Per saperne di più leggi la pubblicazione Prove di Futuro 7 dedicata

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Per saperne di più leggi la pubblicazione Prove di Futuro 7 dedicata
Migrantes Vicenza
I popoli tra noi
Dall’India alla Valle del Chiampo:
Immigrati indiani di religione Sikh
Cittadini di un luogo, Cittadini del mondo,
Benvenuti!
Prove di Futuro 7
Vicenza 2016
Progetto di ricerca educativa, raccolta materiali di formazione alla
cittadinanza interculturale per genitori e insegnanti di scuole ad alta
percentuale multiculturale.
Immigrati indiani di religione Sikh in provincia di Vicenza.
L’ISAS (International Institute of South Asian Studies) di Roma, UKPHA
(United Kingdom Punjab Heritage Association) e la Comunità di
immigrati indiani di religione Sikh residenti in provincia di Vicenza, in
collaborazione con Migrantes Vicenza, presentano la Mostra Fotografica:
I Sikh
Storia e Fede. Valore nella Grande Guerra. I Sikh in provincia di Vicenza
La Mostra, che ha contato con il patrocinio del Ministero Italiano dei Beni
Culturali e dell'Ambasciata dell'India in Italia, costituisce un omaggio al
valore e al sacrificio di tutti i soldati indiani - in particolar modo,i Sikh- che
combatterono nel primo conflitto mondiale (1914-1918) a fianco degli
Alleati europei.
Intende contribuire ad una maggiore conoscenza e valorizzazione della
Comunità di immigrati indiani di religione Sikh, che - "tra identità religiosa,
nuova cittadinanza e riconfigurazioni familiari" - lavorano attualmente a
nostro fianco, tra noi e con noi, specialmente in attività rurali e nelle
concerie della Val Chiampo e della vallata dell'Agno
A cura di: Migrantes Vicenza e Centro Scalabrini di Bassano del Grappa
Organizzazione: Migrantes Diocesi Vicenza
Palazzo Opere Sociali- Piazza Duomo 2, 36100- VI
Tel.: 0444 2265 41; cell. 334 75 63 705; 333 73 14 599
* * *
2
Indice
Prima Parte
Alcuni dati statistici. Immigrati provenienti dall’India e residenti in
provincia di Vicenza.
Distribuzione in alcuni tra i Comuni della diocesi di Vicenza.
Sikh ed altre comunità religiose in provincia di Vicenza
5
Seconda Parte
8
Giorgia Cantele: La comunità indiana in Italia e in provincia di Vicenza. Il
“caso Panjab”. Nicchie Etniche - Profilo Occupazionale.
Da: I Sikh. Storia, Fede e Valore nella grande guerra,
ISAS, International Institute of South Asian
Studies,2015, pp.143-147
Terza Parte
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Marco Restelli: La religione Sikh. I Gurdvara, i Langar e l’accoglienza
dell’altro. La condizione femminile nella famiglia
immigrata di religione Sikh; i ragazzi Sikh nella scuola
italiana. Problematiche del riconoscimento del Sikhismo in
Italia. Da: «I Sikh in Italia. Fra identità religiosa, nuova
cittadinanza e riconfigurazioni familiari », in Maria
Angelillo (a cura di), La famiglia nelle culture e nelle
società dell’Asia. Accademia Ambrosiana, Asiatica
Ambrosiana n. 5, Biblioteca Ambrosiana-Bulzoni Editore,
Milano-Roma, 2013, pp. 49-67
Appendice
Bibliografia. Piste di approfondimento
26
a. In generale, circa il lavoro nelle concerie in Italia
b. In particolare, sulla fabbrica come spazio del migrante nel distretto
vicentino della concia
* * *
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Prima Parte
Alcuni dati statistici.
Fonte: Dossier Caritas-Migrantes e Istat a dicembre 2014
I lavoratori immigrati provenienti dall’India e residenti in Italia sono circa 150mila.
Tra loro, 70mila sono di religione Sikh. Il tutto si inquadra nel più generale
fenomeno della diaspora indiana, che attualmente conta quasi trenta milioni di
persone nel mondo, con picchi di oltre un milione di indiani in Paesi occidentali
quali la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Canada.
1. Immigrati provenienti dall’India e residenti in provincia di
Vicenza:
Totale
6.310
Maschi
3.575
Femmine
2.735
2. Distribuzione in alcuni tra i Comuni della diocesi di Vicenza:
Comune
Arzignano
Chiampo
Valdagno
San Bonifacio
Lonigo
Montecchio Magg.
Sarego
Montebello
Vicenza
Castelgomberto
Trissino
Brogliano
Malo
Altissimo
Sossano
Brendola
Schio
Bassano del Gr.
Altavilla
Alonte
Recoaro
Creazzo
Monte di Malo
Totale
1.103
667
589
533
424
367
344
294
204
185
141
192
101
98
51
41
35
30
23
23
18
15
13
Maschi
657
380
328
295
237
233
186
171
121
95
80
54
55
61
31
18
14
20
14
11
9
6
6
5
Femmine
446
287
261
238
187
134
158
123
83
90
61
48
46
37
20
23
21
10
9
12
9
9
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3. Sikh ed altre comunità religiose in provincia di Vicenza
Fonte: “Centro Ecumenico Eugenio IV” - Vicenza
**COMUNITÁ ISLAMICHE
La presenza più significativa di membri di altre religioni a Vicenza è
rappresentata dai musulmani, che si raggruppano in Centri culturali e
raggiungono complessivamente il numero di 25/30 mila fedeli.
Le sale di preghiera sono una ventina, collocate nei seguenti luoghi:
* Alte Ceccato:
- via Pacinotti, 24 - 36075 Alte Ceccato di Montecchio Maggiore (Vicenza)
- viale Milano, 36/d - 36041 Alte Ceccato di Montecchio Maggiore (Vicenza)
* Arcole (Centro culturale islamico) - via Nuova, 2/a - 37040 Arcole (Verona)
* Arsiero - via Tre Scalini, 13 - 36011 Arsiero (Vicenza)
* Arzignano (Associazione culturale islamica “La Conversione”) - via Pellizzari,
45 - 36071 Arzignano (Vicenza)
* Bassano del Grappa (Associazione “La Pace”) - via Ferrarin, 81 - 36067 San
Giuseppe di Cassola (Vicenza)
* Bassano del Grappa, San Lazzaro (Centro culturale islamico) - via
Prosdocimo - 36061 Bassano del Grappa (Vicenza)
* Cornedo Vicentino (Centro culturale islamico) - via San Lazzaro, 1 - 36071
Cornedo Vicentino (Vicenza)
* Lonigo - viale della Vittoria, 29 - 36045 Lonigo (Vicenza)
* Marola (“Fratelli della pace”) - via dei Cedri, 16 - 36040 Marola (Vicenza)
* Noventa Vicentina (Centro culturale islamico “Assonna”) - via delle Arti, 12 36025 Noventa Vicentina (Vicenza)
* Schio, Viale Venezia, 6/8 - 36015 Schio (Vicenza)
* Schio, Via del Veneto, 32 - 36015 Schio (Vicenza)
* Thiene - via del Rosario, 28 - 36016 Thiene (Vicenza)
* Trissino (Centro socio-culturale islamico “Al-Fajz”) - viale del Lavoro, 116 36070 Trissino (Vicenza)
* Villaverla - via Roma - 36030 Villaverla (Vicenza)
* Vicenza (Centro culturale “Ettawba”) - via della Vecchia Ferriera, 167 - 36100
Vicenza
* Vicenza (Centro culturale islamico) - via dei Mille, 12-14 - 36100 Vicenza.
A queste si aggiungono tre gruppi distinti:
- la Comunità islamica “Murid”
- CO.RE.IS Veneto - viale Crispi, 62 - 36100 Vicenza, che riunisce
musulmani italiani
- Gruppo pakistano sciita - S. Pio X - 36100 Vicenza
* * *
** COMUNITÁ SIKH
Un numero significativo di indiani di religione Sikh è presente nel Vicentino,
6
proveniente dal Punjab; abita nella zona di Arzignano-Chiampo e di San
Bonifacio. Sono circa 1.500.
I templi Sikh nel Vicentino sono quattro:
- Gurudwara Singh Sabha
Via Cengelle 9/11 - 36070 Castelgomberto (VI)
- Gurudwra sri Guru Ramdas Niwas
via Lago di Molveno - 36072 Chiampo (Vicenza)
- Guru Nanak mission sewa society
Località Ritonda 81/b - 37047 San Bonifacio (Verona)
** COMUNITÁ RAVIDASSIA
A Vicenza un gruppo di provenienti dall'India è fedele della religione Ravidassia,
il tempio è:
- Sri Guru Ravidas temple
Via Ravizza, 16 - 36075 Montecchio Maggiore (Vicenza)
* * COMUNITÁ INDU SNATAN DHARM MANDIR
A Vicenza un gruppo di hindù di circa 1.000 fedeli, provenienti dal Punjab, abita
nella zona di Arzignano ed ha un tempio dedicato a Durgā:
- Via Olimpica 4 - Arzignano (VI)
* * COMUNITÁ BAHA'I
Si presenta come religione autonoma presente in tutto il mondo.
A Vicenza ha una cinquantina di aderenti, che si ritrovano nelle case a gruppi di
9:
referente Gabriella Dell’Oro Pasquali
- contrà San Francesco, 94 - 36100 Vicenza.
* * COMUNITÁ HARE KRISHNA
Non è una religione ma un movimento religioso che attinge le sue origini
dall’Induismo.
A Vicenza c’è una comunità di una trentina di persone:
(Associazione per la coscienza di Krishna)
- Via Roma 9/11 - 36020 Albettone (VI)
* * *
7
Seconda Parte
La comunità indiana in Italia e in provincia di Vicenza.
Il “caso Panjab”
A cura di: Giorgia Cantele*
La parola immigrazione da tempo evoca solo scenari apocalittici: fughe
in massa da guerre e povertà, traffico di esseri umani, naufragi e
disperazione. Nel caso della comunità indiana, invece, si può parlare di un
esempio positivo e non drammatico di integrazione, tant’è vero che ora
l’Italia è al secondo posto, dopo l’Inghilterra, per presenza di migranti
dall’India.
Al 31 Dicembre 2014, i cittadini indiani erano 147.815 : 88.838 uomini e
59.977 donne (dati Istat). A questi vanno aggiunti coloro che hanno già
ottenuto la cittadinanza italiana e numerosi lavoratori stagionali o irregolari
(si calcola che siano circa il 30 % del totale).
Cominciata silenziosamente negli anni ‘80, dapprima a causa
dell’instabilità politica del Panjab (rivolta di Bhindranwale e attacco al
Tempio d’Oro di Amritsar del 1984), proseguita poi
per motivi
economici, l’immigrazione indiana si sviluppa quasi sempre attraverso la
rete familiare o di villaggio.
Il 58% degli immigrati è in Italia per lavoro, il 33% per ricongiungimenti
familiari: si tratta soprattutto di donne e bambini, ma talvolta anche di
anziani. Vivono principalmente in Lombardia,Veneto, Emilia Romagna,
Lazio e, tra le Provincie, la percentuale più alta si trova a Cremona .
I Comuni con un maggior tasso di presenze sono: Roma,
Brescia, Suzzara (Mn), Arzignano (Vi) e Sabaudia.
Risiedono soprattutto nelle aree rurali e nei piccoli centri abitati;
spesso ricevono dai loro datori di lavoro le case in comodato d’uso,
oppure acquistano e restaurano vecchie abitazioni.
Al Nord si trovano più immigrati con famiglia, grazie alla diffusa
regolarizzazione dei rapporti di lavoro e ai salari generalmente più alti,
rispetto al Sud.
A Roma e nell’Italia meridionale, invece, la maggioranza è costituita di
immigrati stagionali o irregolari, per lo più uomini soli, ma cominciano ad
apparire i primi nuclei familiari, per esempio nella Valle del Sele (tra
Salerno e Avellino).
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Per quanto riguarda la provenienza, occorre sottolineare che le
statistiche riportano solo
il dato generico della nazionalità,
prescindendo da religione o località di partenza e neppure le varie
comunità conoscono con esattezza il numero dei propri componenti.
Tuttavia, alcuni elementi si possono dedurre dalla presenza di templi,
gurdwara e gurgarh presenti sul territorio nazionale e, soprattutto, dalla
specializzazione lavorativa.
La maggioranza degli immigrati è Panjabi, per lo più di
religione Sikh (circa 70.000, dati riportati dal sito web ‘Sikh Channel’TV inglese specializzata in programmi sui Sikh- ma anche da alcuni leader
locali della Comunità). Tuttavia, ci sono anche Hindu dal Panjab e Haryana,
cittadini cristiani del Kerala (concentrati soprattutto a Roma), Rajasthani e
Gujarati.
La ricercatrice Kathryn Lum divide gli immigrati Panjabi in Italia in tre
Comunità principali: Jat, Ravidassia e Lubana.
I Jat costituiscono il gruppo più numeroso e vengono per lo più
dal Panjab rurale. Sono, in origine, proprietari terrieri e agricoltori e,
all’interno dei villaggi, costituiscono la classe dominante , soprattutto in
politica. Attualmente, in Italia, vi sono 14 gurdwara Jat.
I Ravidassia sono seguaci del Guru Ravidas e venivano spesso
confusi con i Sikh, poichè veneravano lo stesso Libro Sacro, il Guru
Granth Sahib, in cui sono contenuti gli inni del loro Guru Ravidas. Negli
ultimi anni hanno preso le distanze dal Sikhismo e stanno affermando la
propria identità, grazie a un miglioramento delle proprie condizioni
economiche, legato sia alla politica delle quote riservate, che
all’emigrazione. Sono infatti dalit, cioè appartengono a caste basse e per
questo lavorano tradizionalmente il cuoio, mestiere considerato
tradizionalmente ‘impuro’. Vivono, per lo più, nel ‘distretto della
concia’ in provincia di Vicenza, oppure sono impiegati come
braccianti agricoli, lavoro già svolto dagli Jat in India. In Italia ci sono
8 templi (gurghar) dei Ravidassia, di cui uno a Montecchio Maggiore
(Vi).
I Lubana rappresentano una comunità piccola in Panjab, ma molto
numerosa all’estero. Tradizionalmente sono trasportatori. Lavorano nella
concia o edilizia. Hanno 2 Gurudwara (Vicenza e Brescia) e sono Sikh.
La maggioranza degli immigrati indiani proviene dal Panjab perchè:
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1. I Panjabi hanno una consolidata storia di migrazione, fin dal
momento in cui la ‘Partition’ divise il loro territorio tra India e Pakistan.
Molti, allora, scelsero la via del Canada o del Regno Unito. Parecchi erano
già presenti in Africa (soprattutto Uganda e Kenya, dove erano giunti alla
fine dell’800,arruolati dagli inglesi per costruire la rete ferroviaria, con
contratti al limite del lavoro forzato). Dopo la fine del colonialismo ,si
spostarono in Canada, UK ,USA.
2. Una minoranza è arrivata in Italia a seguito dei disordini politici
e sociali in Panjab negli anni ’80. Questi primi migranti hanno aperto la
strada ai successivi.
3. La maggioranza è emigrata per ragioni economiche, a causa
della stagnazione dell’agricoltura e del calo di produttività della terra,
dovuto al dissesto idrogeologico (sprofondamento delle falde acquifere e
inquinamento), all’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi,alla diffusione
delle monocolture di riso e grano,che ora coprono fino al 75% delle aree
coltivabili e hanno impoverito il suolo .
Sono infatti quasi scomparse le produzioni di semi da olio, canna da
zucchero, legumi ed è stata dimezzata la coltivazione del cotone. Solo per
citare un esempio, la produzione dei legumi è passata dal 19% circa ( anni
‘60), allo 0,69% circa (dal 2000 in poi).
L’ emigrazione interna di lavoratori da altri stati dell’India (UP e Bihar) poi
disposti ad accettare salari inferiori, ha rotto definitivamente gli equilibri
tradizionali e costretto i braccianti ad andarsene, mentre i piccoli
proprietari, strangolati dai debiti o dagli strozzini , ipotecano, danno in
affitto o svendono le loro terre e lasciano il paese (quando non si suicidano).
4. Da qualche anno gli emigrati investono il denaro guadagnato
all’estero in Panjab e ciò ha contribuito a far lievitare i prezzi di case e
terreni , ad innalzare il costo della vita e , in ultima analisi, a spingere i
meno abbienti ad emigrare all’estero.
Nicchie Etniche - Profilo Occupazionale
I primi migranti avevano in genere titoli di studio superiori e trovavano
lavoro nei circhi o come giostrai. Grazie alla mobilità legata a questi
impieghi, trovarono poi nuovi sbocchi occupazionali e divennero in seguito
intermediari per i migranti successivi.
La caratteristica più interessante di questa Comunità è, infatti, la
‘specializzazione’; sono riusciti a ritagliarsi un ruolo pressoché esclusivo
in ambiti tendenzialmente poco attraenti per i lavoratori italiani e a creare
vere e proprie “nicchie etniche” nei settori di :
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1. Agricoltura–mungitura: il 30% circa lavora nella produzione
del latte, soprattutto i Sikh Jat. In alcune zone,come per esempio nella
Valle del Sele, il 100% dei mungitori di bufale è panjabi , di religione Sikh
(dati forniti dalla CGIL di Eboli). Senza di loro la produzione di
Parmigiano Reggiano, Grana Padano e mozzarella di bufala (tanto per
citarne alcuni), si fermerebbe.
Inseriti nelle aziende zootecniche negli anni ‘80 e ‘90, da allora reclutano e
formano i connazionali, spesso parenti; in questo modo si crea la cosiddetta
’nicchia etnica’. Sono considerati lavoratori affidabili, accettano turni
estremamente faticosi e vengono aiutati dai figli e dalle mogli, quando
queste ultime non svolgono invece lavoro a domicilio, come sartoria,
finitura e confezionamento (per esempio, nel distretto industriale tessile di
Carpi e Modena). I salari, in passato più alti , consentivano
ricongiungimenti familiari e investimenti in India; ora , data la crisi, la
situazione e’ cambiata.
2. Trasporti:12% circa.
3. Industria: 30%circa,soprattutto Ravidassia, che spesso sono
‘twice migrants’ ; essendo più poveri, emigrano prima a Dubai e in altri
paesi arabi; in seguito, giungono in Italia e,grazie alla rete di connazionali,
approdano in gran parte al distretto della concia di Vicenza.
4.Edilizia: 5% circa
5. Servizi alla persona: 10% circa(soprattutto keralesi cristiani,
presenti a Roma).
6. Alberghi e ristoranti:5% circa(per lo più hindu).
7. Commercio: 5% circa.
8. Istruzione e Sanità , 3% circa.
I gurdwara (ricordiamo che il più grande d’Europa si trova a
Pessina Cremonese), non sono solo luoghi di culto, ma anche di
socializzazione e di collegamento con le istituzioni italiane; qui si
raccolgono fondi per la Comunità o i singoli, si tengono corsi di lingua
panjabi, si mangia nella cucina comune (langar) e, soprattutto si creano
contatti per favorire nuove immigrazioni.
Dal 2005 circa in poi, però, le cose sono cambiate: a causa della crisi in
Europa e della crescita economica dell’India, la richiesta di permessi di
lavoro è diminuita .
L’Italia è vista sempre più come terra di passaggio verso nuovi
paesi. Si ritiene, infatti, che qui sia più facile ottenere il permesso di
soggiorno, rispetto ad altri paesi europei, ma anche che la situazione
11
economica non garantisca più un futuro ai figli. Inoltre, l’istruzione
impartita prevalentemente in lingua italiana , ostacola nuovi spostamenti
sul piano internazionale.
Per questo, adesso, molti scelgono di far studiare i figli in India, dove nelle
scuole si usa invece la lingua inglese, al fine di facilitare future migrazioni
nei paesi anglofoni.
In ogni caso, la Comunità indiana è stata colpita meno di altre dalla crisi,
grazie proprio alle specializzazioni acquisite nel corso del tempo .
Nel Rapporto 2014 della Regione Veneto ‘Immigrazione straniera
in Veneto’, per esempio, si riporta che tra gli immigrati è generalmente
cresciuto il tasso di disoccupazione, con due sole eccezioni: cinesi (più
600 occupati) e indiani (più 240) . Proprio questa regione, infine, è
considerata un ‘modello’ anche per l’integrazione scolastica degli
stranieri: solo 9 scuole su 100 non hanno studenti immigrati, meno della
media nazionale. Nella Provincia di Vicenza addirittura 5 scuole su 100
hanno una quota di alunni stranieri pari o superiore al 40% .
Gli studenti indiani si distinguono per avere uno dei tassi di
abbandono scolastico più basso (6,3%) tra gli immigrati, ma gli adulti
parlano ancora troppo poco l’ italiano e ciò crea grosse difficoltà
soprattutto nei rapporti con l’amministrazione pubblica e in
particolare con le strutture ospedaliere.
A causa dell’isolamento in cui vivono nelle campagne e della mancanza
di corsi di lingua italiana ‘mirati’, nonostante gli sforzi e le brillanti
iniziative di alcuni Comuni particolarmente aperti all’integrazione e
all’interculturalità (per esempio il Comune di Novellara, RE), la situazione
resta critica, soprattutto tra le donne e gli anziani.
Il caso di questa comunità, considerata da tutti tranquilla, affidabile e
lavoratrice, dovrebbe indurre le amministrazioni locali a fare tutto il
possibile per rimuovere gli ultimi ostacoli linguistici, al fine di una
piena integrazione, perché, come recita il titolo di un libro dedicato al
pensiero di Don Milani, ‘La parola fa eguali’.
* Da: Giorgia Cantele. I Sikh. Storia, Fede e Valore nella grande guerra,
ISAS, International Institute of South Asian Studies,2015, pp.143-147
Giorgia Cantele: Già docente di lingua italiana a Delhi, presso la Delhi
University, Jamia Millia Islamia University e Jawaharlal Nehru University.
Indologa,collaboratrice della trasmissione “L’ora di Cindia”in onda su
Radio Radicale. Tra le altre, sono state consultate le seguenti fonti : Articoli
e libri di: Dott. Kathryn Lum :“Indian diversities in Italy:Italian case
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study”,CARIM/INDIA Research Report 2012/02,Robert Shuman Centre
for Advanced Studies,S.Domenico di Fiesole (FI),European University
Institute, 2012
Dott.Vanessa Azzeruoli :“Legami tra pianure.Gli intermediari nella
migrazione panjabi indiana in Italia”,Universita’ degli Studi di Padova.
www.academia.edu/9688549/Tesi_di_dottorato_LEGAMI_TRA__PIAN
URE_Gli_intermediari_nella_migrazione_panjabi_indiana_in_Italia.),
Dott.Marco Restelli :“I Sikh in Italia.Fra identità religiosa, nuova
cittadinanza e riconfigurazioni familiari” in Maria Angelillo ( a cura di)“La
famiglia nelle culture e nelle società dell’Asia”, Accademia Ambrosiana,
Asiatica Ambrosiana n.5, Biblioteca Ambrosiana-Bulzoni Editore, MilanoRoma, 2013; Anselmo Botte:”Yasmina la bufala”, Il Manifesto,5/1/2013;
Gerald Parsons :“The growth of religious diversity.Britain from
1945”,Vol.I,Traditions,Edited by Gerald Parsons,in association with The
Open University,Ed.Routledge,Londra,1993; Prof.Ronki Ram:”Ravidass,
Dera Sachkhand Ballan and the question of Dalit identity in Punjab”,
Panjab University, Chandigarh, 2013; Dott.Donata Albiero :“Una Barbiana
per nuovi italiani”,2008, Off.Grafica Aldighieri, Arzignano.
Don Lorenzo Milani:”La parola fa eguali”, doc. e inediti a cura di
M.Gesualdi, Libreria Editrice Fiorentina, 2005; Rapporti e dati Istat
rintracciabili online o inviati dalle Amministrazioni Comunali, fra cui
quelle di Arzignano (Vi), Novellara (RE), Parma; dalle Amministrazioni
Regionali (Regione Veneto) e Provinciali (Prov. di Parma), che qui
ringrazio.
Inoltre, interviste ad alcuni amministratori pubblici, sindacalisti, assistenti
sociali,psicologi a cui va la mia gratitudine. Un particolare ringraziamento,
infine, alla comunità Sikh della Valle del Chiampo e ai suoi rappresentanti,
soprattutto al Sig. Gordev Singh, per avermi accolto con gentilezza e
amicizia ( G. C.)
* * *
13
Terza Parte
I Sikh. Fra identità religiosa, nuova cittadinanza e
riconfigurazioni familiari
di Marco Restelli *
1. La religione Sikh. I Gurdvara, i Langar e l’accoglienza
dell’‘altro’
Sikh significa “discepolo”. Il Sikhismo è una religione monoteista fondata
in Panjab nel XVI secolo dal mistico, poeta e cantore della gloria di Dio,
conosciuto come Guru Nanak. La vita spirituale, culturale e sociale dei
Sikh ruota intorno ai templi, detti gurdvara. Va sottolineato che il Sikhismo
prevede un rapporto diretto fra uomo e Dio, ma non concepisce la vita
religiosa come una questione privata bensì in una dimensione collettiva. Il
tempio si configura dunque come un centro di formazione religiosa ma
anche di scambio di informazioni parentali, è il luogo dove l’immigrato
Sikh può ritrovarsi al centro di una rete di relazioni affettive e valoriali che
trascende i confini nazionali, è il centro che accoglie religiosi (sant)
provenienti dall’estero; è il luogo, infine, dove si organizzano nuove
immigrazioni di parenti e amici, o raccolte di fondi per la comunità o per i
singoli. Tale dimensione identitaria collettiva ha concorso, nel caso dei Sikh
immigrati in Italia, a determinare anche i loro percorsi di insediamento in
porzioni ristrette del nostro territorio, scelte in base alle opportunità di
lavoro offerte ai Sikh e poi trasformate – in tempi relativamente brevi – in
‘piccoli Panjab’, dove sono cresciute comunità coese, che hanno il proprio
cuore pulsante nel luogo della religiosità condivisa e delle relazioni sociali,
cioè il gurdvara e l’annessa cucina comunitaria, il langar.
Anche in Italia come altrove appare dunque chiara, nella vita delle comunità
Sikh, la centralità dei gurdvara, che assolvono a quattro funzioni essenziali:
1) luoghi di culto; 2) luoghi di rappresentanza pubblica della comunità
rispetto alle istituzioni del Paese ospitante; 3) luoghi di socializzazione
delle famiglie multigenerazionali attraverso il pasto comune che viene
offerto gratuitamente a chiunque si presenti nei langar annessi ai templi; 4)
luoghi di accoglienza dell’ ‘altro’ (sia nel tempio sia nella cucina
comunitaria) chiunque esso sia, a prescindere dall’appartenenza religiosa,
dalla casta, eccetera.
14
L’accoglienza, va ricordato, è un valore fondamentale della
spiritualità e dell’ortoprassi Sikh e si intende qui ‘accoglienza’
sia in senso spirituale sia in senso fisico. Qualche esempio: il testo
sacro dei sikh, il Guru Granth Sahib, accoglie in sé inni di mistici hindu e
musulmani; le porte del Tempio d’Oro di Amritsar sono aperte verso i
quattro punti cardinali per accogliere viaggiatori provenienti da ogni dove;
i langar del Tempio d’Oro sono in grado di sfamare fino a cinquantamila
persone al giorno grazie ai pasti preparati (e ai piatti lavati) da centinaia di
persone che fanno servizio volontario (seva) nella cucine comunitarie; nella
cittadina di Faridkot, in Panjab, c’è un gurdvara che accoglie nel proprio
compound un santuario di un mistico musulmano del XIII secolo, Baba
Farid, alcuni inni del quale sono compresi nel Guru Granth Sahib: a
Faridkot si vedono quindi musulmani e sikh pregare vicini e in armonia.
Questo spirito di accoglienza che caratterizza i gurdvara (anche italiani) è
stato corrisposto, nel nostro Paese, dalla Chiesa cattolica, che nelle sue
varie articolazioni territoriali ha accolto i Sikh favorendo il loro
insediamento e intessendo con loro una fitta rete di relazioni sociali,
spirituali e anche pedagogiche, dando vita, ove possibile, a un dialogo
interreligioso. Fu così nel caso del sopracitato gurdvara di Novellara ed è
stato così anche nel recente caso della fondazione di un grande tempio a
Pessina Cremonese (Cremona). Questo nuovo gurdvara – secondo per
importanza solo a quello di Novellara – è stato inaugurato nell’agosto 2011
con i buoni auspici di vari rappresentanti della diocesi cremonese (oltreché
delle autorità comunali) che hanno fatto il possibile per propiziare
l’integrazione dei Sikh nel tessuto sociale del territorio. Si sono così
stemperate le iniziali perplessità di una parte della popolazione locale, in
genere comunque ormai orientata a giudicare positivamente i Sikh, visti
come «persone serie che lavorano sodo».
Infine, è importante notare che in questi ultimi anni ha avuto inizio una
produzione di materiali di informazione religiosa in lingua italiana da parte
dei gurdvara più attivi – come quello di Flero, nel bresciano – sia nel campo
dell’editoria cartacea sia su internet.
15
2. La condizione femminile nella famiglia Sikh immigrata
Il Sikhismo attribuisce pari dignità all’uomo e alla donna ma, come
noto, la realtà è molto diversa nella vita sociale dell’India e del Panjab,
dove le donne, sopratutto al di fuori dei contesti urbani, sono
tradizionalmente confinate al ruolo di ‘regina della casa’ e peraltro non
hanno molta libertà nemmeno nella scelta dello sposo all’interno del
matrimonio combinato. D’altro canto, la stessa libellistica Sikh ispirata
dal Khalsa (la ‘comunità dei puri’ di carattere marziale, fondata nel 1699
dal decimo Guru Govind Singh e oggi rappresentante l’ortodossia sikh)
propone come precipui modelli femminili le mogli dei dieci Guru sikh,
spose devote che furono pronte a trasformarsi in temibili guerriere per
difendere la fede in battaglia[21].
Tuttavia, sia questi antichi modelli di eroismo religioso/militare sikh sia i
tradizionali modelli di sottomissione femminile propri della società panjabi
risultano incongrui alle donne sikh emigrate in Occidente, oggi
impegnate in una faticosa ridefinizione della propria identità.
E’ interessante rilevare che in un Paese europeo di antica immigrazione
indiana come la Gran Bretagna le donne Sikh abbiano avuto tempo e modo
di acquisire una maggiore autonomia economica e culturale che in molti
casi non soltanto non risulta in contrasto con la propria identità religiosa ma
anzi rafforza quest’ultima. Infatti l’accresciuta partecipazione femminile
alla conduzione delle comunità Sikh (per esempio ricoprendo il ruolo
tradizionalmente maschile del granthi, il lettore del Guru Granth Sahib) e
un più alto grado di autonomia nelle proprie scelte anche in campo
famigliare (con un passaggio da un matrimonio combinato a un matrimonio
‘assistito’, cioè propiziato dalla famiglia ma con un’ampia facoltà di scelta
per la contraente) conduce al superamento dei tradizionali modelli culturali
panjabi, ma anche a un più profondo legame delle donne con la spiritualità
Sikh. Si invera così nella modernità l’originario messaggio di Guru Nanak
sulla pari dignità fra uomini e donne di fronte a Dio.
In un Paese d’immigrazione Sikh assai più recente come il nostro, la
situazione è ovviamente diversa e il maggior peso dei tradizionali modelli
culturali panjabi comporta che la donna Sikh immigrata in Italia sia ancora
‘un passo indietro’ rispetto all’uomo. Tuttavia vi è un tratto comune fra la
situazione britannica e quella italiana: protagoniste della nuova famiglia
Sikh transnazionale sono le donne, che dopo l’emigrazione sperimentano
16
cambiamenti di ruolo di differente natura – talvolta migliorativi, talaltra
peggiorativi – perlopiù determinati dalla condizione economica e culturale
della famiglia venuta a costituirsi nel Paese d’immigrazione.
Anche in Italia sono le donne Sikh a determinare le nuove reti di
relazione parentale transnazionale, secondo lo schema triadico che
abbiamo già descritto (famiglia d’origine in India – nuova famiglia
costituitasi in Italia – famiglie di parenti in altri Paesi d’emigrazione). I
mariti infatti sono quasi sempre impossibilitati a viaggiare quando – come
nel caso dei bergamini della pianura padana – sono legati al luogo di lavoro
da un rapporto legalmente determinato e continuativo. Pertanto sono quasi
sempre le donne Sikh a viaggiare (si intende quelle che possono
permetterselo economicamente) assumendosi così il compito di disegnare
una nuova geografia delle relazioni parentali transnazionali, in pratica
decidendo con chi la famiglia debba continuare a mantenere rapporti e con
chi no.
Le donne tengono i contatti con i parenti rimasti in Panjab, si spostano
dall’Italia all’India e viceversa ricoprendo la funzione di corrieri di merci e
di informazioni sulla vita della famiglia indiana multigenerazionale,
viaggiano sia per ragioni famigliari (partecipare al matrimonio di una
parente in Gran Bretagna o in Canada) sia per ragioni religiose
(pellegrinaggi alle città sacre di Amritsar e Anandpur Sahib in occasione di
festività religiose). Sono le donne, insomma, a consolidare il legame
simbolico con la terra d’origine della famiglia ma anche a dare un senso
compiuto alle relazioni con i parenti in altre terre d’emigrazione, con ciò
acquisendo visibilità e prestigio all’interno della rete famigliare
transnazionale. Peraltro, il cambiamento di ruolo nei rapporti di genere
risulta ancora più evidente nei casi – attualmente sporadici ma in aumento
– in cui è una giovane donna ad essere emigrata per prima in Italia e a
chiamare poi a sé dal Panjab il futuro marito, dando così inizio a una nuova
rete migratoria. Accade infatti talvolta che il prestigio sociale della nuova
‘pioniera’ della rete migratoria sia tale da non rendere più necessario il
pagamento della dote (tradizionalmente dovuto dalla famiglia della sposa a
quella dello sposo) proprio in ragione dell’impegno economico profuso
dalla famiglia della sposa nel progetto migratorio.
Per contro, nelle famiglie Sikh economicamente più deboli e/o
culturalmente più arretrate, le donne emigrate si trovano nella condizione
opposta a quella sopra descritta: rischiano l’isolamento sociale.
Bisogna considerare infatti che esse, nella grande maggioranza dei casi,
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raggiungono l’Italia anni dopo rispetto ai mariti: questi ultimi si sono
già (almeno parzialmente) integrati ed escono a lavorare mentre le mogli si
trovano in casa da sole ad affrontare mille problematiche senza conoscere
la lingua italiana che il marito invece ha avuto il tempo di
imparare. Si sforzano di mantenere i rapporti con le famiglie Sikh in India
e all’estero ma sovente non hanno altra occasione di incontrare proprie
correligionarie se non quando, accompagnate dal marito, si recano alle
celebrazioni nei gurdvara. Tornando al caso degli insediamenti Sikh nella
pianura padana, va ricordato che le cascine dei bergamini sono isolate nelle
campagne e per le donne Sikh di condizione disagiata ciò rappresenta
un’ulteriore difficoltà, poiché esse non hanno quasi mai la patente di guida
e la rete locale dei trasporti pubblici è spesso insufficiente. Finiscono quindi
per avvertire un isolamento sociale che risulta tanto più disagevole nei
momenti della gravidanza e del puerperio, quando invece in India la
famiglia multigenerazionale avrebbe garantito alla donna un aiuto pratico e
psicologico. Senza contare che per le neo-madri l’ignoranza della
lingua italiana rende ancora più difficoltosi i rapporti con le strutture
medico-ospedaliere.
In effetti sono tanti i casi in cui la famiglia immigrata dovrebbe potersi
rivolgere a una struttura sociale del nostro territorio per ottenere un servizio,
ma troppo spesso gli immigrati non conoscono nemmeno l’esistenza di
tali opportunità. Consideriamo l’esempio di un servizio alle famiglie – a
disposizione degli immigrati ma non solo – offerto dalla Regione
Lombardia: il Fondo Nasko. La crisi economica che sta colpendo il nostro
Paese non risparmia ovviamente le famiglie immigrate; accade talvolta che
le famiglie indiane – tradizionalmente abituate a una prole numerosa –
ritengano di non poter avere altri figli e si rivolgano alle strutture sanitarie
per interrompere le gravidanze. Il Fondo Nasko è stato avviato nel 2010
proprio al fine di offrire un sostegno economico a tutela del diritto alla
maternità e a favore della natalità, utilizzabile per l’acquisto di beni e servizi
per la madre e il bambino. Per l’anno in corso (2013) la Regione Lombardia
ha stanziato 5 milioni di euro: si tratta di 3.000 euro per ogni donna,
erogabili per un massimo di 18 mesi, a disposizione delle future mamme
che rinunciano alla scelta di interrompere volontariamente la gravidanza in
presenza di una proposta di progetto d’aiuto personalizzato. Purtroppo però
sono frequenti i casi in cui le donne indiane (sikh e non solo) vengono a
sapere troppo tardi delle opportunità offerte dal Fondo Nasko oppure che,
pur conoscendo l’esistenza del Fondo, non siano in grado (per ignoranza
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della lingua e della normativa italiana) di produrre la documentazione
richiesta per usufruire del Fondo. E’ questo l’ennesimo caso che dovrebbe
rendere evidente alle Autorità italiane la necessità della presenza di
mediatori culturali nelle strutture territoriali, perché anche la difficoltà di
accesso a questi o altri servizi di sostegno si presenta, per le donne
immigrate, come una forma di isolamento sociale.
Tale senso di isolamento è maggiormente avvertito dai Sikh (e in
particolare dalle donne) nel caso in cui non vada a completarsi il progetto
migratorio della famiglia multigenerazionale, cioè quando risulta
impossibile ricreare in Italia una rete parentale paragonabile a quella
esistente in India. Per ovviare al problema viene elaborata talvolta una sorta
di strategia di resistenza sociale all’isolamento affettivo: il rapporto
fiduciario intercorrente con altri immigrati vicini di casa, o persone
originarie dello stesso villaggio indiano, vecchi amici o parenti di amici, nel
contesto migratorio produce talvolta la tessitura di una nuova rete parentale
fittizia, ove i parenti assenti (perché rimasti in India) vengono sostituiti in
Italia da una rete di rapporti che implicano ruoli e obblighi analoghi a quelli
che esistono fra consanguinei. Si viene cioè a sostituire nel contesto italiano
la parentela reale con una ‘parentela sociale’ che risulta di sostegno e
conforto alla famiglia immigrata.
3. I ragazzi Sikh nella scuola italiana
Nonostante l’attivazione di strategie di auto-aiuto come quella della
‘parentela sociale’, però, non sono infrequenti i casi in cui i figli delle
famiglie Sikh si trovino in una condizione di forte disagio piscologico e
di sradicamento culturale, soprattutto quando la madre è assente.
Accade infatti talvolta che il padre immigrato chiami a sé i figli maschi e
lasci la loro madre per un certo periodo di tempo in India a curare la prole
più piccina. In casi come questo il padre, a causa del lavoro, non ha tempo
e modo di seguire i figli a scuola: sarà allora il figlio maggiore a prendersi
cura del fratello minore, sottraendo tempo allo studio, mentre l’assenza in
casa, de facto, di entrambi i genitori aggrava le difficoltà dei figli sia nel
campo dell’inserimento sociale sia in quello dell’apprendimento scolastico.
Difficoltà di vario genere per i figli si evidenziano comunque anche nel caso
in cui la madre abbia seguito il padre nell’immigrazione; non si può dunque
prescindere dall’esaminare il rapporto fra le famiglie sikh e l’istituzione
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fondamentale nella quale vengono inseriti i loro figli: la scuola. Vediamo
quindi alcune delle più comuni problematiche.
Le famiglie indiane di più recente immigrazione, provenienti da un
ambiente rurale e con un basso livello di scolarizzazione (com’è spesso
il caso dei sikh in Italia) si presentano talvolta alla nostra scuola
pubblica con grandi attese assistenziali: convinte di essere giunte in un
Paese ‘ricco’ si aspettano, per esempio, di ricevere gratuitamente tutti
gli strumenti didattici (libri, quaderni, ecc.) per il figlio studente; tocca
all’insegnante l’ingrato compito di smentire quelle aspettative.
Da una già citata ricerca condotta fra gli indiani nella provincia di Bergamo
emerge con una certa frequenza un’altra problematica notata dagli
insegnanti: l’incongruità fra l’età dichiarata dallo studente – ovvero
l’età scritta sulla sua Carta di identità – e l’aspetto fisico dello studente
stesso. Capita insomma che gli studenti Sikh (e non solo) abbiano talvolta
più anni di quanti dichiarino, perché le loro famiglie, al momento di
procurare ai figli il passaporto e il visto, denunciano per essi un’età inferiore
a quella reale. Le famiglie panjabi si comportano in tal modo per dare
al figlio più tempo per frequentare la scuola dell’obbligo, imparare la
lingua e adattarsi alla nuova realtà sociale prima di entrare nel mercato
del lavoro. Non mancano poi le motivazioni di genere: l’età delle
ragazze viene diminuita per ritardare il momento della loro autonomia
(quel momento, ad esempio, in cui prenderanno l’autobus per recarsi
da sole a frequentare un liceo in una città vicina).
Bisogna considerare inoltre le difficoltà di adattamento nel caso dei figli di
famiglie Sikh ‘ortodosse’ – ovvero aderenti al Khalsa – che sono portatrici
di costumi ben differenti dai nostri. I costumi del Khalsa impongono per
esempio ai bimbi maschi di raccogliere i capelli in un foulard o in un
fazzoletto, formando così un piccolo chignon che diventerà un turbante in
età adulta, ma tale costume tradizionale è oggetto di ironie, a scuola, da
parte dei coetanei italiani, nonché fonte di isolamento per i piccoli Sikh.
Lo sradicamento sociale provoca nei bambini panjabi uno choc
culturale che non tutti gli insegnanti sono in grado di decifrare
ponendovi rimedio, sicché il disagio comportamentale del piccolo Sikh
può venire talora erroneamente inteso – in perfetta buona fede – come segno
di un disturbo mentale.
La crescente presenza di ragazzini extracomunitari nelle classi di ogni
ordine e grado propone dunque sfide pedagogiche molto impegnative al
20
corpo insegnante, che spesso si sforza di documentarsi sulle culture
originarie degli alunni onde attivare la relazione più proficua possibile con
le loro famiglie. Da ciò deriva l’attuale, forte necessità di maggiore
formazione per gli insegnanti nonché di maggiore informazione per i
genitori extracomunitari (i quali peraltro hanno essi stessi un livello di
scolarizzazione mediamente più basso rispetto agli italiani).
A questo bisogno di informazione finalizzata all’integrazione sociale degli
immigrati le nostre istituzioni locali rispondono in modi variegati e non
sempre soddisfacenti, anche a causa dell’attuale crisi economica che limita
la disponibilità di fondi; capita allora che siano associazioni private a
intervenire producendo materiali informativi: è il caso di un opuscolo
– realizzato in Lombardia nel 2010 da un Club privato – che presenta la
scuola italiana in varie lingue extracomunitarie fra le quali la panjabi. Va
comunque sottolineato che non mancano, nella scuola italiana, gli esempi
‘virtuosi’, vale a dire esempi di istituti scolastici (come il 2° Istituto
Comprensivo di Brescia) che hanno saputo confrontarsi con l’ondata
migratoria non solo relazionandosi nei modi più opportuni con i giovani
extracomunitari e le loro famiglie ma anche avviando una riflessione
pedagogica tale da consentire lo sviluppo di una nuova didattica, capace
di passare da un atteggiamento di assimilazione monoculturale
dell’immigrato a una pratica educativa multiculturale.
Nell’ambito del dibattito sui temi del multiculturalismo e del dialogo
interculturale si è sviluppata ovviamente da tempo anche la
riflessione sull’ora di religione e la didattica delle religioni a scuola.
Attualmente la presentazione e l’analisi di confessioni religiose diverse
dalla cattolica è sostanzialmente lasciata alla disponibilità del singolo
docente, ma poiché oggi la scuola rappresenta anche il luogo di elezione
per la conoscenza interculturale, in anni recenti si sono moltiplicati gli
appelli sull’opportunità di allargare lo sguardo degli alunni in chiave
multireligiosa, nella consapevolezza dell’importanza che l’educazione
religiosa riveste in una prospettiva di dialogo interculturale. A questo
proposito vanno segnalate iniziative come la traduzione in italiano –
promossa dalla rivista dei Missionari Saveriani Cem Mondialità – del
manuale d’insegnamento delle religioni realizzato dal Centro di Educazione
Interreligiosa di Bradford in Gran Bretagna, manuale che presenta uno
studio comparato di sei religioni (cristianesimo, ebraismo, islam,
induismo, buddhismo e sikhismo), utilizzato in duecento scuole
britanniche.
21
L’Italia presenta ormai necessità non difformi da quelle avvertite in Gran
Bretagna: necessità di conoscenza reciproca fra italiani e immigrati e
quindi di riconoscimento – sul piano culturale e religioso ma anche
giuridico – delle identità ‘altre’ rispetto a quella maggioritaria nella
nostra società. Da parte degli immigrati indiani questo evidente
bisogno di riconoscimento si manifesta nell’organizzazione di eventi
finalizzati a presentare la propria cultura alla comunità italiana
ospitante: un esempio è l’evento ‘Benvenuti in India’ realizzato a Parma
nel settembre/ottobre 2012 dalla comunità indiana Sejuti con il concorso
della Biblioteca Internazionale Ilaria Alpi, che ha coinvolto anche le scuole
cittadine dove i piccoli hindu e sikh hanno raccontato ai propri compagni
di classe ciò che sanno del proprio Paese di origine.
4. Problematiche del riconoscimento del Sikhismo in Italia
Le comunità Sikh insediatesi nel nostro Paese manifestano un implicito
desiderio di riconoscimento sociale anche quando organizzano celebrazioni
pubbliche delle proprie festività religiose, quali quella che ricorda la
fondazione del Khalsa ad opera di Guru Govind Singh nel 1699. In tali
occasioni i Sikh si presentano con un volto unitario, omogeneo e facilmente
riconoscibile sin dall’abbigliamento, contrassegnato dalle regole delle
“cinque k” stabilite da Guru Govind Singh per tutti gli aderenti al Khalsa:
1) kesh, cioè barba folta e capelli lunghi raccolti sotto il turbante; 2)
kangha, un pettine nella capigliatura; 3) kara, un braccialetto d’acciaio al
polso; 4) kacha, un calzone a mezza gamba; 5) kirpan, il pugnale portato
da tutti i membri maschili e femminili del Khalsa, che può diventare una
spada nelle celebrazioni pubbliche di carattere religioso. Questi sono i
simboli esibiti dagli amritdhari, cioè coloro i quali hanno compiuto la
cerimonia dell’Amrit pahal prendendo i voti del Khalsa, una cerimonia che
i Sikh stessi definiscono ‘battesimo’: viene celebrata in occasione del
raggiungimento della maturità da parte del giovane e costituisce uno dei
quattro riti famigliari del mondo Sikh (insieme all’imposizione del nome
alla nascita, al matrimonio e al funerale). Va ricordato però che non tutti i
Sikh sono amritdhari perché non tutti accettarono (né accettano oggi) la
riforma della comunità in senso marziale voluta da Guru Govind Singh,
preferendo rimanere legati solo al messaggio originario del primo Guru,
Nanak, ivi comprese le indubbie influenze che alcune correnti hindu
esercitarono sul sikhismo all’epoca della sua nascita. Tuttora esistono
22
dunque molti sikh genericamente detti sahajdhari i quali non aderiscono al
Khalsa e alle sue regole e di conseguenza non si distinguono nell’aspetto
da qualsiasi altro indiano. In questo senso si può parlare di ‘due volti del
sikh panth’ e di una identità religiosa plurale, non univoca, all’interno
del mondo sikh sia in India sia nei territori di emigrazione. Due ‘volti’
del sikh panth che nel corso del tempo, in India, non hanno mancato di
confliggere su tutti i piani.
Bisogna tuttavia sottolineare che sono stati gli amritdhari membri del
Khalsa a divenire, negli ultimi 150 anni, culturalmente e politicamente
egemoni all’interno del mondo Sikh. Tanto da conquistare la gestione dei
gurdwara e da autorappresentarsi come l’unica legittima ‘ortodossia’ del
sikhismo, fino a spingersi nei casi più estremi a qualificare come ‘non Sikh’
chi non aderisca al Khalsa e al suo spirito marziale. E’ dunque al Khalsa –
cioè al ‘secondo volto’ (in senso temporale) del Sikhismo – che dobbiamo
guardare con maggiore attenzione, anche perché gli immigrati Sikh in Italia
sono in buona parte amritdhari, sono essi a rappresentare la comunità Sikh
in ambito pubblico (poiché gestiscono i gurdwara) e sono essi ad avere
spesso le maggiori difficoltà di inserimento sociale, proprio a causa di
alcuni particolari del loro costume tradizionale, segnatamente il
turbante e il pugnale (kirpan).
Dopo decenni di immigrazione Sikh nei Paesi europei sono ormai ben note
le problematiche relative al possesso del kirpan, perciò in questa sede ne
accenniamo solo brevemente. Il kirpan per gli amritdhari non è un’arma
bensì un simbolo religioso, una testimonianza di adesione al Khalsa e
dell’impegno a difendere la fede; tuttavia sono frequenti i casi in cui ai sikh
durante le perquisizioni negli aereoporti italiani viene sequestrato il kirpan
e viene tolto il turbante per verificare che non nasconda armi o altro. Tali
sequestri e perquisizioni colpiscono i Sikh in ogni sorta di luogo pubblico
e costituiscono per essi una grave offesa alla propria libertà e identità
religiosa; fortunatamente, a partire dal 2009 il kirpan è stato più volte
riconosciuto anche da tribunali italiani come simbolo religioso anziché
come arma e di conseguenza i Sikh fermati dalla polizia italiana sono stati
rilasciati. Quanto al turbante, la Gran Bretagna – ove l’immigrazione sikh
è molto più antica che in Italia – ha già accettato il suo uso al posto del
casco per i motociclisti, mentre ai sikh arruolati nella polizia britannica è
concesso indossare il turbante come parte integrante della divisa.
Nel nostro Paese però tali innovazioni non sono state ancora recepite dalla
normativa vigente, né tantomeno dalla società nel suo complesso. Accade
23
perciò che taluni Sikh italiani (soprattutto maschi) nella prima fase
dell’immigrazione si sentano psicologicamente costretti a rinunciare ai
costumi del Khalsa – e dunque in un certo senso ‘abiurino’ la propria fede
– per facilitare la propria integrazione nel mondo del lavoro: senza
turbante, barba lunga e pugnale, è molto più semplice non essere notati e
non suscitare sospetti. Ma passati alcuni anni e consolidata la propria
condizione in una rete di relazioni sociali e professionali stabili, questi
stessi Sikh superano i propri timori e rigettano la propria ‘mimetizzazione’,
cioè tornano ad affermare anche all’esterno la propria identità religiosa
compiendo un secondo ‘battesimo’ (cioè una seconda cerimonia dell’Amrit
pahal) che li porta ad esibire nuovamente i simboli e i costumi del Khalsa.
Un atto di riappropriazione dell’identità religiosa che rappresenta altresì
l’espressione di un migliore status socio-economico: entrambe le cose sono
fonti di prestigio personale e famigliare all’interno della comunità Sikh di
riferimento nonché fonti di emulazione da parte degli immigrati più
giovani, spesso ancora incerti se manifestare o no – sul piano del costume
e dei simboli – la propria fede religiosa. A conclusione di quanto sopra
esposto, si può solo auspicare che in futuro un maggiore
riconoscimento istituzionale e sociale del sikhismo porti i suoi credenti a
non dover più nascondere o mimetizzare la propria identità religiosa.
Un’ altra importante problematica relativa al riconoscimento del Sikhismo
in Italia è quella del matrimonio religioso, che per i sikh è monogamico e
indissolubile (è permesso risposarsi solo in caso di vedovanza). La
questione del matrimonio Sikh (Anand karaj) è antica ed è stata oggetto di
aspre polemiche anche in India, dove solo di recente ha trovato soluzione.
Tradizionalmente infatti in India il matrimonio sikh non veniva
riconosciuto come tale in quanto il Sikhismo fu per lungo tempo
assimilato all’induismo (poiché storicamente il ‘primo volto’ del sikh
panth era per molti aspetti contiguo all’induismo); di conseguenza il
matrimonio Sikh veniva celebrato secondo i riti hindu. Una prima svolta si
ebbe durante il Raj britannico, quando gli inglesi nel 1909 regolamentarono
lo Anand karaj con lo Anand marriage act, permettendo ai sikh di
celebrarlo con riti propri e riconoscendone la validità. Tuttavia, dopo la
conquista dell’indipendenza indiana la questione si ripropose perché la
Costituzione della nuova India assimilò de facto il Sikhismo (così come il
gianismo) all’induismo e nel 1955 il matrimonio sikh tornò, nel nuovo
diritto di famiglia, ad essere regolamentato dallo Hindu marriage act.
24
Contro questo stato di cose i Sikh indiani hanno condotto per decenni una
polemica politico-religiosa ma l’India indipendente e democratica ha
accolto le loro richieste – per quanto possa sembrare sorprendente – soltanto
nel maggio 2012, quando finalmente la promulgazione di uno specifico
Anand marriage act ha consentito ai sikh di non registrare più i loro
matrimoni sotto lo Hindu marriage act[. Quanto accaduto in India è stato
accolto con giubilo dalle comunità Sikh in tutto il mondo, e non è difficile
prevedere che presto anche le comunità sikh stanziate nei Paesi occidentali
(a partire da quelle di più antica emigrazione, in Gran Bretagna e in Canada)
avanzeranno una simile richiesta di riconoscimento del proprio matrimonio
religioso, l’Anand karaj.
In conclusione, risulta evidente che anche la società italiana dovrà
imparare a rapportarsi con i sikh e il sikhismo in una prospettiva
interculturale secondo due principi fondamentali: accoglienza (delle
persone) e riconoscimento (della loro religione). Tanto più che nel
dicembre 2012 lo Stato italiano ha approvato le Intese con l’Unione
induista italiana e con l’Unione buddhista italiana. Forse non è troppo
lontano il giorno in cui anche il Sikhismo potrà ottenere in Italia il
proprio riconoscimento.
* Estratto da: Marco Restelli, Da: «I Sikh in Italia. Fra identità religiosa, nuova
cittadinanza e riconfigurazioni familiari », in Maria Angelillo (a cura di), La
famiglia nelle culture e nelle società dell’Asia. Accademia Ambrosiana, Asiatica
Ambrosiana n. 5, Biblioteca Ambrosiana-Bulzoni Editore, Milano-Roma, 2013, pp.
49-67
* * *
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Bibliografia.
Piste di approfondimento
a. In generale, circa il lavoro nelle concerie in Italia:
* Zone del Cuoio. Concerie, gioie e dolori : http://www.gonews.it/…nelreport-change-your-shoes/
b. In particolare:
* Varie tesi di laurea universitaria sul distretto vicentino della concia e sulle
condizioni di lavoro degli operai italiani e stranieri: v. internet e rete delle
biblioteche.
* Alice Brambini, La fabbrica: lo spazio del migrante. Il caso del distretto
vicentino della concia, Franco Angeli Editore, 2014
La fabbrica è qui analizzata come spazio sociale dove vulnerabilità
collettive si traducono in confini simbolici e spaziali. La ricerca
etnografica condotta tra le aziende del distretto conciario di Arzignano
mette in luce come la conceria non solo sia il luogo in cui le identità di
lavoratori nazionali e stranieri vengono reciprocamente costruite, ma
come la fabbrica divenga progressivamente principio interiorizzato di
senso e giustificazione della presenza di lavoratori migranti.
* * *
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