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La natura della luce e il modello atomico di Bohr
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LA NATURA DELLA LUCE E IL MODELLO ATOMICO DI BOHR
LIMITI DEL MODELLO ATOMICO DI RUTHERFORD
Il modello atomico “planetario” di Ernest Rutherford, seppure rappresentava un grande
passo avanti rispetto al modello di Thomson, era in disaccordo con le leggi
dell’elettromagnetismo classico, secondo cui qualsiasi carica elettrica in moto accelerato
avrebbe dovuto perdere rapidamente energia. In parole povere, l’elettrone, in un tempo
brevissimo pari a 10-8 s, avrebbe emesso energia sottoforma i radiazione elettromagnetica e
sarebbe precipitato sul nucleo.
Invece, l’atomo è stabile.
Inoltre, il modello di Rutherford non riusciva a spiegare le righe spettrali di emissione dei
vari elementi.
C’era bisogno di un nuovo modello atomico.
Tuttavia, per poter comprendere appieno il modello atomico successivo di Bohr, bisogna
avere ben chiari alcuni concetti riguardanti la natura della luce.
LA NATURA DELLA LUCE
Cosa sia la luce, non è affatto semplice a dirsi. Eppure siamo immersi in essa. E’ per mezzo
della luce che conosciamo gran parte del mondo che ci circonda: osserviamo gli oggetti
presenti nel nostro ambiente perché riflettono raggi di luce provenienti dal Sole o da altra
sorgente luminosa. Questi raggi giungono al nostro occhio dove vengono trasformati in
impulsi nervosi da speciali cellule della retina e trasmessi ad opportune aree del nostro
cervello dove vengono interpretate sottoforma di colori e variazioni di tono, dandoci un’idea
(modello) del mondo.
Ma cosa è la luce?
Esistono due teorie o modelli che lo spiegano:
1) La TEORIA ONDULATORIA di Clerk Maxwell
2) La TEORIA CORPUSCOLARE di Plank - Einstein
Secondo la TEORIA ONDULATORIA del fisico-matematico Maxwell (siamo nella
seconda metà dell’800) la luce è un particolare tipo di onda elettromagnetica caratterizzata
da precisi valori di lunghezza d’onda e frequenza, generata dall’oscillazione rapidissima di
una carica elettrica.
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Dunque la luce è un’onda. Ma un’onda molto particolare, visto che è in grado di propagarsi
nel vuoto. Le onde acustiche invece, non possono farlo: un’onda acustica consiste
nell’oscillazione, in ogni punto dello spazio in cui si propaga, dei valori della pressione
dell’aria. In sostanza, niente aria, niente suono!
Le onde elettromagnetiche invece si propagano benissimo nel vuoto. Che cosa oscilla
dunque? Evidentemente, qualcosa che è presente nello spazio vuoto: gli effetti elettrici e
magnetici che le cariche elettriche in movimento, generano nello spazio circostante.
Chiariamo il concetto: una carica ferma (ad esempio un elettrone) produce una
modificazione dello spazio circostante “sentita” da un’altra particella carica vicina, chiamata
campo elettrico.
Una carica, in moto oscillante provocherà delle perturbazioni elettriche e magnetiche nel
suo intorno, che a loro volta indurranno ulteriori perturbazioni elettriche e magnetiche nei
punti successivi, e così via.
La luce rappresenta solo una piccola parte dell’intero spettro elettromagnetico (insieme
delle onde elettromagnetiche), caratterizzato anche da raggi gamma, raggi X, ultravioletti,
infrarossi, microonde e onde radio.
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Le onde elettromagnetiche sono caratterizzate dallo loro LUNGHEZZA D’ONDA (λ)
misurata in metri o frazioni di metro (nm, Å) e dalla FREQUENZA (ν) misurata in Herz
(Hz = s-1). La velocità di un’onda elettromagnetica è una grandezza fisica costante indicata
con c e del valore di 299792458m/s ossia circa 3,0 x 108m/s.
λ è la distanza tra due massimi o due minini consecutivi dell’onda (o tra due creste o due
avvallamenti)
ν è il numero di oscillazioni dell’onda in un punto, nell’unità di tempo (s).
λ e ν sono legate a c dalla relazione
c = λν
Quindi lunghezza d’onda e frequenza sono grandezze inversamente proporzionali.
La luce rappresenta la parte dello spettro elettromagnetico visibile, in un intervallo di
lunghezze d’onda che va da 750nm (colore rosso) a 410nm (violetto). Lunghezze d’onda
maggiori di 750nm hanno frequenza minore e sono caratteristiche, in ordine crescente,
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dell’infrarosso, delle microonde e delle onde radio. Lunghezze d’onda minori di 410nm, con
frequenze più elevate, sono proprie, in ordine decrescente, di ultravioletti, raggi X e raggi
gamma. L’intervallo di frequenze di tutto lo spettro è circa 105 - 1030 Hz.
Il modello ondulatorio di Maxwell spiega i fenomeni della DIFFRAZIONE
dell’INTERFERENZA.
e
La diffrazione è un fenomeno fisico associato alla deviazione di un’onda in presenza di un
ostacolo (ad esempio quando un raggio di luce viene fatto passare attraverso una sottile
fenditura, si ha un’allargamento a ventaglio del treno d’onda).
L’interferenza è un fenomeno fisico che si verifica in seguito alla sovrapposizione di due
onde diffratte. In questo caso si formano delle frange di interferenza che danno origine a
bande luminose e oscure alternate. Si formano bande luminose dove la sovrapposizione
delle onde elettromagnetiche avviene in fase: massimo su massimo. In questo caso le onde
si sommano. Nel caso che la sovrapposizione avvenga massimo su minimo, le onde si
sottraggono e si produce una banda scura.
Il MODELLO CORPUSCOLARE o QUANTICO di Planck fu elaborato per spiegare il
caratteristico spettro di un corpo nero e l’effetto fotoelettrico.
Un corpo nero (un qualunque corpo solido, liquido o gassoso ad elevata densità) che
assorbe energia emette luce in un modo caratteristico, nel quale la frequenza ν del picco di
emissione, è inversamente proporzionale alla sua temperatura assoluta, come si vede in
figura.
In pratica, un corpo riscaldato emette un insieme di radiazioni elettromagnetiche a differente
lunghezza d’onda. Il tipo di radiazioni emesse dipende dalla temperatura del corpo, ma la
loro distribuzione, cioè la forma della curva a campana è sempre la stessa, come si può
vedere dalla figura. In altre parole, ad ogni temperatura c’è un’emissione di radiazioni di
diversa lunghezza d’onda che si distribuiscono lungo una curva a campana un po’
asimmetrica, all’ aumentare della temperatura del corpo irradiante, il picco della curva
risulta sempre più spostato verso lunghezze d’onda minori e di conseguenza, frequenze
maggiori.
Ad esempio, i nostri corpi, che si trovano ad una temperatura di circa 36 – 37 °C (309,15 –
310,15K), emettono radiazione principalmente sottoforma di raggi infrarossi quindi a bassa
frequenza. Un pezzo di metallo riscaldato, emette prima in gran parte nell’infrarosso, poi il
suo picco di emissione sarà il rosso, quindi diventerà arancione, giallo, etc., man mano che
la sua temperatura aumenta.
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Questo comportamento non poteva essere descritto adeguatamente da alcuna equazione
dell’elettromagnetismo classico di Maxwell.
Le successive formule di Rayleigh e Jeans, che descrivevano meglio l’emissione
elettromagnetica del corpo nero, funzionavano solo per basse frequenze, mentre per
frequenze nell’ultravioletto la legge di Rayleigh-Jeans prevedeva un’intensità della luce
infinita: un risultato paradossale a cui i fisici diedero il nome di catastrofe ultravioletta.
Planck introdusse nell’equazione i Rayleigh-Jeans, un termine matematico in grado di
modulare la curva e raggirare il paradosso della catastrofe ultravioletta.
Volendo dare un significato fisico al frammento matematico aggiunto, egli si rese ben presto
conto chel’unica conclusione possibile era di immensa portata rivoluzionaria per la fisica: la
luce doveva essere formata da granuli!
Dunque, l’energia emessa da un corpo nero riscaldato si presentava suddivisa in pacchetti
ognuno dei quali risulta essere multiplo di un pacchetto ad energia minima proporzionale
alla frequenza della luce emessa, e ad una costante h che prese il nome di costante di Planck.
In pratica l’energia veniva emessa in forma quantizzata e i pacchetti furono definiti da
Planck stesso quanti. Tuttavia, Planck considerò i quanti solo un espediente “ad hoc” per
risolvere i paradossi generati dalle equazioni della fisica classica, e cercò in tutti i modi di
eliminare o ridurre il valore della costante h, liberandosi di questi corpuscoli di energia. Egli
stesso infatti non credeva che la luce potesse avere una doppia natura, ondulatoria e
corpuscolare. Insomma, non si può essere ad un tempo bianco e nero! Ma ogni volta che
cercava di modificare la sua costante, per eliminare la presenza dei quanti ecco che le
espressioni matematiche riprendevano a generare paradossi.
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Pochi anni dopo, Albert Einstein, spiegò l’effetto fotoelettrico ipotizzando che i quanti di
Planck non fossero solo espedienti matematici, ma che fossero entità reali alle quali diede il
nome di fotoni.
L’effetto fotoelettrico consiste nell’emissione di un fascio i elettroni (fotoelettroni) da parte
di una lamina di metallo (ad esempio zinco) colpita da un’onda luminosa di sufficiente
frequenza.
Studiando l’effetto fotoelettrico si osservano i seguenti fenomeni:
1) L’emissione di elettroni non dipende dall’intensità del raggio luminoso ma solo alla
sua frequenza (ν).
2) A parità di ν, all’aumentare dell’intensità aumenta il numero i elettroni emessi ma
non la velocità di ciascun elettrone.
3) Al di sotto di un valore di frequenza minimo ν0 l’effetto fotoelettrico non si produce
anche ad elevata intensità del raggio.
L’intensità, nella teoria corpuscolare è data dal numero di fotoni che compongono il raggio.
Ricapitolando, Albert Einstein spiegò l’effetto fotoelettrico (e per questo fu insignito del
premio Nobel per la fisica) utilizzando la teoria quantistica di Planck: la luce è un fascio di
pacchetti o QUANTI di energia chiamati FOTONI. I quanti possedevano tanta più
energia quanto maggiore era la frequenza dell’onda elettromagnetica ad essi associata,
secondo l’equazione di Planck – Einstein:
E = hν
Dove h è la COSTANTE DI PLANCK ed ha un valore di 6,626 x 10-34Js e ν è la
frequenza in Hz (s-1). E è quindi l’energia del fotone o quanto di luce.
Poiché è c = λν e quindi ν = c/λ allora è anche E = hc/λ
Quindi, se un fotone con ν ≥ ν0 colpisce un atomo di Zn la sua energia è sufficiente a
staccare un elettrone. L’energia in parte viene utilizzata per ionizzare l’atomo di zinco e in
parte a fornire energia all’elettrone sottoforma di energia cinetica (velocità). Aumentando ν
aumenta la velocità dell’elettrone emesso.
IL MODELLO ATOMICO QUANTICO DI BOHR
(cfr. anche “Approfondimenti sul modello atomico di Bohr” )
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La luce emessa da un corpo incandescente e fatta passare attraverso un prisma di vetro, si
scompone nelle sue componenti a differente lunghezza d’onda, generando uno spettro
luminoso.
Se il corpo che emette luce è solido, liquido o gas denso, si otterrà uno spettro ad emissione
continuo:
Se invece ad emettere luce è un gas rarefatto, si ottiene uno spettro ad emissione a righe o
bande, come nel caso del gas idrogeno.
Un gas freddo interposto ad un corpo caldo che emette nel continuo, genera infine uno
spettro di assorbimento con righe scure alla stessa lunghezza d’onda delle righe di
emissione dello stesso gas riscaldato.
Per l’elaborazione del suo modello atomico, Niels Bohr si basò sugli studi dello spettro di
emissione dell’idrogeno. Secondo Bohr, le righe spettrali emesse dal gas idrogeno sono
correlate all’energia degli elettroni negli atomi.
Ad una variazione di energia corrisponde l’emissione di una radiazione elettromagnetica ad
una determinata lunghezza d’onda. Sono quindi possibili solo determinate variazioni
energetiche.
Secondo Bohr, gli elettroni si muovono su orbite circolari ad energia definita e costante
dette ORBITE STAZIONARIE o LIVELLI ENERGETICI. Se l’elettrone si trova in
un’orbita stazionaria esso è stabile.
Bohr formulò due postulati (postulato = affermazione indimostrabile)
1) Nelle orbite stazionarie l’elettrone conserva la sua energia e l’atomo è stabile.
L’orbita stazionaria deve rispettare la seguente equazione:
2πr = nh/mv
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Dove r = raggio dell’orbita stazionaria; m = massa dell’elettrone; v = velocità
dell’elettrone; h = costante di Planck.
Bohr chiamò n, NUMERO QUANTICO PRINCIPALE e si accorse che esso
assumeva solo valori interi che andavano da 1 a ∞ (1, 2, 3, …, ∞).
E’ importante notare che Bohr non diede spiegazione del PERCHE’ l’orbita
stazionaria dovesse rispettare questa equazione.
2) Se l’elettrone assorbe energia, questa ne permette la transizione da un’orbita
stazionaria ad un livello ad energia quantizzata maggiore, definito stato eccitato.
Dopo 10-9s l’elettrone cade ad un livello energetico minore, emettendo quindi energia
sottoforma di un onda elettromagnetica (fotone) secondo l’equazione:
∆E = Eeccitato – Estazionario = hν
In parole povere, un atomo eccitato emette un fotone di energia definita hν pari
all’energia assorbita per passare allo stato eccitato. Lo stato a minore quantità di
energia possibile è definito stato fondamentale.
Dallo studio delle righe spettrali di emissione dell’idrogeno, Bohr individuò 7 livelli
energetici che chiamò (K,L,M,N,O,P,Q).
Nell’idrogeno gassoso, si osservano alcune righe spettrali nel visibile (1 riga nel rosso, 1
riga nell’azzurro e 2 righe nel violetto), che prendono nome di serie di Balmer. Esse
corrispondono all’emissione di energia da parte dell’elettrone durante la sua ricaduta nel
livello energetico n = 2.
Lo spettro dell’idrogeno mostra anche alcune righe nell’infrarosso (serie di Paschen),
corrispondenti alla ricaduta dell’elettrone nel livello quantico n = 3
Infine, sono presenti anche diverse righe nell’ultravioletto (serie di Lymann) emesse
dall’elettrone che ricade nel livello n = 1.
Alle precedenti si aggiungono le serie di Brackett e di Pfund sempre nell’infrarosso,
corrispondenti alle transizioni elettroniche rispettivamente al quarto e quinto livello.
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Gli elettroni che emettono maggiore energia quindi, sono quelli che ricadono nel primo
livello e ciò non deve stupire. Infatti, la differenza di energia va via via diminuendo man
mano che si passa a livelli con numero quantico sempre più elevato. Cosicchè il maggiore
“dislivello” energetico è proprio tra il primo e il secondo livello. Come si vede chiaramente
nella figura seguente.
In conclusione, bisogna dire che il modello atomico di Bohr, rappresenta un notevole
progresso rispetto al modello precedente, anche se esso è valido solo per l’atomo di
idrogeno e per le particelle cosiddette “idrogenoidi”, vale a dire i cationi He+ e Li2+.
Dal modello atomico di Bohr si comincia a comprendere che le leggi della fisica classica
non possono essere applicate agli studi sul comportamento delle particelle atomiche. Negli
anni successivi, si faranno strada, come vedremo in altri appunti, nuovi concetti descrittivi.
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