Quella signora in viola

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Quella signora in viola
Gastrosofia
Gastrosophy
di Sergio G. Grasso
Gastrosofo
Gastrosopher
Sotto,
riproduzione
del volto di Nefertiti,
regina d’Egitto
e consorte
del Faraone Akhenaton.
Down, reproduction of
Nefertiti face, egyptian
queen and Akhenaton
Pharaoh wife
Zenzero - ginger
12
Quella signora in viola
a concomitanza di molteplici esiti sensoriali, la soddisfazione
visiva provocata da alimenti stimolanti, la sollecitazione olfattiva e il compiacimento tattile offerto ai recettori orali da cibi
ricchi e saporiti, favoriscono uno stato di esaltazione generale
che dispone ad una più completa e disinibita espressione sessuale dell’uomo. Non c’è nulla di realmente scientifico nella definizione di “cibo
afrodisiaco” propria delle ostriche, del caviale, dei tartufi, dell’aragosta e del cioccolato. E nemmeno nelle prerogative erotiche di fragole,
liquirizia, chili, curry, cosce di rana, carne di struzzo. Un po’ più comprensibile è la riconosciuta valenza erotico-estetica dei cetrioli, e degli
asparagi. Ma delle melanzane e della loro presunta o reale attività
stimolante si parla poco. E a torto.
Nel suo romanzo “L’amore ai tempi del colera” Gabriel Garcìa Màrquez pone questa strana risposta in bocca a Fermìna Daza quando
Florentino Ariza le chiede di sposarla: “Accetto di sposarvi, ma ad
un’unica condizione: non voglio mai vedere melanzane sulla mia tavola.”. Cinquantatre anni più tardi, vedova di un altro uomo con il
quale aveva messo al mondo dei figli, Fermina acconsente a consumare con Florentino l’atto d’amore a lungo differito. Disposta a celebrare questo matrimonio tardivo, scende nella cucina della barca
sulla quale viaggiavano entrambi ed esegue una ricetta che inventa in
quel preciso momento. Florentino divora quel piatto con la veemente
passione degli amanti appagati e gli inventa su due piedi il nome di
“melanzane all’amore”. Sarebbe un errore considerare questo gesto di
tenerezza culinaria perpetrato da Fermina come una semplice manifestazione d’affetto. Garcìa Màrquez sa bene che la melanzana fa parte
della misteriosa, antica farmacopea afrodisiaca, cui si attribuisce il
potere di rinnovare il fervore degli amanti spenti e di ridare calore a
quelli affaticati. E lo sa anche la ormai settantenne Fermina, che usa
la fin’allora detestata melanzana per riattizzare la passione
stagionata ma mai doma del suo antico amore.
In un curioso trattato scritto da J. Olivier nel 1617, intitolato
“Delle imperfezioni e malizie delle donne”, si cita, tra i numerosi vizi femminili, quella singolare forma del peccato di gola
che consiste nella eccessiva prodigalità di cibi destinati ai
mariti/amanti per accenderne la passione: melanzane incluse. Fin dal Medioevo gli ardori dell’alcova sono stati soddisfatti grazie a profusioni di solanacee grigliate... soprattutto
melanzane cotte allo spiedo farcite di zenzero, che è il modo
più sicuro (a dar retta agli antichi trattati medico-pratici)
di elevarne alla massima potenza il potere afrodisiaco. Le
streghe eran solite produrre uno “spirito” di melanzana che
le mogli insoddisfatte aggiungevano a gocce nel vino dei mariti. Secondo M.L. Tennent (un’autorità mondiale in materia
di stregoneria) fu addirittura Cleopatra a mettere a punto un rudimentale ma efficace sistema di distillazione con cui estrarre dal frutto
il principio attivo. Che altro non è che una combinazione di solanina
e nicotina capace di favorire la liberazione da parte delle cellule nervose di dopamina attiva sui centri cerebrali preposti all’attenzione,
alla memoria, alla rapidità delle reazioni (che son cosa diversa dalle
erezioni…). La bella e misteriosa Nefertiti, regina d’Egitto e consorte
del Faraone Akhenaton, era irrefrenabilmente ghiotta di melanzane.
In un celebre messaggio al suo sposo in guerra, si dipinge come una
brava e ansiosa moglie intenta a passare le giornate in cucina tra forni
e marmitte, immaginando i piatti con cui consolare gli appetiti del
faraone una volta tornato a Tebe vincitore: “... e mangio melanzane
per mantenermi ardente aspettando il momento del tuo ritorno, mio
amore. La tua lontananza è ogni giorno più dolorosa e a poco servono
a lenirla le distrazioni del mio ruolo di regina e madre”. La lettera
continua con quella che può essere considerata la prima ricetta di cucina della storia: “Ordina al cuoco della guarnigione lo stesso cibo che
sto preparando ora lontano da te (…) pelando le melanzane più sode e
scure, tuffandole in acqua salata per liberarle da ogni amarore (...) Le
cuocia in olio bollente cosparse di zenzero tritato, erbe del Nilo e aglio
L
Lady in purple
The presentation, aroma, texture and lingering flavours of
delicious food send the senses into overdrive, stimulating
an overall feeling of joy that leads to uninhibited sexual
expression. There is no scientific evidence to suggest
that food such as oysters, caviar, truffles, lobster, and
chocolate are aphrodisiacs. Nor are there any grounds
to the belief that strawberries, liquorice, chilli, curry,
frog’s legs or ostrich meat have a similar effect. Although
the shape of cucumbers and asparagus would lead one
to presume, understandably perhaps, that they have
aphrodisiac properties, very little is said about the
stimuli allegedly induced by aubergines; however, it is a
theory well worth investigating.
In his novel Love in the time of cholera, Gabriel García
Márquez places a strange reply on the lips of Fermina
Daza when Florentino Ariza asks her to marry him. She
says, “Very well, I will marry you if you promise not to
make me eat aubergine”. Their engagement is broken off,
however, and Fermina marries another man, bearing him
children. Fifty-three years later, Fermina, now a widow,
and Florentino make love at long last. Now that she is
ready to wed again, Fermina goes into the kitchen of the
boat on which they were both travelling and invents a
dish on the spur of the moment. Florentino wolfs it down
with the passion of a satisfied lover, naming the dish
aubergine al amor. It would be a mistake to consider this
loving culinary gesture as mere affection. García Márquez
is well aware that the aubergine is part of a mysterious
pharmacopoeia that is alleged to renew a love spent or
to rekindle the fire within tired lovers. Seventy-year-old
Fermina knows this too, and she uses the once despised
aubergine to stoke her love, the embers of which, though
old, still burn strong.
L’alphabet de l’imperfection et malice des femmes, a
fascinating essay written by Jacques Olivier in 1617,
cites as one of many female vices the habit of plying a
husband or a lover with supposed aphrodisiacs, which
included aubergines. In Medieval bedchambers, the
heights of passion were scaled by eating endless amounts
of grilled Solanacea plants, especially spit-roasted
aubergines stuffed with ginger. If old medical treatises
were to be believed, this recipe elevated the aphrodisiac
properties of the aubergine to their full potential. Witches
would produce an aubergine ‘spirit’ which an unsatisfied
wife could drip into her husband’s wine. According to
M.L. Tennent, an international authority on witchcraft,
Cleopatra perfected a rudimentary, but effective, system
that distilled the aubergine’s active principle: a simple
blend of solanine and nicotine that enables the nervous
cells to release active dopamine into the cerebral centres
governing attention, memory and quick reactions. The
beautiful and mysterious Nefertiti, Queen of Egypt
and wife of Pharaoh Akhenaton, could not eat enough
aubergine. In a famous letter to her husband, who
was away at war, she portrays herself as a perfect, but
anxious, wife who spent her days in the kitchen creating
dishes that would sate the appetite of the Pharaoh on his
victorious return from Thebes: “…and I eat aubergine to
schiacciato (...) Mangiane al tramonto per sognare di me ed avermi
sempre viva nel desiderio”. Nello stesso ambito orientale, venticinque
secoli più tardi, il medico arabo Ibn Botlan, riconoscerà che le melanzane generano “melanconici umori ma spingono a una sfrenata bramosia sessuale”. Mentre il filosofo persiano Avicenna affermerà che:
“se ne mangiano i frutti per procurare lussuria”.
Dal mondo arabo-maghrebino la melanzana entra in Europa nel VIII
secolo attraverso l’Andalusia. Prima dell’anno 1000 è già coltivata e
mangiata in Sicilia per poi diffondersi rapidamente (e un po’ sospettosamente) nelle regioni del sud d’Italia come ortaggio fortemente
caratterizzante gli orti, la cucina e la tavola. La sola Sicilia supera
oggi il milione di quintali di produzione annua, pari ad 1/3 dell’intero
prodotto nazionale. Le più diffuse sono quelle di colore viola scuro,
che possono essere di forma allungata (più piccanti) o tondeggiante
(più delicate), e viola chiaro (più delicate e tenere). Le cultivar più
presenti sono la Palermitana, la Gitana, la Galina, la Gordi, la Lucina,
la Melana, la Tasca, la Seta, la Rondona e la Purpura. In merito a due
diffusissime e pregevoli varietà storiche come la Lunga-Violetta e la
Mirabelle, i siciliani – ma anche i napoletani – le ritengono fondamentali per l’esecuzione di quel monumento alla gastronomia meridionale
che è la cosiddetta “parmigiana” di melanzane. La ricetta tradizionale
prevede di cuocere al forno una specie di timballo realizzato con due
o tre livelli di fette di melanzane fritte, separati da strati di salsa di
pomodoro guarniti con basilico crudo e abbondante caciocavallo tritato. Del formaggio Parmigiano nemmeno l’ombra. La domanda sorge
spontanea: perché “parmigiana”? Forse che l’origine del piatto risale a
un cuoco emigrato da Parma a Palermo in tempi remoti? E se invece la
ricetta fosse nata in Emilia? Nulla di tutto ciò. La dizione corretta del
piatto è “palmiciana”, nome che richiama il palmo della mano atteggiato a nasconde il volto. Così si chiama anche quel particolare tipo di
tapparella per finestra composto da listelli di legno sovrapposti. L’uso
di questa serranda, che permette di vedere all’esterno senza essere
visti, è riferibile al mondo arabo, in cui griglie o barriere traforate
nascondevano e nascondono ancora le donne alla vista degli uomini
sia nelle case che nelle moschee. Non a caso questo tipo di serramento
viene chiamato anche “persiana” o meglio ancora “gelosia”. Le fette di
melanzana addossate l’una alle altre richiama appunto la struttura
della “palmiciana”. E il Parmigiano Reggiano, dentro e sopra alla “palmiciana”, non ci va proprio.
Le verdure fritte o brasate, condite in agrodolce annoverano in Sicilia
anche la celebre “caponata”, lì allestita con melanzane, pomidoro e
sedani. I pugliesi la arricchiscono anche con peperoni. Al pari della
“capponalda” ligure e quella napoletana (verdure stagionali a tocchi,
servite con “friselle” ammollate o gallette imbevute d’aceto) il nome
rimanda alle “cauponae” della Roma antica, antenate delle odierne
osterie con cucina o dei moderni pub e wine-bar. Nelle “cauponae” (a
Pompei e ad Ostia Antica se ne annoverano a decine) dove i latini
indulgevano al cibo e al vino, un’insalatiera di verdure - cotte o crude
e ben condite d’aceto ed aglio per resistere in bella mostra sul bancone
di mescita sotto il sole - invogliava il passante accaldato e stanco a sostare senza fretta. Gia… la fretta! Venti secoli fa come oggi, la peggior
nemica e la più nefasta consigliera dell’uomo.
keep myself aglow, awaiting the moment of your return,
my love. Every day, the distance between us becomes
more painful, and the distractions of my role as queen
and mother do little to bridge it”. The letter also includes
what may be the first recipe in history: “Have the garrison
cook prepare the same food that I am cooking now, far
from you (…). Peel the firmest, darkest aubergines and
boil them in salted water to release all of their bitterness
(...). Order he cook them in boiling oil, sprinkled with
chopped ginger, Nile herbs and crushed garlic (...). Eat
some at dusk so that you will dream of me and I will
always be alive in your desire”. In the East, twenty-five
centuries later, Arab physician Ibn Butlan recognised
that aubergines triggered “melancholy moods, but drive
an unbridled sexual fervour”, while Persian philosopher
Avicenna stated that: “its fruits are eaten to stimulate
lust”.
The aubergine reached Europe in the eighth century
from Arab-Maghreb countries via Andalusia. Before
the year 1000, it was grown and eaten in Sicily. From
there it spread quickly (and a little suspiciously) to the
regions of southern Italy where it became a staple in
gardens, kitchens and dishes. Sicily alone produces more
than one million quintals per year, one third of Italy’s
entire produce. The two most widespread varieties are a
dark purple one, which can be long and tangy, or round
and delicate, and a light purple one, which is more
delicate and tender. The most common varieties are
Palermitana, Gitana, Galina, Gordi, Lucina, Melana,
Tasca, Seta, Rondona and Purpura. Both the Sicilians
and Neapolitans retain that two of the most common and
coveted varieties, Lunga-Violetta and Mirabelle, are the
key ingredient in that quintessential southern Italian
dish parmigiana di melanzane (aubergine lasagne). The
traditional recipe entails baking a timbale made with two
or three layers of fried aubergine separated with layers
of tomato sauce, garnished with fresh basil and copious
amounts of grated caciocavallo, a strong cheese. There
is not a trace of Parmesan to be found, so why on earth
is it called parmigiana? Was the dish created by a cook
who had emigrated from Parma to Palermo centuries
ago? Did the recipe originate in Emilia? Not at all. The
correct spelling of the dish is palmiciana, a name that
conjures up images of the palm of the hand covering the
face. In Italy, it is also the name of a particular type of
window blind made of overlapping wooden slats. The use
of this blind, which enables one to look outside without
being seen, can be traced back to the Arab world, where
grilles or perforated barriers hid, and today still hide,
women from the sight of men both in homes and in
mosques. It is no coincidence that we call this a Persian
blind, or a Jalousie, from the French for jealousy. The
overlapping layers of aubergine resemble the design of
the palmiciana, and needless to say Parmesan has no
place in or on one.
In Sicily, grilled or roasted vegetables in a sweet-and-sour
sauce are used for the region’s famous caponata, which
is made with aubergine, tomatoes and celery. Peppers
are added to the same dish in Puglia, while Liguria’s
version is known as capponalda. In Naples the caponata
is made with diced seasonal vegetables and
served with friselle (bread soaked
in water and served with fresh
tomatoes, oil and herbs) or
crackers soaked in vinegar.
The name derives from
ancient Rome’s cauponae,
predecessors of today’s
osterie, pubs and winebars; there were dozens in
Pompeii and Ostia Antica
alone. In the cauponae, bowls
of raw and cook vegetables
would be well garnished with
vinegar and garlic to protect
them from the heat, tempting
hot, bothered passers-by to
stop rushing around and
take a break. Today, time,
or lack of it, is our worst
enemy and most pernicious
adviser, just as it was two
thousand years ago.