leonardo da vinci: vita e opere

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leonardo da vinci: vita e opere
LEONARDO DA VINCI: VITA E OPERE
15 aprile 1452: Leonardo da Vinci nasce da Ser Piero e Caterina ad Anchiano, una frazione di Vinci.
1469: Ser Piero affitta un appartamento a Firenze, dove vive con Leonardo. 5 agosto 1473: Leonardo
disegna e data un Paesaggio del Valdarno, considerato oggi la sua prima opera conosciuta.
Biografie antiche principali Leonardo muore circondato da una fama strepitosa, che spinge Giorgio
Vasari a considerarlo un punto di svolta fondamentale per l’arte nelle sue “Vite de’ più eccellenti
architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri”.
Dopo Giotto, che per il biografo aretino segna l’inizio della pittura moderna, è Leonardo il protagonista
di una nuova rivoluzione, che sarà poi consolidata dal divino Michelangelo.
Diverso è invece il caso della vita composta da Paolo Giovio. Lo storico umanista con ogni probabilità
frequenta Vinci a Roma, quando entrambi appartengono alla cerchia di papa Leone X. Il suo testo è
ricco di informazioni utili a ricostruire il metodo di lavoro di Leonardo e a crearne il mito di uomo
incontentabile, all’ossessiva ricerca della perfezione, che gli impedisce di concludere la maggior parte
delle sue opere.
Chi entra in contatto con Leonardo da Vinci corre il rischio di perdersi nel suo labirinto. Quel garbuglio di
enigmi insidiosi nascosti nei suoi capolavori e, soprattutto, quello strepitoso intrico di segni tracciati nei
suoi celebri codici, esercitano da secoli un fascino irresistibile. Un groviglio di parole scritte al contrario,
appunti, disegni, schizzi, indovinelli, progetti e ritratti affidati al destino di circa tredicimila fogli
accumulati alla rinfusa.
Leonardo non ha avuto il tempo di organizzare i suoi fogli, perché non ha mai voluto fermarsi e
guardarsi indietro. La sua vita è stato un continuo procedere in avanti, verso nuove mete. Ha tentato in
più occasioni di raccogliere i suoi appunti e i suoi disegni in vari trattati, ma non è riuscito a darne alle
stampe nemmeno uno.
L’osservazione assorta della natura, che lo appassiona fin da piccolo, lo conduce a immortalare paesaggi
talmente ricchi di dettagli da sembrare fotografati e gli permette di descrivere fiori e piante con una
precisione degna di un trattato di botanica. I risultati dello studio dell’anatomia e delle proporzioni del
corpo umano, che lo ossessiona per almeno trent’anni, si rivelano preziosi quando dipinge i ritratti che
lo hanno reso famoso in tutto il mondo.
-----------Il suo percorso accidentato ed entusiasmante, che tocca le corti italiane più importanti del
Quattrocento, diventa il pretesto per immergersi nei pensieri, nelle abitudini e nelle vicende di Firenze al
tempo dei Medici, nei progressi raggiunti da Milano con Ludovico il Moro e nell’affascinante studiolo di
Isabella d’Este a Mantova, per poi proseguire lungo le trincee segnate da Cesare Borgia e approdare
infine a Roma, proprio mentre Raffaello sta lasciando il suo segno in Vaticano e Michelangelo ha
appena terminato la volta della Cappella Sistina.
Leonardo è un figlio illegittimo e la storia della sua nascita è tutto un programma. Il padre è Ser Piero –
di Ser Antonio di Ser Piero di Ser Guido –, un giovane notaio in carriera che ha seguito le orme dei suoi
antenati. Ventisei anni, carattere volitivo e determinato, Piero non resiste al fascino sottomesso di
Caterina, una contadina che vive nel suo paese. Leonardo viene al mondo per sbaglio a seguito di un
loro fugace incontro, come un guaio che va affrontato con cautela.
Piero è in affari con i membri delle famiglie nobili e gli imprenditori più in vista, inclusi gli stessi Medici.
Non può certo rovinarsi la reputazione per un imprudente gioco tra ragazzi.
Dopo il fattaccio, è il padre di Piero a prendere in mano la situazione.
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Leonardo trascorre i suoi primi anni con la madre, al riparo da pettegolezzi e imbarazzi; intorno a lui
cresce una famiglia numerosa,
Una fortuna che non tocca alla relazione di Ser Piero il quale non avrà figli.
A questo punto, è di nuovo Ser Antonio a prendere l’iniziativa e correre ai ripari. Per sventare il rischio
che la famiglia si estingua e i suoi beni vengano dispersi, il vecchio decide di accogliere Leonardo in casa
propria.
Leonardo si trasferisce in casa della sua famiglia più ricca e rispettabile,
La figura più problematica è proprio la madre naturale. Caterina sembra non avere alcun ruolo nella
crescita di Leonardo, eppure il ragazzo matura nei suoi confronti un amore intimo e profondo.
Completamente assente negli scarsi documenti giovanili che lo riguardano, la donna riapparirà
all’improvviso tanti anni dopo, verso il 1493, quando Leonardo la accoglie in casa propria a Milano.
Ormai lui è un uomo affermato, l’infanzia vissuta a Vinci è solo un lontano ricordo.
Fiumi d’inchiostro sono stati versati per tentare di capire se una nascita così complicata abbia lasciato
un segno nelle sue scelte di vita e nelle sue opere. Il primo ad averne scritto, il più autorevole, è stato
Sigmund Freud, che nel 1910 dedica a Leonardo un celebre saggio, nel quale cerca di dimostrare come
l’assenza della madre dalla vita dell’artista abbia inciso sul suo orientamento sessuale e sui suoi
capolavori.
Il medico, poi, si affida a un complicato intreccio di riferimenti culturali per arrivare alla conclusione che
l’omosessualità di Leonardo sia tutta colpa dell’assenza della madre. È lei che gli ha impedito fin da
piccolo di costruire un rapporto sereno con le donne e lo ha messo di fronte soltanto a modelli maschili
dominanti.
Tra le mura di Vinci, Leonardo deve farsi bastare poche informazioni di base, che non prevedono lo
studio della letteratura classica, del latino e della filosofia. Lo dimostra anche la grammatica incerta dei
suoi primi appunti. «So bene che, per non essere io letterato», scriverà con un certo rammarico,
«qualcuno gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere […].
Diranno che, per non avere io lettere, non potere ben dire quello di che voglio trattare.»
Leonardo sa di essere più ignorante dei suoi colleghi.
Con queste premesse, è davvero incredibile pensare quali straordinari risultati abbia raggiunto nel corso
del tempo grazie ai suoi studi e ai suoi esperimenti.
Appena si accorge che il figlio dimostra un certo talento, il notaio prende la cosa sul serio.
racconta Vasari, «preso un giorno alcuni de’ suoi disegni, gli portò ad Andrea del Verrocchio, che era
molto amico suo.
Andrea si stupisce di fronte ai fogli disegnati da quel giovane autodidatta e lo accoglie nella sua
bottega. Al ragazzo non può capitare coincidenza migliore: in quel momento, la bottega del Verrocchio
è il laboratorio più all’avanguardia di Firenze.
-----------Nel 1469, quando Ser Piero da Vinci affitta una casa in via della Prestanza (oggi via dei Gondi), a Firenze
va già molto di moda allestire le giostre, eventi sportivi in cui i giovani membri delle famiglie nobili si
affrontano in gare equestri davvero scenografiche, per le quali si spendono cifre enormi.
Nello stesso anno, in occasione del carnevale, Lorenzo il Magnifico finanzia una celebre giostra in
piazza Santa Croce. Accanto a lui sfilano scudieri, trombettieri e giovani in abiti finemente lavorati,
armature ed elmi dalle fogge più bizzarre, piume colorate e argenti finissimi.
Leonardo all’inizio può soltanto mescolarsi tra il pubblico di questi eventi, che devono sembrargli
meravigliosi a confronto con le povere e arrangiate feste di piazza che ha visto a Vinci. Nel giro di pochi
anni, una volta entrato in pianta stabile nella bottega di Andrea Verrocchio, contribuirà invece
concretamente alla realizzazione di alcuni paramenti per la famosa giostra di Giuliano de’ Medici,
allestita in piazza Santa Croce nel 1475.
Nell’officina di Andrea del Verrocchio si discute della dissezione del corpo umano, ampiamente
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praticata anche in altre botteghe dell’epoca, e si passano in rassegna le antiche sculture che nel
frattempo i signori di Firenze acquistano sul mercato antiquario.
Il maestro condivide le informazioni tratte dai testi antichi con tutti i suoi giovani collaboratori (oltre a
Leonardo, ci sono Perugino, Signorelli, Botticelli e Lorenzo di Credi), che hanno il compito di verificare
ogni ipotesi attraverso esperimenti e prove, fino a raggiungere l’obiettivo richiesto dal cliente. Tra tutti,
Leonardo è il solo a ereditare la variegata gamma di interessi del maestro.
Leonardo matura una vera e propria mania per i volti più strani. Se gli capita di incrociare per la strada
un viso particolare, è capace di seguirlo per l’intera giornata pur di riuscire a coglierne tutti i dettagli e
le espressioni. A sera, tornato a casa, ne trascrive i lineamenti su un taccuino.
In realtà, costituiscono un repertorio eccezionale di personaggi ai limiti della caricatura, raccolti in
pagine che ne esaltano soprattutto l’affascinante bruttezza. Sono visi mostruosi, dai nasi bitorzoluti, le
bocche sdentate e i capelli arruffati, teste grottesche che potrebbero servire alla composizione di
maschere per il teatro, nel quale Leonardo è molto impegnato durante la sua carriera.
Lorenzo non apprezza fino in fondo Leonardo; di fatto, non c’è traccia di opere che il Magnifico gli
abbia ordinato direttamente. Lo stile di Leonardo, che non prevede citazioni all’antica, architetture
classiche ed espressioni rassicuranti, non corrisponde al gusto decorativo degli oggetti di cui il signore si
circonda, poi Vinci è un giovane piuttosto ignorante, con il quale non può intavolare colte discussioni
sui testi antichi o condividere il gusto per la filosofia classica.
----------------Andrea del Verrocchio e Leonardo da Vinci BATTESIMO DI CRISTO 1470-1475 ca. olio e tempera su
tavola cm 180x151 GALLERIA DEGLI UFFIZI, FIRENZE
Prova collettiva di Verrocchio e di suoi allievi tra cui Leonardo e forse Botticelli. Verroccchio
sicuramente impostò la composizione ed eseguì le figure di Cristo e di San Giovanni, a Botticelli si deve
probabilmente l’angelo con lo sguardo rivolto verso l’esterno, mentre il contributo di Leonardo è stato
individuato nello sfondo paesaggistico delicatamente sfumato, con una bellissima suggestione di monti
e acque e nell’angelo visto di schiena, con le guance arrossate e i capelli biondi ricciuti intrisi di luce.
Il maestro è talmente sconvolto dalla bravura del suo allievo che decide di lasciargli più spazio possibile.
Il ragazzo stende il colore in modo così sapiente che Andrea gli permette anche di ritoccare il corpo di
Cristo. Una decisione che può sembrare imprudente, perché quella è la figura principale dell’opera.
Per raggiungere questo obiettivo, oltre al suo talento, Leonardo ha un asso nella manica. Tra lui e il suo
maestro non c’è soltanto una differenza di sensibilità, ma anche di tecnica. Verrocchio è ancora legato
all’uso tradizionale della tempera, Vinci padroneggia invece con sicurezza la nuova pittura a olio.
Questa tecnica innovativa è il frutto di una lunga e complessa serie di sperimentazioni che risalgono
addirittura ai tempi di Vitruvio e Plinio il Vecchio. Dopo centinaia di anni, pare che i primi a ottenere
un risultato soddisfacente siano i pittori fiamminghi, all’inizio del Quattrocento. I fiorentini hanno il
privilegio di entrare in contatto con i loro illustri colleghi del Nord in modo diretto, grazie ai frequenti
scambi commerciali tra Firenze e le Fiandre.
Il problema fondamentale che l’olio permette di risolvere è prima di tutto la resistenza del colore nel
tempo, inoltre, usato al posto dell’uovo, l’olio si dimostra un legante molto più efficace, gli artisti
possono così ritornare più volte sulle parti che vogliono modificare, correggere o migliorare.
Un’esigenza che Leonardo sentirà spesso, visto che ama cambiare idea e ripensare continuamente
le sue figure.
-----------------Non sappiamo precisamente quando Leonardo l’abbia dipinta, anche se molti dettagli fanno sospettare
che l’ANNUNCIAZIONE sia un’opera giovanile. Non conosciamo il luogo a cui era destinata né il motivo
per cui è stata realizzata. La creatura celeste arriva da sinistra, una mano sollevata in segno di saluto e
l’altra che porge alla donna uno splendido giglio, simbolo della sua verginità. La ragazza viene colta di
sorpresa mentre sta leggendo sull’uscio di casa, da dove si intravede la camera da letto. I suoi piedi
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poggiano su un pavimento tracciato in prospettiva, mentre l’angelo si tiene a debita distanza su un
prato fiorito, dal quale recita il suo annuncio sconvolgente: Gabriele ha superato in volo il muro che
separa il giardino di Maria dal resto del mondo, il suo hortus conclusus, quasi un pezzo di paradiso in
terra.
Leonardo, invece, limita al minimo indispensabile la presenza dell’edificio e si concentra sulla resa di
uno splendido scenario naturale.
Fiori, alberi e una baia sullo sfondo lo impegnano molto più dell’architettura, tanto che commette un
errore nella composizione della scena. Il leggio su cui poggia il volume che Maria sta sfogliando è fuori
asse rispetto alla prospettiva del muretto e del pavimento. L’intero ambiente è costruito nel rispetto
della classica prospettiva centrale che guida il resto del quadro, tutte le linee convergono verso il
medesimo punto tra le montagne sullo sfondo, ma la base di marmo ai piedi della Vergine punta
altrove.
Molti si sono interrogati sul braccio destro della donna, troppo lungo rispetto al resto del corpo o sulla
poca altezza delle sue gambe al di sotto delle ginocchia. Nessuno ha trovato il modo per giustificare
questi sbagli grossolani che però sono probabilmente delle “correzioni ottiche” applicate da Leonardo
perché il dipinto doveva essere collocato in una posizione alta e visto in diagonale.
Forse però, la risposta a questa domanda è anche un’altra: l’Annunciazione è un lavoro a più mani. Non
solo, ma la raffigurazione dell’Annunciazione spesso e volentieri era divisa in due parti, perché finiva
sugli sportelli di un altare o di un armadio, forse non è così peregrina l’ipotesi che l’angelo e la
Vergine dell’Annunciazione di Leonardo possano derivare da due cartoni nati non per appartenere alla
stessa tavola ma a due quadri separati, posti uno accanto all’altro. In questo modo, se si osserva la
parte destra del dipinto, l’incredibile errore di prospettiva in quella zona si attenua notevolmente e le
linee tornano ad avere un loro percorso coerente verso un unico punto d’incontro sullo sfondo.
Oltre allo studio della prospettiva, i pittori fiorentini si dedicano all’osservazione della natura da vicino.
Un interesse che hanno ereditato direttamente dai loro colleghi fiamminghi, più precisi degli scienziati
nella minuziosa riproduzione di fiori, piante e animali.
Una tecnica che gli storici dell’arte amano chiamare «lenticolare», come se derivasse dall’uso di una
lente d’ingrandimento.
È uno dei rari quadri dell’epoca in cui appaiono soltanto esemplari che fioriscono nel medesimo
periodo dell’anno.
Al di là del prato fiorito, un sentiero guida lo sguardo verso il fondo, dove compaiono quattro cipressi,
che non mancano mai nelle rappresentazioni dell’Annunciazione. Il cipresso punta dritto verso l’alto,
come il cuore della Madonna verso Dio, ma è anche l’albero dei defunti, che prefigura il destino crudele
di Gesù. Nel giorno del concepimento di Cristo, si pensa già alla sua morte e alla sua resurrezione.
I fiori di Leonardo non sono soltanto una presenza decorativa, ma una prova del suo sguardo
particolare e attento sulla natura. Se Botticelli collocherà nella Primavera (foto) oltre cinquecento
specie di piante, attingendo all’infinito catalogo degli erbari medievali, Vinci elabora un suo
personalissimo inventario botanico, che compare in una grande quantità di disegni. Non sono quasi mai
semplici schizzi o bozzetti, ma studi dal vero in cui traccia ombre e lumeggiature, esplora possibili
variazioni dello stesso fiore e guarda alle piante da più punti di vista. Sono esseri viventi e Leonardo li
tratta con la medesima attenzione di un volto, di un corpo o di una mano. Non sono presenze astratte,
inserite in una scena solo perché portatrici di significato, ma individui con una propria personalità.
--------------Da tempo Ser Piero offre i propri servizi agli Agostiniani di San Donato a Scopeto, che grazie alla
donazione di un terreno hanno finalmente la possibilità di commissionare una pala per l’altare della loro
chiesa. È in questo frangente che entra in gioco Leonardo, firmando con il monastero un contratto
davvero bizzarro per la realizzazione di un’ADORAZIONE DEI MAGI.
Leonardo si è appena affrancato dalla bottega del Verrocchio e si trova subito ad affrontare le difficoltà
di un mercato con cui non riesce a dialogare serenamente.
Un’Adorazione dei Magi prevede sempre che Maria sia seduta all’estremità destra o sinistra del quadro,
magari sotto il tetto della capanna, accompagnata da Giuseppe, il bue e l’asinello.
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In primo piano compaiono cavalli bardati con eleganza, dignitari vestiti di preziosi abiti all’orientale,
animali da compagnia di ogni specie, levrieri, conigli e addirittura pavoni.
Leonardo sconvolge questo modello Non c’è traccia di calma e serenità nella sua Adorazione.
Prima di tutto, sposta la Vergine e il bambino al centro della scena: in questo modo i fedeli che
osservano la pala da lontano sono immediatamente attratti verso l’altare su cui troneggia la tavola,
quasi risucchiati dalla prospettiva centrale che converge proprio sul viso di Maria.
Poi, l’artista immagina che l’epifania di Gesù scateni un vero e proprio delirio tra la folla, che accorre e si
accalca per ammirare il re dei giudei.
Un’emozione irresistibile serpeggia tra la folla di volti che spuntano tra le rocce: sulla destra sembra di
rivedere lo stesso viso scavato del San Girolamo, dietro un vecchio barbuto che non crede ai suoi occhi.
I Magi sono già in ginocchio. Qualcuno punta il dito verso il cielo, forse a indicare la stella cometa che si
è posata proprio sul bambino. Un gesto che tornerà spesso in altre opere di Leonardo. Mentre il piccolo
Gesù, serio e autorevole, benedice i suoi ospiti generosi, i fedeli cedono a un delirio liberatorio.
Se non altro, è utile a capire come il pittore procede nella composizione dei suoi capolavori. Avanza per
tentativi, accumula figure una sopra l’altra, cambia idea in corsa e sovrappone le immagini più diverse.
Spende mesi e mesi a studiare sulla carta i personaggi e gli scenari, e nemmeno quando mette mano al
quadro definitivo è ancora sicuro di quello che vuole. È straziato da un’inquietudine che compromette
di continuo il risultato finale. I suoi clienti non possono mai stare tranquilli: fino all’ultimo non si sa cosa
verrà fuori dal suo pennello.
Vasari, scrivendo il proemio della terza parte delle “Vite…” scrive che “Leonardo fu colui che dette vita
a quella maniera che noi chiamiamo moderna”. La maniera moderna è la maniera degli artisti che
riguardano l’ultima parte delle vite del Vasari, testo fondamentale per studiare gli artisti fino al 1568,
che è la data della seconda edizione. Già nel 1550, nella prima edizione il Vasari dice che Leonardo è
colui che imprime la svolta decisiva all’arte “…fu colui che dette alle figure il moto ed il fiato, il
movimento e lo spirito di vita”. Sempre Vasari ci dice quello che determinò lo scatto esterno alla
maniera moderna e cioè la scoperta delle sculture ellenistiche. “Quello che no riuscirono a fare gli
artisti venuti prima riuscirono invece a farlo quelli che videro cavar fuori di terra le anticaglie delle
più famose opere citate da Plinio: il Laocoonte, il Torso del Belvedere, L’Apollo del Belvedere
etc….tutti marmi connotati da languore e patetismo…”.
-----------------Nell’ottobre 1481, i colleghi più stretti di Leonardo ricevono l’incarico più prestigioso che si possa offrire
in Italia a un artista in quel momento: Lorenzo de’ Medici, che ama sfruttare i pittori fiorentini in
raffinate operazioni diplomatiche, risponde alla richiesta di papa Sisto IV e invia a Roma Perugino,
Cosimo Rosselli, Luca Signorelli, Ghirlandaio e Botticelli.
Sono gli astri emergenti della nuova pittura, quasi tutti artisti che escono dalla bottega del Verrocchio, e
dovranno decorare le pareti della nuova cappella pontificia, la Cappella Sistina. Il Magnifico coglie così
l’occasione per ricucire i rapporti con il Papa, dopo la tragica vicenda della congiura dei Pazzi, e
proiettare oltre confine il ricercato gusto della sua corte. Il Rinascimento fiorentino inizia così ad
affermarsi nel resto d’Italia. La scelta dei nomi desta il sospetto che Lorenzo abbia inviato solo gli artisti
che fanno parte della sua cerchia intellettuale, a cui Leonardo rimane sempre estraneo. Ecco perché in
questo frangente il Magnifico non ritiene che Vinci possa essere d’aiuto.
Leonardo vede premiati tutti i suoi compagni di bottega, deve essere stata una grande delusione.
Eppure, c’era da aspettarselo: Leonardo è troppo imprevedibile e ardito nelle sue opere e Lorenzo non
vuole correre il rischio di affrontare le proteste del Papa, se l’artista se ne dovesse uscire con
un’immagine troppo audace o non dovesse rispettare i tempi di consegna. Ma forse c’è anche dell’altro.
Forse non è soltanto per la sua originalità che Vinci perde l’occasione di decorare la Cappella Sistina.
Partiti i suoi colleghi per Roma, Leonardo è rimasto praticamente solo a Firenze. Chiunque l’avrebbe
considerato un colpo di fortuna: finalmente campo libero da possibili rivali, l’occasione giusta per dare
una svolta a una carriera sostanzialmente non ancora cominciata davvero. Proprio in quel momento, la
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sorte lo prende alla sprovvista. Anche lui finisce nella girandola di artisti, poeti e intellettuali che
Lorenzo de’ Medici ama inviare «in dono» ai suoi alleati. Stavolta è il suo turno, ma non riceve l’incarico
che si aspetta. Non è per un affresco o per un monumento che il Magnifico lo spedisce nel 1481 alla
corte di Ludovico Sforza. Vinci deve accompagnare uno strumento musicale: una lira in argento mai
vista prima, ispirata al teschio di un cavallo.
Non è ancora chiaro, però pare che Leonardo si sia anche occupato del disegno e della fusione di
questo oggetto improbabile.
Ma lui non si scompone e prende l’incarico come un’opportunità per rilanciare la sua attività. Chissà
quali capolavori potrà realizzare in una metropoli come Milano, grande tre volte Firenze, dove non
sono poi molti gli artisti con cui deve competere.
In realtà, il suo esordio sulla scena milanese non è proprio esplosivo. Vinci non parla nemmeno il
dialetto del luogo e malgrado l’incarico del Magnifico, l’artista fatica non poco a inserirsi nella corte
meneghina e a entrare nelle grazie di Ludovico il Moro.
Il lavoro gli arriva in maniera indiretta nel 1483, attraverso la bottega dei fratelli Evangelista e Ambrogio
de Predis, con i quali entra in società per una pala d’altare destinata alla cappella della Confraternita di
Santa Maria della Concezione, presso la chiesa di San Francesco Grande (oggi scomparsa).
Si tratta di uno dei rari casi in cui è stato ritrovato il contratto firmato dall’artista. Come sempre accade,
la confraternita entra nei minimi dettagli dell’esecuzione.
Indicazioni piuttosto precise, che però non serviranno quasi a niente. Alla fine del lavoro, Leonardo avrà
soddisfatto soltanto la richiesta del paesaggio roccioso. Per il resto, il contratto conferma la sua totale
insofferenza al rispetto della tradizione: quando può, fa di testa sua e non si adegua agli schemi imposti
dai clienti. Per lui gli accordi firmati sono una pura formalità.
La Madonna con angeli e santi ordinata dalla confraternita si trasforma in uno dei quadri più misteriosi
mai dipinti nel Quattrocento: la VERGINE DELLE ROCCE.
Invece di rappresentare una scena canonica, l’artista va a pescare un evento quasi sconosciuto e
piuttosto ambiguo, completamente diverso da quello che hanno richiesto i suoi committenti: il
misterioso incontro tra Gesù e san Giovannino nel deserto. Un episodio che non compare nella Bibbia,
ma si afferma nella storia dell’arte attraverso i Vangeli apocrifi, testi non approvati dalla Chiesa,
racconti che spesso illustrano vicende poco chiare strizzando l’occhio alla magia ed esplorando il
terreno sdrucciolevole dell’eresia.
Maria, Giovannino, Gesù e l’angelo Uriel sono uniti da un gioco circolare di sguardi e gesti in cui siamo
coinvolti anche noi spettatori. La Vergine è al centro della scena, il suo braccio destro è teso ad
abbracciare con grande tenerezza il piccolo San Giovannino che è in adorazione di Gesù, l’altro , in una
audace prospettiva della mano che si apre in un gesto protettivo sul capo del Bambino benedicente.
L’Angelo sorregge il Bambino mentre guarda un ipotetico osservatore fuori dal quadro e gli indica, con
un gesto aggraziato, il San Giovannino. Nella Vergine delle rocce, leonardo realizza una composizione
piramidale, schema che avrebbe avuto grande svilutto negli anni successivi. In esa si rendono evidenti
due delle concezioni dell’artista:
 un dipinto deve dare soprattutto la sensazione del rilievo,
 esecuzione ed investigazione del paesaggio sia pari alla conoscenza della figura umana.
-------------------Facciamo qualche passo indietro, recuperiamo le fila del discorso e torniamo ai primi anni di Leonardo a
Milano.
L’artista non è stato preceduto dalla sua fama. Il suo ingresso in città è in punta di piedi.
Vinci non è mai stato a Milano prima, ma sa bene che la metropoli sta vivendo un momento di grande
trasformazione, sotto la spinta di quell’uomo così volitivo e ambizioso. Ludovico Sforza..
L’artista decide di comporre una lettera destinata direttamente al duca, dove indica tutti i servizi che
può mettergli a disposizione.
Per non commettere errori d’ortografia e accertarsi che la scrittura sia leggibile, la detta a uno scrivano
professionista.
A scorrere quell’elenco di attività c’è da rimanere sbalorditi. Vinci dice di saper costruire «ponti
leggerissimi et forti» per superare i fossati che difendono i castelli più inespugnabili. All’occorrenza,
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può «toglier via l’acqua de fossi» in gran velocità e «ruinare omni rocca o altra fortezza». Non c’è
difesa che possa resistere alle sue invenzioni.
Ma il dettaglio più sorprendente è che le tecniche su cui si è formato per anni a Firenze, quelle che
costituiscono il suo vero lavoro, vengono soltanto accennate in fondo alla lettera: «Item conducerò in
scultura di marmore, di bronzo et di terra, similiter in pictura».
In questi anni si infittiscono i suoi disegni di strumenti e dispositivi, ai quali dedica la stessa attenzione
che aveva riservato in passato ai fiori e ai panneggi.
Come un vero ingegnere militare, l’artista analizza viti, ruote e bulloni nei minimi dettagli, ingranditi e
ripresi da tutti i punti di vista.
Il suo «carro falciante» pare uscito da un libro di mitologia antica, con gli dei al posto dei soldati.
--------------------È dal 1472 che a Milano si sta pensando a un monumento equestre per celebrare degnamente
Francesco Sforza, il duca che ha sostituito la dinastia dei Visconti a suon di tradimenti e voltafaccia,
mettendo sul trono di Milano la sua famiglia.
Solo nella primavera del 1489 un appunto di Vinci desta il sospetto che abbia iniziato a lavorare sul
monumento.
Il 28 aprile riceve un pagamento di ben 102 lire e 12 soldi, che suona proprio come un anticipo per
questa impresa impossibile.
L’artista arriva a progettare un colosso alto più di sette metri, per quasi settanta tonnellate di peso.
L’artista è costretto a tornare ben presto con i piedi per terra, anche perché dopo soli tre mesi
dall’incarico deve fare i conti con una vicenda assai spiacevole. Il 22 luglio 1489, Ludovico perde la
pazienza. Agli occhi del duca, la scultura è ancora in alto mare. Il Moro non ne può più delle sue idee
impossibili e scrive a Lorenzo il Magnifico per chiedergli di inviare subito a Milano un maestro in grado
di realizzare il monumento.
Per sua fortuna, Lorenzo non ha nessuno a disposizione, visto che il Verrocchio è morto l’anno prima,
ma il messaggio per Vinci è molto chiaro.
Prepara finalmente il modello dell’opera in argilla a dimensione naturale e mette mano all’ultima fase,
quella della fusione.
Ma i problemi non sono ancora finiti.
Al ritorno da un viaggio, nel 1494, è costretto a mettere la parola fine all’impresa del cavallo: scopre
infatti all’improvviso che il metallo destinato alla sua scultura è sparito.
Ludovico, alle prese con una guerra che coinvolge tutti gli Stati d’Europa, ha inviato quel bronzo al
suocero Ercole d’Este, per risarcire un debito a cui non può sottrarsi. Anche se è già pronto il piedistallo
che ospiterà il colosso di Leonardo, il Moro invia tutto il materiale a Ferrara via fiume. Del monumento
equestre non si parlerà più. All’artista resta solo l’amaro in bocca di un’altra cocente delusione.
-----------------Se non è adatto a costruire armi micidiali e fortezze inespugnabili, al duca Leonardo sembra
decisamente l’uomo giusto per organizzare feste e spettacoli memorabili.
Negli ultimi anni del suo soggiorno a Milano, sarà proprio questa la principale fonte di reddito per il
maestro: non i ritratti o le pitture murali, ma le scenografie che allestirà per allietare la vita mondana
della corte del Moro.
I suoi allestimenti risultano così impressionanti e magici da sollecitare i racconti di cronisti, ambasciatori
e nobili, che lasciano descrizioni precise e assolutamente coerenti tra loro.
Oltre alla meccanica e all’ingegneria, è l’anatomia ad appassionarlo in modo straordinario.
La dissezione dei corpi umani è ampiamente diffusa nelle università e nelle botteghe. Si racconta di
artisti che trafugano corpi dai cimiteri, pare che altri li comprino prima della sepoltura dalle famiglie
bisognose. L’anatomia può tingersi di toni macabri, ma nel caso di Leonardo tutto si svolge in modo
regolare: l’artista entra ed esce dagli ospedali, dove esercita questa pratica in modo ufficiale e
autorizzato.
L’artista ha imparato a sezionare i cadaveri presso la bottega del Verrocchio, dove la «notomia» era un
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esercizio frequente.
L’obiettivo del suo maestro, però, era solo quello di vedere dal vivo la forma dei muscoli e delle ossa per
poterli riprodurre fedelmente con il bronzo o con il pennello.
Leonardo va ben oltre e si appassiona al funzionamento degli organi interni, alla loro disposizione e ai
loro rapporti reciproci.
Da un interesse puramente formale, passa presto all’indagine scientifica e arriva ad accumulare una
quantità enorme di scoperte, che anticipano di secoli la moderna medicina.
L’interesse ossessivo di Leonardo per il corpo umano abbraccia subito anche la riflessione filosofica.
L’artista non si limita a descrivere ciò che osserva, ma si interroga anche sul ruolo dell’uomo
nell’universo. E’ una mente geniale, che non vede mai ostacoli e tenta sempre di andare oltre quello
che l’esperienza gli permette di vedere con gli occhi.
In questi anni fa un incontro che si rivelerà fondamentale per i suoi studi. Nel 1496 arriva a Milano Luca
Pacioli, un frate appassionato di matematica, geometria ed economia. Grazie a questo eccezionale
maestro, che dedicherà a Ludovico il Moro il suo trattato “De divina proporzione”, Vinci si accosta alla
ricerca scientifica con uno sguardo più intellettuale.
Il cosiddetto UOMO VITRUVIANO è la prova di questo nuovo atteggiamento di Leonardo verso la
scienza.
Nel celebre disegno, che nasce all’interno dei suoi studi di anatomia e medicina, un uomo compare
all’interno di un cerchio e di un quadrato. L’idea che il corpo umano potesse iscriversi in un cerchio e in
un quadrato era già stata formulata da Vitruvio nel terzo capitolo del suo trattato “De Architectura”,
una sorta di bibbia per progettisti, che gli artisti riscoprono alla fine del Trecento.
L’obiettivo dell’artista è quello di dimostrare che un essere umano si può iscrivere perfettamente sia in
un cerchio sia in un quadrato, le forme più semplici alla base della geometria euclidea. Nel primo caso,
il centro della circonferenza corrisponde all’ombelico, nel secondo rimane poco sopra il bacino. Oggi è
difficile crederlo, ma questo disegno all’epoca è assolutamente rivoluzionario e inaugura un nuovo
sguardo sul mondo. Vitruvio sostiene che nell’uomo esiste un ordine geometrico, matematico e
proporzionale.
Anche le dimensioni di piante, fiori, alberi e montagne rispettano questa unità di misura, che è alla base
della grandezza di ogni creatura vivente perfetta.
L’Uomo vitruviano non sfugge a questa regola, ma permette a Leonardo di giungere alla conclusione
che un corpo umano può iscriversi contemporaneamente sia all’interno di un cerchio sia all’interno di
un quadrato.
A quel tempo, le due figure geometriche indicano rispettivamente il cielo e la terra: insieme
rappresentano l’universo. L’uomo entra perfettamente dentro entrambe. Ne costituisce il centro.
Questa dimostrazione ha una portata dirompente. Non più Dio, ma l’uomo è il centro del mondo. Un
cambio di prospettiva totale rispetto al Medioevo.
Ecco perché ancora oggi questo disegno è considerato l’icona del Rinascimento. Ne rappresenta il
ritratto perfetto.
-----------------“Non usare mai fare la testa volta dov’è il petto”: ecco uno dei precetti più famosi contenuto nel suo
“Trattato della pittura”. Leonardo segue questa indicazione quando mette mano al progetto della
“DAMA CON L’ERMELLINO” che realizza intorno al 1490.
Il busto della ragazza è girato verso destra mentre il suo volto guarda a sinistra, un dettaglio che può
sembrare di poco conto ma ha un effetto dirompente sui ritratti che verranno realizzati in Italia da quel
momento in poi. Se si pensa che i dignitari di corte e le loro mogli venivano ancora dipinti soprattutto di
profilo, come gli imperatori dell’antichità, si può avere una percezione migliore della portata
rivoluzionaria di questa immagine. L’animale dalla candida pelliccia è un riferimento diretto al duca
Ludovico, che di recente è entrato nell’Ordine dell’Ermellino.
Ormai non esistono praticamente dubbi che la dama sia Cecilia Gallerani, entrata nelle grazie del duca
intorno al 1489. Della ragazza, all’epoca diciassettenne ma già vedova, si raccontano storie eccezionali:
colta, raffinata, bellissima, diviene il soggetto preferito dei poeti di corte che ne celebrano la grazia e
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l’intelligenza. Nel giro di pochi anni diventa la vera e propria rivale della consorte del duca, Beatrice
d’Este.
All’artista non basta più saper mettere le luci giuste, dipingere le parti di una figura umana e rispettarne
le proporzioni. Scrive in quegli anni: “Il bono pittore ha a dipingere due cosa principali, cioè l’omo e il
concetto della mente sua. Il primo è facile, il secondo difficile, perché s’ha a figurare con gesti e
movimenti delle membra”.
Il lavoro di Leonardo ha prima di tutto assimilato la lezione di Antonello da Messina, che nel 1476 passa
per Milano. E’ lui ad avere diffuso in Italia la tradizione fiamminga del ritratto a mezzo busto su sfondo
nero, che concentra il suo sguardo sullo spettatore e non offre distrazioni. Ma ciò che manca ai
capolavori di Antonello è “il movimento delle membra”, la reazione a un evento che coinvolge la figura
dipinta e la rende viva.
La “Dama con l’ermellino” non è semplicemente un omaggio all’ineffabile bellezza di una donna. E’ il
primo fermo immagine della storia dell’arte.
Sopra la testa della “Dama con l’ermellino” appare oggi una scritta: La bele feroniere, ma in realtà è un
altro il dipinto noto con questo nome “La belle feroniere”, un celebre ritratto conservato oggi al
Louvre.
Entrambi i dipinti di dame sono stati realizzati senza alcun dubbio presso la corte di Ludovico Sforza; lo
rivelano soprattutto gli abiti che seguono la moda spagnola diffusa allora nel ducato lombardo.
Come spiegare allora lo strano legame tra questo titolo e le due opere? Si tratta di un semplice errore di
catalogazione, avvenuto nel Settecento quando si è frettolosamente attribuito il titolo ad un’opera
diversa.
----------------------Non è difficile immaginare che nel giro di pochi anni, dopo queste eccezionali prove di talento, Leonardo
diventi uno degli artisti più richiesti d’Europa.
Quando, nell’estate 1499, l’esercito francese entra a Milano e Ludovico il Moro fugge a Innsbruck,
Leonardo non sembra particolarmente preoccupato per il proprio destino. E’ stato il regista di tutte le
cerimonie pubbliche degli Sforza, ma non teme alcuna condanna da parte di Luigi XII. Sa bene che il re
di Francia lo stima profondamente, soprattutto dopo avere visto quel capolavoro del Cenacolo, che ha
concluso l’anno prima.
Quando ormai l’impresa del monumento equestre a Francesco Sforza sembra tramontata, arriva un
incarico del tutto inaspettato: la decorazione di una parete enorme nel refettorio del Convento
domenicano di Santa Maria delle Grazie. E’ il 1495 e Leonardo accetta di correre un rischio davvero
alto, perché in realtà non ha mai dipinto su muro. Ma questa è l’occasione tanto ambita per lasciare a
Milano il segno del suo passaggio.
Come accade ormai da secoli nei conventi, il refettorio ospiterà una rappresentazione dell’Ultima cena.
Questa rappresentazione di Leonardo, quaranta metri quadrati di totale innovazione, gli faranno
guadagnare l’ammirazione di mezza Europa.
L’artista coglie l’occasione per mettere a frutto tutti gli studi e gli esperimenti che ha condotto in quegli
anni. Dall’anatomia alla prospettiva, dalla ricerca sulla luce alla fisiognomica, dal realismo lenticolare
allo sfumato, l’ULTIMA CENA è il suo vero capolavoro, l’opportunità per far convergere in un luogo solo
tutte le strade che ha percorso in quasi un ventennio di attività.
Il lavoro sulla parete del refettorio procede alla giornata. Leonardo passa da momenti di impegno
furioso, in cui si concentra tanto da scordarsi anche di mangiare, a lunghi periodi in cui non si fa vivo,
perché magari è alle prese con altri folli esperimenti che assorbono la sua attenzione.
La sua Ultima cena non è un affresco. Leonardo, che adora sperimentare soluzioni sempre nuove, sa
che quella tecnica non fa per lui. Per dipingere “a fresco”, il lavoro va programmato con molta
precisione. L’affresco non permette ripensamenti, richiede un metodo e un ritmo che Vinci non può
sopportare.
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La scelta cade allora su un tipo di tempera piuttosto sperimentale, in cui il pigmento viene sciolto nella
chiara d’uovo con un’aggiunta di olio, per dare alla materia lucentezza e maggiore aderenza alla
superficie ruvida del muro. Gli esperti la chiamano “tempera grassa”. Un colore che si secca presto e si
può stendere uno strato sopra l’altro: una tecnica che permette a Leonardo di raggiungere quei livelli di
sfumatura e vibrazione del colore che ama dipingere.
Pare che Leonardo non abbia fatto grande uso dei cartoni preparatori, infatti in occasione dell’ultimo
restauro del 1999, durato 17 anni, sono emerse tracce della sinopia, il disegno preparatorio tracciato
direttamente sul muro.
Per tenersi al riparo da possibili contestazioni, Leonardo conserva l’impronta tradizionale dell’Ultima
cena, così come i monaci e il duca sono abituati a vederla. Ecco la tavola apparecchiata, la sala
decorata, gli apostoli ai lati di Cristo che come sempre siede al centro della scena. Eppure, a ben
guardare, questo Cenacolo è completamente rinnovato. Figura dopo figura, di dettaglio in dettaglio,
una pennellata sopra l’altra, il maestro ha messo a soqquadro l’iconografia tradizionale e ha costruito
un’immagine che si impone come il nuovo modello a cui si ispireranno tutti i pittori a venire.
Si concentra prima di tutto sugli apostoli e cerca per ciascuno il gesto che possa raccontare il suo stato
d’animo. Ogni discepolo è diverso dall’altro, si muove in uno spazio autonomo e dialoga con i compagni.
Leonardo, abituato a lavorare con decine di attori e ballerini che gestisce nei suoi spettacoli, mette in
scena una vera e propria coreografia, in cui gli apostoli sono raccolti a gruppi di tre. Concentrandosi sui
loro volti e sulle pose delle loro mani, costruisce un movimento fluido e naturale.
Il Vangelo racconta che alle parole di Gesù ”i discepoli si guardarono gli uni gli altri”: è la prima volta
che accade veramente in un dipinto.
All’estrema sinistra, Bartolomeo è scattato in piedi e fissa Cristo per capire se ha sentito bene, Giacomo
minore bussa alla schiena di Pietro, mentre Andrea alza le mani per dichiarare di essere
completamente all’oscuro della faccenda. La loro reazione è tutto sommato equilibrata al confronto
degli altri tre apostoli subito accanto. Pietro sussurra all’orecchio di Giovanni ed è qui che Leonardo si
prende il primo piccolo rischio: l’amato apostolo non è appoggiato al petto del maestro, ma se ne
allontana. Con questa scelta scatenerà un putiferio di ipotesi e supposizioni nei secoli futuri. In realtà,
probabilmente vuole soltanto liberare la figura di Cristo e lasciarle intorno lo spazio utile a esaltarne la
presenza.
Guardando i volti di Pietro e Giovanni, così vicini e così diversi, torna alla mente la teoria che Vinci ha
applicato più volte in passato, quella secondo la quale l’accostamento dei contrari provoca un effetto
maggiore nello spettatore. I due apostoli appartengono a due mondi opposti, impetuoso l’uno e docile
l’altro. La mano di Pietro agguanta il coltello, ma stavolta non vuole usarlo per tagliare il pane: è pronto
a scagliarsi sul traditore. In fondo, nel giro di poche ore, proprio Pietro non resisterà a un impeto d’ira e
per difendere Gesù staccherà l’orecchio del servo del gran sacerdote nell’orto degli ulivi.
Accanto a Pietro e Giovanni compare Giuda. Non più dall’altra parte del tavolo, il traditore fa perdere le
sue tracce tra i volti dei compagni. Per renderlo riconoscibile agli occhi dei frati, Leonardo lo mette in
ombra per tenerlo separato: il suo è l’unico volto non colpito dalla luce della Grazia divina che
abbraccia tutti gli altri. E’ immerso nel peccato. Non solo, ma sta per prendere il boccone offerto da
Gesù con la mano sinistra: è mancino, come Leonardo, quanto di più diabolico possa esserci all’epoca
in un uomo.
Sul lato opposto della tavola compare la reazione di altri tre apostoli, che saltano quasi sulla sedia.
Giacomo maggiore spalanca le braccia. Filippo guarda Cristo. A Tommaso spetta il gesto di puntare il
dito verso il cielo, la posa si addice perfettamente al discepolo che con quel dito tra pochi giorni
cercherà di verificare se Gesù è davvero risorto.
Meno sconvolti sono gli ultimi tre, Matteo, Giuda Taddeo e Simone. E’ come se da quel punto del
tavolo non avessero capito bene le parole di Gesù e si stessero consultando per trovare una risposta
alle loro domande. Sui loro volti non compare il terrore degli altri ma piuttosto il dubbio.
I due gruppi più vicini a Cristo sembrano più inquieti di quelli alle estremità della tavola. Non è un caso:
pare che Vinci abbia voluto simulare con la loro reazione a catena l’effetto della diffusione del suono:
Le parole di Gesù sono giunte nitide agli apostoli più vicini, che reagiscono all’istante. Ai lati della scena,
invece, la notizia si è persa, il suono è arrivato più debole e c’è bisogno di un chiarimento.
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Sulla parete del Convento delle Grazie, Leonardo ha allestito un altro dei suoi celebri spettacoli teatrali:
il controllo rigoroso sui gesti degli apostoli non toglie nulla alla loro spontaneità. L’artista ha creato uno
spazio scenico perfetto, dove Cristo esercita un potere di attrazione irresistibile. Il suo ruolo non si basa
solo sul racconto, ma soprattutto sulla posizione. Il centro della sua fronte è il punto dove si incontrano
le linee della prospettiva su cui è costruito l’intero Cenacolo.
Gesù è il fulcro ideale e concreto di questa storia. Chi osserva l’opera dal centro del refettorio ha la
netta sensazione di trovarsi di fronte ad un palcoscenico profondo, dove si è appena consumata la
sconvolgente rivelazione del tradimento.
Non è stato facile per Leonardo inventare i volti degli apostoli. I documenti del tempo, i suoi testi e gli
schizzi che ci sono pervenuti dimostrano che per tre anni l’artista si è avventurato nell’osservazione
diretta di espressioni e dettagli: in più fogli compaiono indicazioni che ci rivelano una ricerca costante di
visi e corpi interessanti.
----------------Leonardo non fa in tempo a godersi riconoscimenti e lusinghe da parte di nobili e signori, che la beffa lo
attende dietro l’angolo. Il “Cenacolo” comincia a dare ben presto segni di cedimento. Nel giro di pochi
anni, la brillante tecnica da lui escogitata si rivela molto instabile e il colore inizia a cambiare tonalità e
a scomparire sotto l’effetto dell’umidità. I muri dell’edificio trasudano acqua e gonfiano la tempera stesa
dall’artista a secco.
Nel 1566, quando lo vede, Vasari racconta che l’opera è ormai l’ombra di se stessa.
L’opera fu restaurata e ridipinta completamente diverse volte.
Danneggiato dalle pessime condizioni ambientali e conservative, dalle truppe napoleoniche che alla fine
del Settecento si accamparono nel refettorio e dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, il
capolavoro leonardesco è stato oggetto di un lungo intervento di restauro, eseguito tre il 1978 e il
1999, che ha riportato alla luce i colori chiarissimi, i lineamenti originali dei volti ma senza riuscire a
ripristinare lo stato originale del dipinto, irrimediabilmente compromesso.
L’idillio di Leonardo con la città di Milano dura non più di dieci anni. Subito dopo il completamento
dell’Ultima cena, Ludovico il Moro è travolto dall’invasione delle truppe francesi e deve riparare ad
Innsbruck.
Anche l’artista lascia Milano alla ricerca di una nuova realtà dove trovare lo spazio che ora pensa di
meritare. Dopo quasi vent’anni passati in Lombardia, Leonardo ha accumulato una serie di competenze
che possono far gola a molte città d’Europa.
Dopo una breve sosta presso Mantova, giunge a Venezia nel 1500 dove, probabilmente incontra anche
Giorgione che subisce il fascino della sua luce e del suo “sfumato”.
Viene spedito, dai senatori della Serenissima, in missione sul fiume Isonzo per verificare la possibilità di
costruire un sistema difensivo contro la minaccia turca, ma si accorge ben presto che la concorrenza
degli ingegneri locali è molto agguerrita, così come quella dei pittori, che godono di una salda e
apprezzata tradizione.
---------------------La soluzione migliore in questo momento è quella di tornare a casa, a Firenze, la città da cui si è
allontanato con qualche rimpianto e dove forse adesso potrà rientrare dalla porta principale.
Qui ottiene subito un incarico dai monaci Serviti: dipingere la pala da collocare sull’altare maggiore
della chiesa. Leonardo, in questo periodo è molto interessato allo studio della geometria, matematica
ed ingegneria e si dimostra poco attivo nell’esecuzione dell’opera che gli è stata commissionata. Infatti,
per l’ennesima volta, non porterà a termine la pala per i Serviti, limitandosi a disegnarne un bozzetto.
Ma non un bozzetto qualsiasi. Il più bel cartone che sia mai stato dipinto e la città se ne accorge subito.
Gli studiosi non sono ancora riusciti ad individuare quest’opera, che sembra scomparsa nel nulla, al suo
posto ci è giunto un altro splendido cartone: SANT’ANNA, LA VERGINE, IL BAMBINO E SAN
GIOVANNINO .
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Un’intima scena famigliare: al centro della composizione Sant’Anna guarda la figlia puntando
allusivamente l’indice verso il cielo ricordando alla figlia che il supremo sacrificio sarà necessario per
salvare gli uomini dal peccato; la Vergine le è seduta in grembo e a sua volta contempla il piccolo Gesù;
trattenuto dalle braccia della madre, questi è tutto proteso verso san Giovannino nell’atto di benedirlo,
mentre il santo fanciullo è rivolto verso il Bambino a chiudere il cerchio di gesti e sguardi.
Un gioco di gesti incrociati in cui la fede si scontra con il sentimento materno: un contrasto di emozioni
mai visti prima: la Madonna guarda il Bambino con una dolcezza infinita mentre la madre la ammonisce
con uno sguardo severo, gli occhi spalancati e la mano che indica il cielo. Ancora quel dito: ormai è una
firma di Leonardo.
--------------------Appena tornato nella sua città, nel 1503 Leonardo registra l’acquisto di una nuova montatura per i suoi
occhiali, gli appunti di questo periodo sono ricchi di informazioni che fanno luce sulla sua vita
quotidiana, sulle sue condizioni di salute, sulla sua dieta vegetariana e sulle sue preoccupazioni.
Un giorno trascrive la spesa di 6 soldi ”per la ventura”: è andato da una chiromante a farsi leggere il
futuro… E’ di nuovo in difficoltà e non sa davvero a chi affidarsi, in momenti duri come questo vacillano
anche le sue più solide certezze.
E’ pronto a gettarsi in qualsiasi progetto, tra cui l’assurda idea di convincere la Repubblica fiorentina a
deviare l’Arno per lasciare a secco Pisa e metterla in ginocchio. I lavori partono davvero, ma ben presto
l’impresa si rivela troppo costosa. Un’altra chimera leonardesca che viene subito abbandonata. In
fondo, nessuno di questi piani d’ingegneria militare ha prodotto qualcosa di concreto e duraturo, né a
Milano né in Romagna né a Venezia. Si sono risolti tutti in puri esercizi della mente. Raffinati, complessi
e innovativi, ma irrealizzabili perché forse troppo avanti con i tempi.
Proprio quando sembra che le cose si stiano mettendo di nuovo male per lui, la sorte gli riserva un altro
incarico straordinario.
---------------------Il 4 maggio 1504 viene dato l’incarico a Leonardo di eseguire un affresco nella Sala del Gran Consiglio
di Palazzo Vecchio. Il Gran Consiglio è il supremo organo di governo della città, composto da
cinquecento cittadini che possono vantare tra i propri antenati alcuni membri di importanti istituzioni
repubblicane. Le pareti del salone dovranno raccontare una scena che esalti l’orgoglio fiorentino e
susciti un sussulto di patriottismo nei cittadini. La scelta cade su un episodio significativo della storia
recente di Firenze, la BATTAGLIA DI ANGHIARI: il 29 giugno 1440 l’esercito fiorentino ha rispedito al
mittente la minaccia delle truppe milanesi, che hanno dovuto riparare a Sansepolcro.
Sarà Vinci a raccontare questa favolosa vittoria con un dipinto monumentale, grande tre volte il
Cenacolo. Ma la battaglia di Leonardo celebrerà davvero poco l’eroismo fiorentino e si tradurrà
piuttosto in una condanna della guerra “pazzia bestialissima”.
Il progetto l’ha entusiasmato in modo eccezionale: ha finalmente l’occasione per rifarsi delle tante
delusioni che ha dovuto subire nella sua città.
Se Leonardo si permetterà di consegnare il cartone oltre il mese di febbraio 1505, sarà costretto a
restituire l’intera somma ricevuta (15 fiorini al mese) e a consegnare comunque il lavoro realizzato fino
a quel momento. Non deve nemmeno sottoporre il cartone all’approvazione preliminare dei
committenti: è libero di inventare ciò che vuole. L’importante è che l’opera non si interrompa.
Raccomandazioni velleitarie che cadranno nel vuoto.
Memore delle precarie condizioni in cui s’è ridotto il Cenacolo, che già mostra segni di cedimento dopo
nemmeno 10 anni, Leonardo escogita una nuova tecnica che possa evitargli di utilizzare l’affresco. A
Palazzo Vecchio arrivano cavalletti, assi per tenere il cartone dritto, gesso, pece, olio di lino, biacca,
vasetti di colori: tutti questi ingredienti serviranno a comporre lo stucco su cui Vinci dipingerà la sua
scena. Terminato il dipinto, Leonardo pensa di asciugare lo stucco accostando alla parete degli enormi
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bracieri, che cuoceranno la pece fissando per sempre il colore.
Ancora una volta, Vinci si imbarca in un’impresa senza calcolare tutti gli imprevisti. Conclusa la parte
centrale del dipinto, passa all’uso dei bracieri e combina un disastro colossale. Lo stucco reagisce in
modo diverso a seconda della distanza dal calore…la Battaglia di Anghiari si scioglie di fronte ai suoi
occhi come una parete di cera.
Deluso dall’ennesimo fallimento, Leonardo molla tutto, è un uomo orgoglioso e non accetta di tornare
sui suoi passi.
Sulla base di schizzi ritrovati sui fogli di Leonardo. L’immagine completa vedeva ai due lati gruppi di
cavalieri pronti a sferrare l’attacco e nel mezzo, vicino al ponte sul Tevere, l’accesissimo scontro per il
furto dello stendardo. L’unica zona che è stata completata.
Di fronte a questo vortice di gambe, braccia e volti sfigurati dalla rabbia, Vasari coglie un dettaglio
straordinario, per la prima volta, gli animali non sembrano figure buone solo a dimostrare la bravura del
pittore nel disegno anatomico, ma partecipano attivamente allo scontro. Animali e uomini condividono
le stesse emozioni, sono fusi gli uni negli altri come terribili centauri.
Suo malgrado, quest’opera diventa leggendaria e attrae ammiratori e artisti da tutta Europa.
Benvenuto Cellini (1500-1571) arriverà a chiamarlo “la scuola del mondo”. Considerato com’era
andata, l’opera avrebbe potuto sancire la definitiva chiusura della carriera di Leonardo. E invece lo
trasforma in un vero e proprio mito.
--------------------Nella stessa Sala del Gran Consiglio, Michelangelo lavora al progetto di uno scontro avvenuto a Cascina
tra fiorentini e pisani nel 1364. Il paragone tra i due lavori e davvero interessante e stimolante. Vinci e
Buonarroti rappresentano due facce della medesima avanguardia. Da una parte Leonardo cerca di
svelare il segreto delle emozioni, anche le più bestiali e profonde, con l’invenzione di espressioni e
movimenti innovativi, dall’altra Michelangelo si concentra sulla costruzione di corpi imponenti che
esprimono stupore e terrore occupando lo spazio con i loro gesti meravigliosi. Sono il segno che il gusto
lineare e decorativo del Quattrocento è ormai al tramonto, sconvolto dall’energia che sgorga da queste
figure autentiche e possenti. Raffaello, che si troverà a Firenze proprio in questi anni, sarà travolto da
questo vortice di novità e sommerà nelle sue opere giovanili l’emozione di Vinci e l’alta tensione di
Buonarroti. Una nuova era è alle porte.
--------------------------Entrambe le battaglie di Palazzo Vecchio non vedranno la luce. Anche Michelangelo rinuncerà a
dipingere la sua scena, appena sarà chiamato a Roma da Papa Giulio II per la realizzazione della sua
tomba. La parte che Leonardo riesce a salvare della sua opera resta sul muro per circa cinquant’anni
fino a quando, nel 1563, viene affidata a Giorgio Vasari la ristrutturazione di Palazzo vecchio. Le pareti
della sala vengono affrescate con nuove scene di guerra e la Battaglia di Marciano nasconde proprio
l’opera di Leonardo. Su una delle bandiere verdi che campeggia all’interno della scena, compare una
scritta “CERCA TROVA” che, secondo alcuni studiosi è stata interpretata come un messaggio in codice
del Vasari che invita a cercare il capolavoro di Leonardo proprio sotto il suo affresco. Sono state infilate
sonde sottilissime sotto la pittura del Vasari e sono state estratte polveri colorate che potrebbero essere
ricondotte al lavoro di Leonardo.
--------------------------Nonostante le difficoltà incontrate nella Battaglia di Anghiari , Leonardo trova il tempo di dipingere il
ritratto di dama più misterioso della storia. Molte sono le ricostruzioni, quella che segue è la più
accreditata: secondo Vasari, l’incarico arriva all’artista da Francesco del Giocondo, ricco commerciante
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non lontano dallo studio notarile di Ser Piero da Vinci (padre di Leonardo). Il mercante ordina un
ritratto della sua terza moglie, Lisa Gherardini, che da poco gli ha dato un figlio. Leonardo abbozza il
quadro a Firenze, ma non lo consegnerà mai al legittimo proprietario: lo terrà con sé ritoccandolo più
volte nel corso degli anni seguenti. Mai come nel caso della Gioconda è obbligatorio conservare il
beneficio del dubbio, intorno a questo celebre dipinto si muovono da secoli una serie di documenti,
testimonianze e interpretazioni che si contraddicono a vicenda, tanto che ancora oggi non esiste alcuna
certezza sul periodo in cui Leonardo abbia dipinto questo ritratto, sull’identità della donna e sul suo
reale aspetto.
Oggi sono almeno una decina le identità attribuite a questa dama, tutte più o meno plausibili ma è
forte il sospetto che la donna raffigurata da Leonardo non sia nessuna di queste dame. In realtà non
esiste ancora una versione dei fatti che sia riuscita ad imporsi sulle altre. Qualcuno ha sospettato che si
tratti del ritratto di Caterina, la madre che Leonardo ha ritrovato soltanto in età adulta a Milano. C’è chi
ha addirittura ipotizzato che la donna non sia altro che il suo autoritratto, magistralmente dissimulato
tra delicati lineamenti femminili.
Qualunque sia il volto che ha ispirato questo dipinto, di sicuro non assomiglia più all’originale, perché
Vinci ha lavorato in modo così maniacale a ogni suo dettaglio da allontanarlo completamente dalla
forma iniziale. L’ipotesi più credibile è che sia partito dalla fisionomia di una persona reale ma a poco a
poco l’abbia trasformata in un ritratto ideale, si cui sperimentare una nuova proporzione, un gioco di
luci innovativo, un’ambientazione e un’espressione che fanno subito scuola. La riflettografia del dipinto
mostra infatti che all’inizio Leonardo ha immaginato un volto più smagrito, uno sguardo più severo e
una bocca senza sorriso. Tratti che poi addolcisce attraverso leggeri passaggi di pennello, che sfumano i
contorni del viso, gli occhi e soprattutto i lati della bocca. L’espressione magnetica di questa donna è il
frutto di un lavoro lungo e accurato, portato avanti con pazienza e attenzione grazie all’uso di strumenti
sottilissimi. Leonardo utilizza un colore sempre più impastato d’olio per ottenere un’atmosfera soffusa e
sospesa. Quasi lunare.
La luce che si posa sulle guance e sul petto della Gioconda è quella della sera, “quando è nuvolo o
nebbia”: l’ora migliore per dipingere un ritratto, secondo l’artista. Vinci costruisce una luminosità
irreale che sfiora il corpo della donna e il paesaggio, perfettamente fusi in una sola atmosfera. Non ha
più bisogno di collocare il volto di fronte a un muro nero per farlo emergere, come faceva nelle sue
prime Madonne, né insiste troppo sulla torsione del corpo e sull’invenzione di una reazione improvvisa,
come nella Dama con l’ermellino. La Monna Lisa è quasi immobile, autorevole, regale. Si impone al
centro della scena con la fermezza spontanea che nessun’altra dama dell’epoca sa esprimere. E’
sottomessa e seducente allo stesso tempo. Per non farla apparire troppo statica, Leonardo insinua un
sottile fremito nelle mani, che raccontano il suo carattere virtuoso e sereno. Una stringe con una lieve
pressione il bracciolo della sedia in primo piano, l’altra si posa sul polso sinistro sollevando leggermente
il dito indice. La Gioconda è un capolavoro giocato su una serie di dettagli impercettibili.
Il paesaggio che si apre alle sue spalle è una spettacolare veduta a volo d’uccello nella quale Vinci
annida alcuni trucchi del mestiere. Del parapetto che separa la figura dallo sfondo si intravedono solo
piccoli frammenti. In un sapiente gioco di prospettive, l’artista riesce a creare l’illusione di un paesaggio
unico, mentre in realtà, a ben guardare, la valle che si apre a destra non coincide affatto con l’orizzonte
di quella di sinistra. Leonardo ha utilizzato gli schizzi di due vedute diverse e li ha collocati ai lati della
donna. L’artista ha sfruttato la grande quantità di appunti che ha accumulato nel corso della sua vita,
selezionando due prospettive a volo d’uccello che creano l’illusione di uno spazio coerente. In questo
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modo è riuscito a esaltare il volume della figura, a imporre la sua presenza nello spazio e a fondere più
intensamente i piani.
-----------------------------Secondo il noto storico dell’arte Federico Zeri, l’inquietudine generata dall’opera è attribuibile anche alle
precarie condizioni del colore, la dama forse non sta sorridendo davvero, perché la sua espressione è
oggi nascosta dagli strati di vernice aggiunti negli interventi di restauro che l’hanno stravolta nel corso
dei secoli. Vasari definisce il sorriso della Gioconda “ghigno”.
Il quadro di Leonardo segna una vera svolta nella tradizione del ritratto femminile. D’ora in poi si
guarderà sempre alla Gioconda per progettare il taglio, la posa e lo sguardo di una donna. Nessuno
però riuscirà più a imitare la sua espressione, che la trasformerà in un mito irraggiungibile. Per secoli
scrittori, intellettuali e pittori registreranno la loro profonda ammirazione per il dipinto, che resta nella
collezione privata dei reali di Francia per poi finire nella camera da letto di Napoleone. Solo quando
rientra al Louvre, dopo il 1815, l’opera diventa un’icona di mistero e bellezza, soprattutto grazie
all’attenzione di scrittori come Baudelaire. L’attenzione da parte degli artisti e del pubblico nei confronti
di questo dipinto cresce in modo esponenziale di anno in anno. Ma i conservatori del Louvre non
pensano ancora a darle un posto d’onore. Nel museo è esposta tra gli altri quadri del Rinascimento
italiano.
Tutto cambia dopo un evento imprevisto. E’ il 21 agosto 1911: un lunedì. Il museo rispetta il suo giorno
di chiusura settimanale. Alla fine della giornata una scoperta clamorosa: i custodi si accorgono che al
posto della Gioconda è rimasto soltanto un chiodo. L’opera è stata rubata. Il furto desta
immediatamente un’attenzione straordinaria e conquista tutte le prime pagine dei giornali. Il museo
resta chiuso per una settimana nella speranza di ritrovare l’opera nel giro di pochi giorni. Il dipinto di
Leonardo comincia a occupare un posto sempre più importante nell’immaginario collettivo, diventa un
vero e proprio oggetto del desiderio: il capolavoro che nessuno potrà mai più rivedere. Due anni dopo a
Firenze il colpo di scena. L’antiquario Alfredo Geri viene contattato da un umile imbianchino che gli
annuncia di avere con sé la Gioconda. All’inizio l’esperto non gli crede, non sarebbe la prima volta che
un mitomane millanta di possedere l’originale del quadro. Ma stavolta le cose vanno diversamente.
L’imbianchino racconta di avere staccato la tavola dalla parete del museo e di averla portata via
nascosta sotto la giacca, indisturbato. Il suo scopo è quello di restituirla all’Italia. Geri e il direttore degli
Uffizi arrivano alla conclusione che il dipinto è proprio l’originale e quindi fanno arrestare l’imbianchino
e restituiscono l’opera al Louvre. La Gioconda torna a casa dopo due tappe a Roma e Milano, dove
viene ammirata da migliaia di persone. Da quel momento la fama del dipinto non si arresterà più: quel
volto diventa in breve tempo l’opera d’arte più conosciuta al mondo.
Nel giro di pochi anni, la Monna Lisa diventa un’icona che ispira il lavoro degli artisti contemporanei più
all’avanguardia. Duchamp le mette i baffi e il pizzetto per dissacrarla e mettere in ridicolo gli estimatori
superficiali e ignoranti attaccati alle apparenze ed alle convenzioni, Dalì mescola il proprio volto con
quello della donna trasformandola in un mostro inquietante, Andy Warhol la stampa infinite volte in
tanti colori diversi sulle sue celebri serigrafie perché , per lui, la Gioconda non è più un quadro originale
ma un’immagine talmente evocativa e conosciuta da meritare di essere ripetuta in serie, come un
qualsiasi prodotto da supermercato. In effetti oggi appare stampata su magliette, tazze, borse, il suo
volto si presta a qualsiasi manipolazione pubblicitaria, il suo sorriso attrae l’attenzione delle persone ad
ogni latitudine. Questa moltiplicazione forsennata della sua immagine l’ha quasi privata della sua vera
identità. E’ diventata un’icona, adatta a qualsiasi contesto. In fondo, a distanza di cinque secoli,
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Leonardo ha raggiunto il suo obiettivo: trasformare il viso di una donna realmente esistita in una figura
ideale, senza nome né storia. Un mito assoluto.
----------------------Fin da giovanissimo, Leonardo ama perdersi nella campagna toscana, esplorare l’Appennino e poi le
valli lombarde per riprodurle negli sfondi dei suoi dipinti. E’ durante queste passeggiate che ha raccolto
i paesaggi che appaiono alle spalle della Gioconda. Nel mazzo di queste sue esplorazioni è spesso rapito
dall’osservazione del volo degli uccelli, che traduce più volte in splendidi disegni. Un movimento che
studierà con stupore ed entusiasmo per tutta la vita. Ben presto Vinci matura l’illusione che anche
l’uomo possa godere della stessa libertà dei volatili. Accanto agli strumenti per governare il flusso
dell’acqua o la diffusione della luce, l’artista si dedica alla progettazione di una macchina per far volare
l’essere umano, imitando gli uccelli.
Pare che l’occasione per confrontarsi con questo prodigioso congegno gli si presenti per la prima volta a
Firenze, quando nella bottega del Verrocchio costruisce alcune macchine sceniche per permettere agli
angeli di librarsi nell’aria durante le rappresentazioni religiose in piazza. Le prime ali che compaiono sui
fogli di Leonardo si muovono grazie all’uso di manovelle e perni sistemati in complicate combinazioni,
ma non servono ancora a sollevare un uomo nel vuoto. Sono una pura finzione teatrale. E’ solo qualche
anno dopo che arriva a concepire una vera e propria macchina volante, quando a Milano approfondisce
lo studio delle proporzioni del corpo umano e l’anatomia degli uccelli e soprattutto la perfetta struttura
delle ali dei pipistrelli. Allestisce una sorta di laboratorio d’aviazione all’interno della Corte Vecchia,
dove pensa a librarsi nel vuoto gettandosi da una torre del palazzo, al riparo da sguardi indiscreti. Ben
presto, però, si rende conto che le braccia di un uomo, anche se collegate ad enormi ali di legno, corda
e tessuto, non riescono a produrre la spinta necessaria a sollevare il suo peso. E’ a questo punto che
l’artista immagina un “vascello volante”, dove l’uomo aziona quattro ali montate su pale che
reagiscono alla spinta prodotta sia dalle braccia sia dalle gambe. Ma anche questo si rivela uno
strumento precario e troppo complesso, che Leonardo abbandona subito. Gli viene allora in mente di
abbracciare un metodo completamente diverso: sfruttare la consistenza dell’aria per volare “senza
batter d’ali, a favor di vento”. Escogita così uno strumento molto simile al deltaplano, in cui l’uomo
vola dall’alto di un monte fino a valle disteso sotto una membrana gigantesca. E’ molto probabile che
Leonardo costruisca davvero questa macchina e la sperimenti con un lancio di Tommaso Masini, suo
giovane collaboratore, dal Monte Ceceri, un’altura nei pressi di Fiesole. In realtà pare che il pilota faccia
una brutta fine e si rompa le ossa… dimostrando a Vinci che l’uomo non è pronto a volare.
------------------------------------Più della Gioconda, è l’impresa di Palazzo Vecchio, anche se fallita, ad accrescere la fama di Leonardo.
L’artista è sempre più conteso dalle corti più importanti d’Europa. La sua indolenza, il ritmo irregolare
con cui porta avanti i progetti, le continue distrazioni che lo spostano da un impegno all’altro non
spaventano i potenziali clienti, convinti che ogni suo gesto produca sempre un capolavoro.
Con queste premesse, Leonardo, riceve una provvidenziale convocazione da Milano. Charles
d’Amboise, il luogotenente del governo francese, lo invita a tornate in Lombardia, da dove era partito in
fretta e furia sette anni prima. A Milano fioccano per lui gli incarichi di Amboise, che non ha intenzione
di restituire il pittore alla sua città natale, Firenze. Ogni trasferimento da una città all’altra è, per
Leonardo, una vera impresa: registra accuratamente le spese per il trasporto di oggetti, libri, fogli e
anche opere non concluse. A Milano porta con sé diverse tavole e cartoni. Anche la “VERGINE CON
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SANT’ANNA E IL BAMBINO”. Sant’Anna, che supera con la testa l’altezza delle montagne in lontananza,
è una figura imponente e governa l’intera azione. Anna e Maria sembrano coetanee. L’artista in realtà
sta rappresentando figure ideali, ma usa un trucco magistrale per distinguere l’età delle due donne. Il
volto di Anna è immerso nell’ombra, mentre quello di Maria sembra quasi emettere luce propria. Grazie
al sapiente dosaggio di luminosità, Vinci riesce ad illuderci della diversa natura dei due personaggi. La
Vergine siede sulle ginocchia della madre in una posa bizzarra, dall’equilibrio precaria, che le permette
però di rientrare perfettamente nella piramide geometrica definita dall’intero corpo di sant’Anna.
--------------------Per Charles d’Amboise, sempre a Milano, affronta uno dei progetti più entusiasmanti della sua carriera:
i suoi fogli mostrano una grande quantità di studi legati al sistema dei navigli di Milano, a cui l’artista
contribuisce con una serie di innovazioni visibili ancora oggi nel capoluogo lombardo. Al contrario di
quello che molti pensano, Vinci non è “l’autore” dei Navigli, bensì uno dei numerosi ingegneri che li
hanno studiati e ampliati escogitando soluzioni brillanti. Nei suoi appunti si trovano progetti per
macchine utili al sollevamento dell’acqua, migliorando la navigabilità dei bacini. Grazie al suo
intervento, le imbarcazioni possono attraversare l’intera città. Il complesso dei Navigli è senza dubbio la
sua opera d’ingegneria realizzata, più ambiziosa e riuscita.
Quando nel 1511 muore Charles d’Amboise, Leonardo continua a prestare servizio presso il governo
francese finché Milano riesce a garantirgli lo stipendio pattuito con il generoso luogotenente. Ma la
guerra si sta di nuovo avvicinando: nel giro di pochi mesi, Massimiliano e Cesare Sforza fanno il loro
rientro trionfale al castello, è il 29 dicembre 1512.
Con il ritorno degli Sforza, sa che non c’è più spazio per lui a Milano: non gli perdoneranno mai di avere
lavorato per il nemico. Consapevole della sua fama e delle sue capacità, comincia a guardarsi intorno
per cercare una nuova occasione di lavoro. Riceve quindi un invito a Roma da Giuliano de’ Medici, duca
di Nemours, il più piccolo dei tre figli di Lorenzo il Magnifico. Papa Leone X, fratello di Giuliano, ama
godersi la vita e promuovere cerimonie imponenti, cortei pubblici e giostre all’interno degli enormi
cortili vaticani. Sostiene con impegno il cantiere che sta ricostruendo dalle fondamenta la basilica di
San Pietro e promuove la conclusione della decorazione dell’appartamento privato ereditato dal suo
predecessore, dove Raffaello sta già mettendo mano ai celebri affreschi.
Leonardo scrive “Partii da Milano per Roma addì 24 di sectembre 1513…”.Dopo una breve sosta a
Firenze arriva a Roma. E’ molto probabile che con lui ci sia anche la tavola della Gioconda, a cui ogni
tanto da un tocco di pennello. Dai documenti dell’epoca risulta che il suo arrivo a Roma passa piuttosto
inosservato: la città è alle prese con i capolavori di Raffaello e di Michelangelo di cui è stata da poco
inaugurata la Cappella Sistina (1512). Sono centinaia i cantieri aperti in tutta la città: per i prossimi tre
secoli il suo rinnovamento non avrà sosta. In questo periodo porta avanti lo studio degli specchi ustori:
è probabile che i Medici abbiano chiesto all’artista di migliorare il metodo di riscaldamento dell’acqua
per la tintura delle stoffe, attività che costituisce uno degli affari principali della famiglia. Leonardo sta
quindi cercando di mettere a punto degli specchi più grandi e funzionali, in grado di convogliare la
maggior quantità di raggi solari possibile su un enorme pentolone. In realtà Leonardo è a Roma quasi
essenzialmente per portare avanti gli studi anatomici. E' questo il campo che adesso attrae di più la sua
attenzione. All’interno delle mura vaticane, Vinci matura una delle sue ricerche più affascinanti. Sui
fogli compilati in questo periodo compaiono con maggiore insistenza immagini legate agli embrioni e
all’apparato riproduttivo dell’uomo e della donna. In varie occasioni compare il feto di un bambino
rannicchiato nell’utero materno, un disegno quasi più preciso di una moderna ecografia. Leonardo
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arriva a concepire un concetto rivoluzionario: l’anima del bambino deriva dalla madre. Questa nuova
anima “resta addormentata” mentre il feto è nel ventre della donna, che attraverso la “vena
ombelicale” nutre l’embrione e lo fa crescere per nove mesi. Ma è lei a immettere nell’essere umano il
soffio vitale. A quel tempo, la donna è degna di essere un oggetto d’amore, ma non gode certo di stima
per la sua intelligenza. Eppure, secondo Leonardo riveste un ruolo determinante nella creazione della
vita.
-----------------------Vasari descrive bene l’irresistibile attrazione del maestro verso la ricerca scientifica, anche quella più
pericolosa. La religione di Vinci non è quella scritta nella Bibbia, ma quella che legge nella natura.
E’ probabile che Giuliano de’ Medici sia al corrente della direzione che hanno preso le ricerche
anatomiche di Leonardo. Forse non gli dispiace restare a guardare per capire a cosa porteranno: in
fondo il duca è un uomo colto, curioso e molto tollerante nei confronti degli intellettuali che frequenta.
Appena Giuliano muore, Leonardo capisce che deve cambiare aria. Roma è troppo insidiosa e non
guarda in faccia nessuno se sospetta che possa essere pericoloso per la tenuta del sistema ideologico
della Chiesa. Ancora una volta, l’ultima, Leonardo deve cercarsi un nuovo protettore. A sessantaquattro
anni, lo aspettano un altro trasloco e l’ennesimo lungo viaggio.
----------------------Leonardo arriva in Francia. Il re Francesco gli riserva un’accoglienza degna degli ospiti più illustri.
L’artista abiterà in un piccolo castello, dove c’è spazio abbondante per lui e le sue opere, oltre alla
presenza di una cuoca e di un maggiordomo a sua completa disposizione. Al piano inferiore può
sistemare sui cavalletti la Gioconda, la Sant’Anna e un San Giovanni Battista che ha iniziato a dipingere
a Roma qualche mese prima. Su un ampio tavolo può stendere i suoi fogli e tentare di rimetterli
finalmente in ordine. In cima ad una scala si aprono la sua camera da letto e quella di Francesco Melzi,
l’unico collaboratore che l’ha seguito nell’ultimo trasloco. Il maniero è un piccolo paradiso di
tranquillità nel paesino di Cloux, nel cuore della Loira, a poca distanza dalla reggia di Amboise, dove il
sovrano ama ritirarsi con la moglie e i membri più intimi della corte. Senza chiarire bene le mansioni
che l’artista dovrà svolgere, il re gli concede anche uno stipendio di 1.000 scudi l’anno e fa di tutto per
metterlo nelle condizioni migliori per lavorare, anche se ormai Leonardo sembra non avere più l’energia
per dedicarsi a grandi imprese. Francesco è convinto che la sola presenza di Leonardo in Francia basti a
dare lustro al suo regno.
Dopo anni in cui ha dovuto subire la pressione dei committenti, Vinci può ora dedicarsi ai suoi quadri
con la calma che ha sempre desiderato. Muove qualche pennellata solo quando arriva l’ispirazione. E
poi niente per settimane. E’ così che nascono le sue ultime due opere, raffigurano entrambe Giovanni
Battista (non ho immagini). Sulla prima delle due tavole conservate al Louvre compare un volto
incorniciato da una capigliatura morbida, su cui Leonardo ha steso colpi di luce soffusa che esaltano gli
splendidi ricci sinuosi. Il giovane ci osserva con uno sguardo complice e un sorriso accattivante, che
attrae la nostra attenzione quanto quello della Gioconda. Questo non è un quadro di soggetto religioso,
ma una riflessione sulla luce e sulla materia, un esperimento sulla pittura che genera una figura
utilizzando quasi un solo colore a diversi gradi di intensità. Il San Giovanni Battista è praticamente un
monocromo. Sull’altra tavola, l’indifferenza del pittore nei confronti del sacro è ancora più evidente. In
questo San Giovanni non c’è niente che ci aiuti a identificarlo come il Battista. Per rimediare al
problema, in un momento imprecisato del XVII secolo vengono aggiunte la corona d’edera e il bastone
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tipico di Bacco: chi lo possiede, ritiene sia più adatto ad interpretare il dio del vino e della passione
piuttosto che il profeta mortificato da un duro periodo nel deserto.
L’estremo controllo che il pittore riesce ancora a comporre nei suoi quadri nasconde in realtà un
malessere che esplode in alcuni appunti, forse i più sconvolgenti che abbia mai scritto nella sua vita.
Vinci sente avvicinarsi la morte. E’ questa la preoccupazione che emerge dal testo più lungo e coerente
che compare ora nei suoi taccuini. L’intensità con cui descrive la tragedia di un diluvio non sembra solo
il frutto di una meravigliosa finzione, ma il risultato di un’angoscia che lo divora. E’ tutto troppo
realistico e concreto. Nel suo scritto uomini e animali feroci sono accomunati dalla paura della morte
che dilaga in ogni angolo della terra. La disperazione cattura tutti gli esseri viventi. Alcuni cercano
inutilmente di rifugiarsi sulla cima degli alberi, che nel giro di poco sono divelti e travolti dalla corrente.
E’ la scena più cruenta e terribile che Leonardo abbia mai immaginato. Nel suo diluvio universale non
c’è posto per l’arca di Noè: non c’è via d’uscita. La morte arriva con una violenza disumana. L’artista
trova anche la forza per disegnare alcune parti di questo cataclisma dettagliato e atroce come una
visione apocalittica. Su alcuni fogli compone tempeste che trasformano il cielo e il mare in una cosa
sola. La sua mano intreccia liberamente cerchi e linee, ripetuti in un turbine che riempie intere pagine
dove non esiste più alcun ordine. Leonardo si rende conto che la natura può sprigionare una forza alla
quale è inutile tentare di opporsi. In vecchiaia scopre l’inferiorità dell’uomo rispetto al cosmo e forse,
senza confessarlo, mette anche in dubbio la sua centralità nell’universo. La stessa che aveva affermato
con l’Uomo vitruviano.
-------------------------------Il 23 aprile 1519, Leonardo convoca il notaio regio per dettargli il testamento. Il testo riporta tutti i
dettagli relativi al funerale e alla gestione dell’eredità. L’artista non lascia nulla al caso neppure in
questo frangente. Dopo alcune espressioni di circostanza con cui raccomanda la sua anima a Dio, alla
Vergine, a san Michele e a tutti i santi e angeli del paradiso, indica con ordine ogni particolare delle sue
esequie. Sarà seppellito nella chiesa di Amboise. Il feretro sarà accompagnato da sessanta poveri,
ognuno con una torcia in mano, e a ciascuno saranno versati 70 soldi. Francesco Melzi riceverà i suoi
libri e i suoi manoscritti oltre ai bozzetti e tutti i disegni, è lui il vero erede materiale e morale dell’opera
di Leonardo: un patrimonio che purtroppo gestirà con una certa leggerezza.
Come accade a molti geni del passato, anche Leonardo non riesce a riposare tranquillo nella tomba.
Prima di tutto perché la sua cappella funebre va distrutta nel 1807 con l’intera chiesa. Poi perché da
quel momento i suoi resti sono coinvolti in un’odissea a tratti inquietante. Le sue ossa saranno ritrovate
soltanto nel 1874, grazie ad una campagna di scavo e trasferite all’interno del castello di Amboise. Oggi,
però, se ne sono perse le tracce. Pare che durante l’occupazione nazista siano state nascoste prima
dell’arrivo delle truppe tedesche perché girava la voce che Hitler volesse regalarle a Mussolini, come
segno di riconoscenza per la sua fedeltà. Ora si pensa che le ossa di Leonardo possano essere state
sepolte nel parco della reggia di Amboise, in un luogo ancora non ben identificato.
L’immagine che la storia ci ha restituito di Leonardo è quella di un anziano dalla fronte aggrottata, il
capo pelato e sopra le orecchie una lunga chioma che si mescola con la barba. Così appare nel suo
autoritratto che ha disegnato mentre era in posa di fronte a tre specchi: è l’unico modo per comporre
questo particolare punto di vista. Non si è nascosto dietro un viso ideale, ma ha tracciato tutte le rughe
che si affollano intorno ai suoi occhi, scavati e profondi come quelli di un saggio che molto ha visto e
vissuto. Gli angoli della bocca rivolti verso il basso, le guance pesanti e le sopracciglia folte, l’artista non
dimostra alcuna fierezza. Sembra quasi un uomo rassegnato e severo che ha smesso di farsi illusioni.
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Negli ultimi anni la riflessione ha sostituito l’azione, la scrittura l’ha impegnato molto più della pittura.
La sua carriera, partita sotto il segno dell’equilibrio e della proporzione, termina in un vortice di
immagini e pensieri che lasciano molte più domande che risposte.
Il tentativo estremo di mettere in ordine i suoi testi non andrà a buon fine. Melzi si farà convincere a
smembrare i fogli del maestro: ne cederà alcuni ad appassionati e forse ne venderà altri. Le idee di
Leonardo cominciano così a disperdersi ai quattro angoli della terra, di collezione in collezione, di città
in città. I suoi pensieri sono sparsi in tutto il pianeta, talmente ricchi e complessi che continueranno a
riservare sorprese e scoperte.
Pittore sublime, ingegnere all’avanguardia, architetto innovativo, stratega audace, inventore originale,
scrittore eccentrico, scienziato insaziabile, maestro esigente, figlio riconoscente e fratello generoso:
Leonardo ha lasciato un ricordo indelebile del suo passaggio nel mondo. Sicuramente più incisivo e
profondo di quanto lui stesso potesse sperare. Ha costruito un universo di idee e immagini che indaga a
fondo la realtà e l’anima dell’uomo.
Nessuno dei collaboratori che hanno vissuto e lavorato con Leonardo può essere considerato davvero il
suo erede artistico. Bisogna aspettare l’esordio sulla scena di Michelangelo Merisi da Caravaggio, alla
fine del secolo, per assistere alla nascita di un pittore che sappia raccogliere e sviluppare in modo
sorprendente i caratteri più innovativi della stile leonardesco. I due artisti non possono avere caratteri
più diversi: Leonardo ama circondarsi di collaboratori, Caravaggio lavora in totale isolamento; Leonardo
riempie migliaia di fogli con schizzi e progetti, Caravaggio stende sempre subito il colore sulla tela.
Vinci è un uomo affabile e generoso, Merisi un tipo irascibile e scontroso. Eppure, Caravaggio prova
un’attrazione irresistibile nei confronti del lavoro del maestro fiorentino. Merisi, che si forma a Milano
negli anni Ottanta, ha potuto vedere con i propri occhi molte opere di Leonardo. Il buio che assorbe le
figure caravaggesche ricorda da vicino l’oscuro fondale da cui emerge il sorriso seducente del San
Giovanni Battista, la figura leonardesca che più ha affascinato il pittore lombardo. Quel santo così
ambiguo, misterioso e androgino anticipa tanti personaggi di Caravaggio.
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