arrivare a De André, però, c’è un altro capitolo cruciale della storia di queste poesie che si svolge in
Italia. In un senso profondo, infatti, la Spoon River Anthology fa parte a pieno titolo
della letteratura e della cultura italiane. Come è noto, durante la fase “ascendente”
e prebellica del fascismo, quando la parte progressista della cultura italiana cerca
di uscire dai canoni enfatici e patriottici dominanti nella letteratura di regime oppure dai canoni classicistici dominanti negli ambienti accademici e della “fronda”,
è alla letteratura americana contemporanea che molti scrittori si rivolgono. Il co99
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siddetto “mito dell’America” attraverserà la parte più vitale e innovatrice della letteratura italiana degli anni Trenta, coinvolgendo quelli che saranno i grandi scrittori del dopoguerra – Cesare Pavese e Elio Vittorini, i più famosi della loro generazione, ma anche l’allora giovanissimo Italo Calvino – e le rispettive case editrici,
quelle che hanno in gran parte fatto la cultura italiana del secondo Novecento: Einaudi (di cui era consulente Pavese) e Bompiani (per cui lavorava Vittorini, che poi
sarebbe passato a Einaudi, avrebbe creato “I gettoni”, e dal 1960 avrebbe diretto anche “La Medusa” di Mondadori). È proprio Cesare Pavese – in quel momento appena 23enne, laureato a Torino con una tesi su Whitman, professore d’inglese e traduttore, ma non ancora conosciuto come scrittore8 – che, nel novembre del 1931,
dedica per primo un saggio a Edgar Lee Masters, sulla rivista “La cultura” (una rivista di filosofia, letteratura e storia che nel 1936 sarebbe stata chiusa dal governo
fascista). Nel saggio, Pavese parla di Masters, polemizzando con la pubblicistica
fascista e la critica accademica, che presentano le opere sue e degli altri scrittori
americani come un inventario degli orrori di una società barbara, degenerata e priva di valori, ingabbiata in forme sociali livellatrici e pertanto priva di cultura e di
grandezza. Pavese presenta invece l’Anthology nei termini di una “polemica antipuritana con ardore puritano”, evidenziando come essa ponga in modo intenso e
tragico il problema del senso dell’esistenza, della morale e delle azioni umane, e lo
faccia non con compiacimento morboso o con atteggiamento clinico e pseudoscientifico, ma “con una consapevolezza austera e fraterna del dolore di tutti, della vanità di tutti […] non per cavarne un documento scientifico e sociale, ma soltanto per sete di verità umana”. In questo modo, argomenta Pavese, per quanto limitato e soffocante possa sembrare l’ambiente rappresentato, il libro rappresenta
“valendosi del suo potente oggettivismo, le innumerevoli sconfitte, gli sforzi, le battaglie, e le rare vittorie, della vita contro la morte, dello spirito contro il caos, di cui
è campo questo villaggetto provinciale che è la terra”. Questo del rapporto tra locale e universale è un tema vivo nel dibattito italiano di quegli anni, e che sarà vivo poi nella cultura italiana del dopoguerra anche attraverso le note dal carcere di
Gramsci (pubblicate fra il 1949 e il 1953): nel metterlo in rilievo, Pavese sta dunque
riflettendo altrettanto sulle poesie di Masters quanto sulle possibili strade della cultura del proprio paese. Inoltre, ed è questo un altro elemento qualificante del suo
discorso ai fini non solo critici ma anche dell’operazione estetica complessiva che
Pavese e altri avrebbero tentato di condurre nel romanzo italiano degli anni Trenta e Quaranta, questo non avviene attraverso l’imposizione di significati o morali
magniloquenti alle storie, ma in virtù dell’evidenza e della pregnanza stessa con
cui le storie si presentano al lettore: “Ma non ci sono simboli, beninteso. Tutto è vigorosamente vivo, materiato, attuale, in una parola, tutto è poesia”.9 Si tratta di un
8. La sua traduzione del Moby-Dick di
Melville sarebbe uscita l’anno successivo per
Frassinelli, mentre le poesie di Lavorare stanca,
che avrebbero attirato su di lui l’attenzione della critica, uscirono solo nel 1936, dopo che
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Pavese era già stato arrestato e inviato al confino per antifascismo.
9. Cesare Pavese, L’Antologia di Spoon River,
in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi,
Torino 1962; Il Saggiatore, Milano 1971, p. 55.
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elemento cruciale dal punto di vista estetico, perché sarà proprio sull’idea della lingua viva e attuale e della sua capacità di presa sulla realtà materiale che si incentrerà l’uso programmatico delle traduzioni dalla letteratura americana contemporanea come strumento di rinnovamento delle poetiche del romanzo italiano da parte di questa generazione di scrittori: “un linguaggio che tanto s’identificasse alle
cose da abbattere ogni barriera fra il comune lettore e la realtà simbolica e mitica
più vertiginosa”, scriverà Pavese del “Rinascimento americano” nel 1946,10 uno stile “sotto cui è ancora fresca la materia terrestre, che deve la sua pienezza alla presenza di nuovi oggetti: di nuove macchine e di nuove case, di nuove relazioni fra
gli uomini”, scriverà nel 1943 Giaime Pintor.11 Le date sono cruciali: nel 1931, quando Pavese scrive di Edgar Lee Masters, non solo lui stesso è giovanissimo, ma il
“mito dell’America” è ancora agli inizi: quello sulla Spoon River Anthology è il secondo in ordine cronologico dei saggi di Pavese sulla letteratura americana, che segue di un anno quello dedicato a Sinclair Lewis, sempre su “La cultura”. Vittorini
comincia a fare il traduttore solo nel 1934, e Americana – il vero e proprio monumento al mito dell’America come manifesto politico-letterario nella cultura italiana degli anni Trenta – uscirà soltanto nel 1941 (solo per essere censurata dal regime e ripubblicata l’anno successivo, priva delle note di Vittorini stesso e con un’introduzione di Emilio Cecchi che ristabiliva un approccio alla letteratura statunitense culturalmente e politicamente più consono ai tempi).
Spoon River è quindi per certi versi un testo inaugurale, e assai più di Our Mr.
Wrenn (il romanzo di Sinclair Lewis che apre effettivamente, nel 1931, la serie delle traduzioni pavesiane, e che nessuno ha più letto o recuperato da allora) ha avuto il valore di un archetipo nella storia della cultura italiana, grazie anche alla sua
storia successiva. Nel 1941 si laurea a Torino, con una tesi su Moby-Dick seguita da
Cesare Pavese, Fernanda Pivano, che dagli anni Cinquanta sarà notissima come
biografa, amica personale, traduttrice e tramite culturale primario in Italia di tutta
la Beat generation e di gran parte della controcultura americana dei decenni successivi. È Pavese, appena tornato dal confino, a darle una copia della Spoon River Anthology (insieme a A Farewell to Arms, all’autobiografia di Sherwood Anderson, a Leaves of Grass) per farle capire – così racconta la scrittrice stessa – la differenza fra la
letteratura inglese e quella americana. Pivano lo traduce per suo conto, e Pavese un
giorno, scoperta la traduzione, la propone a Einaudi, dove esce nel 1943; la leggenda, narrata da Pivano stessa, racconta che per superare i veti della censura fascista fu inviata al Ministero della Cultura Popolare la richiesta di tradurre un libro
dal titolo Antologia di S. River, con l’S puntato che fa pensare a un innocuo santo. La
raccolta conosce un enorme successo, e diventa una specie di livre de chevet di una
generazione di resistenti, attivi o passivi, al fascismo. A farne un libro di culto è proprio la divaricazione tra la condizione, consentita dalla morte, di poter dire la verità e la cappa plumbea dell’ipocrisia diffusa in un regime ormai del tutto impopolare ma sempre più catastrofico e sanguinario, unita alla differenza stilistica ri-
10. F.O. Matthiessen, ivi, p.174.
11. Giaime Pintor, Americana, in Il sangue
d’Europa (1939-1943), a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1950, p. 213.
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spetto alla paludata, classicheggiante, epicizzante e nazionalistica poesia valorizzata dal sistema scolastico italiano (la retorica dell’impero trasmessa dall’Eneide,
l’esaltazione degli aspetti patriottici di Foscolo e della maschia tempra di Carducci contro l’effeminato spirito pascoliano o il disfattista pessimismo leopardiano, e
via discorrendo). La pubblicazione di Spoon River in italiano e il suo successo diventano così un fatto immensamente politico e immensamente letterario al tempo
stesso. Ma è verosimile che ogni generazione ci abbia poi trovato qualcosa che le
parlava direttamente: per esempio, la mancanza di inibizioni rispetto a sesso, denaro, potere politico e religione, e lo stile diverso da tutto quello che si leggeva a
scuola, sicuramente hanno contribuito alla grande popolarità della raccolta presso
gli adolescenti degli anni Cinquanta e Sessanta, fra miracolo economico e movimenti studenteschi, fra perbenismo borghese e controcultura. Dal 1943 a oggi, Einaudi ne ha tirate 62 edizioni e ne ha vendute 500.000 copie: una cifra record per
un volume di poesia in Italia, e tanto più per un volume di poesia diffuso da tanto
tempo, reperibile in tante case e biblioteche e in tante bancarelle.
E così arriviamo al 1971, quando Fabrizio De André pubblica l’album Non al denaro, non all’amore né al cielo, testi di De André e Giuseppe Bentivoglio, musiche di De
André e Nicola Piovani.
L’operazione di adattamento è, rispetto al testo di partenza, al tempo stesso in
più d’un senso “fedele”, altamente selettiva e altamente personale: per meglio spiegare questo apparente paradosso, cercherò ora di descriverne brevemente e sistematicamente le componenti e le dimensioni.
Intanto, la struttura: Non al denaro, non all’amore né al cielo è quello che oggi si direbbe un concept album: una definizione che si suole inaugurare con Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles (1967), poi seguito da altri come la rock opera
Tommy degli Who nel 1969, o come gli album dei Pink Floyd, da The Dark Side of the
Moon del 1973 al celebre The Wall, del 1979. Si trattava di un’abitudine ancora assolutamente non diffusa nella musica italiana dell’epoca, ma precorsa da De André già con il 33 giri subito precedente, La buona novella, del 1970, e in qualche misura anche in un album ancora precedente, che pur non avendo un filo narrativo
unitario si presenta complessivamente come una “cantata in si minore per coro e
orchestra”: Tutti morimmo a stento, del 1968. Sul piano strutturale, il concept album
retto da un filo tematico e narrativo unitario che De André pratica qui si può vedere come la più vicina approssimazione musicale alla raccolta poetica che era la
Spoon River Anthology, con la sua scelta – insolita anch’essa nel panorama poetico
dell’epoca – di dare un filo unitario di carattere spaziale, narrativo, tematico e formale ai singoli epigrammi.
Rispetto a Masters – che varia le sue poesie nella lunghezza e nel tono, ma non
nel metro o nella forma scelta – De André si concede, come vedremo, molta più
libertà. Dei 249 epigrammi originali, De André ne sceglie soltanto 9, per un totale di mezz’ora scarsa di musica (è un album breve rispetto ai 33 giri classici); inoltre, recide completamente tutti i nessi narrativi infratestuali che legano l’uno all’altro molti dei monologhi di Spoon River e isola ciascuno dei personaggi in una
propria individualità esemplare. Significativamente, cambiano quasi tutti i titoli
delle poesie scelte: a parte la prima e l’ultima (cioè The Hill, che diventa La Colli102
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na, e Fiddler Jones, che diventa Il suonatore Jones – anche se in realtà l’originale
avrebbe un violinista mentre il Jones di De André è un flauto), le altre perdono il
nome proprio che caratterizza quasi tutte le poesie di Masters (con poche eccezioni, come The Village Atheist, The Circuit Judge, The Unknown). I personaggi vengono identificati per mestiere o categoria: l’articolo indeterminativo (Un matto,
Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore, Un medico, Un chimico, Un ottico), usato appunto per tutti tranne che per l’unico dotato di nome proprio, Il suonatore Jones, sottolinea che le storie individuali presentate dal testo sono in realtà assunte
come un repertorio di storie esemplari. Esemplari, e in quanto tali sottratte al loro spazio-tempo d’origine e non legate al villaggio in quanto tale (come sarebbe
stato “il” medico del villaggio, “il” matto del villaggio): non per niente – rinunciando a sfruttare la capacità di presa sul pubblico del titolo originale, e staccandosi completamente dal filone della letteratura del villaggio o della piccola comunità (che oltre che nella letteratura americana era un topos anche della tradizione realista e neorealista italiana) – l’album si intitola Non al denaro, non all’amore né al cielo. Questo titolo (che è una citazione letterale dal testo di Masters e
si trova nella prima poesia, La collina, riferito a Jones il suonatore) sottolinea simultaneamente il carattere “concettuale” del discorso intrapreso, e – con la sua
triplice, reiterata negazione – il suo carattere oppositivo. Il denaro, l’amore (o meglio, una concezione alienata e repressa dell’amore e del sesso) e il cielo (ovvero
la religione come forma di potere e strumento di repressione) sono in effetti alcuni dei motivi tematici che attraversano la Spoon River Anthology di Edgar Lee
Masters e che Fabrizio De André riprende espressamente come filo conduttore
delle poesie scelte e adattate.
Si tratta, d’altra parte, dei fili di fondo di tutta la poetica di De André: il denaro
e il potere come motore disumanizzante di sopraffazione, di violenza, di competizione; l’amore nelle sue forme tanto intime, quanto ludiche e liberatorie, o ancora
compromesse col potere, con lo sfruttamento e con lo scambio economico; la religione come divaricazione tra esperienza spirituale ed evangelica, amore per gli oppressi e gli emarginati, da un lato, e esercizio del potere dall’altro: tutti questi motivi attraversano i brani di De André fin dal primo album (Volume I, del 1967, che
contiene pezzi classici come Via del Campo, Bocca di Rosa, Carlo Martello, ma anche
brani esplicitamente di tema religioso, per quanto eterodosso, come Spiritual, Si
chiamava Gesù, Preghiera in gennaio). E indubbiamente, come De André stesso dichiara nell’intervista con Fernanda Pivano che accompagna l’album, c’è anche un
elemento di identificazione personale negli impulsi e nelle contraddizioni dei personaggi scelti (non per niente tutti personaggi maschili, nonostante la folta presenza femminile nell’Anthology).
Ma la scelta dei temi e dei personaggi non è né puramente individuale, né rarefattamente universale. Quale possa esserne il senso si capisce meglio se ci si sofferma a contestualizzare anche questa ricomparsa italiana di Spoon River, come
già la prima nel pieno della seconda guerra mondiale. È il 1971: un momento che
segue a poca distanza il 1968 (con le occupazioni delle università fin dalla fine del
1967, il maggio francese, le manifestazioni e gli scontri di piazza con le cariche
della polizia: famosa fra tutte quella di Valle Giulia, il 1° marzo, a Roma), l’“au103
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tunno caldo” del 1969 (con l’occupazione delle fabbriche, le manifestazioni dei
metalmeccanici e degli altri operai del nord, l’incontro tra movimento studentesco e movimento operaio e la radicalizzazione di entrambi nella creazione dei
gruppi extraparlamentari), le bombe di Piazza Fontana il 12 dicembre del 1969.
Dopo un momento di forte spinta antiautoritaria, in Italia iniziava la strategia della tensione da un lato, e un lento riflusso politico dall’altro, mentre gran parte del
movimento degli studenti si interrogava sul proprio futuro, in una divaricazione crescente di obiettivi, metodi e prospettive: se proseguire la propria attività all’interno del mondo universitario e delle istituzioni esistenti, o muoversi nella direzione di nuove soggettività politiche: da un lato la ricerca di un sé privato, dall’altro la costruzione di una soggettività militante da cui potessero nascere forme
diverse di organizzazione politica e di conquista del potere – la lotta armata come risposta alla strage di stato.
Da questo punto di vista, la scelta di Spoon River è assolutamente in linea non
solo con la poetica personale dell’autore ma anche con i tempi. Nelle poesie estrapolate dall’Antologia De André immette infatti elementi direttamente connessi agli
anni Sessanta e Settanta, che calano i motivi tematici apparentemente astratti e universali cui rimanda il titolo in contingenze talvolta brucianti, donando così al tempo stesso cogenza ai primi e spessore alle seconde. Ricostruendo questo contesto,
si resta stupiti, non tanto della “modernità” di Spoon River Anthology, quanto della
lucida e sapiente economia di mezzi con la quale De André ha saputo far affiorare,
nel testo di Masters, le potenzialità di un’assoluta attualità di temi e riferimenti,
senza per questo stravolgerne il significato. Per chi ascoltava l’album da adolescente, in completa immersione nel clima politico e culturale di quegli anni, l’esperienza era quella di un continuum implicito, quasi irriflesso di cui, a 36 anni di
distanza, è forse necessario esplicitare qualche nesso.
Cominciamo da quello che riguarda la violenza e il potere: la violenza del potere, espressa dal giudice e dalle guardie che uccidono il blasfemo, ma anche la violenza diffusa che produce violenza. Il giudice viene presentato, prima ancora che
come carnefice, come vittima di una violenza simbolica che non ha saputo elaborare se non riproducendola: “l’essere odiati fa odiare”, aveva scritto Pasolini dopo
i fatti di Valle Giulia, presentando i poliziotti come vittime di un sistema di classe
e il movimento degli studenti come il frutto di un privilegio borghese in una poesia, “Il PCI ai giovani”, rimasta famosa proprio per questa polemica. Del resto la
questione del potere come prodotto della violenza e al tempo stesso come produttore di violenza è centrale non solo, fin dalle origini, al pensiero anarchico cui si rifà
De André, ma anche allo specifico del pensiero e dell’esperienza sociale di quegli
anni: basti pensare da un lato, per esempio, alla ripresa generalizzata di Nietzsche
nel pensiero europeo e agli studi di Michel Foucault, dall’altro ai vari filoni di marxismo-leninismo, e alle esperienze collettive della violenza di piazza, tanto quella
percepita come violenza rivoluzionaria e di classe, quanto quella percepita come
violenza repressiva di stato. La rivolta sociale e la sua repressione violenta, ma anche la violenza politica dei cosiddetti “opposti estremismi”, fanno parte del lessico politico comune di quegli anni. E la morte del blasfemo di De André per mano
delle “guardie bigotte” suscitava di certo, in quel contesto, qualche associazione
mentale con la morte misteriosa dell’anarchico Pinelli, caduto dalla finestra della
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questura di Milano dopo essere stato arrestato, tre giorni dopo la strage di Piazza
Fontana, nel 1969.
La questione della violenza non investe soltanto la sfera politica, nelle due canzoni che mettono in scena quelli che oggi, con Althusser, chiameremmo gli apparati repressivi dello Stato – appunto, il giudice e le guardie – ma si ritrova anche
nella canzone del matto, dove la follia viene chiaramente additata come il prodotto della violenza della struttura sociale che designa tale ogni forma di devianza. Di
nuovo, l’argomento della poesia scelta evoca un’attualità scottante. L’idea che la
follia sia prodotta dalla violenza delle strutture sociali e familiari, la cui funzione è
quella di creare cittadini docili e funzionali al sistema e alla sua riproduzione, è un
argomento costantemente al centro del dibattito culturale, medico e politico di quegli anni. La cosiddetta “apertura dei manicomi” con la legge n. 180, la “legge Basaglia”, arriverà soltanto nel 1978, ma è preceduta da un decennio di battaglie ispirate all’antipsichiatria di Ronald Laing (Self and Others, 1969; The Politics of the Family, 1971) e David Cooper (Psychiatry and Anti-Psychiatry, 1967; Death of the Family,
1971), e alle riflessioni di Michel Foucault (Folie et déraison: Historie de la folie à l’âge
classique, 1961; Naissance de la clinique, 1963) e di Félix Guattari (L’AntiOedipe, con
Gilles Deleuze, 1972) – tutti libri che in quegli anni l’editoria traduceva quasi in tempo reale, alimentando una riconfigurazione della follia come non adattamento e
vittimizzazione sociale che il matto di De André incarna perfettamente.
Come la violenza, anche il potere viene messo in scena in relazione a diverse sfere. Oltre che all’uso repressivo della polizia, la canzone Un blasfemo rimanda anche,
infatti, all’idea della religione come struttura di potere. È anche questo, in quegli
anni, un tema carico d’implicazioni. Gli anni Sessanta sono gli anni della “chiesa
del dissenso”: anni di intenso dibattito all’interno della chiesa italiana e mondiale,
marcati da un atteggiamento frequentemente repressivo delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti delle istanze eterodosse, in particolare quelle dal basso e portatrici di istanze sociali. In Italia, Don Lorenzo Milani diventa per punizione priore di Barbiana, dove viene mandato per le sue posizioni di dissenso dalla curia sull’atteggiamento della chiesa rispetto alla classe operaia. Esperienze pastorali, del 1958,
era stato ritirato dal commercio e processato dal Sant’Uffizio; nel 1965, la sua lettera contro i cappellani militari in favore dell’obiezione di coscienza, “L’obbedienza
non è più una virtù”, lo porta sotto processo quando è già gravemente malato: morirà nel 1967. La famosa scuola da lui animata per i figli dei contadini, incentrata su
una forte consapevolezza del carattere classista della cultura e delle forme della sua
trasmissione, diventerà oggetto di acceso dibattito pedagogico alla fine degli anni
Sessanta, soprattutto dopo la pubblicazione, nel 1967, di Lettera a una professoressa.
Nel 1968 a Firenze scoppia un altro caso di conflitto con le gerarchie ecclesiastiche,
che provoca spaccature e accese prese di posizione da parte di diversi settori del
mondo cattolico: l’esperienza di Don Enzo Mazzi e dell’Isolotto, una comunità di
base in un quartiere povero di Firenze che, contro i compromessi e le diplomazie
dell’istituzione ecclesiastica, afferma un modo radicale di vivere il messaggio evangelico, rivendicando quindi come dovere cristiano anche il pacifismo integrale contro la guerra del Vietnam, il non-consumismo, la vicinanza alle lotte operaie in nome del messaggio d’uguaglianza. Temi analoghi si agitavano, con grande risonanza anche in Italia, in altre parti del mondo. Sempre nel 1968, con la Conferenza epi105
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scopale sudamericana di Medellín (Colombia), emerge in America latina, nel contesto del dilagare di feroci dittature militari e di un’estrema povertà dei contadini,
e si diffonde in tutto il mondo la cosiddetta “teologia della liberazione”. Secondo
teologi e sacerdoti come Gustavo Gutierrez, Helder Camara (proprio nel 1971 autore di La spirale della violenza, che si schiera contro la guerra nel Vietnam e la repressione), Ernesto Cardenal, che sarebbe poi entrato nel governo sandinista in Nicaragua, Leonardo Boff, teologo francescano più volte censurato dal Sant’Uffizio,
i cristiani devono essere vicini ai poveri anche nella lotta politica e di classe, perché
la povertà e l’oppressione sono scandalo e peccato, e dunque il cristiano deve lottare per la liberazione anche sociale, opponendosi al capitalismo e alla logica del
profitto. Il dissenso all’interno del mondo cattolico e la conseguente repressione,
come si vede, non investono soltanto questioni teologiche ma anche questioni di
giustizia globale e questioni politiche, tanto internazionali quanto interne. In Italia, la legge Fortuna-Baslini, che nel 1970 aveva introdotto il divorzio, scatenò un
violento attacco della chiesa alle prerogative dello stato. Negli stessi anni, contro
l’opposizione ecclesiastica, si avviava il dibattito sull’aborto e iniziavano gli atti di
disobbedienza civile, mentre le donne morivano di aborto clandestino, e per le più
ricche proliferavano le cliniche private e i viaggi in Inghilterra. La situazione si sarebbe protratta ancora a lungo: solo nel 1975 una sentenza della Corte Costituzionale avrebbe stabilito la prevalenza della salute della madre rispetto a quella del
feto, aprendo la strada alla legge 194 sull’interruzione della gravidanza, del 1978.
Nel 1971, però, la parola “aborto” era ancora un tabù nei media e nel mondo dell’intrattenimento: tanto più programmatico, dunque, che nella prima canzone, La
collina, De André parli espressamente di aborto (“Dove sono Ella e Kate, morte entrambe per errore, una d’aborto, l’altra d’amore”), là dove il testo della poesia originale ha “child-birth”, “parto”.
Altrettanto coinvolta nel dibattito contemporaneo è Un medico, che mette a fuoco la questione della responsabilità sociale della scienza medica. Nel 1967 il dottor
Christian Barnard esegue a Città del Capo il primo trapianto di cuore (e forse non
a caso la canzone immediatamente precedente è quella dedicata al malato di cuore). L’intervento diventa un evento mediatico di ingenti proporzioni, che dà estrema visibilità al discorso sul progresso e sulle nuove frontiere della medicina, ma dà
anche rilievo al dibattito su quali debbano essere queste frontiere: se una tecnologia d’avanguardia al servizio di pochi, o il tentativo di debellare le malattie sociali
più diffuse a livello mondiale, cioè quelle legate alla povertà e al sottosviluppo. Solo due anni prima era scomparsa una figura di medico per certi versi opposta, famosissima e popolarissima icona degli anni Sessanta: il medico, pastore, musicista,
filosofo di origine alsaziana Albert Schweitzer, fondatore dell’ospedale di Lambaréné nel Gabon nel quale trascorse gran parte della sua vita, celebre anche per
essersi battuto fin dall’inizio degli anni Cinquanta, insieme ad Albert Einstein e Bertrand Russell, contro i test nucleari e la proliferazione delle armi atomiche. Il confluire della critica anticapitalista con la protesta contro la guerra del Vietnam, le lotte di decolonizzazione dei paesi africani, la crisi di Cuba, e la crescita del terzomondismo nei movimenti politici di tutto l’Occidente, porta a un’accentuata consapevolezza delle diseguaglianze anche per quanto riguarda l’uso e la funzione politica dei saperi (riflessione già avviata fin dalle prime opere di Foucault: Naissan106
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ce de la clinique è del 1963), producendo una critica sistematica della “neutralità”
della scienza (frutto anche della guerra fredda e della proliferazione delle armi nucleari), e specificamente della medicina. La medicina occidentale viene criticata come il frutto di un sistema capitalistico asservito alla logica del profitto, piuttosto
che come un’applicazione disinteressata del sapere al servizio della salute e della
cura. La Rivoluzione culturale in Cina (1966) abbatte le gerarchie istituzionali, destituisce i primari e diffonde l’idea dei “medici scalzi”, cioè dell’esercizio diffuso
della medicina al servizio delle masse nei villaggi e nelle campagne. Al tempo stesso, l’apertura di canali politici con la Cina attira l’attenzione del mondo occidentale sull’agopuntura, pratica prima considerata degna di maghi e ciarlatani, la cui efficacia viene ora convalidata da medici occidentali: nascono le “medicine alternative”, che proprio nella loro efficacia manifestano il carattere arbitrario e parziale
della scienza medica. Nella canzone sul medico, la compromissione strutturale della medicina con la logica del profitto e il conflitto tra idea sociale e idea capitalista
della medicina vengono messi a nudo in modo chiaro, mentre col passaggio finale
– dalla medicina concepita come servizio sociale allo smercio truffaldino dell’ “elisir di giovinezza” – viene suggerito anche il carattere ciarlatanesco, ingannevole,
inevitabilmente connesso alla medicina come attività al servizio del profitto.
L’alienazione della scienza dalla società e l’idea della scienza come potere tornano in Un chimico, nella quale riecheggia – oltre al clima dell’era atomica, cui allude direttamente la menzione dell’esplosione dell’idrogeno nella canzone – tutto
il dibattito filosofico e politico degli anni Cinquanta e Sessanta incentrato sul carattere “disumano” della scienza e della tecnologia, concepite come un sistema di
controllo e di potere sulla natura, incapace di valutare in termini umani ed etici il
proprio operato. È Herbert Marcuse, in particolare, a demistificare in un testo famosissimo ed estremamente influente dalla fine degli anni Sessanta, L’uomo a una
dimensione (1964, immediatamente tradotto in italiano), il carattere falsamente razionale e trascendente dell’ordine scientifico su cui si basa la società tecnologica,
sostenendo invece che il processo della razionalità tecnologica è un processo politico. Nella società industriale avanzata, sostiene Marcuse, “l’apparato produttivo
tende a divenire totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali”.12 Pertanto, “di fronte ai tratti totalitari di questa società, la nozione tradizionale della ‘neutralità’ della tecnologia non può più essere sostenuta.
La tecnologia come tale non può essere isolata dall’uso cui è adibita; la società tecnologica è un sistema di dominio”.13 In un simile contesto, tanto l’uomo quanto la
natura vengono reificati a fini produttivi, diventando essi stessi parte di un’organizzazione la cui efficacia ha l’effetto di occultare gli interessi particolari che reggono l’apparato, e apparire come una manifestazione calcolabile della razionalità
scientifica, che incorpora gli umani, non meno degli oggetti naturali e degli apparati tecnologici. Il chimico della canzone di De André è una perfetta esemplifica-
12. Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avan-
zata, Einaudi, Torino 1967, p.13.
13. Ivi, p. 14.
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zione di questa istanza di controllo totale, e al tempo stesso del suo carattere reificante e disumanizzante.
Un’ulteriore ricaduta della scienza, e l’ultima esemplificazione del fitto intreccio di riferimenti culturali contingenti che innerva le canzoni dell’album, è la
droga, intorno alla quale s’incentra la canzone Un ottico. L’LSD era stato sintetizzato in laboratorio nel 1938; le sue capacità allucinogene furono scoperte qualche
anno dopo, e durante la guerra fredda la CIA e l’esercito USA, ma anche il governo inglese, condussero esperimenti (spesso all’insaputa dei soggetti coinvolti) per verificarne la possibile valenza come siero della verità e come arma di controllo della mente, e quindi della popolazione o parte di essa (per esempio, dell’esercito). Negli anni Sessanta Timothy Leary, professore di psicologia a Harvard,
condusse quegli esperimenti sull’LSD come veicolo di illuminazione e crescita
spirituale che fecero di lui un guru della controcultura hippie; dal 1967, la sostanza
fu proibita come droga negli Stati Uniti e il suo consumo continuò solo clandestinamente, legandosi alla controcultura ma anche alla diffusione del rock psichedelico. In Italia l’uso delle sostanze allucinogene e della cannabis si diffonde
negli anni Sessanta e Settanta come oggetto di consumo di gruppo, strumento di
allargamento della coscienza, di sperimentazione col sé, di allentamento delle inibizioni e delle gabbie sociali, legato alle culture hippy americane e nord-europee;
durante gli anni Settanta, si passa alla circolazione delle anfetamine e dell’eroina,
cioè di sostanze controllate dal sistema medico e dal traffico illegale. Un ottico evoca questo orizzonte, e sembra anche una citazione di pezzi come Lucy in the Sky
with Diamonds dei Beatles o del rock psichedelico di gruppi come Jefferson Airplane o i Doors, formatisi entrambi in California nel 1965 (questi ultimi, come si sa,
in riferimento esplicito a The Doors of Perception, il libro di Aldous Huxley che ne
descrive l’esperienza con la mescalina; Jim Morrison muore nel luglio del 1971,
pochi mesi prima dell’uscita di Non al denaro, non all’amore né al cielo). Significativamente, nel pezzo di di De André la liberazione individuale e artificiale proposta e mediata dall’ottico viene esplicitamente ricondotta a un momento sociale,
comunicativo, comunitario e ludico, anziché a un paradiso artificiale individuale, in sintonia con la critica al consumo di droghe come evasione soggettiva e depoliticizzante, subalterna alla logica del consumo e dunque del capitale, che viene in quegli anni formulata dalla parte più ideologizzata e più politica del movimento.
Il denaro, l’amore e il cielo che De André estrapola come filo conduttore della sua
scelta, dunque, non sono soltanto motivi universali, e i personaggi messi a fuoco dalle singole canzoni non sono soltanto tipi umani esemplari. De André decide di musicare un testo di culto della tradizione letteraria antifascista in Italia, dunque un testo non politicamente neutro; ma un testo che, al tempo stesso, insiste – in linea con
la posizione dell’autore – su prospettive individuali, su storie individuali, di confronto col sistema del potere, tanto economico, quanto politico o religioso. In altre
parole, riattinge al testo originario e alla sua originaria carica trasgressiva e, almeno
in qualche misura, libertaria nel contesto dell’America di inizio Novecento, ma lo fa
attraverso una tradizione locale non solo di traduzione, ma anche di tradizione critica e investimento politico-culturale. Sottolineando e rafforzando anche il valore
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mitopoietico del testo, e la sua grande disponibilità a farsi di volta in volta ritradurre nei problemi e nei linguaggi dei lettori – in altre parole, non tanto la sua generica
“universalità” in base a esperienze umane fondamentali di vita e di morte, al vanitas vanitatum, al memento mori ecc., ma la sua disponibilità semantica e riattualizzabilità in base a condizioni sociali riconoscibili e attuali –, De André riesce a operare
una straordinaria sintesi di quanto si muoveva nell’universo giovanile di quegli anni (per quanto lui, nato nel 1940, fosse anagraficamente più vecchio di gran parte del
suo pubblico): le istanze politiche e oppositive di ribellione allo status quo, all’esercizio brutale del potere non soltanto politico, ma anche ideologico, scientifico e medico; e le istanze di liberazione individuale: per esempio, attraverso l’amore, un esercizio più libero della sessualità, la droga, o l’arte.
Proprio sull’elemento “arte” voglio soffermarmi per un’ultima considerazione.
Come si vede facilmente operando un confronto testuale fra le poesie in inglese, le
poesie in italiano e le liriche delle canzoni, De André si muove nei confronti di Masters con latitudine variabile. La vicinanza al testo poetico è massima soprattutto
nella prima e – in misura minore – nell’ultima canzone, dove vengono ripresi la
struttura della poesia, il lessico e interi versi. Altrove, De André riprende la struttura fondamentale della poesia e lo scheletro della storia narrata, rimpolpandola
inventivamente dal punto di vista narrativo e della caratterizzazione, con un massimo d’intervento sulla storia del matto (che nell’originale è assai più embrionale
e prende pochi versi). Inoltre, interviene con grande libertà nei singoli testi, su vari livelli ma secondo linee assolutamente coerenti.
La prima è l’universalizzazione: De André elimina i dettagli che legano troppo
la poesia alla storia o al mondo americano (per esempio, la menzione della Rivoluzione e di Abe Lincoln in The Hill) o alle trame narrative del mondo di Spoon River (tutti i nomi menzionati in Judge Selah Lively e nomi, luoghi e canzoni in Fiddler
Jones).
Simmetricamente agisce l’attualizzazione e localizzazione: l’autore precisa o altera dettagli per riconnettere le storie narrate al mondo italiano del presente. Nella prima canzone, La collina, come si è visto, inserisce l’aborto dove il testo di The
Hill aveva un parto; in Un matto, l’Encyclopedia Britannica di Frank Drummer diventa la Treccani; il farmacista di Trainor, the druggist diventa un chimico, enfatizzando
così il legame col problema generale della scienza; l’infermiere cattolico in Wendell
P. Bloyd diventa, in Un blasfemo, due guardie bigotte, saldando così la repressione
del pensiero e la repressione teologica all’esercizio del potere e della violenza da
parte degli apparati dello stato; l’ottico in Dippold the optician diventa uno “spacciatore di lenti”, con allusione diretta alla psichedelia.
A queste forme d’intervento individuale sui testi, si associano poi forme trasversali, come la creazione di connettivi tematici: dove mancano nelle storie originarie, De André inserisce nelle liriche delle canzoni elementi che richiamano i temi fondamentali dell’album, denaro/potere, amore/sesso e cielo/religione: la
competizione e l’esclusione sociale, l’istituzionalizzazione per il matto; il sesso e la
menzione finale di Dio per il giudice; l’amore per il chimico; l’idea del “mercante
di luce” per l’ottico, che lo riconnette al tema del denaro, esplicito nel caso del dottore. Altri connettivi sono invece di natura metaforica: per esempio, il ricorrere di
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immagini di fiori, piante e giardini in ogni singola canzone, ad eccezione di quella
sul giudice, non a caso l’unica del tutto priva di qualunque dimensione di amore e
vitalità.
Esaminando le forme metriche, infine, si fanno delle constatazioni in qualche
misura sorprendenti. Da una canzone ci si aspetta una notevole regolarità sul piano ritmico. In realtà i singoli pezzi presentano versi di lunghezza diversa, e alternano ritmi dattilici e trocaici con ritmi giambici, i primi più distesi e più vicini al
parlato (ma anche a forme della poesia tradizionale come l’endecasillabo e l’ottonario, come si vede nel caso della strofa su Jones nella prima canzone), i secondi
più sincopati e incalzanti: è il caso della canzone sul giudice, l’unica interamente
giocata sul registro satirico-grottesco, che non concede nessun abbandono lirico. In
generale, il ritmo è molto vicino al parlato: gli accenti ritmici per lo più non si discostano da quelli normali delle parole, le unità sintattiche della frase e il verso tendono a coincidere. Insomma, le canzoni manifestano sul piano del ritmo la propria
volontà di non essere trasgressive rispetto al linguaggio ordinario. La rima, infine,
è usata in modo molto variabile anche all’interno dello stesso componimento: nel
primo, per esempio, si va dal verso libero alla rima baciata alla rima semialterna (o
magari giocata su due soli versi rimati in tutta la strofa, a distanza), il tutto corredato da un tessuto di assonanze. Nella canzone dedicata al matto, però, troviamo
la rima baciata (o l’assonanza, ma sempre con lo stesso schema) per tutta la poesia;
la rima baciata si ritrova pure nella prima strofa della canzone dell’ottico, mentre i
versicoli della canzone del giudice sono organizzati secondo uno schema a rima semialterna che in realtà sarebbe anche leggibile come una rima baciata ossessivamente ripetuta per intere strofe. Per il resto prevale la rima alterna o la rima semialterna, o addirittura l’inesistenza di uno schema metrico ricorrente.
Su questo dato vale la pena di compiere alcune brevi riflessioni finali. La vicinanza ritmica alla lingua parlata di queste canzoni è indice di una fedeltà profonda al testo di partenza, al suo carattere “prosaico” e programmaticamente lontano
dagli effetti ornati tipici della poesia tradizionale nel senso ottocentesco. Al tempo
stesso, però, De André interviene decisamente sulle forme di quella poesia: la sua
non è solo un’operazione di adattamento, è – non va dimenticato – una traduzione
intersemiotica che ha come punto d’arrivo testi cantati. Le canzoni d’arrivo registrano così uno scarto massiccio rispetto agli originali, dato dal fatto che De André
dona alle poesie di Masters quella musicalità che esse non possiedono in alcun modo nell’originale (e neppure nella traduzione, anche se qualche volta Pivano tenta
di far soggiacere ai versi l’uso di strutture metriche della tradizione italiana). La cosa è resa tanto più evidente non solo dall’uso dell’orchestra (queste sono canzoni
che, a differenza di quelle più note della produzione precedente, non si possono facilmente riprodurre e cantare alla chitarra) ma anche dal modo in cui le musiche si
accompagnano e integrano ai testi, sottolineandone con aperture melodiche i momenti più lirici, che sono quelli connessi all’amore nelle sue varie forme e accezioni: l’ultimo movimento della Collina, l’apertura di Un blasfemo, l’intera canzone del
malato di cuore, la terzultima strofa di Un chimico, l’ultima di Un ottico, e tutta la
canzone finale. Momenti, questi, che non sono necessariamente in relazione con i
momenti di uso più stringente dei dispositivi metrici tradizionali; anzi, è vero il
contrario: la musica accentua il suo ruolo tanto più, quanto più il testo si avvicina
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al verso libero. Vale a dire che la musica si pone come uno strumento al tempo stesso complementare e alternativo rispetto alle griglie metriche, accentuandone il valore semantico profondo. La regolarità del ritmo e della rima è massima là dove maggiore è la sudditanza a un sistema sociale costrittivo e repressivo (il matto, il giudice, ma anche la rima “bigotte-botte” che suggella il destino del blasfemo).
Le liriche del testo istituiscono dunque al loro interno una dialettica tra costrizione e liberazione che ripropone a livello ritmico la dialettica tematica dei testi.
Tanto sul piano tematico quanto su quello metrico e strettamente musicale, in questa raccolta è la musica l’elemento per eccellenza libertario e liberatorio, che si connette all’amore e al gioco (e alla poesia) come attività per eccellenza ludiche, gratuite, non riconducibili alla logica del profitto o del potere ma solo a quella del gioco e – semmai – dello splendido spreco: il bacio con cui ci si gioca la vita, l’amore
come rischio di esplosione, l’amicizia come socialità non-gerarchica, come “furto”
del tempo (con tutta la dimensione anticapitalistica di quest’idea) per un’allegria
“senza fretta”. E naturalmente il suonatore Jones, esplicita mise en abyme dell’artista (non a caso, simmetricamente, in posizione terminale anche nella raccolta di
Masters c’è il poeta-pseudonimo, Webster Ford), che non si rifiuta mai al cibo e all’alcool o al richiamo di qualcuno che vuole la sua musica, e manda i campi in malora. Personaggio anche lui marcusiano, in fondo, secondo il Marcuse di Eros e civiltà (1955), che ipotizza la liberazione della civiltà da tutti quei meccanismi repressivi che secondo Freud erano inevitabili alla sua edificazione e al suo mantenimento, e la liberazione dell’eros come principio del piacere, cioè del gioco e del
lavoro ludico.
In altre parole, la Spoon River di De André – a differenza di quella di Edgar Lee
Masters con la sua tetra e quindi in fondo immobilistica verità solo post mortem –
dispone di un elemento di liberazione al di qua della morte, che passa attraverso la
musica, veicolo privilegiato per un tipo di comunicazione generazionale, ma anche metafora di una pratica liberatoria e oppositiva, tanto individuale quanto collettiva.
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