La vocalità nel jazz

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La vocalità nel jazz
La vocalità nel jazz
Maria Laura Scomparcini
Va premesso anzitutto che la definizione di “musica jazz” assume frequentemente valenze molto ampie,
variegate, e si arricchisce di tante influenze culturali (fenomeno che va sotto l‟abusato termine di
“contaminazione”), tanto da non poter definire il limite netto di ciò che è strettamente jazz o meno.
E per fortuna, viene da dire, così forse riusciremo a non porre limiti invalicabili o contenitori rigidamente definiti
dove sempre forzatamente si rischia di collocare generi, musicisti, personalità musicali, individui .
L‟indeterminatezza del genere musicale a cui appartiene la vocalità di cui tratto quindi è una delle chiavi di lettura
del mio intervento.
Prima di tutto è necessario premettere che uno degli elementi principali che ha permesso lo sviluppo della voce
nel jazz così come noi la conosciamo, è fuor di dubbio l‟avvento del microfono: ciò ha reso possibile infatti
l‟udibilità di voci che altrimenti non sarebbero state considerate (una fra tutte Billie Holiday). La riduzione dei
“forte” e i “fortissimo” infatti evidenzia come l‟elemento fino ad allora tanto ricercato e accanitamente agognato
dalla maggioranza dei cantanti, è diventato improvvisamente un cappio da cui potersi liberare, una spada di
Damocle finalmente rimossa.
E d‟altro canto essendo da sempre il jazz cantato e non, un genere musicale come abbiamo visto non rigidamente
definito (qualcuno ha scritto: “Se ascolti qualcosa che non hai mai sentito e non sai da dove viene, è jazz”), anche
riguardo alla tecnica vocale non vi è stata nella storia una rigorosa scelta delle strutture laringee vincolate allo
stile, e si è favorito quindi la possibilità di enfatizzare un colore della voce piuttosto che un altro, con ampie
libertà interpretative. La riduzione quindi dell‟intensità vocale ha reso possibile l‟esaltazione di altri fondamentali
parametri della voce, quali il colore e l‟estensione.
Accettare inoltre di improvvisare e quindi rischiare, guardarsi dentro, leggere nella propria fantasia e sensibilità
musicale, nei propri ricordi, ma accettare anche di vedere tutto quel che noi siamo (di bello e/o inquietante), e
anche di sbagliare, permette a chi canta jazz di stare più vicino alla propria musica, di sentirsi più “dentro”, di
esprimere ciò che lui autenticamente è e sente. E‟ quindi dalla presa d‟atto dello stato d‟animo del momento che
nasce l‟idea musicale; è da come si sta qui, ora, che si dice qualcosa di vero e autenticamente significativo dal
punto di vista jazzistico.
Le Personalità
A questo punto diventa determinante l‟introduzione di un concetto fondamentale per me nella vocalità jazz, che
è il seguente: possiamo attribuire anche al libero utilizzo delle varie catene cinetiche laringee, che producono così
diversi colori vocali, un valore semantico.
Ad esempio, il mantenimento della laringe bassa con ampio vibrato dato dall‟inclinazione della cartilagine
tiroidea, grande ancoraggio testa-collo con palato molle molto alto, è caratteristico della voce di una delle due più
importanti cantanti della storia del jazz: Sarah Vaughan, soprannominata Sassy. Queste stesse figure obbligatorie
sono parte integrante della qualità “Opera”, ed infatti nella storia di Sarah leggiamo: ”…prende lezioni di canto e
di piano per 9 anni, studia organo per 2, frequenta la chiesa Battista di Newark dove canta e suona come solista”.
Come a dire che la madre dell‟improvvisazione vocale jazzistica possedeva quel timbro perché utilizzava quelle
figure obbligatorie vicine all‟emissione lirica, in quanto proveniente da una cultura musicale abbastanza “colta”
(da Sarah Vaughan, After Hours, Capitol Rec. 1997 - “ Wonder Wy”).
Per contro l‟emissione dell'altra regina del jazz, Billie Holiday (l‟irraggiungibile “Lady Day” come la chiamava
Lester Young), era caratterizzata da marcata contrazione dello sfintere ari-epiglottico (cioè un twang orale
inconfondibile), con la componente del “pianto” (quindi l‟inclinazione della cartilagine tiroidea, come per Sarah)
ma a laringe alta, e lieve costrizione delle false corde a fine frase per mancanza quasi totale di ancoraggi. Questo
tipo di emissione complessivamente è molto vicina al canto popolare di frequente riscontro. Si pensi a quelle
anziane signore che in chiesa svettano su tutti i fedeli che cantano, o i canti della Ciociaria di inizio „500 o delle
mondine, oppure le prime cantanti nere di blues o musical che certo provenivano dal canto popolare, o ancora le
cantanti folcloristiche del Mali, o le voci soliste del favoloso coro “Le Mystere de Voix Bulgares”.
Sguattera, prostituta, arrestata a 14 anni per adescamento non aveva certo un‟estrazione “colta”, né “studiata”,
ma una voce inconfondibile che pur con un‟estensione molto ridotta (circa una decima) era di enorme fascino e
densità artistica ineguagliabile (da Billie Holiday, Billie Holiday Bluenote 1997 - “Lover Man”).
Altra grande interprete della voce nel jazz è stata Ella Fitzgerald, dal timbro molto fresco e dotata di grande
estensione. Anche per lei si evidenziano l‟uso dell‟inclinazione della cartilagine tiroidea (il “pianto”), questa volta
a laringe neutra, con un vibrato veloce (come si usava allora) e contrazione dello sfintere ari-epiglottico a palato
chiuso (Twang orale) (da Ella Fitzgerald, 50 Original Recordings Prism Leisure Distr. 2001 - “I‟m Beginning To
See The Light”).
Diversa modalità di cantare, o forse parlare il jazz, aveva Carmen Mc Rae, pianista e cantante, amica di Billie
Holiday. La sua voce era caratterizzata dall‟enfatizzazione della qualità “discorso” anche nel registro acuto, che
peraltro non raggiungeva mai frequenze molto alte, essendo la voce di Carmen ricca di sfumature soprattutto nel
registro basso. Dizione perfetta e perfetta comprensibilità del testo, poche note lunghe e scarso vibrato, swing e
capacità espressiva eccezionali fanno di lei una cantante-pianista estremamente comunicativa (da Carmen Mcrae,
For Lady Day Bmg 1995 - “God Bless The Child”).
Forse l‟ultima delle grandi della vecchia generazione di cantanti bebop è Betty Carter, cantante-pianista dalla voce
scura e molto estesa. Parlando di “figure obbligatorie” nel Voicecraft, quella che viene maggiormente usata è
l‟innalzamento del palato molle (o “ancoraggio della testa”), mentre la componente del “pianto” (quasi totale
assenza di vibrato) e del “twang” sono meno presenti. Per la complessità delle linee melodiche spesso da lei
composte e le audacie che osa prendere col ritmo, le sue modulazioni vocali assomigliano a quelle di un
sassofonista ( da Betty Carter, Feed The Fire Verve 1994 - “Feed The Fire”).
Parliamo ora di cantanti della nuova generazione, e la prima delle cantanti bianche americane che voglio
presentare è Rachel Gould, tra le migliori improvvisatrici viventi. Moglie del compianto sassofonista Sal Nistico,
è anche violoncellista e insegnante di canto al conservatorio de L‟Aia. Si tratta di una voce da contralto
estremamente morbida (cioè grande “retrazione” delle false corde), con ampio vibrato (molto “pianto” , cioè
inclinaz della cartilagine tiroidea) e “twang” (contraz. dello sfintere ari-epiglottico) (da Rachel Gould, More of me
Bassic Sound 010 - “I Loves You Porgy”).
Unico uomo che citerò è il basso-baritono Bobby Mc Ferrin, per il suo particolare sviluppo oltre che della
componente melodica orizzontale, anche di quella verticale cioè armonica, tanto che con la sua strabiliante agilità
sviluppa contemporaneamente la linea di basso, la linea melodica e il controcanto, normalmente effettuato in
“falsetto” (piano inclinato delle corde). Polistrumentista e figlio d‟arte sa usare ogni singola e del vocal tract
struttura laringea che gli permetta di ottenere quel particolare colore vocale, incluso l‟imitazioni di numerosi
strumenti anche a percussione. E‟ il solo cantante che riesce ad appassionare per tutta la durata di un concerto a
cappella per sola voce (da Bobby McFerrin, The Voice Wea 1982 - “Take The A Train”).
La prima cantante-pianista non americana e bianca di cui voglio parlare proviene dall‟Azerbaijan. Ha effettuato
studi classici ed è figlia d‟arte). Si chiama Aziza Mustafa Zadeh Usa un‟emissione vicina a quella dell‟ ”opera”
(“pianto”, “twang”, voce scura e mantenimento della laringe appena un po‟ bassa, ampio vibrato) e naturalmente
è evidente l‟influenza etnica della sua provenienza azera nei brani, spesso di sua composizione (da Aziza Mustafa
Zadeh, Shamans Decca 2002 - “Uv [Unutma Vijdani]).
La cantante afroamericana di cui parlerò ora è veramente strabiliante per le doti tecniche che presenta. Ho
calcolato che canta su un‟estensione di oltre 4 ottave (ma ho letto che ne possiede 6!), ha caratteristiche timbriche
le più varie, timing eccellente e libertà espressiva totale. È pianista e oggi è la personalità di spicco del panorama
jazzistico mondiale. Usa tutte le strutture laringee e del vocal tract variamente combinate, al punto da non
riuscire a descrivere un “suo” timbro vocale. Si chiama Rachelle Ferrell (da Rachelle Ferrell, Live In Montreaux
91-97 Blue Note Rec. 2002 - “Don‟t Waste Your Time”).
Concludo questa mia esposizione parlando di una cantante portoghese che rispecchia totalmente la regola
dell‟autenticità vocale e fisica. Si tratta di Maria Joao, trentenne che più di ogni altra nelle sue improvvisazioni
sembra raccontare delle vere e proprie storie, al punto di aver coniato una sua lingua e usando naturalmente tutti
i colori vocali possibili (da Maria Joao-Mario Laginha, Maria Joao - Mario Laginha Featuring Trilok GurtuWolfgang Muthspiel Verve Rec. 1998 - “A Gente Aqui”).
Pubblicato dal Circolo Culturale Il Cerchio Aperto per JA’M 2010