La Direttiva Bolkestein dopo l`Euromanifestazione e il Consiglio

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La Direttiva Bolkestein dopo l`Euromanifestazione e il Consiglio
Confederazione Generale Italiana del Lavoro
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La Direttiva Bolkestein dopo l'Euromanifestazione e il Consiglio Europeo
di Michele Gentile
La manifestazione del 19 marzo a Bruxelles, ha visto la presenza e la partecipazione di una vasta
moltitudine di forze sindacali, movimenti e società civile, unite intorno ad un asse che parlava di
pace; diritti sociali e modello sociale europeo. In questa logica rientra il no alla Bozza di Direttiva
Bolkestein, ed il no alla bozza di direttiva sull’orario di lavoro.
Le iniziative prima della manifestazione e la sua grande riuscita hanno aperto crepe profonde
nello schieramento favorevole al modello sotteso alla Bolkestein. Alcuni Governi nazionali, con la
drammatica assenza del Governo italiano, hanno assunto posizioni di contrarietà, pressati sia dal
movimento di protesta e di opposizione sorto in molti paesi europei, sia dalla preoccupazione delle
conseguenze che la direttiva Bolkestein potrebbe avere sull’esito dei referendum indetti sul trattato
Europeo ( vedi Francia; Germania ed altri).
Da tutto ciò prende le mosse, un primo risultato positivo: il giudizio critico sulla Direttiva emerso a
conclusione della sessione del 22 e 23 marzo da parte del Consiglio Europeo.
Qui è emerso con chiarezza che la Direttiva Bolkestein, non ha il consenso né del Consiglio né
delle comunità nazionali. E’ quindi presumibile che, dopo tale posizione, possa svilupparsi nel
Parlamento europeo una discussione “libera”senza vincoli predeterminati dagli schieramenti
politici nazionali.
Questo mi sembra sia l’esito del Consiglio nella sua essenzialità.
Molto si è letto sul tema, ma in realtà il documento conclusivo mantiene una forte genericità, pur
affermando la necessità di una modifica della Direttiva finalizzata all’acquisizione di “un largo
consenso”. E’ bene rammentare che la Commissione Europea non ha ancora preso una posizione
univoca, rinviando al Parlamento il primo passo.
Ora la discussione continua innanzitutto nelle Commissioni Parlamentari. Lì ci auguriamo che,
come è avvenuto nella Commissione Ambiente, vengano votate modifiche talmente profonde alla
Direttiva da obbligare al suo ritiro da parte della Commissione. Proprio il ritiro della Direttiva deve
essere l’obiettivo politico della iniziativa di mobilitazione; il raggiungimento di questo obiettivo è
possibile se il forte e diffuso movimento di protesta sarà finalizzato a obiettivi precisi che
stravolgano l’impianto politico sul quale si fonda la direttiva.
Quando si afferma che con la Direttiva si mette in discussione il modello sociale dell’Europa al suo
interno ed il ruolo che l’Europa deve svolgere nel mondo, a partire dagli accordi GATTS, si pone
un problema politico di valenza strategica per l’Europa: di quale futuro si sta discutendo; cosa
significa fare del “mercato interno dei servizi”, lo strumento principale della competitività, come
obiettivo della strategia di Lisbona; cosa significa costruire uno spazio comune europeo fatto di
diritti, qualità, sviluppo sostenibile.
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A queste domande la direttiva Bolkestein, così come quella sull’orario di lavoro, danno risposte
negative ed inaccettabili. La Direttiva “servizi” non deve rappresentare l’identità dell’Europa che
vogliamo.
Rischia di essere invece lo strumento strategico per la riduzione dei diritti sociali e per portare
avanti un’idea di sviluppo in nome del quale si deve rinunziare a qualità e viluppo sostenibile.
Questa è la partita politica che si sta giocando con la direttiva Bolkestein. Ed è proprio per
contrastare tale disegno che il movimento sindacale e sociale europeo deve rimanere in campo,
anche dopo il referendum francese con un preciso obiettivo: manifestare verso i soggetti
istituzionali europei ed i governi nazionali perché la direttiva venga accantonata.
Ciò è necessario in quanto i punti di assoluta negatività della Direttiva ne sono il cuore.
Per questo cassarli o modificarli in profondità significa far ritirare la Direttiva. Di quali punti
parliamo?
Innanzitutto dalla Direttiva vanno esclusi tutti quei servizi “di interesse generale” e di “interesse
economico generale” ai quali i vari stati affidano le funzioni di universalità, coesione sociale e di
salvaguardia dei diritti sociali e civili. Questi servizi vanno tirati fuori dal campo di applicazione
della Direttiva, perché non devono essere commercializzabili. Essi debbono invece essere il
contenuto profondo della definizione di uno spazio comune europeo (la sanità; l’istruzione; i servizi
alla persona; la sicurezza pubblica e privata ; i servizi anche economici ai quali vengono affidate
funzioni universalistiche). Per questo è necessaria una vasta opera di armonizzazione che unifichi,
sulla base delle esperienze più avanzate, i diversi modelli esistenti nell’Europa a 25. Questo è il
vero obiettivo di una strategia di sviluppo sociale.
La Commissione continua a negare la necessità che si operi attraverso una Direttiva quadro sui
Servizi di Interesse Generale e su quelli “economici”; in tal modo non solo non si determinano le
condizioni per la creazione di uno spazio comune, ma si dà spazio alla “rinazionalizzazione” che
sta caratterizzando l’attività dell’Unione. L’alternativa a questo fenomeno consiste in una
armonizzazione che “sposti in avanti l’asse di riferimento”.
Ma, proprio partendo da tale richiesta e dai rischi che la Direttiva comporterebbe, è necessario per
noi aprire una riflessione critica sugli effetti che la politica di privatizzazione di parti fondamentali
dei servizi “universali”, portata avanti nel nostro paese ha prodotto in nome dell’esigenza di
definire un nuovo ed ampio concetto di pubblico. Credo si tratti di una riflessione necessaria.
Il Principio del Paese di origine, da tutti osteggiato, è stato identificato come il vero obiettivo
politico della Direttiva. E così è.Per questo far cadere questo principio significherebbe
oggettivamente il ritiro della Direttiva.
La Commissione Barroso ritiene che questo sia il vero perno della Direttiva. Anzi ammanta di
ideologia tale principio facendone il senso di una sfida che dovrebbe portare i 10 paesi appena
entrati allo stesso livello degli altri. Al contrario accusa i contrari a questo principio di non voler
lavorare per lo sviluppo di questi paesi.
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C’è un principio ideologico in questa affermazione: lo stesso principio posto a base del “mercato
interno dei servizi”. Ma proprio tale principio svela il vero obiettivo della Direttiva: non la definizione
di uno spazio comune basato su qualità e diritti per tutti e quindi un’armonizzazione dei diritti, ma
invece l’utilizzo del Principio per una graduale, ma decisa riduzione dei diritti sociali e civili di
lavoratori e cittadini: un vero e proprio dumping sociale. Il paese “ con meno diritti” fa da
battistrada e trascina in basso gli altri paesi.
Per questo anche nella risoluzione del Consiglio si afferma che “….il mercato interno dei servizi
deve essere pienamente operativo, preservando al tempo stesso il modello sociale europeo”.
Il Principio del Pese di origine, non è emendabile. Senza armonizzazione è un pericoloso attacco
al modello sociale europeo, con l’armonizzazione è superfluo. Per questo va cassato. In questo
modo si esprimono la CES, tutte le organizzazioni sindacali, il movimento di lotta.
Siamo contro la normativa contenuta nella Direttiva in merito alla disciplina del distacco dei
lavoratori. Occorre chiarire che, anche se la direttiva esclude che il distacco dei lavoratori sia
regolato dal Principio del Pese di Origine, confermando in tal modo quanto già recepito della
normativa italiana che ha necessità invece di una più stringente attività di controllo, in realtà la
strumentazione con la quale con la Direttiva si vogliono abolire tutti i vincoli che impediscono “la
libertà di stabilimento”, fa sì che ci si trovi davanti a lavoratori fantasma- quelli distaccati da altri
Stati membri-, dei quali non si ha conoscenza, privi di diritti civili, contrattuali e di sicurezza delle
condizioni di lavoro; ciò rischia di determinare una privazione degli stessi diritti per gli altri
lavoratori.
Il caso dell’edilizia è il più eclatante, e non è un caso se proprio la Direttiva preveda una deroga
temporanea “alla conoscenza dell’esistenza di lavoratori distaccati provenienti da paesi terzi per
questo settore.
Invece che un reale sistema di controlli si rende titolare dell’applicazione della legislazione in tema
di lavoro e del rispetto dei contratti di lavoro del paese di stabilimento solo il paese di origine. La
stessa regolarità delle condizioni di “immigrazione” viene demandata solo al paese di origine
dell’imprenditore. Il Governo Italiano, anche su questo aspetto tace.
Occorre cassare dalla Direttiva qualsiasi riferimento alla disciplina del distacco dei lavoratori, ma
nello stesso tempo occorre chiarire che la “semplificazione” delle procedure, “necessarie per
eliminare i vincoli che impediscono la libertà di stabilimento” non può e non deve significare
deregolazione e perdita della sovranità degli Stati nazionali nel regolare le loro normative. Questo
aspetto della semplificazione è addirittura peggiore di quello predisposto dal Governo Italiano nei
provvedimenti in tema di competitività.
Di fronte alla sfida di valore ”strategico” rappresentata dalla Direttiva, occorre consolidare ed
ampliare il movimento di opposizione in Italia ed in Europa. Occorre coinvolgere anche le
organizzazioni sindacali dei paesi di nuovo ingresso, fino ad oggi assenti, per una battaglia
comune che abbia al centro il consolidamento e l’estensione del modello sociale in tutta Europa.In
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fondo la Direttiva Bolkestein, non deve rappresentare l’attuazione della Strategia di Lisbona. Essa
ne è la sua negazione.
Credo sia necessario lavorare con le organizzazioni sindacali europee e con la CES per arrivare
ad una iniziativa di mobilitazione e di lotta europea per esercitare la pressione necessaria verso
gli organismi statali ed europei contro la Direttiva ed il modello che essa sorregge.
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