Fiabe-favole per figli di genitori separati clicca qui

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I l vaso spezzato Fatima, la bellissima figlia del sultano Ahmed, aveva quindici anni quando la sua anziana bambinaia, che le sedeva accanto sul divano di velluto rosso applicando un delicato pizzo a un fazzoletto di seta, le raccontò una storia che non avrebbe mai dimenticato. Era una storia misteriosa fatta di desideri irrealizzabili, di impotenza e di quella saggezza che consiste nel lasciar perdere ciò che è irraggiungibile. Per dirla in breve, era una storia sulla vita. Tanto tempo fa, molto prima che Ahmed diventasse sultano in Oriente, ai suoi antenati Mehmet e Leila era stato offerto uno splendido vaso come regalo di nozze. Il vaso è davvero molto bello: si innalza leggero e slanciato su un' ampia base dorata, ha due manici arcuati ai lati e si chiude con un cerchio perfetto attorno alla piccola imboccatura. Entrambi i suoi lati sono dipinti in oro, azzurro e rosso purpureo, ma con motivi così differenti che pur assomigliandosi appaiono totalmente diversi. Chi possiede il vaso è tenuto a un impegno: ogni mattina, al sorgere del sole, deve portarlo su una rupe dall' altra parte del fiume, di modo che durante il giorno esso si impregni di luce e di calore e di notte possa allietare la giovane coppia con lo splendore di cui è ripieno. Per alcuni anni Mehmet e Leila vivono una vita felice, fatta di tenerezza e di affetto, che è anche rallegrata dalla nascita di una bimba, la piccola Lucia. Poi, una sera, tra Mehmet e Leila scoppia un litigio: a chi tocca quel giorno andare a prendere il vaso sulla rupe? Ognuno dei due sostiene che tocca all' altro, ognuno asserisce di aver ragione e dice che sarà colpa dell' altro se durante la notte succederà qualcosa al vaso. I due coniugi si addormentano infuriati. In piena notte sono svegliati da un lampo abbagliante e da un tuono spaventoso. Entrambi sanno che cosa ciò significhi. Corrono fuori nel buio della notte e, quando arrivano alla rupe su cui si trovava il vaso, non ne vedono che una metà, il fulmine ha spaccato in due il prezioso recipiente. Per quanto cerchino, non riescono a ritrovare l'altra metà: dev' essere caduta nel fiume. E sono inutili anche le ricerche fatte nel letto del fiume durante i successivi giorni e settimane. Leila piange amaramente, Mehmet tace stringendo le labbra. I due prendono a discutere su che cosa fare della metà del vaso che è rimasta. Mehmet trova che non serve più a nulla e un giorno, credendosi non visto da Leila, la butta via. Ma Leila ha visto, va a riprendere di nascosto il pezzo di vaso che le ricorda il tempo dell' amore e della tenerezza e lo nasconde nella sua cassapanca. Per anni nessuno parla più del vaso. Mehmet inizia una nuova vita piena di impegni, Leila è spesso silenziosa e triste, e Lucia nel frattempo cresce.
Pochi giorni prima che Lucia compia sette anni, Leila si ricorda di una moneta d'oro di grande valore che conserva nella vecchia cassapanca e decide di comprare con essa un bel regalo alla figlia in occasione del suo compleanno. Per la prima volta dopo tanti anni Leila apre la cassapanca e vicino alla moneta trova la metà del vaso di cui quasi si era dimenticata. Lucia, che è stata a osservare la mamma, comincia a farle domande e viene a conoscenza della storia del vaso. Da bambina coraggiosa e curiosa qual è, corre subito al fiume, si toglie scarpe e calze, entra nell' acqua poco profonda e, fatti pochi passi, sente sotto i piedi qualcosa di duro. Disseppellisce con circospezione l'oggetto rinvenuto e vede che si tratta dell'altro pezzo del vaso. Tutta contenta ed eccitata, lo prende e corre dalla mamma. Quando Leila vede la metà del vaso che credeva perduta, si sente percorsa da un brivido di emozione e si mette subito a pulire la porcellana dalla sabbia e dal fango che il fiume vi ha lasciato sopra. Lucia si accorge dell' eccitazione e del turbamento della mamma. Infine Leila pone una accanto all' altra le due metà del vaso. Soltanto allora si accorge di come sono diventate diverse. La metà che è rimasta per sette anni immersa nell'acqua ha solo più tracce sbiadite di azzurro, giallo e rosso, la ghiaia e la sabbia hanno levigato i margini della spaccatura e lasciato dei segni sulla porcellana. Piena di tristezza, Leila si accorge che i due pezzi del vaso non si adattano più l'uno all' altro. Allora ordina alla sua domestica di buttarli via immediatamente. Ma Lucia segue la donna e la convince di lasciarle le due metà del vaso, dicendole di voler giocare con esse. In realtà però la bambina ha deciso di riparare il vaso spezzato a qualsiasi costo. I repentini cambiamenti d'espressione sul volto di sua madre le hanno fatto capire quanto dev' essere importante per lei quel vaso. Lucia ama sua madre più di ogni altra cosa, e nelle settimane seguenti si sforza di riparare di nascosto il vaso, notte dopo notte. Tuttavia, per quanti materiali la bambina utilizzi per rimettere insieme le due parti ,colla, stucco, argilla, persino calcare conchilifero sciolto nel miele, il mattino seguente le due metà si trovano sempre separate l'una dall'altra. Lucia, che vede la mamma ricadere in balia dell'antica tristezza, non abbandona il suo proposito. Dorme pochissimo, di notte sperimenta un miscuglio di colle dopo l'altro ed è fermamente convinta che il vaso non stia insieme solo a causa della sua imperizia. Poiché di notte lavora, di giorno spesso dorme e sempre più raramente gioca con gli amici. Un giorno il suo amico Giilhan la sveglia alle tre del pomeriggio e la sgrida: «Con te non si riesce a combinare più niente, ci si stufa soltanto!». Lucia gli piace, e allora va avanti a parlare, le mani sprofondate nelle tasche rigonfie: «Ti ho portato un po' di noci e di nocciole. La notte scorsa c'è stata una gran bufera. Ho visto come le piante resistevano alla tempesta con tutte le loro forze e come scuotevano le chiome perché non volevano lasciar andare i loro frutti, e ho udito la bufera ululare: "Lasciali! Lasciali! Lasciali!". È stata una lotta furiosa e ha vinto la tempesta. Stamattina sotto le piante c'erano tantissime noci e nocciole: sono mature, e l'anno prossimo ne cresceranno delle altre. Dammi due tazze, Lucia, in una metteremo le noci e nell'altra le nocciole». Mentre Lucia cerca le tazze nell' armadio senza trovarle, Giilhan vede i due pezzi di vaso e li riempie di noci e di nocciole. Quando Lucia se ne accorge, sulle prime vorrebbe sgridare l'amico, ma poi il bel marrone dei frutti nei preziosi recipienti le piace, e va a prendere uno schiaccianoci. «E com'è finita la storia?». chiese Fatima, quando l'anziana bambinaia ebbe terminato il racconto. «Oh», rispose costei, «in vita sua Lucia ha riempito di frutti tante altre tazze, alcune di more, altre d'uva, altre ancora di funghi, di ghiande e di semi di girasole». P er i genitori: « I l vaso spezzato» , ovvero il tentativo di un bambino di riconciliare i suoi genitori. A ntefatto Franziska è una bambina di otto anni che cerca dispera tamente di riconciliare i suoi genitori, divorziati già da tempo (il padre si è risposato e ha avuto un' altra figlia). In occasione della causa che era stata intentata per regolare il diritto da parte dei genitori di avere rapporti con lei, Franziska aveva notato che sua madre continuava a provare affetto per suo padre. Obiettivo
Obiettivo della storia è quello di liberare la bambina dalla responsabilità che si è assunta nei confronti della madre e dagli atteggiamenti innaturali che ne derivano, affinché possa tornare a vivere una vita infantile piena e autentica. I l re che uccise il drago Nel paese di Gadir vivono un re e una regina. Hanno un'unica figlia, bellissima e molto assennata: la principessa Bocca di Miele. Ha riccioli d'oro che le arrivano fino alle spalle e che si addicono al colore della sua corona. Tutti i giorni la principessa legge con piacere un libro d'avventure. Naturalmente sa anche inventare e raccontare bellissime storie, suona meravigliosamente il piano e il violino; sa cavalcare ed è un'ottima nuotatrice. Tutti nel regno vogliono bene alla principessa. La vita al castello si svolge secondo ritmi regolari: il re governa e la regina si occupa della casa con l'aiuto delle domestiche. Il mattino di buon' ora il re esce sul suo nero destriero e torna , stanco e affamato, solo alla sera, quando anche la regina è sfinita per i molti impegni cui ha dovuto far fronte. Spesso di sera il re e la regina litigano: entrambi dicono di essere stanchi, entrambi affermano che il proprio lavoro è stato più faticoso e più importante del lavoro svolto dall'altro coniuge. Quando sente che i genitori litigano la principessa Bocca di Miele diventa molto triste: quelle sere va a letto presto. La principessa vuol bene a sua madre, con cui trascorre molto tempo e che per lei è una bella donna; e vuol bene anche a suo padre, forte, virile e affascinante. Per lei quelle dispute sono sciocche. Un giorno di prima mattina un messaggero a cavallo arriva al galoppo al castello e grida: «Maestà, maestà, venite subito! Ai confini del regno c'è un drago enorme che sputa fiamme dalle fauci, solo voi potete ucciderlo e salvare la vita a tutti noi! ». Il re sella il suo cavallo, cinge la spada e parte al gran galoppo. Per qualche giorno la regina si sente sollevata: non deve più lavare e cucinare tanto, e la sera può starsene tranquilla, senza più litigare. La principessa Bocca di Miele invece è triste: il padre le manca. Dopo un mese il re non è ancora tornato e non ci sono notizie di lui; la regina comincia a sentirsi a disagio. La principessa si fa sempre più triste e tutti al castello appaiono preoccupati. Una mattina la regina siede al telaio e, mentre sta tessendo un filo rosso, il suo pensiero corre al marito, che forse ormai ha ucciso il drago.
Le si avvicina la cameriera, si siede accanto a lei e incomincia a dire: «Mia regina, se ci penso, devo dire che il re era una persona davvero stravagante. Per quanto gli sistemassi sempre i calzini bene in ordine nel cassetto del guardaroba, lui se li metteva sempre spaiati: in genere ne aveva uno rosso e uno azzurro. E le camicie! Le ho sempre stirate benissimo, ma ogni volta che ne indossava una lui sbagliava ad abbottonarsi e, pur con la più bella camicia addosso, aveva sempre un' aria quanto mai trasandata». Uscita la cameriera, ecco arrivare lo stalliere; vede la regina tanto triste e le dice: «Ah, mia regina, il re non era davvero un esperto cavaliere. Quando doveva montare a cavallo occorreva che gli dessi sempre una mano, e quando doveva smontare il più delle volte si slogava una caviglia. Perciò gli ho sempre fatto cavalcare soltanto i ronzini più docili e mansueti. Andatosene lo stalliere, si presenta il giardiniere, che dice alla regina: «Maestà, il suo stimato sposo non sapeva distinguere neppure i girasoli dai ravanelli!». La principessa Bocca di Miele, seduta al telaio accanto alla madre, ascolta in silenzio quanto i servi vanno dicendo. Sulle prime non riesce a credere che essi stiano parlando del suo caro papà, del quale lei ha tutt' altri ricordi, ma quando si accorge che quante più cose negative vengono dette nei confronti del re, tanto più sua madre riprende animo, cominciando a sorridere e ad ammiccarle, ecco che la ragazza inizia a vedere suo padre in una luce diversa. Un giorno si avvicina anche lei al telaio a cui è seduta sua madre e le dice: "Cara mamma, il re mio padre era un uomo cattivo e sventato. Una volta che entrò in camera mia pestò con un piede Anna, la mia bambola preferita". A quelle parole la regina abbraccia la figlia ed entrambe piangono a lungo e amaramente. Tre giorni dopo si presenta al castello un messaggero a cavallo e annuncia alla regina che il re suo marito ha vinto il drago e tornerà quanto prima a casa. Che fa allora la regina, che fa la principessa, che fanno tutti i cortigiani? La bambina a cui ho raccontato la storia rispose così: «Non lo lasciano entrare, hanno deciso che è cattivo». P er i genitori: « I l re che andò a uccidere il drago» ovvero il padre estraniato A ntefatto Karin aveva sei anni quando i suoi genitori si separarono ed è rimasta con la madre. Adesso ha otto anni e da quasi due non vede più suo padre. Questi adisce le vie legali per poter avere rapporti con sua figlia. Karin dice espressamente al funzionario che cura l'assistenza per i minorenni, al giudice e a me di non voler mai più vedere suo padre. La madre, appellandosi
alle parole della bambina, chiede che le relazioni tra padre e figlia siano rinviate a tempo indeterminato. Dice che prima della separazione Karin aveva un buon rapporto con il padre, che non riesce a spiegarsi il cambiamento di opinione della figlia, ma che neppure può obbligare la bambina ad avere relazioni con il padre. I nostri colloqui mettono in luce il fatto che la madre, per staccarsi dal marito, pone in evidenza soltanto le debolezze e i difetti di lui. La figlia si accorge di quanto alla madre piaccia considerare il padre un fallito e, amando sua madre, accetta questa sua opinione e rimuove tutti i ricordi positivi che ha di suo padre. Questo fatto è normale per una bambina che vive con la madre e si identifica con lei. Obiettivo Obiettivo della fiaba, che racconto alla madre e alla figlia insieme, è far comprendere a un livello profondo di consapevolezza quanto è accaduto prima che Karin si allontanasse del tutto da suo padre. P rocedimento narrativo Il personaggio chiave della vicenda è la madre. La figlia non ha alcuna possibilità di modificare il suo comportamento fintanto che il suo modello, la madre, mantiene la sua posizione. Karin ha bisogno del permesso della madre per esprimere i propri sentimenti nei confronti del padre in riferimento ai tempi in cui la famiglia era ancora unita. Perciò la fiaba può servire alla madre come uno specchio in cui osservare il suo comportamento durante la fase della separazione. In questo modo può imparare a vedere non soltanto i lati negativi di suo marito. Poiché la fiaba si situa vicino all' esperienza coscientemente vissuta dalla bambina, alla mia domanda: «Che fa la regina, che fa la principessa, che fanno i cortigiani?». Karin risponde: «Non lasciano entrare il re, hanno deciso che è cattivo». Questa risposta fa sì che la madre di colpo intuisca come stanno le cose. La donna smette di ostacolare il rapporto della figlia con suo padre e rende possibile in questo modo una nuova relazione tra padre e figlia. La lepre hops C'era una volta un leprotto di nome Hops che aveva un grosso problema. Era una lepre molto bella: aveva orecchie lunghissime, morbide come il velluto nella parte interna, e una grossa coda. Hops era furbo e quando correva sapeva fare salti improvvisi molto più rapidamente degli altri leprotti suoi amici. Ma ecco qual era il suo problema. Sapete che tutte le lepri hanno paura, paura della volpe, del cane, del cacciatore. È per questo che spesso, quando corrono, fanno dei salti improvvisi. Cominciano a correre diritto poi, di colpo, balzano di lato, poi ancora di lato, infine si rifugiano in un campo di trifoglio, contente di essere ancora vive. Tutte le lepri correndo fanno bruschi salti, per poter continuare ad avere il piacere di vivere. Il nostro leprotto Hops aveva imparato a fare salti da papà lepre e da mamma lepre. Il papà era stato famoso per i suoi salti. Una volta che era braccato da un'intera muta di cani aveva fatto tanti di quei balzi che alla fine neppure lui sapeva più dove si trovasse. Anche mamma lepre era molto abile a saltare. I suoi balzi erano così eleganti e leggeri che i suoi inseguitori spesso credevano che si fosse dissolta in aria, oppure pensavano di essersi sbagliati e di non aver visto nessuna lepre, in realtà. Il leprotto Hops imparava volentieri tutte queste cose dai suoi genitori, perché si rendeva conto di quanto fosse necessario ingannare gli inseguitori per potersi godere in pace il trifoglio prelibato e le tenere carote. Quando il leprotto Hops faceva i suoi salti, i genitori lo lodavano e lui aveva la sensazione che lo amassero in modo particolare.
Allora si sentiva sicuro e il trifoglio gli sembrava più buono che mai. La vita delle lepri trascorreva dunque tranquilla, finché un giorno. . . Due uomini vestiti di verde con in mano una grossa rete attraversano il campo di trifoglio. Sono così silenziosi che le lepri si accorgono di loro quando ormai sono imprigionate nella rete. Gli uomini portano papà lepre, mamma lepre e il piccolo Hops nello zoo per bambini della vicina città. Dopo essersi riprese dallo spavento, le lepri si guardano attorno e notano che la loro nuova dimora è splendida: trifoglio eccellente, carote a volontà, acqua pura e soprattutto nessun pericolo in vista! Ben presto papà e mamma lepre capiscono che d'ora in poi non servirà più fare tanti salti durante la corsa. Ricordando con orgoglio le antiche imprese, si concedono ancora alcuni balzi e salti fatti come si deve, lì sul prato, poi decidono che d'ora in avanti correranno sempre soltanto diritto. Il leprotto Hops non capisce più niente. Tutto ad un tratto i genitori lo sgridano se, durante una corsa, si mette a saltare da una parte e dall' altra, e gli dicono che deve piantarla con quella mania. Hanno già quasi dimenticato che una volta erano campioni nel fare salti. Hops però si sforza di fare salti ancor più veloci, più eleganti e più perfetti. Spera che i suoi genitori tornino a volergli bene come un tempo, ma è tutto inutile. Già le altre lepri adulte dello zoo cominciano ad additarsi a vicenda Hops e a dirgli: «Togliti dai piedi con le tue stupide piroette, non vogliamo vederle più!». Anche i genitori gli fanno capire chiaramente che per loro è imbarazzante quel suo volersi presentare come una lepre piena di paura, con quel continuo saltare. Hops è davvero disperato! Una notte se ne sta tutto solo ai margini del grande campo di trifoglio, piange a calde lacrime e singhiozza forte. Ma ecco che all'improvviso sente accanto a sé una vocetta acuta dirgli: «Ciao, Hops!». È il grillo. «Si vede che hai dei dispiaceri», prosegue la voce, «vuoi che ti racconti una storia? Magari ti aiuta a cacciarli via». «Sì», risponde Hops piangendo e singhiozzando. Il grillo racconta: «C'era una volta un ranocchio verde che aveva sul dorso dei grossi punti rossi. Temeva sempre che gli altri non gli volessero bene, dato che gracidava in modo tanto sgradevole e appariva sempre tutto bagnato e scivoloso. Per farsi accettare dagli altri animali, prese l'abitudine di raccontare a tutti le storie più inverosimili. Una volta disse di essere un coccodrillo verde, capace di mordere tutti. Poi raccontò di aver visto nel bosco cinquanta elefanti rosa, e infine disse che il gelato alla fragola l'aveva mangiato il gattino nero, sebbene lui stesso se lo sentisse ancora freddo nello stomaco. All'inizio gli animali credevano alle sue storie e lo consideravano un tipo in gamba. E lui pensava che gli volessero bene. A poco a poco però incominciò a notare che alcuni animali
ridevano di lui, altri non lo prendevano più sul serio e altri ancora lo evitavano. Allora il ranocchio si sentì colmo di tristezza; una notte si mise a gracidare rivolto alla luna, piangendo tutto il suo dolore. La luna, all'udire il suo lamento, riunì in segreto tutti gli animali e sussurrò qualcosa all' orecchio di ciascuno. Quindi per alcuni minuti gli animali corsero qua e là tutti indaffarati, poi si ritrovarono di nuovo. Ognuno di essi aveva indosso il vestito più bello, ognuno teneva in mano una fiaccola. Con aria solenne si avvicinarono tutti al ranocchio. In silenzio lo misero dolcemente su una foglia di ninfea e lo posarono con delicatezza in mezzo al prato, dove i fiori addormentati emanavano un gradevole profumo. Tutti si disposero poi in cerchio attorno al ranocchio e iniziarono a cantare in coro la canzone che la luna aveva loro insegnato. Le parole erano queste: Mi piaci così come sei, col tuo magnifico qua qua. Mi piaci così come sei, con il tuo colore verde. Mi piaci così come sei, con i tuoi sgargianti punti rossi. Mi piaci così come sei, con la tua pelle bagnata e scivolosa. Mi piaci così come sei, perché sei l'unico al mondo. Mi piaci così... La canzone aveva molte strofe; gli animali, cantando, avevano sollevato un po' il bordo della ninfea su cui era seduto il ranocchio e avevano cominciato a cullarlo. Il ranocchio si addormentò felice e fece un sogno meraviglioso. Ma questo te lo racconterò un' altra volta». P er i genitori: « La lepre Hops il ranocchio Quak e la luna ovvero quando i bambini mentono perché desiderano piacere. A ntefatto Peter ha otto anni. Nel 1988 si era trasferito con i genitori e la sorellina da quella che allora era la Repubblica democratica tedesca alla Repubblica federale tedesca. I genitori mi raccontarono a quanti sotterfugi e imbrogli dovettero ricorrere per passare il confine tra le due Germanie. Quando tra i suoi genitori sorge il conflitto che li avrebbe portati al divorzio, Peter incominciò a raccontare bugie alla madre, al padre, ai nonni, ai parenti e agli amici dei genitori. In questo modo egli non solo creò scompiglio, dando origine a risentimenti e contrasti, ma attirò anche su di sé l'ostilità di sua madre e di suo padre, e questo lo fece soffrire. Spesso accade che i bambini che subiscono il trauma del divorzio raccontino bugie: lo fanno per accontentare tutti. Nel caso di Peter la causa del disturbo nel comportamento sta tanto nel conflitto di lealtà del
bambino, quanto nell'imitazione della condotta dei genitori, che parecchie volte dovettero ricorrere a menzogne per potersi trasferire nella Germania federale e per sistemarsi nel nuovo paese. Obiettivo L' obiettivo è di far capire ai genitori che il loro figlio non mente intenzionalmente, ma che, da bravo bambino qual è, non fa altro che imitarli. In fondo per Peter sotterfugi, imbrogli e comportamenti similari hanno avuto una loro legittimità. Se i genitori capiranno il messaggio della fiaba, smetteranno di punire il figlio e riusciranno a volergli bene. P rocedimento narrativo Affinché chi mi ascolta non abbia la possibilità di indovinare troppo facilmente il senso della fiaba, introduciamo il ranocchio come secondo personaggio principale. Raccontiamo una storia nella storia, in cui la luna fa la parte del soccorritore. Diamo alla luna la capacità, che ci auguriamo abbiano i genitori di Peter, di guidare il bambino alla soluzione dei suoi problemi. Quando i genitori di Peter terminano il racconto, sentiamo che il bambino continua a ripetere piangendo una monotona cantilena: «Mi piaci così come sei.. .». Entrambi i genitori sono commossi.... ­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­ I l rapimento Tanto tempo fa c'era una damigella che viveva in un castello; era una bionda e bella fanciulla. Il castello sorgeva alto su una rupe, sotto la quale c'era una gola in cui scrosciavano le acque di un torrente di montagna. Il posto era bello, ma la vita vi si svolgeva sempre uguale. I giorni trascorrevano senza che mai succedesse qualcosa di nuovo. Alla damigella non mancava niente, tuttavia sentiva spesso il desiderio di qualcosa che neppure sapeva nominare. Passava giorni interi sulle mura del castello a guardare giù nella gola, ma non vi vedeva altro che il torrente scorrere nel suo angusto letto. Un giorno dalle mura videro un cavallo al galoppo salire lungo lo stretto viottolo che portava al castello. In sella c'era un forestiero dalla pelle scura e dai capelli neri. Quando il cavaliere balzò di sella e bussò forte al portone del castello, la damigella sentì che il suo destino si stava compiendo: si era innamorata del forestiero. Tremando aprì il portone. Il cavaliere le disse che veniva da lontano e cercava un rifugio per la notte. La damigella lo fece entrare e lo invitò a sedersi a tavola: gli mise davanti i cibi e le bevande più prelibate. I due stettero a lungo seduti l'uno accanto all'altra. Il cavaliere parlò alla damigella della sua terra, che aveva dovuto abbandonare perché vi regnava la miseria più nera. Parlò del lungo e faticoso viaggio che aveva compiuto e dei progetti che pensava di realizzare in quel nuovo paese. Anche se a volte faticava a capire ciò che il cavaliere le diceva, dato che questi aveva scarsa dimestichezza con la lingua del posto, tuttavia la ragazza pendeva dalle sue labbra e contemplava intenerita il suo volto, tanto diverso da quello degli uomini della sua terra. Non ci volle molto alla damigella per capire che lo straniero ricambiava il suo amore. Egli passò la notte al castello, si trattenne anche il giorno dopo e la notte successiva e infine fu convenuto che sarebbe rimasto per sempre. Poco tempo dopo la fanciulla e il cavaliere si sposarono. Erano così felici di stare insieme che non si accorsero che parecchia gente non approvava la loro unione. Quelli che maggiormente la osteggiavano erano i genitori della ragazza. Il giorno delle nozze sua madre non faceva che sospirare, e quando i due sposi si scambiarono gli anelli esclamò ad alta voce: «Guardate che belle mani bianche ha mia figlia! Questo matrimonio non potrà andare a buon fine: lei così bionda, fine e delicata, e lui così scuro e diverso!».
Il cavaliere e la sua sposa si trasferirono in un altro castello, dove vissero felici. E la loro felicità fu ancora più grande quando nacque loro una bambina. Era bellissima, con la pelle bianca della madre e i capelli neri del padre. Fu chiamata Belinda: i suoi genitori l'amavano molto ed erano disposti a fare qualsiasi cosa per lei. Passarono gli anni. Belinda diventava grande e per lei era naturale che i suoi genitori fossero l'uno diverso dall'altra. Le piaceva starsene sulle ginocchia di suo padre e farsi raccontare da lui le storie della sua terra natia. Più il tempo passava e più il cavaliere si sentiva a proprio agio in quel paese, che ormai era diventato la sua patria. Ben presto prese a occuparsi delle proprie attività, come facevano i cavalieri originari di lì. C'erano però delle usanze a lui care che aveva portato dalla sua terra d'origine e alle quali non voleva rinunciare. Ad esempio, nessuno come lui teneva in conto l'ospitalità. Chiunque bussasse alla porta del castello veniva ricevuto con cordialità e accompagnato nel salone, dove gli venivano offerti i cibi più prelibati. L'ospite aveva a sua disposizione un alloggio per la notte, e sempre il cavaliere lo invitava a prolungare il suo soggiorno al castello. La damigella si era innamorata dello straniero anche per quel suo insolito modo di comportarsi. Però in seguito le idee della donna cambiarono: ella pretese che il marito lasciasse perdere quelle sue usanze. Ma il cavaliere non intendeva rinunciarvi, e così iniziarono i contrasti tra i due. La moglie gridava: «Se davvero mi amassi sarebbe facile per te farla finita con queste stupide abitudini! Senza contare che la gente si fa beffe di me, quando viene a sapere che mio marito si comporta in questo modo!». E il cavaliere urlava di rimando: «Se davvero mi amassi non baderesti a quello che dice la gente! Quando si trattava di sposarmi ti andavo bene com'ero, e adesso dovrei comportarmi agli occhi degli altri come se non fossi uno straniero! Mai e poi mai!». Così andavano le cose. E intanto i due avevano dimenticato quanto erano stati felici l'uno con l'altra e con la loro figlia. Belinda non riusciva a capire come mai tutto fosse cambiato e soffriva molto. I litigi si fecero sempre più aspri e frequenti. Una mattina la mamma svegliò la figlia dicendole: «Alzati, Belinda: partiamo!». Belinda era sconcertata, nessuno le aveva parlato di un viaggio da farsi. Solo mentre stava per uscire dal portone del castello su una carrozza insieme a sua madre e a tutti i bagagli, la bambina si accorse che suo padre non era con loro. Si rivolse alla mamma, che le disse: «Dobbiamo andarcene. Tuo padre e io siamo troppo diversi, non avremmo mai dovuto sposarci». Pronunciò queste parole con una tale risolutezza che Belinda non osò più fare domande. Il viaggio portò la carrozza al castello sulla rupe dove la mamma aveva vissuto prima di sposarsi. Madre e figlia si sistemarono là. Adesso era Belinda a salire spesso sulle mura e guardare giù verso il torrente che scorreva in fondo alla gola. Sentiva la mancanza di suo padre, e stava a lungo a osservare se per caso non apparisse sul viottolo che portava al castello. Ed ecco che un giorno il padre si presenta davvero: arriva su un cavallo al galoppo, balza di sella e bussa con forza alla porta del castello. La madre di Belinda apre una finestra e gli grida: «Che vuoi qui? Vattene per la tua strada, questo non è il tuo castello né il tuo paese e io non sono più tua moglie!» . «Ma Belinda è mia figlia!», urla il cavaliere, «voglio vederla, voglio parlarle e stare con lei!».Anziché rispondergli, la donna chiude la finestra e fa uscire le guardie perché lo caccino via. Piena di tristezza, Belinda sta a guardare il padre che si allontana.
Egli tuttavia ritornò, portando altra gente con sé. Chiese nuovamente di poter vedere la figlia, e di nuovo ottenne un rifiuto. I cavalieri che erano venuti con lui cercarono di dare l'assalto al castello, ma furono respinti. E il cavaliere si presentò una terza volta davanti alla fortezza, gridando: «Voglio vedere mia figlia! Soltanto per un'ora! Lasciatemela vedere!». La damigella si affacciò a una finestra: «Vuoi portarla con te nella tua terra, lo so bene! Non ti darò mai mia figlia!». Col passare del tempo la contesa si fece sempre più aspra. Quanto più il padre cercava di penetrare nel castello per poter vedere la figlia, con un seguito sempre più numeroso di cavalieri e scudieri, tanto più il castello veniva fortificato, le mura elevate, il fossato approfondito. Un giorno Belinda si fece coraggio e disse alla madre: «Quando mio padre verrà, lasciami uscire! Mi piacerebbe tanto rivederlo, parlargli, stargli in braccio e ascoltare le sue storie!» . La madre si coprì il volto con le mani e rispose tra i singhiozzi: «Non posso, figlia mia! Ti rapirebbe, lo so! Se potesse averti nelle sue mani, ti porterebbe lontano e io non ti rivedrei più!». Belinda non riusciva a crederci: sapeva che suo padre non le avrebbe mai fatto del male. Tuttavia non poteva contraddire sua madre, così afflitta e preda di un pregiudizio tanto angoscioso. La vita della bambina al castello si faceva di giorno in giorno più difficile e insopportabile. Sua madre era diventata talmente ansiosa che non trascurava nulla per rendere il castello sempre più sicuro e inespugnabile. Le mura furono elevate e in cima ad esse furono collocati spuntoni aguzzi di ferro, il fossato fu reso più largo e profondo, pattuglie di sentinelle si alternavano di continuo nei giri di ronda. Anche all'interno del castello molte cose cambiarono. Belinda non poteva quasi più lasciare la propria stanza, che era sempre più simile a una prigione. Non poteva più salire sulle mura e a malapena si ricordava di aver giocato nel bosco. Passava le sue giornate leggendo libri e si sfogava sognando una vita migliore di quella che le toccava sopportare. Un giorno trovò in uno degli scaffali della biblioteca un vecchio libro con una pesante rilegatura in pelle, che con gli anni aveva visto ingiallire le sue pagine e si era ricoperto di polvere. Incuriosita, lo sfogliò e vi trovò una storia che la avvinse fin dalle prime righe.«Un ricco signore possedeva un frutteto, in cui crescevano dei bellissimi meli carichi di frutti. Quando le mele furono mature, il proprietario tutto compiaciuto prese a passeggiare ogni tanto per il frutteto assaporandone qualcuna. Un giorno passò di lì un uomo, si fermò vedendo tutti quei bei frutti e disse: "Per favore, datemi una di queste mele squisite. Voi ne avete tante, e io ho una fame!". "Eh no", rispose il ricco signore, "tu vuoi derubarmi, conosco le tue intenzioni. Se ti dessi una mela, me le prenderesti tutte!". «Il riccone cacciò via il poveretto e lo minacciò, dicendogli che avrebbe sguinzagliato i cani se si fosse fatto rivedere. Ma quando il mattino dopo tornò nel giardino, vide che sui suoi meli non c'era neanche più un frutto.
Sotto l'albero più grosso c'era un foglietto, su cui erano scritte queste parole: "Se mi avessi data una delle tue mele, me ne sarei andato contento. Ma la fame si faceva sentire, allora mi sono nascosto nelle vicinanze per riempirmi lo stomaco facendomi beffe di te. Mentre la notte scorsa mi stavo introducendo di nascosto nel tuo frutteto, pensavo: visto che sono un ladro, posso rubare quanto voglio. E così mi sono preso tutte le mele. Se me ne avessi regalata una, mi sarebbe bastata quella"». Belinda lesse più volte il racconto, poi prese il libro, andò da sua madre e le lesse ad alta voce la storia. Arrivata alla fine, disse a voce bassa: «La stessa cosa vale per noi. Mio padre ha voglia di vedermi, e se il suo desiderio non sarà soddisfatto mi rapirà. Quanto più grande è la sua voglia di vedermi, con tanto maggiore insistenza tenterà di arrivare a me. Non c'è castello al mondo che sia in grado di opporsi a una tale brama. Per me ormai questo castello è diventato una prigione da cui non posso uscire». La madre di Belinda tacque a lungo, poi mormorò: «Forse hai ragione. La mia paura di perderti è così grande che non ti credo al sicuro neppure protetta dalle mura più solide e dai fossati più profondi. Certo non riuscirò mai a costruire una muraglia che sia più alta della mia paura». Proprio allora da fuori si sentirono urla e strepito di armi: il castello veniva attaccato un' altra volta dal padre di Belinda e dai suoi amici. «Vieni con me», disse la madre a Belinda. Uscirono insieme dalla stanza, attraversarono il cortile e giunsero davanti alla porta del castello. La donna ordinò alle guardie di aprirla: esse ubbidirono incredule ed esterrefatte. Davanti alla porta si erano raccolti molti guerrieri a cavallo, guidati da un gagliardo cavaliere vestito di un' armatura scintillante, con la visiera abbassata. Quando la porta si aprì e Belinda e sua madre uscirono dal castello, ogni rumore cessò. Nessuno parlava, solo i cavalli sbuffavano piano e battevano gli zoccoli sul terreno. Il cavaliere che stava davanti a tutti gli altri alzò la visiera dell' elmo. Belinda riconobbe suo padre. «Ascolta», disse la donna rivolta al cavaliere, «eccoti nostra figlia. Mi è molto difficile vincere la paura che tu la rapisca per portarla nella tua terra. Ma ti crederò, se davanti a tutti questi cavalieri mi darai la tua parola d'onore che me la riporterai». «Davanti a tutti questi cavalieri ti do la mia parola d'onore», disse solennemente il padre di Belinda levando la mano. «Vieni, Belinda, è da tanto tempo che aspetto di vederti, da troppo tempo! Questa sera ti riporterò a casa». Belinda corse da suo padre, che la issò a cavallo e si allontanò lentamente con lei. Felice, la bambina fece un cenno con la mano a sua madre, dicendo: «Stasera sarò a casa!». E sapeva che sarebbe stato così. Per i genitori: «lI presunto rapimento» ovvero la paura è una cattiva consigliera Antefatto
Belinda ha sette anni. Sua madre è tedesca, suo padre è uno straniero dalla pelle scura. Dopo che i due si sono separati, la donna sottrae la figlia al marito e giustifica il suo comportamento dicendo di temere che la bambina venga rapita dal padre. Quest'ultimo, non potendo più vedere la figlia, minaccia effettivamente di portarsela con sé al suo paese. La minaccia accresce il timore della donna, che tiene nascosta la figlia. Obiettivo La fiaba ha lo scopo di indurre Belinda a esprimere il suo desiderio di star vicina al padre. La madre deve riconoscere che il suo modo di comportarsi può aumentare il pericolo di un rapimento, se non addirittura favorirlo. Non esiste ostacolo che sia più difficile da superare della paura della madre. La bambina, al posto di una gradevole sensazione di sicurezza, prova un senso di oppressione e reclusione. In fondo occorre far capire alla donna che suo marito, pur minacciandola, gode, com'è giusto, della fiducia di sua figlia. Procedimento narrativo La metafora rende evidente che con l'escalation il problema diventa apparentemente irresolubile. Può essere utile il consiglio offerto da una fiaba nella fiaba. La soluzione proposta è la seguente: «In una situazione che si è bloccata fa qualcosa di nuovo, e fallo fino in fondo». Tom in viaggio Tom è un appassionato boy scout, e un giorno parte con il suo gruppo per un lungo viaggio. Sarà un viaggio per mare, che porterà Tom e i suoi amici nel paese in cui si mangiano ottimi spaghetti e l'aria è profumata di cannella. Tom arriva puntuale al porto; il suo zaino è pesantissimo e i piedi gli fanno male. Sale più presto che può sulla nave per potersi riposare. Gli è appena stato assegnato un comodo letto in una cabina doppia quando sente il fischio della sirena: la nave salpa. Stanco morto com'è, Tom si addormenta. Appena sveglio sale in coperta e, guardandosi intorno, si accorge di non conoscere nessuno di quelli che viaggiano con lui. Questo fatto lo sconcerta: dopotutto si era messo in viaggio con gli amici del suo gruppo. In quel momento però un aroma penetrante di cipolla fritta con il lardo gli solletica il naso. Lasciatosi guidare dal profumo, arriva alla cambusa dove trova il cuoco di bordo. «Ehi», gli dice costui, «tu sei un buongustaio come me, abbiamo entrambi buon naso». E quel giorno Tom si trattiene parecchio in cambusa col simpatico cuoco. Alla sera, mentre attraversa il ponte della nave per tornare alla sua cabina, gli torna in mente la domanda: «Dove saranno i miei compagni?» e pensa: «Non ho ancora visto neanche uno scout a bordo». Non conosce neppure il giovane che divide la cabina con lui. Costui però suona meravigliosamente l'armonica a bocca: a quel suono Tom si addormenta e dimentica i suoi dubbi. Il giorno dopo, sul ponte, quando si accinge a darsi da fare per venire a capo della sua situazione, ecco che gli si avvicina un vecchio signore con la barba, che si annoia visibilmente. Per ore costui gli parla dei suoi viaggi in terre lontane e delle avventure che ha vissuto. Quando infine si fa sera, il ragazzo torna alla sua cabina e pensa: «Ancora non so dove sono i miei amici e dove va questa nave; lo chiederò al mio compagno di stanza». Ma questi dorme già. Tom resta a lungo sveglio: è triste e allo stesso tempo ha paura. Il mattino dopo, salito in coperta, trova un giovanotto che lo invita a giocare a palla con lui.
Tom accetta e passa la giornata a giocare. E così ogni giorno, per settimane. Qualsiasi occasione fornisce a Tom il pretesto per non pensare ai suoi problemi. Ma di notte è sempre più spesso triste e ansioso, a volte addirittura furibondo. Ce l'ha con gli amici che non sono lì con lui, ce l'ha con la nave, ce l'ha con tutti. Al mattino di solito si sveglia furioso. Corre in coperta e prende a calci le sedie a sdraio, tira la coda al cane di bordo e fa sobbalzare dallo spavento le vecchie signore che stanno facendo un pisolino. Gli altri passeggeri cominciano a evitarlo. Tom inizia a stare in cabina anche di giorno e cade sempre più in balia del suo cattivo umore. Si accorge che, se si rimpinza di cibo, si sente libero dai pensieri angosciosi, dai rimproveri verso se stesso e dalla rabbia impotente. Perciò passa il tempo a mangiare e diventa sempre più grasso e infelice. Una notte in cui non riesce a dormire perché ha mangiato troppi spaghetti, sale di soppiatto in coperta, ma lì si smarrisce. La notte è buia, fredda e umida. Tom ha un freddo cane. Cerca senza riuscirci di tornare alla sua cabina. Alla fine scorge una luce sul ponte e si dirige verso di essa. Con le ultime forze che gli rimangono apre una porta e si trova nella sala di comando della nave. Un vecchio signore dai capelli grigi solleva lo sguardo da un' apparecchiatura a cui sta lavorando e chiede con voce cavernosa: «Che vuoi qui, ragazzino?». Tom non riesce a rispondere per lo spavento; stanco morto, bagnato e infreddolito si accascia al suolo. Ma il vecchio urla: «Alzati, birbante, e aiutami piuttosto, visto che sei entrato senza chiedere il permesso!». Tom ubbidisce tremando. Con poche, brusche parole il vecchio, che è l'ufficiale di rotta, gli dice quello che deve fare. Il suo compito è riconoscere determinati segni su uno strumento di misurazione e, appena li ha individuati, premere un pulsante. Questo lavoro richiede grande concentrazione. All'inizio Tom è troppo lento, e l'ufficiale urla insulti e parolacce. Ma poi il ragazzo si riprende e alla fine, quando ormai sta spuntando l'alba, riesce a svolgere il suo lavoro in modo perfetto. «Va' a dormire, ragazzino», brontola il vecchio, «potrai tornare, se vorrai». Stanco morto ma fiero e felicissimo, Tom si lascia cadere sul suo letto. Da allora torna ogni sera nella sala di comando. Con poche parole e tanti brontolii il vecchio marinaio gli insegna come si governa una nave. Affascinato, Tom impara il linguaggio del vento, delle onde, della luna e delle stelle. Egli ammira il suo maestro. Non ha più tempo né voglia di pensare a mangiare, e solo di rado gli vengono pensieri tristi.
Quando tre mesi dopo la nave arriva in un porto, Tom è ormai diventato un buon ufficiale di rotta. Il vecchio marinaio gli propone di continuare a lavorare con lui. Ma Tom scende a terra, prende servizio su un'altra grande nave e inizia un nuovo viaggio da solo. P er i genitori: « Tom in viaggio per mare» ovvero un ragazzo in conflitto di ruolo A ntefatto Tom ha dodici anni. Quando si è separata dal marito, sua madre lo ha preso con sé senza chiedergli nulla. Si è trasferita con lui in un' altra città, molto lontana da quella in cui vivevano prima. Il padre di Tom è rimasto con il fratello del ragazzo nella casa in cui abitavano prima della separazione. Entrambi i genitori desiderano occuparsi di Tom in modo esclusivo. Il ragazzo si sente come l'uomo che sta vicino alla madre e le fa da sostegno, ma si sente anche figlio di suo padre e compagno di giochi di suo fratello. Questa molteplicità di ruoli, assommata agli impegni e alle preoccupazioni di tutti i giorni ­ cambio di scuola, trasloco, vita nella grande città, mancanza di denaro ­ risulta troppo gravosa per Tom: è un disadattato. Il suo umore passa dall' aggressione alla depressione. Quando è depresso, mangia in modo esagerato. Pur essendo un ragazzo dotato, a scuola va sempre peggio. Obiettivo Obiettivo della storia è motivare Tom a concentrare le proprie forze sulla soluzione dei suoi problemi scolastici, invece di ingarbugliarsi in conflitti di ruolo. P rocedimento narrativo Quale metafora per la vita di Tom adoperiamo un viaggio in nave. Quello che può essere d'aiuto al ragazzo per risolvere il suo problema è l'impegno nello studio. Così egli si assume la responsabilità di se stesso e trova il modo di liberarsi dai ruoli che i genitori gli assegnano. Perseguendo con coerenza un obiettivo, fa in modo che la sua vita acquisti nuovamente un senso stabilito da lui stesso. I l miele magico Ai margini del bosco, dove il prato digrada dolcemente verso il fiume, si erge un vecchio noce possente. Nella sua chioma nidificano cinciallegre e codirossi. Uno scoiattolo marrone ha fatto la sua tana nella parte più alta del tronco. La corteccia dell' albero ospita innumerevoli coleotteri, bruchi e zanzare. Nelle parti fradice del tronco ci sono i favi di una grossa colonia di api. Tra le radici nel terreno, vicino a un grosso rospo verdastro, abita una famiglia di topi con tanti topolini irrequieti. Lì nei pressi c'è l'ingresso alla tana degli orsi. Sotto, molto in basso, dove il terreno è caldo e soffice, sta mamma orsa con il suo orsacchiotto Borbottone. All' orsacchiotto piace molto la vita nel fondo della tana. Lì la luce arriva smorzata e c'è un profumo piacevole di pelle d'orso e naturalmente di miele, perché mamma orsa ha sempre accanto a sé un grosso vaso di creta pieno del miele più squisito prodotto dalle api selvatiche. Sul vaso è incollata una vistosa etichetta con la scritta «Miele ­ Marca Invulnerabile». Questo fatto è molto importante per Borbottone. Già alcune volte, in occasione delle sue esplorazioni ai confini del bosco, ha tentato di rubare il miele dai favi appesi al tronco del noce, ma ogni volta, guaendo e con il naso tutto punzecchiato dalle api, ha dovuto tornare di corsa da mamma orsa e dal suo vaso di miele. La mamma allora gli toglieva i pungiglioni dal naso, cosa che gli procurava un dolore tremendo, lo prendeva tra le sue zampe forti e pelose e gli dava da mangiare un po' del miele del suo vaso, finché il cucciolo non
tornava a sentirsi del tutto a suo agio. Sì, era davvero piacevole la vita nella tana sotto il vecchio noce. Ma un giorno, mentre mamma orsa è nel bosco in cerca di cibo e Borbottone dorme sognando scorpacciate di miele, ecco che accade qualcosa di terribile. La terra comincia a tremare e un violento fragore lacera l'aria. Si sentono rumori e brontolii minacciosi, schegge volano per ogni dove, una luce abbagliante penetra nella tana di solito in penombra. Quando Borbottone apre gli occhi spaventato, gli si presenta uno spettacolo tremendo: la terra è piena di fenditure, dappertutto ci sono mucchi di pietre e di detriti, la chioma del vecchio noce giace a terra tutta lacerata vicino al tronco spaccato in due. Gli animali sono agitatissimi, svolazzano qua e là e strepitano facendo una grande confusione: «Salvate il codirosso, è rimasto bloccato sotto il ramo!». «Liberate i topolini, sono in mezzo alle pietre!». «Dov'è finito il nido che mi sono costruito con tanta fatica?». Le api ronzano disperate dappertutto. Alla vista degli insetti così irritati, Borbottone fugge verso il punto in cui ancora pochi momenti prima c'era la sua amata tana. Dov' è il vaso del miele? Ahimè, una pietra lo ha mandato in frantumi. La massa gialla e appiccicosa scorre per terra e centinaia di api vi si stanno precipitando sopra. Borbottone corre via più veloce che può e si lamenta invocando mamma orsa. Ma non riceve risposta. La sua mamma se n'è andata in cerca di cibo. Ed ecco che l'orsacchiotto si ricorda di avere anche un papà e una sorella. Da tempo se ne sono andati e adesso hanno certamente una bella tana calda e sicura. Guaendo si mette in cammino per cercarli. Quando si sente tormentato dalla fame, si consola pensando: «Di certo papà avrà un bel po' di miele di quello buono!». Finalmente, dopo parecchi giorni,l'orsacchiotto arriva spossato alla dimora del padre e della sorella, che lo accolgono con affetto. Lì però Borbottone trova da mangiare soltanto della marmellata di ribes tutta piena di semi. Il terremoto ha aperto enormi crepe nella nuova tana, e papà orso ha il suo bel da fare a ripararle. Quando Borbottone si offre di aiutarlo, suo papà gli risponde corrucciato: «Lasciami in pace, farò prima da solo».
Così dopo qualche giorno Borbottone lascia il padre e la sorella e se ne va. Non sa bene dove andare e qualche volta, quando è da solo in mezzo al bosco, è preso dalla paura. Un giorno, sfinito dopo tanto camminare, fa una sosta su un prato verde. Si sente solo e abbandonato, ingiustamente castigato dal destino. Ad un tratto qualcuno lo pizzica sulla coda. Borbottone fa un balzo e grida: «Un'ape, un'ape!». Ma sul prato c'è qualcuno che ridacchia, e quando il nostro orsetto si gira si trova davanti un cucciolo d'orso che non conosce. «Non startene lì con le mani in mano, stordito che non sei altro!», gli dice quest'ultimo. «Aiutaci piuttosto a costruire la nostra zattera. Faremo un bel viaggio, sai!». Borbottone non capisce e, invece di rispondere, spalanca gli occhi per la sorpresa. «Va là, imbranato!» gli fa l'altro, e corre via. Incuriosito, Borbottone si alza, smette per un momento di pensare al vaso del miele che non c'è più e segue le orme del cucciolo sull'erba. Pauroso com'è, ci mette parecchio a ritrovarlo. Ma l'orsetto non è più solo: in riva al fiume ci sono più di dieci cuccioli d'orso tutti indaffarati a raccogliere tronchi e grossi rami. Altri, a gruppi di tre o di quattro, trasportano lunghe liane dal margine del bosco fino al fiume. Tutti insieme stanno costruendo una zattera. Uno degli orsi vede Borbottone e gli dice: «Vieni, aiutaci, navigherai con noi e ti divertirai un sacco!». Zitto zitto, Borbottone si mette al lavoro. All'inizio, sentendosi debole, fa molta fatica a sollevare e a trasportare i tronchi, e quando lo mandano da solo nel bosco a prendere i rami la paura lo assale di nuovo. Gli altri orsetti invece fanno tutto insieme e mentre lavorano ridono allegri, si danno spintoni e fanno capriole all'indietro. A Borbottone quell' atmosfera piace molto, e ogni giorno che passa si fa più forte e coraggioso. Lungo il fiume impara a pescare: come sono buoni i pesci! Un giorno Furbacchione, uno degli orsetti, gli insegna come procurarsi il miele senza farsi pungere dalle api: «Cammina adagio», gli dice, «avvicinati alle api solo quando le vedi volare allegre al sole, cospargiti la pelliccia di polline e offriglielo in dono. Allora giocheranno volentieri con te, danzerete insieme sull' erba ed esse stesse ti offriranno il loro miele, perché avranno capito che sei loro amico». Borbottone segue il consiglio e da allora può papparsi tutto il miele che vuole. Dopo poco tempo la zattera è pronta. Gli orsetti si preparano a partire per un lungo viaggio. Fin dove arriveranno? P er i genitori: « I l miele magico marca " I nvulnerabile" » ovvero come staccarsi dalla simbiosi con la madre A ntefatto La madre di Hans si è separata dal marito e si è trasferita in un' altra città con il figlio di sette anni e la figlia più grande. La sorella ha poi voluto tornare dal padre. Attualmente i genitori sono in causa perché ciascuno di essi rivendica il diritto di prendersi cura di Hans. Il padre rinfaccia alla moglie di aver allattato Hans fino all' età di quattro anni. Per paura di «perdere» il figlio e di doverlo lasciare al marito, la madre si comporta nei confronti di Hans in un modo che denota insicurezza e paura. Il bambino cerca rifugio in comportamenti regressivi. Tali comportamenti danno al padre occasione di esercitare sulla madre una pressione ancora maggiore. Tuttavia il problema di Hans non è costituito dalle presunte profferte della madre, bensì dalla sua evoluzione sociale, non avvenuta in modo normale a causa della simbiosi con la madre stessa.
Obiettivo La fiaba ha lo scopo di aiutare Hans a liberarsi dalla simbiosi con la madre, a raggiungere l'autonomia dal punto di vista fisico e a sentirsi sicuro con il proprio corpo. P rocedimento narrativo Il procedimento narrativo della fiaba è quello «classico». La trama del racconto inizia con il problema dell'atteggiamento eccessivamente protettivo tipico della simbiosi e, al di là della catastrofe rappresentata dalla separazione dei genitori, porta alla soluzione del problema: una vita felice grazie all' accettazione da parte dei coetanei. I cuccioli d'orso sono quelli che aiutano il ragazzo a risolvere il suo problema. Zippel Zappel Zuppel fanno cagnara In un laghetto di montagna limpido e azzurro vive Zippel, la trota. È scaltra e veloce. Nessuno dei pescatori che trascorrono le vacanze nel campeggio vicino è mai riuscito a prenderla all' amo. Un giorno arriva sul posto un circo ambulante. L'attrazione della piccola troupe è un elegante pinguino di nome Zappel: è l'unico pinguino che si conosca a non mangiare pesci. Ogni giorno il personale del circo gli da da mangiare panini al prosciutto e insalata. Se gli si mette davanti un pesce vivo, subito Zappel fa amicizia con lui. Morirebbe di fame piuttosto che mangiare un pesce. Una notte il custode dimentica di chiudere la gabbia in cui vive Zappel. Il pinguino esce e si dirige saltellando verso il lago: entra in acqua, ma la trova insopportabilmente calda. Zappel salta subito fuori dal lago, prima che la trota Zippel abbia il tempo di spaventarsi. Il pinguino sceglie allora per la sua passeggiata notturna una stradina nelle vicinanze. Arriva a una fattoria e, attratto dall' odore, entra nella stalla. Lì trova un grazioso porcellino rosa. «Mi chiamo Zuppel», dichiara il porcellino, «e tu come ti chiami?». «Mi chiamo Zappel», risponde il pinguino, "vuoi che siamo amici? Vieni, andiamo giù al lago a giocare!". Zuppel sulle sue zampette rigide saltella così veloce giù per il pendio che porta al lago, che Zappel non riesce a stargli dietro col suo passo lento e saltellante. Inciampa, rotola giù per la china, cade su Zuppel ed entrambi piombano insieme nell' acqua fredda del lago, proprio sulla trota Zippel. Quando tutti e tre si sono ripresi dallo spavento, il pinguino chiede educatamente scusa agli altri due. «Vi prego di scusarmi», dice, continuando a inchinarsi nella sua lucente marsina bianca e nera, «oggi sono così agitato! Vi prego di scusarmi!». Ecco che d'un tratto il porcellino balza in piedi e comincia a sgambettare come un forsennato, in segno di simpatia per il suo amico pinguino. «Fate anche voi come me», dice, «sgambettare così è davvero divertente!». E subito Zippel inizia a dimenarsi nell'acqua, poi spicca balzi in aria e si lascia ricadere nel lago con grandi tonfi. Zappel si agita sulla riva accanto a Zuppel. Batte le ali una contro l'altra, saltella, si sbellica dalle risa tentennando il capo. Però con tutto quel dimenarsi e agitarsi i tre fanno un gran baccano. Grugniscono, fanno rumori di ogni genere: li si sente fin nel folto del bosco. Il frastuono sveglia il vecchio gufo, il maestro degli animali. Costui, irritato, si stropiccia gli occhi, vola silenzioso fino alla riva del lago e osserva dall' alto tutto quel trambusto. Poi chiama gli animali del bosco, da tempo svegli a causa del rumore, e dice: «Giù in riva al lago ci sono tre animali, un pinguino, un porcellino e una trota, che fanno
un gran baccano. Se continuano così, finiranno per impazzire tutti e tre. Che degli uccelli facciano un tale frastuono è normale, ma che lo facciano tre animali come quelli non lo è per niente. Dobbiamo fare qualcosa. Chi ha un'idea?». Un ragno nero e peloso con una macchia gialla sul dorso chiede la parola e dice, con la sua vocina appena percepibile: «lo ho un'idea, ma per adesso non ve la dico. Venite tutti domani mattina alle cinque e mezza giù in riva al lago, e portatemi anche qualcosa, perché la mia idea è davvero geniale e vale un compenso». Sentito ciò, tutti gli animali se ne vanno alla svelta a dormire, di modo che alle cinque, quando il gallo come stabilito li sveglia con il suo chicchirichì, hanno riposato almeno un po'. Tutti insieme si procurano il compenso che il ragno aveva chiesto, due rane, tre topi e cinque lumache, e scendono pian piano verso il lago, aspettando che arrivino il ragno e il gufo. Nascosti dietro i cespugli, osservano Zippel, Zappel e Zuppel che continuano ad agitarsi come ossessi alla luce della luna, tanto che a malapena li si può distinguere l'uno dall'altro. Sembra persino che ormai non si stiano più divertendo. Ed ecco che di colpo, per tre volte di seguito, si sente echeggiare un lugubre «Uhuuu!», e al tempo stesso si vede il ragno che si cala lentamente da un ramo attaccato al suo filo argenteo, proprio sulle teste dei tre che si stanno dimenando come disperati. La macchia gialla sul dorso del ragno risplende minacciosa alla luce della luna. Quando Zippel, Zappel e Zuppel vedono l'insetto sopra le loro teste, spalancano gli occhi per lo stupore. Il ragno attaccato al filo comincia lentamente a oscillare avanti e indietro, mentre il gufo lancia i suoi lamentosi «Uhuuu! Uhuuu! Uhuuu!». Dopo aver a lungo seguito con gli occhi la macchia gialla che si muove su e giù, i tre amici si sentono invadere da un' enorme stanchezza a cui non riescono a resistere. Si lasciano scivolare a terra tutti e tre e cadono in un sonno profondo. Anche gli altri animali si addormentano. Si risvegliano soltanto cinque ore più tardi, quando il sole è già alto nel cielo. «È stato un sogno», pensa Zippel. «Però è stato bello riuscire a smetterla di colpo con tutto quel dimenarsi», pensa Zappel. «Ho fatto davvero una bella dormita, ci voleva», pensa Zuppel. E, cosa strana, tutte le volte che dopo quella notte a Zippel, Zappel e Zuppel capita di agitarsi tanto da non riuscire neppur più a divertirsi, è come se davanti ai loro occhi apparisse una luminosa macchia gialla che oscilla avanti e indietro, e alle loro orecchie risuonasse per tre volte un lungo «Uhuuu! Uhuuu! Uhuuu!». P er i genitori: « Zippel, Zappel e Zuppel fanno cagnara» , ovvero quando i bambini non riescono a stare calmi A ntefatto Leo, Ludwig e Lena (i primi due sono fratelli gemelli di undici anni, mentre Lena, la loro sorella, ne ha dieci) dopo il divorzio dei loro genitori, che hanno deciso di continuare a prendersi cura insieme dei figli, vivono a turno una metà della settimana con la madre e l'altra metà con il padre. Questo tipo di vita comporta per i ragazzi lunghi spostamenti per raggiungere la scuola e i luoghi di divertimento. Inoltre essi devono continuamente cercare di raccapezzarsi e
adattarsi agli stili di vita opposti dei loro genitori. Tutti e tre soffrono di difficoltà di concentrazione e hanno problemi scolastici. Obiettivo Obiettivo della storia è mostrare ai ragazzi come possono imparare ad allentare la tensione interiore e a calmarsi quando lo stress a cui sono sottoposti nella vita di tutti i giorni diventa troppo forte. Nella vita reale i tre fratelli praticano il training autogeno come terapia che può aiutarli a risolvere i loro problemi. P rocedimento narrativo Questa storia è stata inventata dai tre ragazzi. Leggendo ci si può rendere conto di come i tre abbiano svolto questa loro attività e di come sia possibile aiutare i bambini ad inventare storie, capendone il messaggio. Rosamunda Lontano da ogni altra dimora, in un punto in cui gli scogli si gettano ripidi nel mare tempestoso, si erge il castello di Rosamunda. In esso la donna abita da sola con poche fidate domestiche. Ma non è sempre stato così. Ancora pochi anni or sono Rosamunda viveva in città e ogni giorno passava per le strade ampie ed eleganti del centro in groppa al suo bianco cavallo. Indossava abiti di seta rossa ed era adorna di gioielli preziosi. «Ecco Rosamunda, la più bella di tutte le donne!», esclamavano gli abitanti della città, ossequiandola. Poi però un grande dolore colpì Rosamunda ed ella da un giorno all'altro abbandonò la città. Giurò che non sarebbe mai più tornata nel luogo in cui tanto male le era stato fatto. Oltre alle domestiche, la donna aveva portato con sé al castello un uccellino, il cui nome era Ugola d'Oro. Era un piccolo uccello, grazioso e allegro, dalle penne splendenti color bruno dorato e dal piumaggio di un giallo tenue sul petto. Ugola d'Oro cantava in modo meraviglioso e Rosamunda trascorreva le giornate in sua compagnia. Lo lavava in una bacinella dorata e poi gli asciugava le penne col fiato e lo accompagnava nel canto delle più belle canzoni. Spesso sedeva alla finestra accanto alla sua gabbia e lo guardava con affetto e tenerezza. Rosamunda amava il suo uccellino più di se stessa. Un giorno Rosamunda si accorse che Ugola d'Oro non cantava più allegro come prima. Soprattutto la sera, quando il sole si gettava nel mare, intonava canti malinconici in direzione della città, il luogo in cui era nato. In un primo tempo Rosamunda non volle ammettere ciò che da tempo sospettava, ma siccome il suo amato uccellino si faceva sempre più debole e triste e lei capiva che cantava le sue allegre melodie soltanto per farle piacere, sentì una voce inesorabile dentro di sé che le diceva: «Ugola d'Oro ha nostalgia della città: lascia che voli fin laggiù!». Rosamunda fu presa dall' angoscia e sentì un brivido di paura percorrerla tutta. La sua risposta fu immediata: «No, mai! La città è crudele e il mio uccellino è debole e indifeso; laggiù avrà soltanto da soffrire!». La voce interiore tacque, ma quella notte Rosamunda fece un sogno terribile. Le apparve una chiocciola chiusa nel proprio guscio, che non riusciva più a tirare fuori le antenne e che malgrado facesse sforzi penosi moriva miseramente di fame. La donna si svegliò terrorizzata e in un bagno di sudore. La voce interiore le diceva: «Lascia che Ugola d'Oro se ne vada!».
Rosamunda corse alla gabbia in cui il suo amato uccellino se ne stava triste e sconsolato, ma proprio allora le tornarono alla memoria i ricordi delle offese che aveva subito in città: le venne in mente che il suo caro uccellino avrebbe dovuto soffrire quello che lei aveva sofferto. «No, mai!», esclamò a voce alta. E si mise a lavare Ugola d'Oro nella bacinella dorata. La notte seguente un nuovo sogno la angustiò. Sognò una lepre che, per sfuggire a una volpe da cui era inseguita, scavava nel terreno un buco profondissimo. Ma, quando finalmente tornava alla luce, la bestiola era diventata cieca. E nuovamente al risveglio la solita voce interiore le ordinò: «Lascia che Ugola d'Oro voli via!». Ma di nuovo il ricordo delle terribili esperienze passate la sopraffece e un' angoscia tremenda la invase. E la donna disse ancora una volta di no. La terza notte il sogno che la funestò fu ancora più tremendo dei precedenti. Sognò che una giovane a lei sconosciuta avvolgeva con amorevole sollecitudine il suo neonato in lunghe fasce candide, partendo dai piedi per giungere fino alla testa. Fatto questo, la donna avviluppava con gran cura le fasce attorno al capo del bambino; alla fine però il piccolo corpo era immobile e da esso non usciva più alcuna voce. Rosamunda si svegliò urlando e si precipitò alla gabbia del suo uccellino. Tremando gli legò al collo una campanella d'argento e ne fissò una uguale al davanzale. Poi aprì la gabbia e la finestra: Ugola d'Oro rizzò le penne e volò via. La campanella che aveva al collo e quella fissata al davanzale risuonarono per un momento all'unisono. Ma soltanto per un attimo quel suono armonioso diede a Rosamunda una sensazione di sicurezza, poi un' angoscia tremenda la colse. Ritornò nuovamente in sé solo quando si accorse che le due campanelle avevano ripreso a squillare all'unisono. Il disco rosso del sole stava tramontando nel mare e Ugola d'Oro era di nuovo nella sua gabbia. Pazza di gioia Rosamunda corse da lui, ma lo trovò ridotto in uno stato pietoso. Aveva le penne tutte arruffate e il bel piumaggio sul petto era cosparso di macchie scure e unte: forse macchie di sangue!
Le ritornarono in mente i vecchi ricordi e tremò al pensiero che il suo uccellino potesse essere stato ferito. Durante la notte seguente Rosamunda non dormì, per paura di fare altri brutti sogni. «Mai più!», si diceva, «mai più lo lascerò andare! Proprio non posso!». Ma quando, il mattino dopo, stanca per la notte insonne, si avvicinò alla gabbia di Ugola d'Oro, vide che l'uccello se ne stava già impaziente davanti all'usciolo, cantando il suo desiderio di rivedere la città. Non sembrava che la città natale gli avesse lasciato brutti ricordi. Ma Rosamunda non aprì l'usciolo della gabbia e cercò con le sue premure di distogliere l'uccellino dal suo proposito. E per un po' ci riuscì. Però in certi pomeriggi Ugola d'Oro tornava a essere triste e apatico, una volta addirittura fu colto da un accesso d'ira e tentò di beccare la sua padrona. Allora Rosamunda con mani tremanti gli legò al collo la campanella e lo lasciò volare via. Rosamunda trascorse il resto della giornata oppressa dall'angoscia e da un senso d'impotenza. Al calar della sera le due campanelle presero a squillare all'unisono e Ugola d'Oro fece ritorno alla sua gabbia. Per un momento Rosamunda si sentì invasa da una piacevole sensazione di amore e di sicurezza. Poi l'uccellino cominciò a cantare: erano melodie cittadine, melodie che alla donna ricordavano le dolorose offese di un tempo. Alla mente di Rosamunda si riaffacciarono gli antichi fantasmi, i ricordi degli oltraggi i patiti. «No!» gridò, chiudendo l'usciolo della gabbia. Il giorno successivo la donna si ammalò gravemente. Supplicò Ugola d'Oro di non cantare almeno per quel giorno quei canti per lei così tristi e di stare serenamente in sua compagnia almeno per una volta. L'uccellino si sforzò di accontentarla, ma la sua nostalgia della città era troppo forte e alla fine Rosamunda, in lacrime, si rassegnò ad aprire la gabbia. Tanta era l'angoscia e la prostrazione che l'avevano invasa che dimenticò di legare la campanella al collo dell'uccellino. Quando se ne accorse, venne meno: si sentiva abbandonata da tutti e disperata. Solo l'armoniosa melodia di due campanelle che squillavano all'unisono la fece tornare in sé. Il suo caro uccellino aveva fatto ritorno alla gabbia e la guardava allegro e contento. Il suo canto armonioso imitava il suono della campanella. Dunque il suo uccellino era incolume! Le melodie che cantava erano diverse dal solito, il modo curioso in cui spiegava il piumaggio le piaceva. Rosamunda prese a giocare con il suo tesoro e per la prima volta fu contenta della sua gioia. P er i genitori: « Rosamunda» , ovvero amare significa saper lasciar andare A ntefatto Oliver è un bambino di due anni e mezzo. Da poco il padre ha lasciato lui e la moglie, per andare a vivere con un' altra donna. Il comportamento dell'uomo ha profondamente offeso la madre di Oliver, che si trasferisce con il figlio in un' altra città e non permette al marito di vedere il bambino. La donna giustifica il suo atteggiamento dicendo di non poter affidare il figlio a un uomo che ha tradito la sua fiducia. Oliver reagisce alla separazione frignando e piagnucolando, ma la madre interpreta queste manifestazioni come reazioni al cambiamento di residenza. Obiettivo La metafora vuole farle capire che suo figlio sente la mancanza del padre e che per questo soffre. Inoltre la metafora spiega che amare il figlio significa lasciarlo libero e perciò lasciare che faccia le proprie esperienze e instauri rapporti con altre persone, indipendentemente dalle esperienze di sua madre. P rocedimento narrativo
Nel racconto si riproduce il dialogo interiore tipico di molte madri e di molti padri in situazioni simili a questa. Da una parte essi ammettono che i bambini hanno bisogno sia del padre che della madre per crescere sani, dall' altra però sostengono che per il loro bambino non è così, perché il rapporto con l'altro genitore sarebbe nocivo per lui. La fiaba presenta la rivendicazione di possesso che si nasconde dietro questo modo di pensare come una sensazione di angoscia e di dolore legata al dover lasciare i figli liberi di vivere la propria vita. Nella fiaba l'aiuto è fornito dalla legge di natura, per cui crescere significa graduale distacco e acquisizione di libertà. La vite e il M elo Solo le persone molto anziane sanno che, in un tempo molto anteriore a quello della loro giovinezza, è esistita un' epoca in cui gli alberi non soltanto avevano un' ombra, ma anche un' anima e una voce, una voce che esprimeva i sentimenti della loro anima. Gli alberi più alti avevano una voce profonda, quelli piccoli l'avevano più acuta. La voce degli arbusti era un fruscio e quella della campanula si sentiva da lontano. Le erbe invece non facevano che un lieve ronzio, perché la loro anima era così fine e delicata che occorreva un orecchio esercitato per udirne la voce. Di giorno tutte le piante svolgevano il loro lavoro il compito più facile l'avevano i girasoli, che al mattino si limitavano a tendere i loro fiori verso il sole e ne seguivano il corso fino al tramonto, e le rose, che non dovevano fare altro che aprire i petali ed emanare tutt'intorno il loro profumo. Ben più duro era il lavoro per altri fiori, che dovevano produrre parecchio nettare per api e bombi. Però il compito più pesante era quello del melo, che doveva succhiare acqua in gran quantità dal terreno per farla giungere fino alla sua chioma. Ogni sua più piccola radice era impegnata in questa mansione e la corteccia si era fatta callosa per lo sforzo. La pianta faceva fatica a soddisfare le enormi richieste di zucchero, vitamine e sostanze odorose che le pervenivano dai suoi frutti. Ugualmente difficile era il compito che era toccato alla vite, i cui grappoli esigevano sempre più zucchero. Così capitava spesso che il melo e la vite continuassero a lavorare anche dopo il tramonto, quando le altre piante già si lasciavano piacevolmente cullare dalla brezza nel buio. La sorte comune li univa. Fecero amicizia, un'amicizia così profonda che indusse la vite ad avvolgere il suo germoglio più grande attorno al tronco del melo. Le due piante stavano a parlottare tra loro fino a notte alta, e quei momenti li ripagavano delle fatiche del giorno. Qualche volta a far visita alle piante arrivava il vento, soprattutto la sera, quando tutti, anche il melo e la vite, si lasciavano cullare in pace. Il vento giocava con le piante e permetteva che esse giocassero con lui. Si sentivano allora fruscii e mormorii, sussurri e bisbigli.
Quelle che ne facevano di cotte e di crude erano la nolimetangere e la sua amica castagnola, che non pensavano ad altro che a scherzare. Facevano tante di quelle stupidaggini che alla fine il garofano doveva richiamarle all' ordine. Poi piano piano i suoni si facevano più fiochi e infine si spegnevano. Allora si dimenticavano anche gli interminabili litigi della giornata, la lotta per il posto più soleggiato e per le più ricche sostanze nutritive da succhiare alla terra, come pure l'accesa rivalità esistente tra erbe commestibili ed erbacce. Per dirla breve, era una bella vita quella che si viveva nel regno delle piante. Ma un giorno arrivarono tre uomini con tanto di occhiali e di camice bianco. Erano armati di cavalletti, microscopi, pinzette e parecchi altri strumenti. Prelevarono campioni, misurarono, fecero calcoli, ridussero, ampliarono, discussero. Erano interessati soprattutto alla «mostosità», al contenuto zuccherino dei grappoli d'uva. Ma scoprirono una «mostosità» anche nelle mele, e anche questo li interessò parecchio. Trascurarono invece l'ortica e tutte le altre erbe di quel tipo, con loro grande gioia: esse non presentavano «mostosità» alcuna. Dopo una settimana i tre tecnici conclusero il loro lavoro, disegnarono un progetto e se ne andarono. Poco tempo dopo giunsero numerosi giardinieri con tute da lavoro blu; avevano con sé asce, vanghe, seghe e piantatrici di ogni tipo. Parlavano poco, ma segavano, dissodavano, sarchiavano e piantavano dalla mattina alla sera. Per tutto il giorno si sentivano schianti, cigolii e scricchiolii, mentre la zona era avvolta da un nugolo di polvere. Di tanto in tanto i giardinieri confrontavano il loro lavoro col progetto disegnato dagli uomini in camice bianco, al quale si attenevano fedelmente. Poi un bel giorno lasciarono intendere di essere soddisfatti, si misero in spalla i loro attrezzi e se ne andarono. In un primo momento il melo non osò credere che fosse tornata la pace. Quando infine aprì gli occhi, vide il suo mondo trasformato. La vegetazione intorno a lui si era fatta più rada, poteva chinarsi a destra e a sinistra e scuotere i rami finché voleva senza disturbare nessuno. Sentiva crescere nel suo animo un senso di liberazione. Ma poi si guardò attorno. Non c'era più traccia alcuna dell'ortica e di altre erbe di quel genere. Non vedeva più neppure la nolimetangere, sempre così sbarazzina, né la sua amica castagnola. Poi guardò dall'altra parte, verso le rose e le campanule, e sentì il calore del sole sul suo tronco. Sul suo tronco? Soltanto allora si accorse che attorno al suo tronco non c'era più la vite, e nonostante il caldo dell' ora rabbrividì. Alla vite andò ancora peggio. I tecnici in camice bianco avevano deciso che poteva avere una «mostosità» più elevata e l'avevano perciò trapiantata nel lato esposto al sole di un pendio. Fu alimentata con calcio e fertilizzanti a base di trucioli di corno ed ebbe come sostegno un grosso palo di pino scortecciato. Inoltre i suoi germogli furono accuratamente sfrondati. Adesso i grappoli d'uva crescevano e maturavano quasi da soli. Per la vite la faticaccia di un tempo era finita. Ma tutte le volte che sentiva tra i suoi grossi grappoli la presenza del palo, si rendeva conto di quanto le mancassero la corteccia del melo e le chiacchiere notturne scambiate con l'amico. Sentiva un prurito, un formicolio nelle radici, come se le fosse possibile divellerle dalla terra e tornare a piedi, o meglio a radici, dal suo melo.
Riuscì a liberare alcune delle radici dal terreno soffice in superficie, ma il rizoma, interrato da tempo ormai, resistette. La vite, esausta, rinunciò alla lotta. Una pianta non può allontanarsi dal luogo in cui è stata collocata, neppure muovendosi lentamente come una chiocciola. La vite lo sapeva fin troppo bene. In momenti come quelli la nuova vita sembrava insopportabile. Arrivava poi la sera, il momento in cui il vento veniva a far visita alle piante e a giocare con esse. Al vento piacevano la vite e il melo. Ogni sera trasportava fruscii e mormorii dall'una all' altro e viceversa. Allora era come se i germogli della vite fossero ancora avvolti attorno alla corteccia del melo. P er i genitori: « La vite e il melo» ) ovvero i fratelli separati A ntefatto Quando i loro genitori si separano, Hans ha sette anni e Lotte ne ha nove. Siccome i due bambini bisticciano molto tra di loro e poiché Hans è il figlio prediletto del padre, mentre la madre preferisce Lotte, i genitori decidono che Hans resti col padre e Lotte si trasferisca con la madre in casa del suo nuovo compagno. Obiettivo Obiettivo della fiaba è chiarire ai genitori che tra i due fratelli esiste un rapporto naturale, il cui mantenimento è più importante di tutti i vantaggi che potrebbero derivare da una separazione. Sia i genitori che i figli dovrebbero tornare a riflettere sulla loro decisione. P rocedimento narrativo Gli uomini vestiti di bianco e di blu interessati alla «mostosità» rappresentano gli adulti che progettano un nuovo ordine, senza pensare che così facendo distruggono un mondo infantile, la crescita in comune da parte del melo e della vite. Il vento simboleggia la speranza. I due fratelli resteranno legati l'uno all'altra: questo è certo, così come è certo che la sera il vento tornerà a spirare tra gli alberi.. I l Topolino C'era una volta un topolino che viveva nella sua tana con la mamma. Era un topolino come tutti gli altri: non era né più piccolo né più grosso, né più coraggioso né più fifone, né più furbo né più sciocco di qualsiasi altro topolino. Tuttavia a suo modo era uno strano tipo, proprio come tutti noi. Questo topolino però aveva una particolarità tutta sua: diceva che il suo papà era uno scoiattolo. Naturalmente non era vero, perché, come tutti sanno, il figlio di uno scoiattolo è uno scoiattolo e il papà di un topo è un topo. Ma il nostro topolino era fermamente convinto che il suo papà fosse uno scoiattolo. Chiunque avesse visto anche solo una volta un topo e uno scoiattolo avrebbe potuto dirgli che il suo papà era un topo e non uno scoiattolo. L'unica cosa che il suo papà aveva in comune con gli scoiattoli era un brillio vagamente rossiccio del pelo. Per il resto il papà del topolino assomigliava a quello che era, vale a dire a un topo. Al nostro topolino avevano detto infinite volte che il suo papà era un topo: gliel' avevano ripetuto la mamma, la nonna, la maestra, lo zio, gli amici e tutti i compagni della squadra di calcio in cui giocava. Ma il topolino si ostinava ad affermare che il suo papà non era un qualsiasi topo, bensì uno scoiattolo. Perciò, diceva, il suo papà era forte, svelto, intelligente e scaltro, sapeva spiccare salti altissimi e sapeva correre molto veloce, tutte cose queste che gli scoiattoli sanno fare benissimo. Il topolino continuava a ripetere questa filastrocca, a proposito e, ahimè, anche a sproposito. A lungo andare la storia di suo padre che era uno scoiattolo finì per scocciare tutti, e bastava che aprisse la bocca per dire: «Dunque, il mio papà.. .», che tutti prendevano a sbuffare e si mettevano a cantilenare in coro: «È il più forte,
il più svelto e il più intelligente scoiattolo che ci sia al mondo! Peccato solo che sia un topo!».Se il nostro topolino protestava, gli amici gli voltavano le spalle e non lo stavano più a sentire. Così con l'andare del tempo egli finì per trovarsi piuttosto solo: gli altri topolini giocavano con lui sempre più raramente. Questo fatto preoccupava molto la sua mamma: vedeva che il suo piccolo sempre più spesso restava da solo e che gli altri lo prendevano in giro. Sovente cercava di farlo ragionare e gli diceva: «Il tuo papà è un topo, come tutti i papà dei tuoi amici. Lo sai bene, no?».Ma il topolino scuoteva il capo e rispondeva: «No, mamma, il mio papà è uno scoiattolo, e non un topo qualunque!». La mamma si lambiccava il cervello notte e giorno nel tentativo di venire a capo della faccenda. Da una parte sapeva bene che il papà del suo piccolo era un topo e non uno scoiattolo: e chi meglio di lei avrebbe potuto saperlo? Dall' altra parte però credeva di sapere quale fosse il motivo per cui suo figlio continuava a sostenere con tanta caparbietà una sciocchezza del genere. Il fatto era che il piccolo non vedeva quasi mai suo padre. Infatti i genitori si erano separati da molto tempo, e lui viveva da solo con sua madre. Il topolino aveva visto il papà soltanto un paio di volte in vita sua, e l'ultima volta era stato tantissimo tempo fa. Probabilmente non l'avrebbe neppure riconosciuto, se l'avesse incontrato per caso. La maggior parte dei suoi amici topolini viveva con entrambi i genitori. C'erano sì dei topolini i cui genitori si erano separati: vivevano con la loro mamma, oppure con il loro papà, oppure un po' con l'uno e un po' con l'altra. Tutti conoscevano il loro papà e l'avrebbero riconosciuto anche in una notte buia in mezzo all'infuriare di una tempesta. La mamma credeva che il suo piccolo continuasse a raccontare quelle sciocchezze riguardo al padre scoiattolo perché non conosceva bene il suo vero papà. Le sarebbe piaciuto cambiare le cose, ma non sapeva come fare. Frattanto il topolino era sempre più convinto di avere come padre uno scoiattolo. A scuola andava male: invece di stare attento e di partecipare attivamente alle lezioni, passava il tempo a disegnare scoiattoli. Quando andava a scuola adesso stava sempre per conto suo, mentre prima faceva chiasso e giocava a rincorrersi con gli altri. Stava a guardare le cime degli alberi, per vedere se c'erano degli scoiattoli sui rami. Il pomeriggio se ne stava a casa tutto solo, perché i suoi amici ne avevano abbastanza delle solite storie su suo padre scoiattolo e non lo venivano più a chiamare. Una mattina, mentre faceva colazione, la mamma lo guardò tutta seria e gli disse: «Oggi pomeriggio, quando tornerai a casa da scuola, troverai qui il tuo papà. Verrà a trovarti e potrete fare una gita insieme». Il nostro topolino si avviò a scuola tutto contento. Cantava ad alta voce e a tutti i topolini che incontrava gridava: «Oggi arriva il mio papà! Arriva il mio papà scoiattolo!». Ma gli altri non gli davano retta, troppo spesso avevano sentito parlare di quel suo papà scoiattolo. A scuola il topolino non vedeva l'ora che le lezioni finissero per poter correre a casa. Quando finalmente suonò la campanella, sfrecciò via come un lampo e giunse alla sua tana col fiatone. Trovò un topo seduto al tavolo di cucina. Era un topo come tutti gli altri: piccolo, con il pelo lucente vagamente rossiccio, i baffi tremolanti, gli occhi neri e un bel musetto appuntito.«Dov' è il mio papà?», chiese il topolino ad alta voce. «Mamma, hai detto che sarebbe venuto il mio papà!».«È lui», disse la mamma indicando il topo, i cui baffi ora tremavano ancora di più. Il topolino lo guardò e gridò: «Quello non è il mio papà! Quello non è che uno stupido topo!
Il mio papà è uno scoiattolo e non un topo qualunque!». I baffi del topo presero a tremare sempre di più e i suoi occhi luccicarono, come se stesse quasi per piangere. Fece una smorfia e disse con un filo di voce: «È vero, piccolo mio, sono solo un topo e non uno scoiattolo. Ma sono il tuo papà, e desidero giocare con te nel parco». Al topolino l'idea non piacque. Non voleva avere niente a che fare con quel presunto padre. E ancor meno voleva essere visto in giro con lui. Cosa avrebbero pensato gli amici, dopo che lui aveva sempre detto che il suo papà era uno scoiattolo?Alla fine però si lasciò convincere. Andarono al parco, dove giocarono a nascondino e a prendersi, mangiarono un pezzo di formaggio, bevvero qualcosa e tornarono a giocare a prendersi. Fu un bel pomeriggio e volò via senza che se ne accorgessero. Verso sera si sedettero sull'erba l'uno vicino all' altro e stettero a guardare il sole che tramontava dietro gli alberi.«È stato bello oggi, ragazzo mio», disse il topo a bassa voce, «e soltanto adesso mi accorgo di quanto mi sei mancato. Mi piacerebbe vederti spesso, per fare con te quello che i padri fanno con i figli. Sei d'accordo?».«Sì, papà», disse piano il topolino. Suo padre lo guardò con tenerezza, e si vedeva chiaramente che era contento che il topolino lo avesse chiamato «papà». Poi il topo accompagnò a casa suo figlio. Per strada incontrarono un compagno di scuola del topolino, che squadrò i due e poi esclamò: «Ehi, topolino, tuo padre non assomiglia per niente a uno scoiattolo. Non è che un topo!». Il topolino trasalì. Poi alzò la testa ed esclamò a sua volta: «Ma certo che è un topo! Però è forte, intelligente, scaltro, salta altissimo e corre veloce, proprio come uno scoiattolo! Hai qualcosa da dire?».Guardò in su verso il suo papà, poi i due si scambiarono una strizzatina d'occhi e proseguirono verso casa. Per i genitori: «Il topolino» ovvero il superpadre sognato A ntefatto I genitori di Sven sono separati da tre anni e non hanno alcun interesse a incontrarsi di nuovo. Sensi di colpa e di pudore, oltre al ricordo di offese fattesi a vicenda, impediscono loro di avere contatti. Tutti e due intraprendono una carriera professionale. Sven, ben inserito dal punto di vista sociale, cresce con la madre. Colpisce il fatto che, quanto più a lungo stia lontano dal padre, tanto maggiori siano le fantasticherie che egli racconta sul suo conto. Le storie che il bambino racconta sono talmente irreali che i suoi amici cominciano a prenderlo in giro e a evitarlo. A tali comportamenti Sven reagisce ripiegandosi su se stesso e accentuando la sua tendenza alle fantasticherie. Obiettivo La fiaba è destinata a essere letta ad alta voce alla madre, che dei due genitori è quella che ha avuto il diritto a prendersi cura del figlio. La madre dovrà fare tutto il possibile per inserire
nuovamente il padre nella vita del figlio, di modo che il ragazzo possa farsi di lui un'immagine obiettiva. P rocedimento narrativo La fiaba trasferisce il problema in una metafora avente come protagonisti degli animali, e resta in tal modo vicina alla consapevolezza del bambino. I mezzi stilistici adoperati sono quelli dell' esagerazione e della ripetizione. Le molte fantasticherie che un bambino può crearsi riguardo al genitore assente vengono riunite in un unico motivo, e ciò conferisce forza alla metafora. I olanda e fiori azzurri C'era una volta una principessa di nome Iolanda, che viveva felice con i suoi genitori in uno splendido castello. Suo padre era un re saggio e magnanimo ed era molto affezionato alla sua famiglia. Ogni tanto faceva un viaggio nelle sue terre, per controllare che tutto andasse per il meglio. Quando il re era assente, la regina sua moglie e la principessa Iolanda sentivano una grande nostalgia di lui e non vedevano l'ora che tornasse. La madre di Iolanda si impegnava nell' amministrazione della casa e curava gli interessi della famiglia. Si occupava con sollecitudine dell' educazione e della salute della figlia e, quando il marito tornava dai suoi viaggi, lo informava dei progressi da lei compiuti. Così ognuno aveva i suoi impegni, tutti erano contenti di fare quello che dovevano fare e lo facevano nel modo migliore. Genitori e figlia vivevano d'amore e d'accordo, e spesso nel castello si sentivano risuonare risate e canti. Iolanda era la principessa più felice che mai si fosse vista al castello, si diceva addirittura che una bambina felice come lei non fosse mai esistita. Lei stessa non sarebbe stata capace di immaginare per sé una vita più bella. Un giorno però lo scontento riuscì a penetrare nel castello, e nessuno avrebbe saputo dire chi per primo gli avesse aperto la porta. Quel giorno Iolanda sentì che suo padre e sua madre stavano litigando. La regina, invece di essere contenta del ritorno del marito, gli rinfacciava i continui viaggi e le lunghe assenze. E il re faceva commenti sprezzanti sugli impegni della moglie, anziché mostrare di apprezzarli come fino ad allora aveva fatto. Nel castello si sentivano risuonare urli e imprecazioni anziché canti e risate. Neppure Iolanda rideva e cantava più, anzi appariva ogni giorno più silenziosa e abbattuta. Una notte la bambina fu svegliata da un baccano terribile. Tremando di paura si mise a sedere sul letto e ascoltò. I suoi genitori litigavano come mai avevano fatto prima di allora. Iolanda non riusciva neppure a capire quello che si dicevano, tanto alte e concitate erano le loro voci. Alla fine le giunsero all' orecchio alcune frasi.«E allora vattene nel tuo regno, se non vuoi più stare nel nostro!», gridava la regina.«Stai pur sicura che lo farò!», gridava il re di rimando. Iolanda si tirò la coperta fin sopra gli orecchi: avrebbe voluto non sentire niente. Quella notte pianse a lungo e si addormentò soltanto alle prime luci dell' alba. Quando il mattino dopo si svegliò, le sembrò che il castello fosse in preda a un sortilegio. C'era un silenzio di tomba e ovunque si avvertiva un senso d'abbandono. Tutti i servi, i garzoni di stalla e le cameriere che Iolanda incontrava passando da una stanza all' altra la salutavano a bassa voce, con lo sguardo rivolto a terra. li vecchio giardiniere, che stava potando i rosai, le diede una leggera carezza mormorando: «Povera piccola!».Iolanda, sentendo l'angoscia crescerle dentro, si mise a cercare sua madre. La trovò nella cucina del castello e le si gettò tra le braccia.«Che cosa è accaduto?», chiese.
«Dov'è mio padre? E come mai questo silenzio?».La regina le disse: «il nostro regno è diventato troppo piccolo. Perciò tuo padre se n'è andato, per fondarne uno tutto suo. Noi invece resteremo qui e continueremo a vivere in questo». «Ma perché?», chiese Iolanda. «Non è forse grande abbastanza? Non si è mica rimpicciolito! Come mai non è più sufficiente?». Ma la regina non rispose. Si volse dall' altra parte e, da come le sussultavano le spalle, Iolanda si accorse che piangeva. E vennero tempi tristi. Iolanda viveva con la madre in quel grande castello. Ora la regina aveva poco tempo per la figlia poiché oltre ai propri impegni doveva adempiere anche a quelli del re. Di rado Iolanda vedeva suo padre e ne sentiva molto la mancanza. Ogni tanto questi arrivava a cavallo al castello e ripartiva con la figlia: la portava a vedere il suo nuovo regno. Si trattava però di una terra inospitale, e il nuovo castello non era ancora ultimato. A Iolanda quel posto non piaceva, ma suo padre le disse: «Vedrai, sarà bellissimo! Quando tutto sarà finito avrò più tempo per te e tu potrai venirmi a far visita spesso; potrai addirittura trasferirti per sempre qui con me!». Quando il re riportava Iolanda a casa, tra lui e la moglie scoppiavano furiosi litigi. Quasi sempre la causa della disputa era il fatto che i due non erano d'accordo sul posto in cui la loro figlia sarebbe vissuta in futuro. «Non appena il mio nuovo castello sarà ultimato, Iolanda verrà ad abitare da me!», diceva bruscamente il re. «Questo lo dici tu!», gridava la regina. «Iolanda resterà qui con me, qui dov'è sempre stata!». Quando era obbligata ad assistere a quei litigi, Iolanda si tappava le orecchie. Era quasi sempre triste e molte volte se ne stava per conto suo, da sola. Sedeva spesso alla finestra ricordando i tempi passati, quando di regni ce n'era uno solo. Pensava a come sarebbe stata la sua vita nel nuovo castello di suo padre. Di certo lui avrebbe avuto più tempo da dedicarle. Ma quando parlava di queste cose a sua madre, vedeva che lei si rattristava. Iolanda voleva bene tanto a sua madre quanto a suo padre, ma in quel periodo era difficile riuscire a voler bene a tutti e due. Passò così molto tempo, durante il quale la principessa attese, sperando e sognando. Finalmente arrivò il giorno in cui il nuovo castello fu pronto. Il padre di Iolanda venne a prenderla, per portarla a vedere la sua nuova dimora. La fece salire a cavallo dietro di sé e partirono. Il nuovo castello era bello, ma Iolanda notò che dentro c'era un odore strano. Suo padre le disse: «Le cose nuove hanno sempre questo odore. Ti ci abituerai, verrai spesso a farmi visita e forse presto verrai ad abitare qui con me». Iolanda non osò chiedere che cosa voleva dire quel «presto». A lei sarebbe piaciuto trasferirsi lì anche subito. Il tempo passò. Iolanda viveva con la madre e ogni tanto andava a far visita al padre. I due riprendevano a litigare tutte le volte che discutevano della futura dimora della loro figlia. Un giorno il re venne come al solito a prendere Iolanda per portarla al suo castello, e le disse con aria misteriosa: «Ho una sorpresa per te. Quando saremo a casa la vedrai» . La curiosità della fanciulla era grande: non vedeva l'ora di giungere al castello del padre. Quando arrivarono e suo padre la fece scendere da cavallo, vide che nel cortile c'erano una donna e una bambina.
«Questa è la mia nuova moglie, Iolanda», disse il re, «e la bambina è sua figlia. Ha la tua stessa età. Adesso hai una sorellina! È una bella cosa, no?». Ma Iolanda non era felice. Al contrario, si sentiva stringere il cuore e gli occhi le si riempivano di lacrime. Aveva avuto tanto desiderio di vivere sola con il suo papà in quel nuovo regno! Ora però accanto alla nuova regina e a sua figlia si sentiva di troppo. Tuttavia celò il suo dolore. Ma ormai le visite al castello del padre non erano più allegre e piacevoli, erano invece penose, e spesso Iolanda tornava a casa triste e delusa. Passava molto tempo da sola alla finestra, guardando fuori e piangendo in silenzio. Un giorno che come al solito se ne stava alla finestra, sentì una voce alle sue spalle: «Principessa Iolanda, perché piangi?». Iolanda si volse e vide il vecchio giardiniere. Allora dal cuore della bambina traboccarono tutti i sentimenti che vi teneva nascosti. «Nessuno mi vuole più bene!» singhiozzò disperata. «Mia madre non ha tempo per me. Mio padre si è preso in casa un' altra bambina. Mi aveva promesso che sarei potuta andare a vivere con lui, ma adesso ha un' altra figlia! » «Iolanda», disse il giardiniere, accarezzando dolcemente i capelli della bambina, «i tuoi genitori ti vogliono bene. Anche se tua madre ha poco tempo per te e tuo padre vive nel suo castello con un' altra donna. Nel suo cuore al primo posto ci sei tu e nessun' altra bambina potrà mai sostituirti». «Ma lei è sempre là, vicino a lui», disse Iolanda tra le lacrime, «e io non ho mai il mio papà tutto per me! Mi dimenticherà! Anche la mamma mi dimenticherà, con tutti gli impegni che ha!». «Se è questo che ti tormenta», disse il giardiniere, tentennando il capo, «ho io qualcosa che può esserti d'aiuto. Non potrà toglierti tutti i dispiaceri e neppure riuscirà a unire i regni dei tuoi genitori, però ti gioverà quando sarai in pena. Vieni con me!». Iolanda lo seguì in giardino, in un angolo ombreggiato, dove sotto un albero crescevano molti piccoli fiori azzurri. «Questi fiori si chiamano non ti scordar di mé», disse il giardiniere, «e sono i fiori di cui tu e i tuoi genitori avete bisogno. Te ne metto qualcuno in questo vaso, affinché non dimentichi che tante persone ti vogliono bene. Ne darò qualcuno alla regina e le dirò quello che non deve mai dimenticare. E anche al re ne darò qualcuno, e anche a lui dirò quello che non deve dimenticare. Adesso va, abbi cura dei tuoi fiori e sta a vedere che cosa succederà». Iolanda se ne andò, portando con sé i fiori azzurri. In camera sua scelse per il vaso il posto più bello, poi si mise davanti ai fiori e stette a osservarli. Rimase lì a lungo, fino a che si fece sera. Quando in camera era ormai quasi buio, la porta si aprì adagio ed entrarono il re e la regina. Tutti e due avevano in mano un piccolo vaso pieno di fiori azzurri. Iolanda li guardò meravigliata, e sentì ridestarsi in lei una tenue speranza.«No», disse la regina, che sapeva leggere i pensieri sul volto della figlia, «tuo padre e io non riuniremo i nostri regni. Lui manterrà il suo regno e io il mio. Ma i nostri continui litigi ci hanno fatto dimenticare una cosa importante. Abbiamo dimenticato di pensare a te e alla tua vita. Oggi questi piccoli fiori azzurri che il nostro giardiniere ci ha regalati ci hanno ricordato questa verità. Davvero, Iolanda, mi dispiace tanto. In futuro mi prenderò maggiormente cura di te e ti dedicherò maggiori attenzioni».«Anche a me dispiace, Iolanda», disse il re, «avrò molta più cura di te e in futuro trascorrerò con te più tempo. Ti farò capire che sei e resterai sempre mia figlia».«Ho deciso che non litigherò più con tuo padre riguardo alla tua futura dimora. Cercheremo una soluzione che sia soddisfacente per tutti», disse la regina, proprio nel momento in cui anche il re diceva le stesse cose.
Per la prima volta dopo molto tempo i due si guardarono in faccia e poi scoppiarono in una risata. Iolanda guardava ora l'uno ora l'altro, e alla fine si mise a ridere anche lei. «E io», disse, «avrò la certezza che mi volete bene tutti e due». E così avvenne che la principessa Iolanda ebbe una casa sua in due regni diversi. Certo avrebbe preferito avere un'unica casa, tuttavia non era più così triste. Nei momenti difficili, quando si sentiva smarrita e insicura, le bastava guardare i fiori azzurri che teneva in camera per ritrovare la serenità. P er i genitori: « I olanda e i fiori azzurri» ovvero per il bene del figlio occorre che tutti e due i genitori si prendano cura di lui A ntefatto Jule è figlia unica di una coppia che si separa quando la bambina ha tre anni. Lei resta con la madre. Il padre lavora molto (anche a causa del maggiore fabbisogno finanziario della famiglia) e nel frattempo fa restaurare un vecchio edificio che ha acquistato. In questo periodo vede di rado sua figlia. Quando le va a far visita, la porta con sé al cantiere dove si sta costruendo la sua nuova casa. L'uomo dice alla figlia che questa nuova casa sarà bellissima e che, quando sarà ultimata, loro due vi andranno a vivere insieme. Questa prospettiva angoscia la madre: ella esclude in modo categorico che Jule possa un giorno andare a vivere col padre. In seguito a questo atteggiamento della donna, il padre chiede di avere il diritto di provvedere da solo all' educazione della figlia e riduce il sussidio finanziario. La madre riprende a lavorare e per questo motivo ha meno tempo a disposizione per la figlia. Siccome i genitori non riescono a mettersi d'accordo sui tempi di affidamento della figlia, i contrasti fra loro si fanno sempre più accesi. Jule incomincia a metterli l'uno contro l'altra. "Se non mi compri questa cosa che mi piace, vado da papà o resto dalla mamma". I rapporti tra i genitori sono troppo tesi per consentire loro di discutere con serenità questo problema. Nel frattempo la casa del padre è ultimata e Jule, che ha ormai cinque anni, spera di andare ad abitare da lui. Le sue pressioni sulla madre si fanno insistenti: visto che la donna non ha più tempo da dedicarle, lei andrà a vivere con il padre. Ma intanto quest'ultimo ha una relazione con un'altra donna, che ben presto va a vivere con lui nella sua nuova casa, portando con sé la figlia di cinque anni. Adesso Jule si sente abbandonata da tutti e reagisce da una parte ripiegandosi su se stessa, dall' altra comportandosi in modo aggressivo nei confronti degli altri bambini che frequentano con lei la scuola materna. Obiettivo L'obiettivo della fiaba è quello di aiutare i genitori a rendersi conto delle difficoltà che sta vivendo la figlia, affinché risolvano i loro contrasti in un modo che non nuoccia alla bambina e continuino tutti e due ad aver cura di lei. P rocedimento narrativo La storia racconta il problema di Jule con una metafora adatta alla sua età. Per i bambini di quell' età è già sufficiente un piccolo straniamento della situazione per trasferirli dalla realtà al mondo della fiaba. Il procedimento narrativo aiuta la bambina a identificarsi con la principessa, l'eroina della fiaba. I l clow n P opov Sibirsk è un villaggio nella lontana Russia, situato molto al di là della catena montuosa degli Urali, nella tundra coperta di muschio e di licheni. A Sibirsk vive Igor, un bambino di cinque anni che da poco tempo va a scuola. Frequenta la scuola materna. Igor è biondo, piuttosto alto per la sua età, esile, e ha sempre un po' di sporcizia sotto le unghie. In poche parole, è un
bambino come tanti, con gli occhi chiari e svegli. In paese tutti lo conoscono: ci si conosce tutti, il villaggio è così piccolo. Il padre di Igor è il sindaco. È l'uomo più importante del paese, dato che è anche il proprietario dell'unica locanda di Sibirsk. Per questo non ha mai tempo da dedicare al figlio. Un giorno d'improvviso per le vie del villaggio si nota un insolito movimento. Chi non ha altro da fare si precipita in strada per vedere che cosa è mai a causare tutto quel baccano. È arrivato un circo! Non certo un circo grande e famoso, comunque il primo circo che si sia mai visto a Sibirsk. In prima fila incede impettito il direttore con il cappello a cilindro, accanto a lui c'è l'elefante, poi vengono tre carrozze variopinte e dietro cavalli, asini, cani e scimmie. Il corteo è chiuso da un clown col naso rosso, circondato da una schiera di galline che svolazzano all'intorno. Ogni volta che il clown fa un verso con la bocca, una delle galline depone un uovo, o per lo meno così sembra. Il giorno successivo è giorno di vacanza. Tutti quelli che sono in grado di camminare vanno al circo. All'inizio dello spettacolo un' acrobata vestita di bianco cavalca, ritta sulla sella, due cavalli appaiati, prima quello di destra, poi quello di sinistra, infine entrambi. Un cane esegue alcune operazioni aritmetiche, come sanno fare abitualmente i cani del circo. Le scimmie fanno scherzi a tutti e si divertono a fare,sempre il contrario di quello che devono. Le loro marachelle scatenano l'entusiasmo dei bambini presenti. Poi compare nuovamente l'acrobata, questa volta come trapezista, su in alto nella cupola del tendone, infine uno squillo di tromba annuncia il momento culminante dello spettacolo. Fanno il loro ingresso in pista Popov, «il clown dal naso rosso», e l'elefante Pipiv. «Popò e Pipì!», gridano i bambini, sbellicandosi dalle risa. Popov suona la tromba, si arrampica sui pali del tendone, inciampa, fa capriole e... giochi di prestigio. All'improvviso il circo è invaso da uova di gallina che compaiono dove nessuno se l'aspetta (Igor addirittura se ne trova una nella tasca dei calzoni) e poi spariscono di nuovo, non si riesce a capire dove. Nel frattempo due stallieri, senza che nessuno li noti, hanno collocato in mezzo alla pista una tinozza piena d'acqua. Subito l'elefante si riempie la proboscide d'acqua e la schizza con uno sbuffo addosso agli spettatori urlanti.
E Popov, che cerca d'impedirglielo, è investito da un gran getto che lo infradicia tutto. Per evitare un' altra doccia indesiderata, il clown cerca scampo arrampicandosi sulla proboscide dell' elefante. Ed ecco che le luci si spengono. L'unica cosa visibile è il naso del clown. Il puntino rosso luminoso sale sempre più in alto e alla fine scompare attraverso l'apertura che c'è nella cupola del circo. Poi le luci si riaccendono. La pista è ormai vuota, lo spettacolo è finito. I bambini, fuori di sé per l'entusiasmo, applaudono, battono i piedi sulle assi del pavimento e acclamano a lungo. Poi, ancora storditi per quanto hanno visto, se ne tornano a casa. Quella notte Igor, come tutti gli altri bambini, sogna il circo. Lui è Popov: alla luce del suo naso color rosso ciliegia, suona la tromba e fa capriole e giochi di prestigio. Tutto si svolge esattamente come nel pomeriggio al circo. C'è persino l'elefante, che con la sua proboscide lo bagna dalla testa ai piedi. Quando si sveglia, Igor si accorge che per l'agitazione ha fatto pipì nel letto, proprio come tutti i bambini di Sibirsk che quella notte hanno sognato Popov e l'elefante. Il mattino dopo la mamma sgrida Igor e gli proibisce di tornare al circo. Ma quando nel pomeriggio tutti gli altri bambini si dirigono nuovamente in massa verso il tendone, anche Igor si unisce ad essi. Come il giorno precedente, Popov fa comparire per incanto un uovo nella tasca dei calzoni del bambino, poi l'elefante infradicia tutti col suo getto d'acqua. Igor si diverte talmente che decide che da grande farà il clown. Quando la mamma se lo vede tornare a casa rosso in viso per la gioia e l'emozione, lo manda a dormire senza cena perché ha disobbedito e lo minaccia: «Se stanotte fai ancora pipì nel letto.. .». Per la paura Igor non riesce ad addormentarsi, ma alla fine cade in preda a un sonno profondo e agitato. Nel sogno lui è ancora Popov e l'elefante lo inonda un'altra volta con l'acqua schizzata dalla proboscide. E si sveglia ancora col letto bagnato. Questa volta la mamma lo accompagna dal medico. Questi spiega che Igor non tollera le emozioni, prescrive al bambino delle gocce di valeriana e gli proibisce tassativamente di entrare ancora al circo. Per tutto il giorno Igor sta nascosto, nessuno dei suoi amici riesce a rintracciarlo. La notte seguente fa sogni brutti e confusi. A volte è l'elefante, a volte il clown, ma nessun gioco di prestigio gli riesce. Il mattino dopo si sente stanco come se non avesse dormito, ma il letto è asciutto. Per la prima volta in vita sua Igor si sente di cattivo umore. Quando nel pomeriggio gli amici come al solito vanno al circo, lui fa sapere che non ci andrà: «Oggi non ne ho voglia», dice. Pensa che, se ci andasse, si agiterebbe di nuovo, poi la sera bagnerebbe ancora il letto e la mamma lo porterebbe dal medico un'altra volta. E il pensiero di tornare dal medico gli dà talmente fastidio da fargli passare la voglia di andare al circo. Dopo una settimana il circo termina le sue rappresentazioni in paese. Congedandosi dalla gente, passa ancora una volta per le strade del villaggio con trombe e tamburi: davanti a tutti il direttore con l'elefante, al termine del corteo Popov con il suo naso rosso, circondato da galline svolazzanti e starnazzanti. I bambini gridano e applaudono ai bordi della strada, ma Igor non è con loro. Nelle settimane che seguono a scuola i bambini fanno più giochi di prestigio che compiti ed esercizi. Igor conosce tutti i trucchi, ma è il primo a stufarsene. «La vita è una cosa troppo seria per bambinate del genere», dice con aria grave. Quando il discorso cade sul circo, scuote la testa dicendo: «Popò e Pipì! Chi si diverte ancora con queste storie si rende davvero ridicolo!».
L'anno scolastico finisce e Igor qualche mese dopo inizia a frequentare la scuola elementare. Adesso è un bravo scolaro, e farà strada nella vita. Qualche volta però sogna ancora Popov dal naso rosso e l'elefante Pipiv. Nel sogno gli sembra di star seduto nell'ultima fila della gradinata del circo e di invidiare quei bambini che seguono lo spettacolo attenti ed entusiasti, e che la notte faranno pipì nel letto. P er i genitori: « I l clow n P opov» , ovvero i disturbi nel comportamento sono normali A ntefatto All' origine di questa fiaba non c'è un caso particolare, bensì una situazione standard: la separazione dei genitori. Uno dei due genitori se n'è andato di casa. I bambini, soprattutto i più piccoli, sentono questo fatto come una perdita. Il sentimento predominante in essi è la paura di perdere anche l'altro genitore. Ogni visita che fanno al genitore con cui non vivono più è per essi una doccia scozzese, perché nel giro di poco tempo sperimentano per due volte una separazione e un nuovo incontro con uno dei loro genitori. I bambini normali reagiscono a questo logorio psichico con regressioni e disturbi nel comportamento (bagnano il letto, se la fanno addosso, soffrono d'insonnia o d'inappetenza, hanno difficoltà a scuola, ecc.). Il bambino che apparentemente non reagisce alla separazione dei genitori è un bambino malato. Il genitore con cui il bambino vive cerca di fare in modo che il figlio ritrovi la sua serenità e spesso attribuisce all' altro genitore la colpa dei disturbi di cui il bambino soffre. La coincidenza temporale tra le visite e i disturbi comportamentali sembra una prova sufficiente per dimostrare il nesso causale. Obiettivo In realtà la causa è più profonda: va ricercata nella separazione dei genitori. Il fatto di istituire un rapporto col genitore assente non sana la ferita nel bambino. Certo i disturbi si possono curare, i bambini ritrovano la loro serenità, ma il prezzo da pagare è alto, qualcosa in essi viene meno. La fiaba del clown Popov intende aiutare i genitori a capire queste cose. P rocedimento narrativo Il naso rosso e luccicante del clown è il simbolo della gioia di vivere, la doccia fredda è il simbolo delle disgrazie. I sogni rappresentano le due possibilità tra le quali i genitori possono scegliere. I bambini possono diventare il clown e sperimentare sulla propria pelle tanto le gioie quanto le disgrazie, oppure sono condannati a rimanere spettatori in un' arena in cui altri sono protagonisti in veste di clown e di elefanti. L’Elefante I ndiano In una vecchia fattoria all' estremità del paese vive un topolino chiamato Mulinello perché sa correre molto veloce. Per i suoi fratelli questo nome è troppo lungo: lo chiamano semplicemente Muli. La vita per i topi è meravigliosa. È vero che da lungo tempo ormai non c'è più neppure un chicco di frumento nelle fessure del granaio e che anche l'ultima traccia di farina è stata divorata, ma la padrona di casa è una vecchia dalla memoria corta e quasi sempre, quando la sera va a dormire, dimentica in cucina il formaggio, la salsiccia, il pane e il prosciutto. Quando poi anche il gatto è uscito a passi felpati per il suo abituale giro notturno, Muli con gli altri topolini si precipita in cucina attraversando di corsa tutte le stanze della fattoria.
Afferra un grosso pezzo di formaggio ­ se può di quello con i buchi ­ e lo trascina nel suo nascondiglio segreto per mangiarselo poi con tutto comodo. Una sera, proprio nel momento in cui Muli si accinge ad addentare il suo pezzo di formaggio, ecco arrivare zia Orecchio Fino, quella a cui il topolino è particolarmente affezionato. Entra agitatissima nel nascondiglio del topolino ed esclama: «Muli, Muli, vieni subito con me! Ho visto qui fuori l'elefante indiano: è tutto rosso con dei puntini azzurri e dietro ha qualcosa di giallo!». Muli lascia perdere il formaggio e corre fuori nella notte dietro la zia. C'è la luna piena; quando i due arrivano ansimanti nel grande cortile dietro la casa, zia Orecchio Fino tutta agitata fa un cenno in direzione del ruscello, dove i noccioli sono più folti, e sussurra: «Là, guarda, è là!». Muli si stropiccia gli occhi, gli sembra di vedere qualcosa: sì, c'è una cosa che si muove. Però è tutto così confuso, e forse non c'è niente che si muove. «Guarda, Muli, guarda, è rosso con i puntini azzurri e dietro ha qualcosa di giallo... Ecco, adesso è sparito... Comunque l'hai visto, no?». Siccome vuol bene alla zia e siccome ha una gran voglia di tornare a mangiarsi il formaggio, Muli risponde: «Sì, l'ho visto», e scappa a casa più presto che può. Corre al suo nascondiglio, ma... il formaggio non c'è più. Qualcuno se l'è divorato! Muli, furibondo, va a dormire con lo stomaco che brontola. La sera seguente si arraffa un pezzo enorme di formaggio coi buchi. Deve sudare sette camicie per trascinarlo fino al suo nascondiglio, ma la fame è tanta e le forze gli si moltiplicano. Ecco però che arriva di gran carriera suo zio Dente Aguzzo. È un topo che Muli ammira tantissimo, perché sa fare balzi prodigiosi. Gli altri topi dicono che quando salta sembra che voli. Lo zio grida a gran voce: «L'ho visto, l'elefante indiano! Proprio qui fuori! Per noi topi questo è un momento storico. Devi venire a vederlo adesso, Muli, altrimenti rimpiangerai per tutta la vita di aver perso questa occasione!». Muli si fida molto dello zio, per cui lascia perdere il formaggio e segue il topo fuori nella notte. All' esterno è buio pesto. Spesse coltri di nubi celano allo sguardo la luna e le stelle e Muli fa fatica ad abituarsi all' oscurità. I due arrivano nel cortile, e lì zio Dente Aguzzo si dilunga a spiegare quanto sia importante l'elefante indiano per i topi. Alla fine esclama: «Guarda là, Muli, osserva bene l'elefante! È tutto azzurro con dei puntini rossi e dietro ha qualcosa di giallo». Muli guarda fisso nel buio. Capisce quanto il momento sia importante e, sebbene non veda niente, dice con voce rotta dall'emozione: «Fantastico!». Poi torna veloce alla sua tana. Ma... il formaggio non c'è più, altri topi se lo sono mangiato! Il nostro topolino è nero di rabbia. Ha una fame tremenda. Non sa se debba arrabbiarsi di più perché il formaggio è sparito, perché non ha potuto vedere l'elefante o perché l'elefante non può essere azzurro con i puntini rossi e poi rosso con i puntini azzurri. Ad ogni modo si addormenta sfinito. Il giorno successivo non ha nessuna voglia di fare i soliti giochi con gli amici, non gli va neppure di giocare a guardie e ladri o di unirsi a chi organizza una caccia al tesoro. Se ne sta accovacciato in un angolo al buio e pensa fra sé e sé: «Com'è possibile che la zia dica che l'elefante è rosso, che lo zio dica invece che è azzurro, che entrambi affermino che dietro ha qualcosa di giallo e che io non abbia visto niente? O racconta bugie lei, o le racconta lui, oppure dicono bugie tutti e due, ma questo non può essere, perché entrambe sono persone perbene. Forse c'è sotto un trucco che non riesco a capire!». Muli ha deciso: quella notte stessa vuol venire a capo della faccenda. Finalmente arriva la sera, e la fame si fa sentire più feroce che mai.
«Mi prenderò un pezzo di formaggio gigantesco e lo nasconderò meglio di quanto non abbia fatto ieri e ieri l'altro», pensa il topolino. Dopo lunga ed estenuante fatica, finalmente ha messo al sicuro il suo formaggio in un angolo buio. Ora può pensare a svelare il mistero dell' elefante. Ma ecco che gli arriva allettante alle narici il profumo del formaggio, e subito lo stomaco gli comincia a brontolare per la fame. Il topolino si vede con la zia nel cortile, di notte sotto la luna, con lo sguardo inutilmente fisso sui noccioli; poi si vede ancora nel cortile con lo zio, nella notte buia, a fissare inutilmente l'oscurità. Si sente girare la testa. Davanti ai suoi occhi ballano in tondo elefanti rossi con i puntini azzurri, elefanti azzurri con i puntini rossi, elefanti gialli con i puntini azzurri e rossi, zia Orecchio Fino e zio Dente Aguzzo. Finché non sente dentro di sé una voce che gli dice: «Comincia a mangiare il formaggio, poi continuerai a vedere se c'è l'elefante». Muli si getta sul formaggio e, siccome è un pezzo davvero grosso, mastica e inghiotte a lungo e con grande voracità, fino a che la pancia non gli si fa tesa come un pallone gonfio. Poi si appoggia sulla schiena, incrocia le zampe anteriori sulla pancia ed esclama soddisfatto: «Ho fatto proprio bene a mangiarmi subito il formaggio! Questa storia dell' elefante azzurro e dell' elefante rosso mi sembra davvero una faccenda che riguarda i topi adulti». E si addormenta contento. P er i genitori: « L' elefante indiano» , ovvero affermazioni contraddittorie che creano scompiglio A ntefatto Marc, un bambino di sette anni, è un figlio naturale. Vive con la madre nella casa dei nonni materni e non conosce suo padre. Sua madre si è separata quando Marc era molto piccolo. La madre e la sua famiglia hanno bandito il padre dai loro ricordi e dalle loro conversazioni. Il nonno fa le veci del padre. Quando Marc chiede notizie di suo padre agli adulti di casa, riceve risposte ogni volta diverse e non corrispondenti al vero. Il bambino è turbato. Il padre, dopo essersi risposato, adisce le vie legali per poter avere rapporti con suo figlio. Con l'assistenza di un legale la famiglia della madre si oppone a questa pretesa. Obiettivo La fiaba ha lo scopo di indurre in modo inconscio Marc a soddisfare le sue esigenze infantili e a non continuare a sprecare energie nel voler capire il modo di agire degli adulti. Con questa fiaba si prepara il bambino al primo incontro consapevole con suo padre. I l P iccolo Abete Dietro il villaggio, ai margini del bosco, dove il cacciatore ha il suo capanno, si innalza uno slanciato abete bianco. Dondola dolcemente i rami al vento e sembra che ti inviti a metterti a sedere tra le sue radici, con la schiena appoggiata al suo tronco, per goderti la bella vista tutto intorno. Se osservi con attenzione il tronco dell' albero, puoi notare, circa tre metri sopra il livello del suolo, una grossa deformazione, un rigonfiamento, come se la pianta, malgrado le energie impiegate per crescere, non ce l'avesse fatta ad elevarsi maggiormente. Voglio raccontarti la storia di quell'abete. È la storia di un desiderio struggente.
Quando esso era ancora un alberello che cresceva ai margini del bosco al fianco di alti e vecchi abeti che lo riparavano dal vento, la stagione che prediligeva era l'inverno con la sua neve. Quando i giorni si facevano più corti e le rigide bufere d'autunno e i freddi piovaschi scuotevano gli alberi situati al margine del bosco, quando la chiocciola marrone seppelliva il suo guscio nel muschio scuro intorno alle sue radici di giovane pianta e si preparava al sonno invernale, quando la cinciallegra con le penne gonfie si stringeva al suo tronco, quando i vecchi abeti gemevano e scricchiolavano, il piccolo abete bianco esclamava tutto contento: «Evviva, arriva l'inverno! Evviva, presto nevicherà! I bianchi fiocchi di neve scenderanno allegri volteggiando dal cielo e mi copriranno con uno splendido abito, scintillante e luminoso come mille diamanti. E quando arriverà Hops, quell'impertinente di un leprotto che scava sempre le sue tane tra le mie radici, anche se tante volte gli ho detto che non mi piace aver freddo ai piedi, darò una scrollatina ai rami e lui beccherà un bel mucchio di neve sulle orecchie. Evviva, presto la neve sarà qui!». Colpito da tanto entusiasmo, un vecchio abete che si trovava vicino a quello piccolo dondolò la chioma con aria di disapprovazione: «La neve per me è troppo fredda. Il suo biancore abbaglia. La neve trae in inganno e fa apparire le cose diverse da come sono in realtà. lo la detesto proprio!». Il piccolo abete non capiva quelle parole e per alcuni anni si godette con grande allegria l'inverno con la neve. Ma poi venne un inverno senza neve. Per quanto il piccolo abete aspettasse e sperasse, caddero solo pochi fiocchi larghi e bagnati che non restarono a lungo sul terreno. Quando l'abete si lamentò di questo fatto con l'albero più grande, quest'ultimo gli rispose: «Non sempre nevica d'inverno, mi ricordo che tempo fa per anni non cadde nemmeno un fiocco di neve. Fu una cosa molto piacevole. Non mi si ruppe neppure un ramo sotto il peso dei mucchi di neve». Ma quella risposta non soddisfece di certo il piccolo abete. L'anno dopo cominciò a sognare la neve già all'inizio dell'autunno, quando i contadini del villaggio nelle giornate di sole ancora raccoglievano le mele rosse. Per tutto l'inverno l'abete non fece che pensare a scintillanti fiocchi di neve che scendevano volteggiando dal cielo e lo coprivano di un abito splendente. Ma la neve non venne. La primavera e l'estate con i loro fiori variopinti e con il cinguettio degli uccelli distolsero l'abete dal suo struggente desiderio di neve. Quando in agosto i contadini iniziarono a portare il frumento nei granai, l'albero riprese a sognare notte e giorno la danza dei bianchi fiocchi di neve e presto non pensò ad altro che al candido vestito che avrebbe avuto in regalo.
Mentre gli altri abeti in quella stagione crescevano ancora parecchio, facendo maturare del tutto il legno e la corteccia, il nostro piccolo abete interruppe la sua crescita e non formò una corteccia protettiva attorno al germoglio che si era sviluppato in primavera e in estate. Continuava a lambiccarsi il cervello su come avrebbe potuto far arrivare la neve. Chiese consiglio alla chiocciola, che gli disse: «Se ti sforzi di pensare sempre e soltanto alla neve senza fare altro, allora la forza del tuo pensiero la farà arrivare. lo faccio la stessa cosa ogni inverno con il sole. Mi chiudo nel mio guscio e penso soltanto all' estate. E sai bene che fino ad ora la cosa ha dato buoni risultati». Quelle parole convinsero il piccolo abete. L'anno dopo già all'inizio dell'estate, quando le ciliegie stavano maturando, cominciò a sognare la neve. Come la chiocciola gli aveva consigliato, concentrò tutte le sue energie a pensare ai bianchi fiocchi scintillanti. Ma la neve non arrivò. Il desiderio che il piccolo abete aveva di vederla crebbe più che mai. E siccome nel contempo il suo tronco non era cresciuto e gli mancava la protezione della nuova corteccia, quel desiderio smodato finì per fargli del male. In primavera chiese consiglio a parecchi animali. La cinciallegra gli disse: «Se vuoi la neve, vai dove la puoi trovare». E il cuculo gli consigliò: «Devi solo chiamarla a voce alta, la neve ti sentirà e verrà». Il piccolo abete sapeva che quei consigli potevano andar bene per un uccello che sapeva volare o per chi era in grado di chiamare a gran voce, ma che per lui non erano adatti. Infine il vecchio gufo gli disse che doveva pregare con molta costanza e fervore il dio del tempo. Ma siccome già da mesi la nostra pianta aveva cercato di far arrivare la neve con la forza dei suoi pensieri e non ci era riuscita, non seguì neppure quel consiglio. Così non solo provò il dolore del desiderio che non si realizzava, ma finì anche per sentirsi abbandonato e impotente. Smise del tutto di crescere, lasciò pendere i suoi rami verso il basso, il suo rivestimento di aghi che un tempo era stato di uno splendido colore verdazzurro si fece smorto, poi diventò scuro e cadde al suolo. Il vecchio guardaboschi, che ogni giorno girava per il bosco arrivando fino al capanno dei cacciatori, già da tempo aveva notato come il giovane abete si andasse alterando, ma aveva pensato: «Quella pianta ha una bella posizione ai margini del bosco, è ben riparata dagli altri abeti, il terreno su cui è piantata è buono e il tempo negli anni scorsi è stato favorevole alla crescita dei virgulti. Dunque ce la farà anch' essa». Quando però si accorse che l'abete perdeva sempre più i suoi aghi, si grattò la barba e si disse: «Deve trattarsi di una cosa davvero seria. Farò venire Beppe: lui sa parlare con gli animali e con le piante». Beppe era uno strano vecchio. Viveva da solo nel bosco, dove raccoglieva funghi ed erbe medicinali. Aveva la pelle simile a quell' argilla scura che asciugando al sole si riempie di crepe profonde. I capelli assomigliavano a ciuffi grigi di lichene. Ci vedeva di notte come i gatti o le linci e sapeva arrampicarsi sugli alberi lesto come uno scoiattolo. Una notte, mentre ancora non riusciva a prendere sonno per la tristezza, il giovane abete udì vicinissima al suo tronco, dove si trova il rigonfiamento di cui abbiamo parlato in precedenza, una voce profonda e suadente:
«Mio piccolo abete, si vede che sei malato e soffri. Invece di crescere slanciato, di diventare più robusto col passare degli anni e di adornare il margine del bosco con i tuoi splendidi aghi, sei tutto curvo e gli aghi li lasci cadere a terra. Presto nessuna cinciallegra cercherà più riparo tra i tuoi rami e nessuna chiocciola scaverà più il suo rifugio per l'inverno tra le tue radici. Se mi dici che cosa ti fa soffrire, potrò fare qualcosa per te. Forse riuscirò a esserti d'aiuto». Per tutta la notte il giovane abete confidò a Beppe la sua passione per la neve. Raccontò della gioia che aveva provato vedendo i fiocchi volteggianti nell' aria, raccontò di come si era sentito fiero quando si era trovato rivestito del candido abito tutto rilucente e di come si era divertito alla vista dei mucchi di neve bagnata che cadevano sulle orecchie di quel maleducato di un leprotto. E mentre raccontava ogni tanto sospirava: «Ah, quanto mi manca la neve!».Quando l'abete ebbe terminato il suo racconto, riprese a parlare Beppe: «Mio piccolo abete, fino a che vivrai ai margini di questo bosco, probabilmente non vedrai più la neve. Nella parte di terra in cui tu e io viviamo il clima si è fatto più caldo. Qui da noi ormai cade tutt' al più qualche fiocco di neve che non resta neppure sul terreno. Ciò è dovuto all'insensatezza degli uomini, e tu, piccolo albero, non puoi fare niente. Quello che puoi fare è scegliere: puoi continuare a desiderare una cosa che non tornerà più, oppure puoi cercare una ragione di vivere in te stesso, e la tua gioia in qualcosa che non sia la neve». Dopo che Beppe se ne fu andato, il giovane abete fu colto da un accesso di rabbia impotente: «Gli uomini, sciocchi e arroganti come sono, possono fare quello che vogliono e io devo sopportare ogni cosa senza poterci fare niente!». Pianse a lungo, poi, triste e spossato, cadde in un profondo dormiveglia. Arrivò la primavera, e con essa i fiori variopinti e il vivace cinguettio degli uccelli. Il piccolo abete si sentì pervaso da un senso di gioia per la vita che riprendeva. Quasi si spaventò, e gli vennero in mente le parole di Beppe. Pensò: «È la stessa sensazione che provavo quando i fiocchi di neve scendevano volteggiando dal cielo, forse solo un po' meno intensa. Magari mi sentirò ancora meglio se osserverò più attentamente i colori dei fiori e mi concentrerò di più sul canto degli uccelli». E da allora per l'abete fu come se i fiori avessero colori più vivaci e gli uccelli cinguettassero più allegri. Cominciò nuovamente a crescere, gli aghi ripresero a germogliare. Alla fine dell' estate era ricoperto da un folto manto verdazzurro di aghi, che nella sua parte inferiore risplendeva di un bel colore grigio argento. In una notte di luna piena l'abete si vide a un tratto scintillare nella luce argentea, come se fosse ricoperto da mille diamanti. Si rese conto con gioia di quanto era bello. Pieno d'emozione, notò che si trattava della stessa sensazione di fierezza che aveva provato un tempo, quando si era visto tutto ricoperto di neve. Venne l'autunno, che con le sue raffiche di vento mosse le foglie avvizzite sui rami dell' albero. Le foglie restarono sui rami come un pesante fardello, fradice di neve e di pioggia. E un giorno ecco che ai piedi del giovane abete si fa vedere la lepre. L'abete si scuote e ­ ciaf! ­la lepre si becca sulle orecchie un bel mucchio di foglie bagnate. La lepre starnutisce ­ eccì! eccì! ­ fa uno scarto improvviso e fugge via. «Ah, gliel'ho fatta proprio bella, non mi sono mai divertito tanto!», fa l'abete ad alta voce. E poi continua: «Sì, ha proprio ragione Beppe, anche adesso provo le stesse sensazioni che provavo quando cadeva la neve. Devo solo rendermene conto!».
P er i genitori: « lI piccolo abete» , ovvero il desiderio del genitore assente A ntefatto I genitori di Clara sono separati da tre anni. Non erano sposati. Il padre vive in un' altra città con una nuova compagna. Ha «rotto con il suo passato», paga gli alimenti per la figlia e non desidera avere ulteriori contatti con lei. La bambina, che ha nove anni, è affezionata al padre, vorrebbe stare con lui e fa quanto è in suo potere per richiamare su di sé l'attenzione del genitore. Ma le sue lettere, i suoi regali e le sue telefonate non ricevono risposta. Clara reagisce al rifiuto di incontrarla da parte del padre con mancanza di autostima, che si manifesta nei rapporti con gli altri e nel campo del rendimento scolastico. Obiettivo La fiaba vuole aiutare Clara a rendersi conto che i suoi tentativi di avere rapporti con il padre sono vani e rischiano perciò di bloccare il suo sviluppo. Clara deve imparare a trovare in contatti con altre persone quelle sensazioni piacevoli che in precedenza provava stando con suo padre. I passi che possono portare Clara alla guarigione sono paragonabili a quelli che deve compiere una persona colpita da un lutto. Tristezza e rabbia per la perdita fanno parte di questo processo. P rocedimento narrativo La fiaba fa riferimento specifico a quelle sensazioni di cui la bambina sente la mancanza da quando il padre non è più con lei (gioia, spensieratezza, riconoscimento di sé). Quando Clara ricorda esperienze particolarmente piacevoli, le vede luminose, scintillanti, coloratissime, piacevolmente movimentate e al tempo stesso fresche e tranquille. Per questo motivo, la metafora della neve ci fa capire i ricordi che Clara ha del padre. L'aiuto necessario alla bambina per risolvere il suo problema le è offerto da un personaggio magico che vive nel bosco. P enna Danzante Nella prateria, dove mandrie di bufali galoppano per steppe sconfinate e dove la volta del cielo è immensa, viveva un tempo una tribù indiana, la tribù dei Corvi. Per quegli indiani il corvo era un animale saggio e benevolo, e siccome erano gente assennata e cordiale avevano deciso di chiamarsi col nome di quell'uccello. I Corvi vagavano per la prateria con le loro tende, la loro vita era pacifica e serena. Ciascuno di essi portava un nome che rivelava una caratteristica importante della sua indole. Così «Penna Danzante»era un ragazzo che, anche se vigoroso e pieno di energia, sapeva muoversi con la leggerezza di una piuma mossa dal vento. Penna Danzante era benvoluto da tutti e tutti stimavano sua madre Lago Profondo. Anche lei portava quel nome a buon diritto: la sua indole tranquilla faceva pensare alle acque calme di un lago profondo. La donna e il ragazzo vivevano da soli, e per questo gli altri membri della tribù stavano loro molto vicini. Il padre di Penna Danzante già da molto tempo non viveva più con la tribù dei Corvi. Il suo nome era Due Volti, e l'uomo aveva in effetti due volti. Il primo era un volto sereno, come quello degli altri uomini della tribù. L'altro era pieno di paura e di rabbia. Chi vedeva il secondo volto non avrebbe potuto riconoscere il primo. Penna Danzante si ricordava del tempo in cui Due Volti viveva ancora con loro. Quando suo padre mostrava il primo volto, tutto andava bene e la vita trascorreva tranquilla e serena. C'erano poi i momenti in cui compariva il secondo volto, ed erano momenti di preoccupazione e di angoscia. Penna Danzante era disperato e neppure sua madre Lago Profondo non sapeva che fare. Alla fine gli anziani della tribù si riunirono attorno al fuoco per decidere come aiutare Due Volti. Il mattino dopo il
consiglio, Penna Danzante si presentò al più autorevole degli anziani e gli chiese che cosa avesse suo padre. Il vecchio lo guardò a lungo e rispose: «Tuo padre è molto malato. Il suo secondo volto è quello della malattia che lo assale e lo afferra con i suoi artigli. Non sappiamo come aiutarlo e abbiamo deciso di mandarlo da uno stregone che vive molto lontano da qui». E così avvenne. Accompagnato da alcuni giovani guerrieri, Due Volti partì. Presto il gruppetto scomparve alla vista degli altri indiani. Due Volti non si accomiatò da nessuno e non si voltò indietro neppure una volta. Quella sera Penna Danzante e sua madre Lago Profondo piansero a lungo nella loro tenda. Ma in seguito si abituarono a vivere senza Due Volti. Qualche volta si sentivano sollevati, perché i momenti pieni di paura e di rabbia erano scomparsi. Però avevano anche nostalgia di Due Volti. Soprattutto Penna Danzante sentiva moltissimo la mancanza del padre. A volte il ragazzo andava nei posti in cui il padre gli aveva insegnato a tirare con l'arco. Si ricordava di quando avevano dato la caccia ai bufali e quando Due Volti gli aveva spiegato il significato dei segnali di fumo. Se una figura compariva all' orizzonte, Penna Danzante pensava: «E' mio padre che arriva! Due Volti è di nuovo qui!». Ma non era mai lui. Quando la nostalgia del padre lo prendeva, il ragazzo si confidava con sua madre. Un giorno ella gli disse: «Appena tuo padre starà meglio, ti invierà dei segnali di fumo. lo lo so. Aspetta». Da quel giorno Penna Danzante era in attesa dei segnali che suo padre gli avrebbe inviato. Non gli interessava più giocare alla caccia al bufalo con gli altri ragazzi della tribù o ascoltare storie attorno al fuoco dell' accampamento. Stava per ore seduto in mezzo alla prateria a fissare l'orizzonte. Teneva sempre pronta della legna per poter accendere un fuoco. Finalmente, una chiara mattina d'autunno, vide dei segnali di fumo.«Penna Danzante», lesse, «sono Due Volti». Seguirono poi molti altri segnali, ma Penna Danzante non li capì. Si affrettò ad accendere la legna che aveva e ad inviare a sua volta segnali: «Non ti capisco. Fai altri segnali!». Ma i segnali che suo padre inviava continuavano a essere incomprensibili. Penna Danzante se ne tornò triste all' accampamento. Un giovane guerriero lo vide e gli chiese per quale motivo era così mesto. «Due Volti mi ha mandato dei segnali di fumo», rispose a bassa voce il ragazzo, «ma ho capito solo i primi. Non riesco a interpretare bene i segnali di fumo». Il guerriero si offrì di aiutarlo. Il giorno dopo si recarono entrambi nella prateria, accesero un fuoco e si esercitarono tutto il giorno con i segnali di fumo. Alla sera il guerriero disse a Penna Danzante: «Adesso conosci tutti i segnali che esistono. Non conosco nessuno che li sappia usare meglio di te». Però, quando ricevette da suo padre altri segnali di fumo, di nuovo Penna Danzante riuscì a decifrare soltanto i primi. Quelli che venivano dopo erano incomprensibili. E le cose continuarono così per parecchi giorni. Penna Danzante trascorreva tutte le ore di luce nella prateria a fissare l'orizzonte. Quando si levavano segnali di fumo, cercava disperatamente di interpretarli. Alcuni li capiva: «Penna Danzante», «Due Volti», «molto lontano», ma i più erano incomprensibili. Alla fine decise di chiedere nuovamente aiuto al guerriero suo amico. Questi andò con lui nella prateria, osservò a lungo i segnali e infine disse: «Quei segnali sono confusi, nessuno riuscirebbe a decifrarli. Non è colpa tua se non ce la fai». Penna Danzante tornò triste all' accampamento. Alla sera parlò del suo cruccio a Lago Profondo.
Sua madre, di solito tranquilla e controllata, quella volta si irritò e gli disse: «Adesso basta. Non andrai più nella prateria da solo!». Da allora Penna Danzante passò le sue giornate nell' accampamento. I giochi con gli altri ragazzi non lo interessavano, continuava a scrutare l'orizzonte tra una tenda e l'altra. Per molto tempo non ebbe notizie di suo padre. Crebbe, si fece più alto e più forte, pur restando agile e leggero come una piuma. Spesso pensava a suo padre e ai segnali incomprensibili che gli aveva inviato. Una sera sua madre, mentre stavano accanto al fuoco dell'accampamento, gli disse: «Tuo padre sta meglio. Pensa molto a te e vorrebbe inviarti ancora dei segnali di fumo. Sono d'accordo che tu li riceva, però se non li capisci me lo devi dire». Penna Danzante era felice. Il giorno successivo ancor prima che spuntasse il sole si recò nella prateria. Era una mattinata limpida e fresca. Il ragazzo aveva freddo, e l'erba umida di rugiada bagnava i suoi mocassini di cuoio. Poi il sole sorse e presto i suoi raggi riscaldarono Penna Danzante e asciugarono i suoi mocassini. Pieno d'impazienza, il ragazzo fissava lo sguardo lontano. Finalmente scorse il primo segnale di fumo. Subito accese un fuoco.«Sono contento di poter comunicare con te, Penna Danzante», lesse, «da quanto tempo aspettavo questo momento!».«Anch'io sono contento. Desideravo tanto sentirti», : rispose Penna Danzante. I segnali di fumo si intensificarono. Padre e figlio si raccontavano a vicenda quello che era accaduto. Due Volti disse dove viveva e come trascorreva le giornate. Penna Danzante riferì quello che aveva imparato e disse chi era il suo migliore amico. Si scambiarono a lungo i loro segnali. Al momento del congedo, Due Volti disse: «il mattino che seguirà ogni notte di luna piena comunicheremo con i segnali di fumo».«D'accordo!», rispose Penna Danzante. Tornò all' accampamento pieno di felicità. Faceva salti di gioia e cantava i canti più allegri della sua tribù. Penna Danzante e Due Volti fecero come avevano convenuto. Il mattino che seguiva ogni notte di luna piena si scambiavano segnali di fumo. A volte a Penna Danzante sembrava che quei pochi segnali non bastassero. Gli sarebbe piaciuto comunicare più spesso con suo padre, e ancor di più gli sarebbe piaciuto vederlo. La cosa che desiderava maggiormente era che Due Volti tornasse a vivere con i Corvi. Però il ragazzo sapeva che ciò non sarebbe mai avvenuto. Perciò si accontentava dei segnali di fumo ed era felice quando arrivava il plenilunio. Ora gli piaceva di nuovo giocare con gli altri ragazzi della tribù. Una mattina Penna Danzante lesse nei segnali di fumo di suo padre qualcosa che lo turbò profondamente: "Ti voglio talmente bene, Penna Danzante, che sento quanto la vita senza di te non abbia alcun valore. Voglio comunicare con te più spesso: quello che posso fare adesso non mi basta". Penna Danzante rispose immediatamente: «Certo che possiamo comunicare più spesso. Ti voglio tanto bene, Due Volti!». Da quel giorno il ragazzo si allontanava spesso dall' accampamento per inviare messaggi a suo padre. Ogni volta questi voleva che il figlio si fermasse più a lungo e sempre più spesso inviava messaggi : «Se non posso comunicare con te», diceva Due Volti, «la mia vita non ha alcun valore. ». Penna Danzante era sempre più abbattuto. Le parole del padre lo perseguitavano anche nel sonno. Aveva degli incubi e di notte si svegliava di soprassalto sognando che suo padre stava per annegare in un fiume impetuoso. Lago Profondo lo teneva fra le braccia fino a che non aveva smesso di singhiozzare e le lacrime non si erano asciugate. Gli chiedeva che cosa lo avesse tanto spaventato, ma Penna Danzante non poteva dirle la verità. Mormorava qualche frase
sconnessa sugli orsi e poi si girava dall' altra parte, di modo che la madre non potesse vederlo in viso. Ogni mattina il ragazzo sgattaiolava via dall' accampamento, per mandare al padre i suoi segnali di fumo. Ma non era più felice, perché a spingerlo era la paura. Per giocare era ormai troppo stanco. Una mattina, inaspettatamente, Penna Danzante trovò accanto al fuoco il guerriero che qualche tempo prima l'aveva aiutato con i segnali di fumo. Questi scrutò a lungo il ragazzo e poi gli disse: «Ho visto i segnali che Due Volti ti ha mandato. Capisco che tu sia preoccupato e angosciato, ma ti voglio raccontare una storia:«C'era una volta un piccolo bufalo. Suo padre, che un tempo era stato grande e forte, era ormai debole e malato. Siccome era un buon figliolo, il bufalo stava accanto al padre e lo aiutava come poteva. Un giorno la mandria vagando per la prateria arrivò in riva a un grande fiume, e il vecchio bufalo disse al figlio: "Portami sull' altra sponda". "Non posso farcela", rispose il piccolo bufalo, "sei troppo pesante e io so a malapena nuotare". «Ma il vecchio bufalo continuò a insistere, arrivò addirittura a minacciare di buttarsi nel fiume e di lasciarsi affogare. Allora il figlio cedette. Scesero insieme in acqua e il vecchio bufalo, pesante com' era, salì in groppa al giovane. Già dopo pochi metri al piccolo bufalo vennero meno le forze: si sentiva spinto sott' acqua e non riusciva più a respirare. Per fortuna gli altri bufali vennero loro in aiuto, altrimenti sarebbero entrambi annegati miseramente. Solo allora il vecchio bufalo si rese conto che gli altri animali del branco lo avrebbero potuto aiutare più di quanto non aveva fatto suo figlio, e il piccolo bufalo imparò che avrebbe fatto meglio a non cedere alle richieste del padre». Quando il guerriero ebbe terminato il suo racconto, stette a lungo a sedere accanto a Penna Danzante. I due tacquero per un po', poi il guerriero chiese al ragazzo: «Pensi che se i due bufali fossero annegati la colpa sarebbe stata del più piccolo?».«No», rispose subito Penna Danzante, «certo che no. Era così piccolo.. .».«Adesso parliamo un po' di te», riprese il guerriero a bassa voce. «Tu sei ormai un ragazzo grande, però sei ancora giovane. Certo vuoi bene a tuo padre, però anche tu annegheresti con un bufalo sulle spalle». Quella notte Penna Danzante non riuscì a dormire. Pensava alla storia che aveva ascoltato. Il mattino dopo si alzò prima dell' alba e corse nella prateria. Accese il fuoco e aspettò. Il cielo era coperto e grigio. A un certo punto Penna Danzante vide i segnali di fumo di suo padre. Non perse tempo a interpretarli, si affrettò invece a inviare i suoi: «D'ora in poi verrò meno di frequente. Ti manderò i miei segnali dopo ogni plenilunio. Ti voglio tanto bene». Poi volse le spalle al fuoco e tornò all' accampamento. Il sole era spuntato tra le nubi, l'erba e i fiori riacquistavano il loro splendore e Penna Danzante sentiva addosso il calore dei raggi. Si unì al gruppo di ragazzi che stavano giocando tra le tende: si sentiva sereno e contento. Pensò che dopo il plenilunio avrebbe nuovamente scambiato segnali di fumo con suo padre, ma che fino ad allora avrebbe giocato con gli amici e sarebbe stato a sentire le storie che si raccontavano attorno al fuoco. E da allora in poi fece così. Per i genitori: «Penna Danzante, ragazzo indiano»ovvero i bambini non sono responsabili per i loro genitori A ntefatto Alex è un ragazzo di nove anni che vive con la madre. Il padre soffre di depressione e le sue condizioni sono peggiorate dopo che si è separato dalla moglie. I contatti di Alex col padre hanno talmente stressato il ragazzo da indurre sua madre a negare al figlio ogni rapporto col marito all'infuori delle conversazioni telefoniche. Siccome il padre di Alex non riesce ad avere rapporti normali con nessun' altra persona, suo figlio è il solo individuo in grado di dargli una ragione di vita. In occasione delle conversazioni telefoniche con suo figlio l'uomo gli ricorda questo fatto, insistendo per avere con lui conversazioni più frequenti e rapporti più stretti. Obiettivo L'obiettivo della fiaba è quello di far capire ad Alex che egli non è responsabile del problema del padre, che è malato di depressione, e di fargli ritrovare il piacere di dedicarsi ad attività più confacenti alla sua età.
P rocedimento narrativo La fiaba è ambientata nel mondo degli indiani, vale a dire di uomini che da generazioni sono ammirati dai ragazzi per il loro valore e il loro coraggio. A lex ha bisogno di queste qualità per liberarsi dall' onere che il padre gli impone. La comunicazione con i segnali di fumo e il contenuto dei messaggi rappresentano il potere che un genitore può esercitare su un figlio che gli vuole bene. I n simili situazioni solo l'intervento di una terza persona può essere d'aiuto. La madre soffre con suo figlio e pertanto non ha la forza di prendere decisioni risolutive. Nella fiaba la terza persona sono i ragazzi della tribù di P enna Danzante, il guerriero che conosce bene i segnali di fumo e gli altri bu fali della metafora inserita nel racconto. La soluzione del problema consiste nel riconoscere che i ragazzi non sono obbligati a « salvare» un loro genitore, non ne hanno il diritto e neppure sono in grado di farlo. Le 40 Anatre Azzurre, limpide e fresche sono le acque del fiume maestoso. Esso scorre tra montagne scoscese coperte di boschi, fino a un punto in cui si divide in due rami di uguale larghezza. Là dove il fiume si biforca il paesaggio non è più scosceso e roccioso. La campagna tra i due rami è collinosa, soleggiata e assai fertile. Qui crescono alberi di cioccolato al latte e gli arbusti di gelato alla vaniglia producono due volte all' anno le loro squisite palline. In questo ridente angolo di mondo alcuni uomini hanno costruito un villaggio e si sono scelti un re per il quale hanno edificato un castello al centro del paese. Questo re ha due figli. Il primo è alto, ha i capelli neri e porta sempre un berretto verde: è il conte Chiaro di Luna. L'altro è più basso di statura, ha i capelli biondi e ricci e porta un berretto rosso: è il conte Raggio di Sole. Quando il re ormai vecchio muore, i suoi figli iniziano a litigare. Ogni sera, quando è ora di accendere il televisore, tra i due esplode regolarmente una violenta disputa: il conte Chiaro di Luna vuol vedere il telegiornale, il conte Raggio di Sole invece vuol seguire i programmi sportivi. Quando litigano i due fratelli urlano talmente forte che gli abitanti del villaggio non riescono a dormire. Una sera il conte Chiaro di Luna grida al fratello: «Adesso basta, non ce la faccio più a stare con te!». E il conte Raggio di Sole di rimando: «Pensa che io volevo andarmene già ieri!». Dette queste parole, entrambi sellano il cavallo e abbandonano il castello, l'uno in una direzione e l'altro in quella contraria. Sono così furiosi che i loro cavalli lanciati al galoppo sollevano nuvole di polvere e fanno sprizzare scintille con gli zoccoli. Il conte Chiaro di Luna attraversa il braccio sinistro del fiume e si fa costruire una rocca sui monti, su cui innalza la sua antenna televisiva. Il conte Raggio di Sole invece cavalca oltre il braccio destro del fiume e si fa edificare un castello sulla roccia, sul quale anche lui colloca l'antenna. Allo stesso tempo entrambi fanno costruire imponenti postazioni d'artiglieria e ogni giorno si scambiano cannonate. Il rumore dei colpi sale al cielo con sbuffi di vapore, si sente odore di polvere da sparo e violenti rimbombi fanno tremare l'aria. I due fratelli si sparano a volte con polvere che fa starnutire, a volte con ravanelli, a volte invece con proiettili traccianti o bolle di sapone. Gli
abitanti del villaggio sono lieti che i due conti abbiano smesso di litigare nel loro paese. Raccolgono i frutti dagli alberi di cioccolato e si mangiano il gelato alla vaniglia che cresce sugli arbusti. Si godono la vita come meglio non potrebbero. In paese vive un ragazzo particolarmente sveglio che si chiama Cristoforo. Una mattina scopre che nel braccio destro del fiume c'è un punto in cui l'acqua è poco profonda, un guado. Lì evidentemente il fiume aveva depositato una gran quantità di sabbia. Cristoforo riesce a guadare quel braccio del fiume e a raggiungere la riva opposta. In un primo tempo tiene per sé la sua scoperta e, col favore delle tenebre, si avventura di soppiatto fino al castello del conte Raggio di Sole. Ha paura che il conte Chiaro di Luna lo veda e lo rimproveri. E Cristoforo non vuole che una cosa del genere accada, ci tiene ad andare d'accordo con tutti e due i signori. Comunque il conte Raggio di Sole è contentissimo della visita di Cristoforo: fa entrare il giovane nel suo castello e chiacchiera a lungo con lui. Il giorno seguente Cristoforo racconta agli amici la sua avventura, e ben presto tutto il villaggio ne è a conoscenza. Siccome sembra che il conte Chiaro di Luna non si sia accorto di niente, gli abitanti del villaggio incominciano ad andare al castello del conte Raggio di Sole anche di giorno. Gli vendono cioccolato, gelato alla vaniglia, pomodori e polli allevati da loro. Spesso il conte Raggio di Sole scende in paese e trascorre qualche ora con la gente del posto nel castello in cui abitava una volta, ricordando i vecchi tempi. Un mattino di buonora Cristoforo si arrampica come al solito sul suo albero preferito di cioccolato: vuol vedere se per caso durante la notte non sia spuntata una di quelle tavolette di cioccolato al latte di cui è particolarmente ghiotto. Lo sguardo gli cade come sempre sul castello del conte Chiaro di Luna, ed ecco che d'un tratto nota una cosa straordinaria. A sinistra dietro al castello si profila qualcosa che assomiglia a una testa di anatra, pur essendo diversa da essa: è rossa, molto più grande di una normale testa di anatra ed è cinta da una corona d'oro. Poi la strana visione scompare. Cristoforo si stropiccia gli occhi, crede di aver sognato. Da quel giorno tutte le mattine si alza prestissimo e alle prime luci dell' alba si trova già arrampicato sul più alto degli alberi di cioccolato; di lassù punta attentamente lo sguardo in direzione del castello del conte Chiaro di Luna. E una mattina ecco che da dietro le mura del castello avanza barcollando una grossa anatra. Sulla testa rossa porta una piccola corona d'oro e un paio di ali color verde smeraldo le coprono il corpo azzurro cupo. Dietro la prima anatra ne vengono altre trentanove, del tutto simili ad essa; alcune sono più piccole, altre più grandi. Mentre le anatre percorrono lentamente la distanza che le separa dal fiume, Cristoforo vede le loro penne scintillare alla luce del primo sole e per lo stupore quasi cade dall'albero. In quel momento si sente il rumore di un colpo di cannone sparato dal castello del conte Chiaro di Luna verso quello del conte Raggio di Sole e il fumo grigio della polvere da sparo avvolge la valle. Cristoforo corre più svelto che può verso il paese e racconta a tutti quello che ha visto. I suoi compaesani corrono in riva al fiume e stanno a guardare a bocca aperta le grosse anatre multicolori che si avvicinano all' acqua, vi scivolano dentro l'una dopo l'altra e si mettono a nuotare in direzione del villaggio. Tutti, come Cristoforo, sono affascinati dallo splendore degli animali sotto il sole e dalle loro corone dorate. Tuttavia, non appena la prima anatra tocca terra, tutti sono presi dalla paura. Corrono svelti alle loro case, chiudono la porta a chiave, tirano giù le tapparelle e accendono il televisore. Anche Cristoforo fa come gli altri. Ma dopo un po' capisce che si sta comportando come uno sciocco. E oltretutto la curiosità lo rode. Allora alza un po' le tapparelle e tra una stecca e l'altra guarda che succede nella piazza. Quello che vede è più divertente che inquietante: le quaranta anatre, le grandi come le piccole, girano in tondo al suono di una musica che non si riesce a distinguere; sorridono, tentennano
leggermente il capo e levano in alto le ali cangianti, come se ciascuna volesse mostrare alle altre la propria bellezza. Cristoforo esce e si avvicina alle bestie. A poco a poco anche gli altri abitanti del villaggio, visto che le anatre sono tranquille, escono di casa e arrivano in piazza. All'imbrunire a uno dei paesani viene in mente di portare un' anatra al conte Raggio di Sole. Sa che al conte piacciono i polli, ma quelle anatre sono più grosse dei polli e la loro carne è sicuramente migliore. Ne afferra una ma, vedendola così bella, non ha il coraggio di ucciderla, e la porta viva al conte Raggio di Sole. Questi accetta tutto contento il regalo e chiude la bestia nel suo pollaio, notando compiaciuto quanto grande e pesante essa sia. Però durante la notte anche molti altri abitanti del villaggio pensano che regalando una bella anatra al conte potrebbero entrare nelle sue grazie e così, al mattino dopo, tutte e quaranta le bestie si trovano nel pollaio del conte Raggio di Sole. Dopo una notte tanto agitata, il conte si sveglia a giorno fatto. Va al pollaio per esaminare i regali che gli hanno portato e per decidere col capocuoco come fare per surgelare quaranta anatre tutte in una volta. Alla vista di quegli uccelli dal piumaggio multicolore e cangiante che girano in tondo con movimenti tanto aggraziati, il conte resta a bocca aperta. Dice a una delle anatre: «Metterti in padella certo non posso, ma che altro mi resta da fare?». Ed ecco che gli viene in mente un'idea brillante. Giunta la notte, fa scendere le quaranta anatre al fiume, nel punto in cui le acque scorrono tra le rocce prima di dividersi in due rami, proprio di fronte al luogo in cui sull' altra riva si erge il castello del conte Chiaro di Luna, e le spinge nell' acqua. Se oggi ti arrampichi con Cristoforo sull' albero del cioccolato, puoi vederle le quaranta anatre multicolori... o sono forse diventate di più? Da quando hanno imparato ad attraversare il fiume e i suoi due rami, alcune di esse stanno tra il villaggio e il castello del conte Chiaro di Luna, altre tra il villaggio e il castello del conte Raggio di Sole, altre ancora tra i due castelli, e poi ci sono quelle che continuano a nuotare in circolo. I due conti hanno smesso da un pezzo di tirarsi cannonate: temono di colpire qualcuna di quelle bellissime anatre dai vivaci colori. P er i genitori: « Le quaranta anatre con la testa rossa» , ovvero la bellezza supera i contrasti. A ntefatto I genitori di Daniela, un'intelligente bambina di nove anni, si sono separati dopo violenti contrasti e da tre anni litigano ininterrottamente, facendo ricorso a istanze giudiziarie. Gli atti giudiziari registrano minuziosamente gli errori e le mancanze dell'uno e dell' altro genitore. Daniela, che vive con la madre e incontra regolarmente il padre, è al corrente delle accuse che i genitori si scambiano reciprocamente. Esse però non corrispondono per niente alle sue impressioni personali e ai suoi sentimenti. La bambina, che è in sovrappeso, non manifesta all' esterno le proprie tensioni. Obiettivo La soluzione che la fiaba offre a Daniela e ai suoi genitori consiste nel convincerli che per ogni persona esistono cose che essa ritiene più importanti e più valide del conflitto. La storia dice a Daniela che un giorno, inaspettatamente, la bellezza trionferà sulla cattiveria e la voglia di vivere sul conflitto.