LIGABUE - Tgcom24

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LIGABUE
(1990)
Balliamo sul mondo
Per Ligabue cominciare bene è molto importante. Moltissimi dei suoi pezzi prendono il titolo proprio dalla
frase con cui cominciano: è da questa, a sua detta, che
scaturisce tutto il testo. Lo stesso discorso vale anche per
l’incipit musicale: l’attacco di ogni suo brano – che può
essere un riff, un arpeggio o un pedale, ovvero una frase
musicale che si ripete ciclicamente – è pensato sempre
«per farti arrivare a bomba nell’atmosfera della canzone,
perché le canzoni non hanno tempo per le pippe», dice
lo stesso Liga.
In questa prospettiva del cominciare bene, la scelta del
primo brano del primo album, è evidente, diventa fondamentale.
Quando Ligabue registra Eroi di latta, un pezzo con un
giro armonico strano perché «è in sol ma comincia con il
re con una sensazione di sospensione che non si chiude
mai» su cui gira un riff di chitarra a dir poco trascinante,
il produttore Angelo Carrara non è convinto. La musica
non si discute, è una bomba. Ma il testo è sbagliato.
Il pezzo parla di certe pop star che hanno imperversato durante tutti gli anni Ottanta e che alle soglie dei
Novanta sono ancora lì. Idoli delle ragazzine più per il
look che per la musica, «gente fintissima, tipo i Duran
Duran» dirà in seguito il Liga.
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Ecco il testo:
Quanto fondotinta serve per avere un bell’eroe
che non caschi giù dai poster,
non sia spettinato mai
e abbia una paresi in bocca per non stare serio mai
quanto stronzo deve essere per essere un eroe? Eroi di latta, eroi che arrugginiscono,
eroi di latta, eroi che non si reggono,
eroi di latta, eroi che si consumano,
eroi di latta.
Quanta vita e passione, fiato e sesso sprecherà
una ragazzina senza le difese dell’eroe,
cercherà fra le sue righe qualche grossa verità
e anche se lì non c’è niente qualche cosa inventerà. Eroi di latta,
eroi che arrugginiscono,
eroi di latta,
eroi che non si reggono,
eroi di latta,
eroi che si consumano,
eroi di latta.
E la vita che vorrà rappresentare in un messia
e la vita quella vera non sa neanche cosa sia,
due o tre meeting per la pace ed un po’ di filosofia
ed il prezzo è già pagato, l’eroe è tornato e così sia.
Carrara rispetta il punto di vista di Luciano ma gli
dice con franchezza che a suo parere quello è il modo
più sbagliato per proporsi al pubblico. Chi è lui, in
fondo, che fino ad ora non ha pubblicato nulla, se non
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un 45 giri a tiratura limitatissima, per sparare a zero
sugli altri, prima ancora di aver dimostrato di che è
pasta è fatto?
Inizialmente il Liga non è d’accordo, ma l’ultimo
giorno di registrazione del disco porta in studio un
testo alternativo dicendo: «Non riuscivo a dormire e
l’ho scritto solo per farti un favore. Si chiama Balliamo
sul mondo. Ma secondo me è più forte l’altro». «Va be’,
cantalo» risponde semplicemente Carrara. Così il Liga,
sulla base di Eroi di latta, lo canta. E Carrara non deve
nemmeno pensarci. Dice subito: «Per me questo è il
singolo».
Presto anche Luciano si convincerà del fatto che
quel pezzo è stato l’inizio giusto per la sua carriera.
Molto più avanti, nel 2006, durante la trasmissione
Storytellers, il programma di MTV che si propone di
capire cosa c’è dietro la scrittura dei migliori narratori
della canzone moderna, dirà: «L’incipit la dice lunga e
sulle mie intenzioni e su quello che avrei detto anche
dopo. Le parole sono: Siamo della stessa pasta, bionda,
non la bevo sai. Ce l’hai scritto che la vita non ti viene
come vuoi. Il che significa che intanto cominciamo col
dire che la grammatica la lasciamo lì e ce ne freghiamo.
Ma poi c’è un’altra cosa che sembra nascosta, ma è
evidente: Siamo della stessa pasta, cioè siamo uguali e
la vita non ti viene come vuoi. Quindi io sto dicendo
che la vita non mi sta venendo come io avrei voluto. E
quindi questa sorta di malessere è in partenza, proprio
nella mia prima canzone. Cioè io mi sono presentato
dicendo: “Questo ha a che fare con la ricerca di qualcosa che guarisca il mio malessere, quindi balliamo sul
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mondo”. E questo poi alla fine è circolato in tante mie
canzoni e curiosamente ogni tanto qualcuno salta fuori
dicendo: “Ma quella canzone lì però è un po’ malinconica…”. E io gli dico: “Va be’ senti, se stai attento
capirai che quella leggera vena c’era già dall’inizio” ».
In un testo apparentemente naïf emergono già molti
aspetti della poetica di Ligabue.
Il primo è senz’altro un’idea di resistenza. «È una
canzone impostata sul sesso» rivela. «Ma l’idea che c’è
dietro è romantica: quell’incontro sessuale è una specie
di operazione salvifica». Un modo per salvarsi insomma
o, come dice sempre ai suoi fan, per tenere botta.
Un altro tema, anche se collegato al primo, che poi risulterà centrale nel suo canzoniere lo troviamo nei versi:
C’è chi vince e c’è chi perde, noi balliamo casomai
non avremo classe ma abbiamo gambe e fiato finché
vuoi
Quello che conta è dare tutto e anche se sulla schiena
non hai il numero dieci, non importa: puoi fare la
differenza con le gambe e i polmoni. Ossia – in chiave
esistenziale – con la voglia di vivere appieno e la forza
di volontà che questo richiede.
Bambolina e barracuda
Bambolina e barracuda sfotte il tipico playboy da bar.
Quello che ogni domenica descrive con dovizia di dettagli le mirabolanti imprese sessuali della notte prima.
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Qui il Liga gli cuce addosso una storia un po’ diversa
da quelle che gli amici sono abituati a sentirgli raccontare, una storia in cui le parti a un tratto si invertono:
inaspettatamente la bambolina diventa barracuda, e lui
si trova a essere legato e minacciato con una pistola.
La canzone alterna le parti cantate a parti recitate,
con un tono un po’ ironico, dichiaratamente ispirato a
Humphrey Bogart. Sia questa formula che l’argomento
trattato – una bambola con la pistola – rimandano
facilmente a Fred Buscaglione: basti pensare a Eri piccola così o a Teresa non sparare.
È una canzone cinematografica che dà già un piccolo
assaggio di quello che poi sarà il Ligabue sceneggiatore
e regista. Ritroveremo una struttura simile a questa in
un’altra canzone del Liga: I duri hanno due cuori, contenuta nell’album Sopravvissuti e sopravviventi.
Piccola stella senza cielo
La Piccola stella della canzone è un’amica di Ligabue
che ha pagato lo scotto di vivere l’amore con ingenuità.
Il Liga non ha mai rivelato l’identità di questa amica e
il testo non contiene riferimenti espliciti alla vicenda.
È una canzone un po’ anomala in questa fase iniziale
della sua carriera: la prima in cui Luciano esplora la
psicologia femminile e la prima in cui si intravede la
capacità di capire le donne che più avanti sarà uno dei
suoi più grandi punti di forza.
Nel primissimo concerto del Liga, nel febbraio del
1987, organizzato in un centro culturale di Correggio,
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Piccola stella senza cielo è già in scaletta e il Liga la
suona davanti a cento persone. Durante quel concerto
succede una specie di magia: Luciano, timido e riservato nella vita di tutti i giorni, capisce che sul palco
paradossalmente si sente se stesso più che in qualsiasi
altra circostanza e che è quello – suonare dal vivo –
che vuole fare nella vita. Probabilmente nel pubblico,
composto per una buona metà da amici e parenti, una
persona si emoziona più di altre, perché sa che quella
magia riguarda anche lei: la misteriosa Piccola stella
della canzone.
Marlon Brando è sempre lui
Marlon Brando è sempre lui racconta la serata di due
innamorati. Lui va a prendere Lei col suo maggiolone
blu ma poi si rende conto di non avere abbastanza soldi
per portarla a ballare. E allora Lei gli dice:
«Questa sera voglio far l’amore
prima però portami a sognare»
Lui ha a disposizione solo un sogno da duemila lire
per toglierle i segni che Lei si porta addosso, un film
con Marlon Brando in cui Marlon Brando è sempre
lui, pronto a rassicurarli dicendo:
«Vedi, in fondo
siamo sempre qui
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e non è obbligatorio
essere eroi».
Ligabue nel momento in cui scrive il testo ha davvero
un maggiolone, di cui va molto fiero, e soprattutto ha
davvero una viscerale passione per il cinema. Passa le notti
a registrare decine di videocassette stando anche bene
attento a interrompere la registrazione durante la pubblicità, in modo da poter rivedere i film senza interruzioni.
La voce che chiama «Stella! Stella!» all’inizio del brano è
quella del doppiatore di Marlon Brando nel film Un tram
chiamato desiderio, ed è riversata direttamente sul disco
proprio da una di queste videocassette.
In realtà però la musica risale a un po’ di tempo
prima e originariamente aveva un testo che parlava di
tutt’altro. La prima versione infatti si intitola Giorgio
Bubba sta con noi e fa parte di un repertorio segreto di
canzoni demenziali suonate alle «feste del tormento e
della sofferenza», serate goliardiche che il Liga organizza spesso per i suoi amici.
La frase non è obbligatorio essere eroi, qui messa in
bocca a Tony Malloy, il protagonista di Fronte del
porto, in un primo momento è pensata come titolo
dell’album.
Non è tempo per noi
A Ligabue gli anni Ottanta stanno proprio stretti.
Stenta a credere che gli anni Settanta così ricchi – nel
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bene e nel male – di politica e di cultura abbiano
lasciato il posto a un tale vuoto.
Per fortuna il decennio sta per finire, quando con
questi pensieri in testa scrive Non è tempo per noi.
Poi, come succede spesso con le grandi canzoni, una
storia particolare diventa universale: Non è tempo per
noi smette di parlare delle difficoltà che quelli un po’
ingenui e idealisti come il Liga devono affrontare negli
anni Ottanta e inizia a parlare della condizione di vita
di tutti i sognatori a prescindere dal periodo storico.
La canzone distingue chiaramente un noi e un voi: noi
che inseguiamo un sogno – che può essere sia un sogno
di gloria sia un ideale di rettitudine morale – anche a
costo di rinunciare a tutto il resto; e voi che non sapete
nemmeno di cosa stiamo parlando, perché vivete solo
nella realtà seguendo i dettami di ciò che vi conviene:
Non è tempo per noi
che non vestiamo come voi
non ridiamo, non piangiamo
non amiamo come voi
forse ingenui o testardi
poco furbi casomai
non è tempo per noi
e forse non lo sarà mai.
Bar Mario
La prima band di Ligabue si chiama OraZero. Con
questi quattro ragazzi di San Martino in Rio nel 1988,
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riesce a vincere il concorso provinciale Terremoto Rock
che gli consente di incidere il suo primo disco ufficiale:
il 45 giri Anime in Plexiglass / Bar Mario. Nel 1989
il gruppo si scioglie, ma l’anno seguente la canzone
Bar Mario viene inclusa nell’album d’esordio Ligabue
inciso con una nuova band, che accompagnerà il Liga
fino al ’94: i ClanDestino.
Il testo non parla di uno specifico bar, quanto piuttosto di un’idea del bar visto come principale teatro e
luogo catalizzatore delle storie di provincia.
Per questo Luciano sceglie un nome classico come
Bar Mario. Un Mario però esiste davvero: Mario
Zanni, il gestore del River Bar di San Martino in Rio,
dove lui era solito fermarsi con gli OraZero dopo le
prove.
Nelle canzoni degli album successivi il Bar Mario
torna più volte e con l’uscita di Certe notti il signor
Zanni pensa bene di cambiare il nome da River Bar
a Bar Mario e a mettere la faccia del suo più celebre
cliente sulle bustine dello zucchero.
Nel corso degli anni sono moltissimi i fan che
vogliono conoscerlo, per vedere che faccia ha il mitico
barista della canzone e per stringergli la mano. Il signor
Mario ne è molto felice e non si tira mai indietro.
Il pellegrinaggio non si ferma nemmeno nel 2000
quando l’attività viene ceduta e il vero Mario va in pensione. Da un po’ di anni aiuta la figlia che a sua volta
ha aperto un bar e lì lo scovano e lo vanno a salutare.
Tanto Mario riapre prima o poi.
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Sogni di rock n’ roll
Sono i tempi degli OraZero, i tempi in cui i sogni di
rock n’roll sono solo sogni.
Claudio Maioli, il futuro manager del Liga, lavora
ancora alla Coop ma si dà da fare come un matto per
far girare la musica del suo amico. È grazie a lui se
Luciano ha fatto uscire le canzoni che ha scritto finora
dalla cameretta di casa sua. «Se continui a scriverle evidentemente credi che valgano qualcosa» gli ha sempre
detto «quindi perché le tieni solo per te?».
Maioli ha una cosa che a Ligabue manca: la faccia
tosta. Ed è con questa faccia tosta che un bel giorno
cerca sull’elenco telefonico di Sassuolo il numero di
Pierangelo Bertoli e lo chiama a casa dicendogli: «Senti,
vorrei farti sentire il materiale di uno che secondo me
è bravo». Bertoli è un cantautore già molto affermato
ma dimostra una disponibilità fuori del comune e li
invita a casa sua.
Ligabue si vergogna un po’ ma non può certo tirarsi
indietro. Fa sentire a Bertoli qualche canzone chitarra
e voce e lui si innamora immediatamente di Sogni di
rock n’ roll.
Il pezzo parla di un piccolo rito che Ligabue in questi anni compie spesso con i suoi amici. Ognuno ha
avuto quel che ha avuto dal sabato sera, e l’apice della
settimana, per chi in un modo per chi nell’altro, se n’è
appena andato. C’è chi ha rimorchiato, c’è chi ha preso
un due di picche, c’è chi ha bevuto troppo e chi se le
è prese. Si ritrovano in macchina, a serata finita, e si
lasciano guidare dalla strada con lo stereo al massimo.
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E lì parte quel piccolo rito infantile: giocare ad essere
una rock band facendo il playback:
uno fa il batterista poi c’è il chitarrista tu basso lui voce
tastiere gli idioti del playback fan
playback fan
playback
La canzone a Bertoli piace a tal punto da volerla cantare nel proprio album Tra me e me e così fa. Apporta
solo una piccola modifica: mette tutto il testo in terza
persona:
Sono lì già le quattro e stanno lì…
(…) loro hanno sogni di rock n’ roll
e guai a chi li sveglia
Passando dal noi al loro, Bertoli assume una prospettiva esterna, la prospettiva matura di uno che quei sogni
li ha già fatti, e in una certa misura li ha realizzati. È una
scelta giusta, che non solo dà credibilità alla sua interpretazione, ma arricchisce anche la canzone di una nuova
ambivalenza. Sembra parlare contemporaneamente del
proprio passato – forse con la malinconia di chi capisce
che il sogno è ancora più bello finché è tale – e insieme
del presente di un ragazzo che, anche grazie a lui e a
quella stessa canzone, potrà trasformare quelle dolci fantasticherie notturne in realtà, vivendo di musica.
E in effetti le cose per il Liga iniziano a girare. Dopo
Sogni di rock n’ roll, anche Figlio di un cane viene incisa
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e pubblicata da Bertoli, ma in un altro album: Sedia
elettrica del 1989. Ed è proprio durante una sessione di
registrazione di questo disco al Logic Studio di Milano
che, per la prima volta in vita sua, Luciano incontra
un produttore molto importante. Si tratta di Angelo
Carrara, produttore dello stesso Bertoli, già scopritore
di Franco Battiato.
Pur non essendo un cultore del rock, Carrara ha un
grande fiuto: riconosce subito il valore di quel ragazzo
capace di traghettare in un genere più moderno la
lezione dei cantautori e decide di produrre il suo primo
album.
Ma Sogni di rock ’n’ roll per il Liga non è legata solo
ai suoi fatali incontri con Bertoli e Carrara. Questa
canzone rappresenta per lui anche la scoperta delle sue
responsabilità come autore.
Durante i primi concerti, nel momento in cui
canta:
a pedinare una morbida scia,
una striscia invitante,
talmente accogliente
da perderci il fiato e sia quel che sia
si accorge di alcuni ragazzi nelle prime file che si
tappano una narice con un dito e mimano lo sniffo di
una striscia di cocaina. Non si era reso conto di quella
possibile interpretazione dei suoi versi: per lui la striscia invitante non era altro che la linea di mezzeria. Ma
ora la canzone per molti aveva assunto quel significato,
lontanissimo dal suo intento. Luciano decide che da
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ora in poi ci penserà dieci volte prima di incidere un
pezzo.
Poi, più avanti, quando in televisione si trova a dover
cantare in playback per le prime volte, piovono critiche: «Proprio tu, che dai degli idioti a quelli che fanno
il playback, ora lo fai?».
E allora inizia a capire che, per quanta attenzione ci
potrà mettere, scrivere testi sarà sempre una bella gatta
da pelare e ci sarà sempre la possibilità di essere fraintesi. Ma questo non vuol dire che non ce ne metterà.
Radio radianti
Ligabue la definirà la canzone più brutta che abbia
mai pubblicato. Il sentimento che c’è dentro, però, è
autentico e in linea con Eroi di latta e Non è tempo per
noi.
Qui il Liga attacca quel divertimento obbligatorio
degli anni Ottanta che lui non riesce proprio a mandare giù. Specie se incarnato così clamorosamente dai
DJ superficiali di una radio ormai votata al business e
distantissima da quella libera di cui si era innamorato
a quindici anni e di cui parlerà nel suo primo film
Radiofreccia.
La prospettiva del pezzo è proprio quella di un DJ
che parla ai suoi radioascoltatori con slogan e frasi di
sublime vacuità come per esempio:
ho qua per voi
l’ultimo mix
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cambia la vita
questo qui
È un personaggio solare e vuoto che vuole trasmettere ai suoi proseliti esattamente queste due caratteristiche. In fondo, quelle che per il Liga caratterizzano
gli anni Ottanta.
Freddo cane in questa palude
Ligabue è in studio di registrazione e strimpella
la chitarra alla ricerca di una intro per Angelo nella
nebbia. Gli esce fuori questo blues che trasporta
Correggio in una Louisiana fredda e paludosa, con
tanto di coccodrilli affamati. Lui è disarmato ma si
sente come Zagor – per chi non lo conoscesse, Zagor
è un personaggio dei fumetti creato da Sergio Bonelli
e dal disegnatore Gallieno Ferri – mentre i suoi amici
se ne stanno nascosti dentro i fossi per vedere se se la
sa cavare da solo.
Angelo della nebbia
A detta dello stesso Liga Angelo nella nebbia è il pezzo
con l’intento più autoriale di tutto l’album e infatti è
uno dei pochissimi nella sua carriera di cui scrive prima
il testo e poi la musica.
In effetti è una canzone diversa dalle altre, visionaria
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e bizzarra, se non altro perché nel ritornello due lepri,
urlando, invocano un certo angelo della nebbia nella
speranza di ricevere in cambio un po’ di colore. Il che
è già piuttosto strano. Evidentemente l’invocazione
delle lepri è anche il desiderio dei protagonisti della
canzone. Ma l’elemento che ci manca è proprio questo:
chi, insieme al Liga è stato scelto da chissà quale mano
per esser buttato in mezzo alla nebbia? Potrebbero essere
gli amici di Sogni di rock ’n’ roll e allora le corse finite al
mattino sarebbero quelle del sabato sera in autostrada
con la radio a palla.
Ma le lepri sono due ed è più probabile che per
una sorta di parallelismo anche le persone giunte in
macchina fino a quel campo siano due. In questo caso
probabilmente alcuni passaggi andrebbero riletti in
chiave sessuale. Che il Liga sia in camporella con una
Lei dopo un film con Marlon Brando?
E chi mai sarà l’allibratore di cui si parla all’inizio
della seconda strofa?
C’è un piatto pieno di vita
puntata in scommesse già perse in partenza
ma prima di tutto van tutte giocate
che l’allibratore si diverta un po’
La morte? Il destino? Dio?
È evidente che ci troviamo davanti ad un testo suggestivo ma dai contorni incerti. Proprio come un paesaggio della bassa padana avvolto dalla nebbia.
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Figlio di un cane
Abbiamo già detto che prima che dallo stesso Ligabue la canzone viene incisa e pubblicata da Pierangelo
Bertoli nel 1989.
La versione di Ligabue è più veloce e infatti il pezzo
nasce con un’intenzione punk. L’arrangiamento poi la
sposta un po’ verso un rock più classico ma il Liga ogni
volta che la suona continua a sentirci dentro quell’irruenza e quell’urgenza tipiche del punk. In questo caso
urgenza è la parola giusta ed è quella di rivendicare il
diritto a essere se stesso senza mezze misure e compromessi.
In questa canzone il Liga non usa la prima persona
plurale di Non è tempo per noi, parla per sé. Ma le
prime volte che la suona dal vivo, inaspettatamente,
dopo il secondo ritornello, le chitarre lasciano spazio a
un tappeto di basso e batteria su cui lui ripete una piccola dedica a chiunque possa riconoscersi in quell’urgenza: «Questo pezzo è per tutti quelli che sanno che
è difficile non avere un padrone. E allora si adattano
ad avere un padrone, si adattano a portargli le ciabatte,
il giornale... ma non si adatteranno mai a star su due
zampe o a far delle piroette per avere un osso perché a
quel punto l’ osso se lo andranno a cercare da qualche
altra parte. Questo pezzo è per tutti questi: bastardi,
randagi, rognosi... ma tutto sommato ululanti e soprattutto vivi!»
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