Numero Giugno `11

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Numero Giugno `11
Giugno '11
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Giugno '11
Numero Giugno '11
EDITORIALE
La notizia era nell'aria già da un po' di tempo, e qualche settimana fa è stata confermata
ufficialmente: il “MEI-Meeting degli Indipendenti” – kermesse alla quale il Mucchio è
storicamente legato, e in occasione della quale viene assegnato il premio “Fuori dal
Mucchio” - quest'anno lascerà la tradizionale sede di Faenza per trasferirsi a Bari, all'interno
della Fiera del Levante, dove si svolgerà dal 25 al 27 novembre prossimi nell'ambito della
prima edizione della Fiera mercato delle Musiche del Mediterraneo “Medimex”.
Un cambio di location drastico che speriamo porti una salutare iniezione di entusiasmo per
quello che è uno degli appuntamenti fondamentali (nonché uno dei più controversi, ma
questa è tutta un'altra questione) dell'annata musicale. Non disperino comunque gli
appassionati romagnoli, ché dal 23 al 25 settembre Faenza ospiterà una nuova
manifestazione targata Audiocoop, il “Mei-Supersound”, annunciato come “il più grande
festival di musica italiana dal vivo per giovani emergenti”.
In attesa di saperne di più, vi lasciamo con la consueta abbondante dose di interviste,
recensioni e report, sperando di rendervi più lieti i giorni che ancora ci separano dall'inizio
dell'estate.
Buona lettura, allora, e come sempre buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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Above The Tree
Above The Tree, alias Marco Bernacchia, ci catapulta con il suo nuovo EP “Into The Nature”
appena uscito per Musica per Organi Caldi, nella fragilità dei silenzi, dell’assenza, del levare
e ci trascina in un’atmosfera molto delicata e serena. Il passaggio tra giro e l’altro non ci
sembra per niente scontato ma frutto di un intenso afflato creativo colto e poi diffuso.
Come nasce l'idea dell'immersione nella dimensione della natura attraversata dalle
tue sensazioni musicali?
Dopo “Blue Revenge” nel 2007 e “Minimal Love” nel 2009 e tra un disco e l’altro lo split
vinilico con Musica da Cucina, non dimenticando la cassetta di un live casalingo intitolata
“Live a cà Blasé”, avevo bisogno di questa vera e propria immersione nella natura che è
arrivata come conseguenza di un periodo di day-off tra un tour e l’altro che mi ha “costretto”
per più di una settimana in un casolare d’inverno sulle Alpi. In questo periodo mi sono
ritrovato a scrutare gli elementi circostanti che mi hanno regalato un’atmosfera magica fatta
di silenzi intervallati da piccoli rumori quotidiani. È da tutto questo insieme che “Into The
Nature” ha preso vita.
Qual è stato il primo brano composto?
I brani erano già definiti nella mia mente, prima ancora che sulle corde della chitarra e si
sono distribuiti sulle tracce del mio computer in maniera casuale e senza un ordine preciso.
Mi muovevo saltando da un brano all’altro senza un criterio logico, prendendo ora questo,
poi l’altro senza ordine ma con tranquillità.
Cosa significa per te fare musica?
Io nasco, prima che come musicista, come artista visivo e in quanto tale pensavo fosse
importante fare della mia vita arte. Poi mi sono accorto che nel mondo dell’arte visiva è
molto difficile se non impossibile, dato che il sistema dell’arte ti vorrebbe più che altro nelle
vesti di un individuo che vive per l’arte, sempre in attesa di una chiamata. Compreso questo
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mi sono rifugiato nella musica, mia vecchia passione e compagna di vita. Grazie a questa
posso ancora dire che l’arte è vita e non far morire la mia creatività.
Quante volte vai in sala prove?
Non ho una sala prove, solitamente sfrutto la mia camera da letto, oppure la camera da letto
di altri o le terrazze e a volte anche i garage. Sono sempre in giro per l’Europa e avere un
luogo fisico in questo passaggio della mia vita è parecchio complicato. Quando torno nella
mia città, Senigallia, vado nella cantina di Michele Grossi, o in campagna nello studio del
mio primo gruppo, i M.A.Z.C.A..
Come si è evoluto il tuo modo di scrivere e comporre in questi anni?
Con tutti gli altri progetti che ho avuto in passato, essendo band, la maniera di creare era
abbastanza impari e mi ritrovavo spesso ad insistere per cambiare le parti agli altri e a
lottare per raggiungere il mio scopo già chiaro dentro la mia mente e il filtro del rapporto con
gli altri era per me davvero complicato da gestire, rischiavo l’esaurimento ad ogni prova. Poi,
grazie al mio progetto solista Above The Tree, ho ritrovato la pace e imparato a cercare
dentro di me le chiavi del discorso.
Ho lavorato molto sul suono e sulla ricerca delle mie radici e ho raggiunto come primo
risultato la capacità di ascoltarmi e di ascoltare, modificando la mia composizione in maniera
chiara sia per la struttura dei brani che per le atmosfere. Quello che però sempre mi
interessa raggiungere dalle mie creazioni è la totale libertà espressiva, ma non voglio che
qualcuno le possa fraintendere e scambiare per musica colta, perciò è importante che il
messaggio sia “pop” ma del pop delle origini, di quello che si prendeva carico di mostrare al
mondo i meccanismi di un sistema già alla deriva e non quello di ora che significa disposti a
tutto pur di entrare.
Hai tanti ospiti che ti accompagnano nell'esecuzione delle canzoni. Come mai hai
chiamato questi musicisti in particolare?
In primo luogo perché li rispettavo tutti artisticamente e quindi è stata una scelta molto
facile. Ascolti un brano registrato e ti immagini dei suoni, così vai ad attingere al tuo archivio
dei ricordi e ritrovi quella voce, quel suono di tromba, quell’arrangiamento che associ anche
ad un volto e ad una esperienza vissuta.
Come mai non sono il tuo gruppo ma solo ospiti?
Perché sono persone con dei progetti musicali già ben avviati e io faccio più di duecento
concerti l’anno e portarli dietro tutti sarebbe bello, ma purtroppo ancora sono alle prese con
lo scegliere la valigia più leggera e lo zaino più comodo. Il futuro però è sempre fantastico,
sempre pronto a delineare cose incredibili o a rovinare tutto, quindi non escludo niente e
aspetto fiducioso.
Chi si è occupato della grafica del disco e com'è nata l'idea?
La grafica è stata come in tutti i miei dischi ideata da me, ed è una cosa a cui tengo molto,
quasi sempre c’è qualcosa di artigianale, perché il disco non sia solo un oggetto senza
anima. L’idea, in questo caso, è nata da un’associazione abbastanza semplice: il disco si
chiama dentro la natura e ho pensato di fare uscire il CD dalla natura in maniera che si
intravedessero da dietro le montagne.
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In che modo strutturerai il live?
Faccio da sempre un discreto uso del campionatore e grazie a questo so anche suonare
come un’orchestra. Mi presenterò in chiave intimistica, a tarda notte in luoghi silenziosi fuori
dalle città.
Il tour in Italia sarà breve anche perché il disco è già stato presentato in Europa (in Francia,
Olanda , Belgio, Spagna e Portogallo) e le copie sono già quasi tutte esaurite.
Da dove nasce la scelta della tiratura limitata a 300 copie?
È un EP con le grafiche fatte a mano e considerando che vendere i dischi oggi non è poi
così facile, una piccola tiratura poteva aiutare a fare un’uscita senza ‘svenarsi’ e in più un
numero di copie ridotte aiuta anche a mantenere la giusta dimensione del lavoro, che è nato
appunto nella massima intimità, protetto dalla semi-solitudine e dalle montagne.
Come avete conosciuto Musica per Organi Caldi, che ha prodotto il disco?
Il primo approccio lo abbiamo avuto in Sardegna allo Here I Stay Festival nel 2009. Io
suonavo come ospite e loro erano presenti con il loro banchetto. Da lì c’è stato un primo
contatto che poi con il tempo ha portato a questa uscita.
Prossimo impegno musicale?
Al momento sto lavorando su più fronti. Ho da poco “riesumato” il mio vecchio gruppo: i
M.A.Z.C.A., e andremo in tour nei prossimi mesi, poi ho un nuovo progetto di chitarra e
batteria insieme a Riccardo Biondetti di G. I. Joe e In Zaire. Parallelamente con Above The
Tree sto organizzando un mini tour italiano per presentare l’EP e registrare i provini per il
nuovo disco ufficiale che uscirà a novembre/dicembre. Nel frattempo, se riesco, vorrei
andare anche al mare.
Contatti: www.myspace.com/bluerevenge1
Francesca Ognibene
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Annie Hall
“Annies” (Quasi Mono/Audioglobe) è il terzo disco di una delle realtà più interessanti ma non
per questo più fortunate del nostro paese, gli Annie Hall. I bresciani sono pronti a entrare in
una nuova fase della loro carriera. Non solo un disco nuovo, prodotto da Giovanni Ferrario,
ma anche una nuova etichetta, la Quasi Mono, è una rinnovata voglia di mettersi in
discussione. Ne parliamo con Fabio Dondelli.
Si chiude una fase importante della vostra carriera. Due dischi pubblicati per Pippola,
una certa crescita artistica che ha seguito un percorso coerente e addirittura una delle
vostre canzoni più significative nello spot della Wind. Ci fai un piccolo resoconto di
questa prima fase della storia degli Annie Hall?
Sono stati effettivamente quattro anni molto intensi: “Cloud Cuckoo Land” ha avuto un
ottimo riscontro e ci ha fatto capire che potevamo azzardare e osare di più. “Carousel” ci ha
insegnato a fare i conti con noi stessi (tra soddisfazioni e difficoltà) e a capire cosa significa
produrre un disco, “Annies” ci ha liberati e ci ha fatto suonare quello che avevamo
semplicemente voglia di suonare, sputando fuori tutto senza regole o catene. Il momento di
“andare oltre” è sicuramente arrivato ma dobbiamo fare i conti con le nostre tasche e col
paese in cui viviamo: siamo una band operaia nel vero senso della parola, nulla di più.
Quasi Mono, la vostra etichetta, è un progetto che vuole valorizzare non solo la
vostra musica, ma tutto un universo di riferimento che, ovviamente, parte da quello
che piace agli Annie Hall.
Il processo di maturazione che ha segnato il nostro percorso ha senza dubbio influito sulla
musica ma soprattutto sul modo di vedere le cose. Se si entra nelle dinamiche
dell’autopromozione con il piede sbagliato si rischia davvero di perdere tutta la poesia. Il DIY
è una gran cosa se non si hanno grandi ambizioni. Se qualcosa deve arrivare, arriverà:
siamo dei romantici da questo punto di vista.
“Annies” rappresenta anche il tentativo di andare oltre un certo stereotipo musicale.
Lo spettro sonoro si è allargato. Le collaborazioni sono diventate più significative. Le
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canzoni sono più dinamiche. Come nasce questo disco? Da quali tensioni è mosso?
Il disco viene da un’estate torrida passata a leggere, ascoltare e snocciolare Bob Dylan e da
alcune belle chiacchierate con Giovanni Ferrario. Chi conosce Dylan sa che se si entra nel
tunnel non si può non uscirne illuminati ed è una sensazione meravigliosa. Ogni sua
canzone ristabilisce le gerarchie. I brani di “Annies” sono usciti uno dopo l’altro in pochissimi
giorni in maniera fluida e naturale. Il resto è successo in studio, ed è quello che speravamo.
Com'è stato lavorare con Giovanni Ferrario?
È stata un'esperienza molto arricchente e di cui avevamo estremamente bisogno. Giovanni
ha “semplicemente” tirato fuori quello che avevamo dentro. Sembra una banalità ma credo
che il primo ruolo del produttore sia proprio questo: farti capire le tue potenzialità, darti
fiducia e puntare sulla magia della musica. “Annies” è nato così, in una settimana:
pochissime take , concentrazione, sperimentazione e divertimento ovviamente. È uscito tutto
dalla magia del momento e ne siamo orgogliosi. Dovessimo tornare in studio con le stesse
canzoni domani uscirebbe un disco completamente diverso.
Il disco può anche essere visto come un tentativo di mettersi in gioco in un momento
in cui tutti sembrano fare sempre le stesse cose all'infinito, soprattutto in Italia.
A mio avviso è sempre un discorso di approccio: oggi molte produzioni si somigliano, si
cerca la cosa catchy ma spesso c’è una carenza di idee preoccupante. La situazione per le
band anglofone in Italia è davvero difficile. Le realtà che hanno maggior successo oggi non
mi pare propongano nulla se non delle ottime cover di altre band. Tutto ben fatto, ben
prodotto, ben confezionato... ma è sempre meglio "l'originale". Il sottobosco è pieno di
piccole band interessanti e capaci ma, a questo punto, mi pare scontato dire che per
“funzionare” bisognerebbe guardare all’estero.
Cos'è cambiato da quando avete cominciato? Mi sembra che se da un lato ci siano
molti più spazi per farsi ascoltare da un pubblico potenzialmente infinito, dall'altro
non ci sia più tanta gente disposta ad ascoltare. E anche la situazione concerti non è
paragonabile a quella di cinque anni fa.
Senza dubbio. Senza soldi le band non hanno la possibilità di fare ciò che vogliono, è un
discorso molto semplice. Senza soldi non si può registrare, mixare, produrre, suonare,
vendere, comprare. Senza soldi non si può nemmeno stare a casa dal lavoro per fare le
prove il martedì mattina e il giovedì pomeriggio ad esempio. Oggi ci son tanti locali che
resistono a fatica pagando cachet ridicoli alle band ma non si può fargliene una colpa, i soldi
son quelli! Il problema è culturale, come sempre.
Adesso che avete un'etichetta e avete messo le basi per una nuova fase della vostra
carriera come vedete il futuro? Si vede che questa è una "nuova partenza" - del resto,
nella copertina del disco, ci siete voi che quasi abbandonate la campagna.
Effettivamente la copertina è significativa. Devo dire che appena finito “Carousel” non
vedevo l'ora di buttarmi sul disco nuovo ma ora la cosa è diversa, forse perché la
soddisfazione è maggiore. Non saprei: non ci sto pensando troppo, sto semplicemente
aspettando. La cosa che ci piace fare è incontrare persone nuove, collaborare, arricchirci
continuamente, imparare, sbagliare, non stare mai fermi e soprattutto non avere obiettivi che
non consideriamo quantomeno raggiungibili. Ora finiamo il tour – nel frattempo ognuno di noi
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sta parallelamente portando avanti altri progetti – e poi si vedrà, senza darci scadenze.
Aspettiamo l’ispirazione, credo sia la cosa più sana e giusta da fare.
Contatti: www.anniehall.it
Hamilton Santià
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Cat Claws
Da tempo annoverati tra le più sorprendenti e stimolanti realtà musicali del nostro paese, i
Cat Claws tornano con “Cat Laws” (42/Audioglobe) . Disco della maturità, che cerca di
consolidare, senza nessun calcolo, la stima di cui i romani godono. Ne parliamo con Marco,
Guido e Lavinia.
“Cat Laws” è stato registrato a Milano, alle leggendarie Officine Meccaniche.
Raccontateci un po' la genesi di questo disco.
MARCO: Volevamo registrare l'album nel modo più diretto possibile, con tutte le sezioni
ritmiche in presa diretta. Abbiamo chiesto a Giacomo Fiorenza che ci ha proposto di andare
alle Officine Meccaniche registrando con lui e Antonio "Cooper" Cupertino. Ne è valsa
veramente la pena! Ci tengo pure a sottolineare che un luogo del genere a Roma ci sarebbe
costato più del doppio. Alle Officine, invece, mi sono sembrati contenti di poter registrare
anche gruppi underground come il nostro. Voglio dire, in “Cat Laws” ho suonato delle
chitarre e degli amplificatori inestimabili, che non avrei trovato facilmente in altri studi.
GUIDO: Officine Meccaniche è “semplicemente” un bellissimo luogo di lavoro, in cui dei
professionisti cercano di soddisfare qualsiasi tua esigenza a prescindere dal fatto che tu sia
Laura Pausini o i Cat Claws. Siamo stati seguiti in modo eccezionale da Cupertino, abbiamo
preso il caffè con Mauro Pagani, pranzato con i ragazzi che seguivano altri progetti, in un
clima di assoluta familiarità e senza alcun preconcetto nei nostri confronti.
Mi sembra che questo disco sia più sfumato. Le canzoni abbracciano più spunti
espressivi, più generi e ci lavorano sopra senza fermarsi alle mere intuizioni o alle
mere citazioni. Come sono nati i pezzi del disco? Si può parlare di un certo tipo di
necessità?
M.: La maggior parte delle canzoni sono nate tutte a ridosso della registrazione del primo
album. Alcune sono state arrangiate subito, altre sono state prese e riprese fino a
interpretarle per davvero. “The Fool On The Bus” è nata subito con quel giro di chitarra
funk-bianco urbano e tagliente, ma nessuno di noi sapeva suonare ed interpretare quella
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roba! Ecco la differenza: mentre per il primo disco piegavamo le canzoni al nostro suonare,
questa volta abbiamo piegato il nostro suonare a favore delle canzoni.
In un periodo storico-sociale in cui l'indie italiano sembra rifiutare l'idea di un rock di
matrice americana fatto principalmente di chitarre, voi tornare con un lavoro che - a
parte “90 Minutes” - risfodera un'attitudine chiara. Alieni vostro malgrado? Scelta di
campo? Opposizione ostinata?
M.: Nell'underground italiano ci sono troppi calcoli, poca musica, poca istintività e tanta
paura. “Cat Laws” è la semplice voglia di registrare canzoni di valore a prescindere dal
genere. In più, per me, è stato anche un modo per mettere la parola fine all'idea di rock
classico. Dico a tutti che questo è il disco classic rock dei Cat Claws! C'è tutto. Per questo si
chiama “Cat Laws”: è il nostro rock, la nostra base, le nostre leggi.
G.: Siamo completamente estranei all’ambiente dell’indie Italiano. Ovviamente ora
passeremo per snob. Ci fa strano pensare che ci siano persone o gruppi che si approcciano
alla musica pensando: “all’ambiente indie, piacerà?”. Noi partiamo sempre da cosa ci
piacerebbe fare. Una canzone ultra-electropop all’interno di un disco suonato in presa diretta
con chitarre vintage? Fico! Facciamolo!
LAVINIA: Non mi sono mai interessata a quello che vuole l’ambiente indie. Ognuno ha i suoi
gusti e basta. Poi, che sia un album di chitarre è secondario, per questo album ci andava di
farlo così. Per quello successivo è ancora tutto da decidere!
C'è un filo rosso che lega le vostre canzoni?
M.: L’unica cosa che lega ogni canzone è l'approccio da sempre vicino alla ripetitività e
essenzialità tipica dei gruppi nati sulla scia dei Velvet Underground. Io in particolare sono
fissato con ritmi ossessivi e suoni dalla tonalità aperta. È curioso come in Italia siamo autori
inconsapevoli di schifezze pop ottundenti che sarebbero un gran materiale di scarto da
riciclare. Invece la ignoriamo, infestandola di mille cambi da suite orchestrale pacchiana da
cafone arricchito che non va da nessuna parte. Non ho mai capito perché l'italiano che fa
rock per essere riconosciuto "speciale" dal proprio pubblico non lo deve fare coi suoni e con i
ritmi ma con armonie di musica classica studiate senza passione. Così il rock in Italia si
annacqua e perde d'istintività. Eppure siamo stati i campioni dell'avveniristica dance
elettronico-ossessiva con Giorgio Moroder, i pionieri della musica moderna urbana e
rumorosa con i primi futuristi, quelli che mischiavano qualsiasi cosa in nome dell'efficacia
sonora, quelli che hanno un patrimonio folk inestimabile e vario che viene ammazzato ogni
giorno da band che lo trattano alla stregua di canzonette da pub. Così nella foga di
dimostrare la nostra italianità prendiamo solo l'aspetto operistico/lirico del nostro paese
senza averlo mai studiato e ascoltato e ci fregiamo di essere "sperimentali" nel nostro demo
di "rock sperimentale".
Ci sono alcuni momenti del disco in cui cercate di “andare contro” l'ascoltatore,
portare un po' di noise estenuante e dilatare i tempi verso una forma di musica
particolarmente ossessiva e "faticosa" da esplorare.
M.: Nel primo disco volevo condire tutto di rumori e caciare varie perché nella prima vera
registrazione vuoi sfogarti al massimo. In questo caso, invece, nessuno ha sentito la
necessità di blandire le sensazioni e le emozioni suscitate da ogni canzone ma di
accentuarle. Così il pezzo più pop è proprio POP e ti viene voglia di cantarlo, il pezzo
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ossessivo se sei preso male lo salti perché ti angoscia per davvero, e così via.
G.: Ti riferisci a “Mr. Cloud”, vero? Su quella canzone non siamo, purtroppo, riusciti ad
ottenere l’effetto che avremmo voluto, sia in studio che in post produzione. L’idea di base era
fare una canzone con le atmosfere alla Sunn O)) ma è uscito un suono troppo simile al resto
del disco, troppo anni Novanta e l’effetto si è perduto.
Siete legati al mondo della 42 Records. L'etichetta mi sembra particolarmente attiva
in un momento in cui sembra sempre più difficile farsi ascoltare.
G.: Il mondo della musica indipendente è durissimo, le soddisfazioni personali ce ne sono,
ma anche con quelle devi fare dei conti. Come gruppo cerchiamo di guardare al presente: un
passo alla volta. Insomma, crediamo che la passione e un approccio serio e professionale
sia il modo migliore per noi di affrontare un hobby impegnativo come la musica. In questi
aspetti Emiliano Colasanti e Giacomo Fiorenza sono molto simili a noi.
L.: Il “momento difficile” della musica sta diventando sempre più difficile. Molte cose sono
cambiate da quando abbiamo iniziato a suonare. Comunque sto notando che i ventenni di
oggi sono molto aperti e curiosi di sapere tutto. Secondo me stiamo entrando in un momento
nuovo e positivo per la musica e la 42 si sta trovando al posto giusto nel momento giusto.
Contatti: www.myspace.com/catclawsband
Hamilton Santià
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Cinemavolta
Dalle prove in una cantina di Montichiari a oggi, i Cinemavolta hanno macinato chilometri ed
esperienza, tanti palchi, molte soddisfazioni, qualche delusione, una manciata di faux pas.
Un tale bagaglio la band ha saputo farlo convergere e fruttificare nel recente “3D(C)” (Silent
Groove/Audioglobe), album piacevolissimo quanto intelligente, oggetto di una chiacchierata
con Max Tozzi, voce, penna e chitarra del gruppo.
Come sono nate le canzoni di “3D(C)”?
I brani sono nati idealmente nei nostri viaggi, sul furgone. Sebbene il 2010 ci abbia visto su
pochi palchi, ci siamo trovati molto spesso a fare lunghe percorrenze sul nostro fido Traffic.
Parliamo un sacco quando siamo in viaggio. La logorrea ci aiuta a stare svegli e a progettare
nuovi scenari per i Cinemavolta. Non solo idee compositive, ma anche abbozzi di nuove
strategie, esperimenti tecnici di registrazione. Il funk, durante un viaggio in Francia, è
diventato una vera ossessione e abbiamo iniziato a chiederci se non fosse il caso di provare
a mettere assieme il nostro approccio alla canzone con un certo groove.
Esiste un elemento comune capace di aggregare i tredici brani che lo compongono?
Ti direi che “3D(C)” è un disco sul senso di colpa. Anche i brani che sembrano più distanti
ne sono in qualche modo affetti. Poi ovviamente, a livello sonoro, il dialogo tra basso e
batteria ribadisce sempre una discendenza “nera”, anche nelle canzoni in cui ci si sarebbe
aspettati chitarre acustiche, glockenspiel e sussurri. Da sempre ci teniamo a dare una forte
identità ai nostri dischi che, per questo, suonano tutti in modo diverso. La cosa, ovviamente,
è un po' in controtendenza rispetto alle “fidelizzazioni” tipiche di una certa discografia, anche
indie.
Fino ad un certo punto e più precisamente arrivati ad “Oblomov”, l’album sembra
costruito su cànoni da colonna sonora, con alcune soluzioni melodiche riprese e
rimodellate. Si tratta di un processo voluto o l’ascoltatore dovrebbe farsi meno pippe
quando sente un vostro disco?
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Un ascoltatore dovrebbe farsi più “pippe” quando ascolta un nostro disco! Noi ci infiliamo
sempre un sacco di citazioni, rimandi e suggestioni e questo succede sia a livello sonoro che
testuale. Ci hanno tolto il piacere della copertina e tra un po' anche l'album, come un
susseguirsi organico di brani, sarà costretto a soccombere, ma si può trasferire questa
curiosità all'interno di un brano stesso. Se ci si riesce, c'è ancora speranza per noi e per tutti
quelli che non pensano che la musica sia solo l'accessorio più adatto ad accompagnare
cuffioni e iPhone.
A proposito di “Oblomov”, nel brano in questione la musica riflette l’inerzia del
personaggio di Gončarov (Ivan Aleksandrovič, scrittore russo dell’800,
Ndr), ma il testo affronta la questione in maniera allargata, con ironia, forse
diluendone il senso. È preferibile pensare che l’apatia sia un cliché da relegare su una
mensola o hai avuto paura di esporti eccessivamente?
Mi sono esposto fin troppo. Ho traslato quell'apatia in un ambito sentimentale che ha
mostrato alcuni miei nervi scoperti. Non solo a me. Ovviamente la canzone voleva partire dal
personaggio di Gončarov e arrivare nella stanza di chiunque ascolti e si trovi a
rimandare decisioni. Però, riallacciandomi alla domanda che mi hai posto precedentemente,
mi piace pensare che qualcuno abbia potuto infilare la parola “Oblomov” in un motore di
ricerca e magari gli sia anche venuta voglia di leggere il romanzo. Per me la musica è
sempre stata uno stimolo alla ricerca – wagnerianamente multimediale, passami la
sboronata intellettuale – e poter essere una parte attiva di questo stimolo mi renderebbe
davvero molto fiero.
Nel libro “Smetti di essere felice” (Max, classe 1972, è anche scrittore, Ndr) hai
ricordato gli anni ’90 in prima persona, avendoli vissuti durante un’età in cui le
esperienze accadono tendenzialmente per la prima volta, con sano senso di
irresponsabilità. Nel brano “Carnevale ’82” (in parte come accadeva in “8 novembre
1983” dal mini-album “Guerra Fredda”) invece, lo sforzo mnemonico pare devastante
e allo stesso tempo molto evocativo nel suo ripescare e montare immagini. Quanto
c’è della tua infanzia, quanto del ricordo collettivo che si ha di quel periodo?
Ci sono entrambi. Gli anni Ottanta sono un periodo storico estremamente complesso che,
solo per comodità, cataloghiamo come un decennio dell'ottimismo. Eppure c'era qualcosa di
inquietante che pervadeva la letteratura e il cinema di quegli anni. Era come se ci si stesse
aspettando qualcosa di tremendo da un momento all'altro. Il sorriso teso, pronto ad
incresparsi. Detesto il revivalismo nostalgico della nostra generazione che scambia ricordi
d'infanzia per qualità.
È difficile essere trasparenti quando si scrive un testo in prima persona?
È difficile non essere trasparenti. La trasparenza non è necessariamente autobiografismo.
Gli autori di canzoni che prediligo – penso a Randy Newman o Elvis Costello, Billy Joel o
Paul Simon – parlano quasi sempre di altri infilandoci dentro se stessi. Questo è il solo
metodo che seguo: mettermi nei panni di un altro e sentire al suo posto. Può essere molto
doloroso perché ti fa scoprire anche ciò che di te non va proprio.
Le citazioni letterarie si presentano già in copertina e sono note le due pubblicazioni
che portano la vostra firma. Tolti Oblomov e Dante, quali personaggi letterari, reali o
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di fantasia, vestirebbero i panni dei Cinemavolta oggi?
Ecco, a proposito di anni Ottanta, autodistruzione e scoperte dolorose, mi viene in mente
John Self, il meraviglioso protagonista del romanzo di Martin Amis “Money” (che è del 1984).
È funky, colpevole, sfigato, affascinante, spesso ubriaco.
Musicalmente la band ha raggiunto un buon equilibrio tra cantautorato pop e la
potenza del funk, con una propensione per il secondo. Di contro, non si tratta certo di
un genere in voga nel 2011. Quanto sta costando questa vostra libertà artistica?
Quando ci mettiamo a registrare un disco non pensiamo mai a chi lo ascolterà o a quale
discografico passerà il provino nel lettore cd. Noi vogliamo suonare ciò che più ci esprime
perché è una questione di onestà nei confronti di noi stessi. Ti piaceva di più “Weekend”? Ti
sei emozionato con “Guerra fredda”? Buon per te! Significa che quello è ciò che tocca le
corde giuste per te. Noi abbiamo a che fare con il feroce anelito della ricerca. Se ci
dovessimo abbandonare ad un cliché ci scioglieremmo in pochissimo tempo. Ricordo che
uno dei rari e comunque pacati litigi dei Cinemavolta è sorto proprio alla fine di una serie di
concerti in cui ci siamo trovati a recitare sempre lo stesso ruolo sul palco. Non sopportiamo
l'idea della medesima scaletta ad ogni concerto, figurati se dovessimo registrare sempre lo
stesso disco. Però va detto che l'onestà con cui affrontiamo la musica ci sta ripagando. I
nostri concerti oggi sono davvero molto apprezzati. Come mi ha detto recentemente alla fine
di un live Andy – Andrea Ponzoni, il tastierista - “Facciamo la musica che ci piace, ma
abbiamo anche imparato a suonare e così la gente si diverte”. Ti sembra poco?
A proposito di live, il Tour di “3D(C)” promette di tenervi impegnati a lungo,
evidenziando il proseguire della vostra liaison con la Francia.
Lo scorso mese siamo stati due volte nella zona della Borgogna per una serie di concerti.
Iniziamo ad avere un sacco ci amici lì e quindi cominciamo a sentirci un po' a casa. Va detto
che la Francia è un paese meraviglioso per la musica. Si suona ovunque e tutti apprezzano.
Molto spesso riusciamo a fare anche due set in un giorno suonando talvolta in certi posti a
pranzo (ebbene sì: gente che mangia, non si lamenta e ascolta addirittura sconosciute
canzoni in italiano...). Recentemente scrivevo ad un'amica prima di uno di questi mini-tour e
le dicevo che suonare all'estero ha molte cose in comune con lo sport o lo scontro bellico. Ti
unisce incredibilmente perché ti pone di fronte ad un pubblico che davvero non sa niente di
te. A quel punto sta a te cercare di fare arrivare il messaggio. Noi abbiamo imparato a farlo
ed è una delle conquiste più importanti degli attuali Cinemavolta.
Un difetto, se così si può dire, ve lo abbiamo trovato: a parte la vostra pagina su
Facebook, il sito e alcuni vostri social soffrono di discontinuità da aggiornamento.
Esserci è forse importante, ma stare dietro a tutto è fattibile? Soprattutto, ne vale la
pena?
Non è facile stare ad aggiornare tutto e si devono fare delle scelte. MySpace non è più lo
strumento utile di cinque anni fa e noi lo usiamo solo come player. Twitter porta pochi
benefici alla promozione musicale, a meno che tu non sia John Mayer che scrive ogni dieci
secondi e ha milioni di follower. Inoltre bisogna avere qualcosa da dire e non sempre le cose
che abbiamo da dire noi sono interessanti. Il sito è ormai un collettore di social network ed
esaurisce qui la sua funzione. Solo Facebook al momento sembra essere lo strumento
valido (anche se estremamente meno efficace del MySpace di cinque anni fa). Detto questo,
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ci piacerebbe poterci aggiornare in tempo reale su tutte le nostre propaggini web, ma
occorrerebbe qualcuno che lo faccia per noi. Ecco, ci servirebbe proprio una segretaria...
Contatti: www.cinemavolta.it
Giovanni Linke
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Dead Cat In A Bag
I torinesi Dead Cat In A Bag hanno creato un album d'esordio, “Lost Bags” (Viceversa),
carico di suggestioni “di frontiera” e caratterizzato da un songwriting e da un suono piuttosto
originali. Ne abbiamo parlato con il nucleo creativo del progetto, Luca “Swanz” Andriolo e
Roberto Abis.
I Dead Cat In A Bag sono nati come duo dalla strumentazione minima, diventando col
tempo un ensemble allargato a vari strumentisti e ospiti. Ci puoi raccontare in breve
questo percorso evolutivo?
I Dead Cat in A Bag nascono come divertissement in un momento di stagnazione di altri
progetti musicali. Entrambi volevamo ritrovare il gusto e il piacere di creare, senza particolari
limiti. “Wasteground Of Your Lips” è nata così, in appena otto ore in studio. Il risultato ci ha
stupito e soddisfatto al punto di decidere di investire in un personalissimo e ultra-casalingo
studio di registrazione (il Junkyard Moon Studio), dove gran parte del materiale finito su
“Lost Bags” è stato registrato. Naturalmente, alla crescita musicale è corrisposto un
allargamento del numero di musicisti (e di strumenti) coinvolti. Luca Iorfida (piano,
fisarmonica, vibrafono) e Andrea Bertola (violino) sono elementi fissi, ma si sono appena
aggiunti altri personaggi interessanti...
Non ho ancora avuto occasione di vedervi in concerto, ma quello che emerge
immediatamente ascoltando “Lost Bags” è la volontà di sfruttare al massimo lo studio
di registrazione come spazio per lavorare sulle atmosfere e sui suoni, creando
volontariamente una trasfigurazione espressiva, se mi si passa il termine, una
dimensione a parte, dando vita a qualcosa che non esiste in realtà, che vive
principalmente nell'immaginario. L'intenzione era questa, "girare" un film onirico
anziché documentare la semplice realtà?
In tutto c’è mediazione, persino nei concerti. Ci piace l’idea della colonna sonora
immaginaria e troviamo naturale la ricerca di una veste sonora adeguata. Lo studio di
registrazione in questo è stato decisivo, un po’ per il fatto di poter lavorare con tranquillità e
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senza fretta alla definizione di un sound che ci rappresentasse, un po’ perché il Junkyard
Moon costituisce un non-luogo, lontanissimo dallo studio di registrazione classico e asettico,
in cui suoni e rumori esterni possono entrare a loro piacimento e farsi parte integrante dei
brani. Ci sarebbero centinaia di aneddoti sulle nostre sessioni di registrazione a dir poco
anticonvenzionali!
I riferimenti tirati in ballo a proposito della vostra musica sono innumerevoli, ma l'elemento
che mi pare più presente è la fascinazione per certe suggestioni "di frontiera", qualcosa che,
quantomeno come attitudine, vi avvicina a progetti come i Calexico: giocare con la geografia
di luoghi mitici. Come è entrato questo elemento - se vi riconoscete nello scenario che ho
illustrato - nella vostra formula musicale?
Alla fine non si è trattato che di mettere in campo tutti i nostri amori. Ci piace attingere a
suoni e strumenti tanto differenti e metterli assieme in modo che suonino senza forzature e
ostentazioni “world music”. Ogni strumento è funzionale a un’immagine o alle parole di ogni
singolo brano, e i brani stessi sono per noi sogni di viaggio, ricordi veri e inventati, colonne
sonore di film immaginari.
Un altro elemento particolare del vostro progetto è l'attenzione riservata alla
strumentazione, una collezione di strumenti "da rigattiere". La ricerca degli strumenti
per "arredare" le canzoni sembrerebbe essere una parte decisiva, perlomeno quanto
le altre, nella costruzione dei brani... Qualcosa che mi pare venga fuori dall'immagine
di copertina.
È vero. Il lato romantico è quello del recupero, della polvere, della storia. La copertina e
anche le immagini interne parlano un po’ di questo. E poi quegli strumenti, quando hai la
fortuna di trovarli e non sai ancora se imparerai a suonarli, hanno addosso quel piacevole
mistero. Perciò, i nostri strumenti sono fondamentali non solo da un punto di vista pratico,
ma anche e soprattutto estetico.
Il disco nasce grazie al contributo della Viceversa, storica etichetta siciliana, e la Sicilia è
presente fisicamente attraverso Marcello Caudullo, che ha supervisionato le registrazioni e
ha anche suonato sul disco. Come è nata questa connessione e più in generale in che modo
avete coinvolto gli ospiti del disco?
In modo del tutto casuale. Abbiamo messo alcuni dei nostri brani su MySpace e, di lì a
poco, siamo stati contattati da una booking agency di Catania che si chiamava Cottonfioc. I
ragazzi ci hanno invitati a Catania per lavorare sui nostri brani alla Zen Arcade con Marcello
Caudullo. Fortunatamente per noi, lo Zen Arcade è un autentico porto di mare da cui
passano continuamente musicisti di grande talento, a cui abbiamo chiesto di partecipare con
le loro idee. Tra gli altri, ci piace ricordare Massimo Ferrarotto dei Feldmann, lo stesso
Marcello ed Enzo Velotto. Anche con Liam McKahey (cantante dei Cousteau, Ndr) è stato
tutto semplice: gli abbiamo chiesto l’amicizia, ci ha ascoltati e da persona alla buona quale è
ci ha chiesto se potesse fare qualcosa per noi. Ovviamente, essendo fan dei Cousteau,
abbiamo risposto: sì, cantare! Purtroppo, lui vive ormai da anni in Australia e quindi
possiamo solo scambiarci file e discutere a distanza. Però non disperiamo di poter registrare
e, soprattutto, di suonare assieme dal vivo.
Contatti: www.myspace.com/deadcatinabag
Alessandro Besselva Averame
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Marlowe
Salvo Ladduca ci racconta del quartetto siciliano dei Marlowe, dei quali è cantante e
chitarrista. "Fiumedinisi" - uscito per Seahorse/Audioglobe - scorre senza pause, come fosse
un lungo sospiro. Mille ricordi custoditi che si espellono e tracimano diventando aria,
lasciando il fiato corto e il cuore a pezzi. E Salvo si esprime così cantando in italiano
attraverso le alte porte più eleganti del dark rock.
Come nascono i Marlowe? Quindi la storia in cui voi vi conoscete e decidete di
formare un gruppo.
Era il 1998, eravamo in un bar a parlare di cinema, letteratura e tante altre cose e lì
abbiamo deciso di fondare il gruppo. La formazione attuale è di quattro elementi: chitarre,
batteria e basso e siamo ben consolidati dal 2005. Quattro dischi all’attivo, di cui i primi tre
prodotti da Cesare Basile e Marcello Caudullo e questo “Fiumedinisi” uscito alla fine del
2010, prodotto da Seahorse Records. Io e il bassista ci conosciamo da tempo, ma dopo tanti
cambi di formazione siamo arrivati alla stabilità.
Ci sono dei gruppi che hanno rafforzato il vostro legame di gruppo, perché ne
condividete l'ammirazione?
Credo che i gusti in comune costituiscano la base fondamentale per iniziare un progetto, lo
stesso vale pure per la buona convivenza. I Marlowe sono sempre stati amanti dell’arte in
generale, quindi abbiamo condiviso la fame per i dischi, l’attrazione per i dipinti e le foto,
l’amore per la letteratura e pure una sfrenata passione per la cucina.
Qual è il vostro modus operandi, quando scrivete e componete?
La nostra composizione è sempre stata molto scrupolosa. Ci teniamo ad adagiare le parole
e la musica su di un velluto e quindi si viene a trovare una situazione di equilibrio tra musica
e testo e senti quando la canzone può funzionare, ottenendo l’opera finale con l’assoluto
rispetto per la forma canzone. È l’ispirazione che ci tiene come delle marionette pronte per
entrare in scena e quando si accomoda inaspettatamente dentro di te scatta il congegno
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della creazione. Di solito le nostre composizioni hanno inizio da un semplice appunto
chitarra e voce o da una struttura ben definita a cui in seguito aggiungi le parole. È una delle
poche cose che mi eccita ancora.
Quale parte preferite del vostro essere musicisti? Quando componete? Quando
registrate in studio? Avere intitolato il disco con il nome del paese dove avete
registrato potrebbe dare qualche indizio.
Sono affascinanti entrambi i momenti: sia quello della creazione dove viviamo un aspetto
alquanto “mistico”, che quello della registrazione dove si lavora sia a livello tecnico che a
livello di sensazioni. Ci teniamo a dare una consistente importanza emozionale all’
esecuzione.
Il paese che ci ha ospitati per le riprese ha avuto un ruolo di rilievo per tutto quello che è il
nostro nuovo disco. Era un posto perfetto come grembo dell’album per questo è diventato
anche il suo titolo “Fiumedinisi” con tutte le carte in regola per confezionare in maniera
elegante le nostre ultime canzoni.
Come sono andate le registrazioni?
Le registrazioni nel paesino di “Fiumedinisi” sono state accompagnate dalla pioggia, dai
silenzi e dal fiume che scorreva nervoso, tutto ciò legato ai nostri suoni e alle nostre idee.
Eravamo in simbiosi con l’atmosfera nebbiosa del paese e il nostro concetto del momento.
Sono stati giorni intensi, lontano da tutto quello che ci poteva distrarre: dal telefono e dal PC.
Facevo tante passeggiate. In quel momento alla fine penso siamo riusciti a dare l’immagine
di quello che i Marlowe sono oggi.
Tra gli ospiti notiamo la presenza di Angela Baraldi. Com'è nata questa
collaborazione?
Con Angela ci siamo incrociati ad un festival del cinema dove lei è stata premiata come
miglior attrice per il film “Quo Vadis Baby” di Gabriele Salvatores, sapevamo fosse una
donna dalla forte personalità ma tutto finì lì, quella volta, senza scambiare neanche quattro
chiacchiere. A distanza di tempo, lei ha collaborato con un amico in comune che le ha fatto
ascoltare le nostre canzoni e le ha proposto di collaborare con noi e penso che lei si sia
sentita molto vicina alla nostra musica. È stata la donna perfetta per questo disco. Quando le
abbiamo fatto ascoltare “In fondo alla gola” l’ha ascoltata con tanto entusiasmo. Diciamo
sempre che il destino ti offre, a volte, i compagni ideali.
Invece, tra i musicisti che avete incontrato nella vostra storia musicale chi è stato
importante per voi lasciando una traccia indelebile?
Ogni esperienza che abbiamo fatto merita rispetto. Abbiamo conosciuto Hugo Race. E
Cesare Basile che ci ha proprio seguiti in questi anni di grande amicizia e collaborazione e ci
ha trasmesso il concetto umano e spirituale della band insegnandoci a rispettare la forma
canzone. È stato fondamentale come d'altronde Marcello Caudullo e oggi Paolo Messere
della Seahorse per quest’ultimo disco. Penso che ognuno di loro abbia contribuito alla nostra
crescita artistica regalandoci il loro insegnamento e la loro professionalità. Le cose più
significative che ci hanno consegnato sono l’umiltà e la voglia di mettersi sempre in gioco.
Com'è cambiato il vostro modo di scrivere nel corso degli anni? C'è qualcosa che
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avete lasciato indietro perché non vi convinceva del vostro modo di scrivere?
Non guardiamo mai indietro, abbiamo sempre voglia di scommettere su quale strada
prendere in questo avvincente viaggio. La scrittura cambia in base al periodo, ai mutamenti;
è in stretto rapporto con le sensazioni e gli avvenimenti. Miriamo ad esprimere concetti che
possono arrivare a tutti con una totale fluidità, quindi dando eleganza alla semplicità
dell’espressione con parole, a loro volta, tenute strette da melodie ed atmosfere. Ogni tempo
è come siamo stati e ha avuto la sua immagine, come quando abbiamo fatto “Mai perdonati”
che vivevamo un certo periodo di emozioni e anche di ascolti, influenzati da Bonnie “Prince”
Billy e Jonny Cash ma anche da Cesare Basile e con lui magari ascoltavamo insieme
“Storia di un impiegato” di Fabrizio De André e quindi vivendo quel periodo ne eravamo
influenzati. Ma poi passano gli anni e si ascolta altra roba. Un anno ho ascoltato solo John
Cage, Luigi Tenco e My Blody Valentine e già si respirano altre atmosfere ed è bello per
questo, perché c’è una continua metamorfosi del gruppo.
Per avere il vostro disco cosa bisogna fare?
Si può acquistare nei negozi, ai nostri concerti , sulle piattaforme digitali, o con il circuito
Feltrinelli e Audioglobe.
Contatti: www.myspace.com/marloweband
Francesca Ognibene
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Nuju
Sorti dalle ceneri di band diverse − Rosaluna, Arangara, Massa Furtiva − i
Nuju con due album all’attivo si sono già costruiti una credibilità nell’ambiente della
patchanka italiana. All’indomani dell’uscita di “Atto secondo” (MK/Venus) abbiamo realizzato
una chiacchierata con il sestetto composto da Marco Ambrosi, Fabrizio Cariati, Giuseppe
Licciardi, Roberto Simina, Stefano Stalteri e Roberto Virardi.
Due album per un biennio vissuto velocemente... Com’è che i Nuju sono diventati la
realtà che oggi sono?
Ognuno di noi viene da altre esperienza e conosceva l'ambiente musicale, così abbiamo
potuto saltare alcuni passaggi che di solito sono obbligati alle giovani band. Dal 30 maggio
del 2009, con il primo concerto al Fuori Orario di Reggio Emilia, siamo partiti con
l’acceleratore schiacciato per riuscire a realizzare i nostri sogni musicali. Oggi tutti lavoriamo
e “abbiamo famiglia”, quindi cerchiamo di fare ogni cosa più concretamente perché a parte la
vita privata non ci resta molto tempo per la musica. Riusciamo ad andare in giro a suonare
chiedendo permessi a lavoro e rientrando di notte quando il giorno dopo bisogna lavorare,
dobbiamo per forza bruciare le tappe, perché il tempo è poco per ogni cosa, figuriamoci per
inseguire i propri sogni.
In poco tempo avete già fatto incetta di premi. Cosa rappresenta questo per un
gruppo giovane?
Sicuramente è un modo per rendersi visibili all'interno del panorama musicale, in più
rappresenta uno stimolo per proseguire sulla strada intrapresa, perché vuol dire che
qualcuno apprezza la nostra musica.
Poi se a questi premi segue un rapporto lavorativo, come è successo grazie alla vittoria al
Radici Festival, che ci ha portato alla collaborazione con MK Records, vuol dire veramente
tanto.
Quale passaggio intravedi, dal punto di vista evolutivo, da “Nuju” a “Atto secondo”?
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Con “Atto secondo”abbiamo cercato di focalizzare meglio le nostre idee, cercando di fare un
passo avanti dal punto di vista degli arrangiamenti, chiedendo aiuto ad amici musicisti.
Crediamo sia fondamentale la collaborazione con altre “menti”, perché si possono trovare
spunti magari lasciati da parte nella prima stesura del brano. Risulta fondamentale l’apporto
alla produzione di Lorenzo Ori, che soprattutto in questo disco ha lavorato alle
programmazioni elettroniche,rendendo il nostro sound più moderno.
Come degli Ulisse in perenne movimento, cantate il viaggio come fine e non come
mezzo per arrivare a una meta. La vita è movimento. Ma quando vi fermate cosa
succede? C’è anche un “elogio dello stare”, o no?
Il viaggio è fatto anche di soste e queste possono aprire le porte a nuovi viaggi. La vita è in
movimento ed è un bene quando è nostra la decisione di muoversi, ma non possiamo
accettare una società che ci impone di correre perché altrimenti si resta indietro. A quel
punto è meglio “stare” rispetto al “muoversi”. Noi siamo novelli Ulisse che abbiamo perso la
nostra identità guadagnandone molte altre. Siamo calabresi e viviamo a Bologna, quando
siamo nella nostra terra di origine ci chiamano "i bolognesi" e in tutti gli altri luoghi saremo
sempre "i calabresi". Per questo il viaggio è un fine, perché senza il viaggio non avremmo
nessuna identità, ma nello stesso tempo ad ogni sosta scopriamo una nuova identità. Questi
concetti "pirandelliani" li abbiamo racchiusi nel nostro nome, Nuju = Nessuno.
Come vi collocate nella scena folk-rock italiana, che è molto affollata da ormai un
ventennio?
Quando abbiamo iniziato a parlare del progetto Nuju ci siamo detti che il nostro obbiettivo
sarebbe stato quello di realizzare canzoni, nel senso nobile del termine. Noi sentiamo di far
parte di un unico calderone, quello della popular music, che racchiude in sé il folk, il rock, ma
anche il pop, l'etno e la world music. Certo non possiamo negare che stiamo meglio in un
festival con i Modena City Ramblers che con gli Afterhours, ma nello stesso tempo abbiamo
l’aspirazione di poter piacere sia ai fan degli uni che degli altri. Tutti noi ascoltiamo le
Negresses Vertes come i Radiohead e non accettiamo che oggi la musica sia fatta di
differenze e sottogeneri per i quali o fai parte degli “indie” (che spesso non sono altro che
indie-fighetti) o fai parte del popolo della patchanka. L'unica cosa che può creare delle
differenze nella musica è la qualità.
Più in generale, quali sono i vostri maestri, gli ascolti formativi che vi portate dentro?
Tutti noi abbiamo dei gruppi preferiti, il nostro batterista Stefano Stalteri è un grandissimo
fan degli Alice In Chains e di tutta la scena grunge anni 90, e ognuno si porta dietro i suoi
ascolti e le sue influenze. Queste poi si mescolano tra di loro per arrivare al nostro obbiettivo
di cui parlavamo prima, la canzone. Sicuramente i cantautori sono una grande influenza,
perché nelle nostre canzoni è importante anche il testo insieme alla musica, per la voglia che
abbiamo di lanciare dei messaggi agli ascoltatori. Riconosciamo in Rino Gaetano un nume
tutelare della nostra musica, perché ha saputo far pensare e divertire con la sua ironia e ha
saputo creare un melting pot di generi musicali in ogni album. Questo è quello che vogliamo
fare anche noi trent'anni dopo di lui.
Per restare a “Grandi Calabresi”, io vedo più di un link con la parabola del Parto delle
Nuvole Pesanti, anche loro “calabresi di Bologna”. Che pensate di questo
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accostamento?
Il Parto delle Nuvole Pesanti ha accompagnato la nostra adolescenza e i primi di anni di
università a Bologna, è stata la prima vera band calabrese che ha avuto un riscontro
nazionale e ci ha reso orgogliosi di essere calabresi, per questo è inevitabile la loro
influenza. Conoscendoli abbiamo potuto imparare ancora di più e siamo onorati di poter
sentire che spesso ci accostano a loro, perché li stimiamo, anche se ci sono delle dovute
differenze, una su tutti è l'utilizzo del dialetto, noi scriviamo solo in italiano, ma anche i ritmi
in 6/8 tipici della tarantella calabrese, che noi utilizziamo molto poco.
Ci auguriamo di arrivare al loro successo e di collaborare con loro in futuro, anche se già
oggi con Peppe Voltarelli ci è capitato più di una volta di stare sullo stesso palco e realizzare
qualcosa insieme.
È forte nella vostra musica una componente che definiremo “civile”, in senso ampio.
Secondo voi quale può essere oggi il ruolo del musicista?
Il musicista ha il dovere, oggi più che mai, di raccontare ciò che vede intorno a sé e
sensibilizzare gli animi delle persone che magari vivono senza “farsi troppi problemi”.
Sicuramente la canzone deve creare anche piacere e non solo “far pensare”, ma con in
questa società bisogna cominciare a indignarsi se vogliamo ciò che ci spetta. Il musicista lo
deve dire, anche una canzone d’amore può aver il suo senso civile, perché oggi anche i
rapporti umani sono influenzati da quello che ci accade intorno. Noi raccontiamo quello che
vediamo, non perché vogliamo essere “combat”, ma solo perché viviamo le contraddizioni di
una società civile che di civile ha poco o niente. Siamo i "trentenni sfigati" di oggi, quelli che
hanno iniziato a lavorare in mezzo alla precarietà e che non avranno mai una pensione, che
sono stati aiutati economicamente dai genitori e in vecchiaia saranno aiutati dai figli, come
facciamo a non dirlo nelle nostre canzoni?
In particolare sono assai pregnanti alcuni versi di “Un fiore”: parlate di “ragazze
immagini e troie di stato”, di “un ministro bacchettone che chiude le scuole”...
Questa canzone è stata scritta più di un anno fa e mentre registravamo il disco, l'anno
scorso, e pensavamo diventasse poco attuale, invece... Secondo noi le cose vanno sempre
peggio, proprio perché in pochi s'indignano e cercano di sovvertire il sistema attuale.
Sembra che qualcosa stia cambiando, speriamo, ma il vero problemi dell'Italia è che ormai
alcune cose che in altri paesi funzionano bene sono diventate di "costume" e sarà difficile
che cambiano, a meno che non ci sia una vera "Rivoluzione Culturale”.
Contatti: www.nuju.it
Gianluca Veltri
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Tsuna
Autore di un cantautorato suggestivo e venato di malinconia, Andrea Tomassini, in arte
Tsuna, con il suo esordio autoprodotto “Rightful Size Of Fear” cerca di scostarsi dal classico
concetto di cantautore folk, sporcandosi le mani con l’elettricità e le angolature wave.
Scopriamo meglio la figura nascosta dietro questo misterioso moniker.
Prima di tutto chi è Tsuna? Da dove vieni e cosa ti ha spinto a metterti in proprio?
Sono nato e cresciuto a Varese, dove subentrai come bassista in una formazione già
esistente, Strange Brew, il primo confronto reale con le dinamiche di una band. Tutto era
condiviso: la scrittura dei brani, il confronto con registrazioni, i pregi e i difetti di una
democrazia di autori. L’esperienza fu utile, e con lo scioglimento degli Enter K, abbandonai i
territori del confronto e della collaborazione per entrare in quelli dell’incertezza e della libertà.
Lo pseudonimo Tsuna non è altro che un soprannome che mie amici mi diedero negli anni
degli Strange Brew. Come è facile intuire, in origine era Tsunami, a causa di una mia
spiccata maldestria nei confronti delle cose. Col tempo il nome è stato ridotto a Tsuna e la
cosa, lo riconosco, è stata utile: il significato è completamente differente (in giapponese si
potrebbe tradurre in vari modi, tra cui “corda”, oltre ad essere il nome di un particolare
personaggio del folklore del Sol Levante), inoltre, innanzi ad eventi come il maremoto in
Indonesia del 2004 e la catastrofe avvenuta in Giappone quest’anno, è probabile che il mio
soprannome completo sarebbe stato interpretato come una strana forma di humor nero.
Dietro il tuo moniker si nasconde una “one-man band”. Il tuo primo disco è stato
interamente prodotto da te o ti sei avvalso di qualche collaborazione?
Il disco è stato di fatto registrato due volte. Nella soffitta mi occupai della scrittura vera e
propria, con una procedura piuttosto anomala, dal momento che rifiutavo di dedicarmi ad un
nuovo brano se il precedente non aveva ottenuto una struttura definitiva, o quasi. Nella
seconda fase in studio ho potuto vantare del contributo dei due fonici, Andrea Cajelli e
Marco Sessa. Andrea ha scritto ed eseguito tutte le linee di batteria in tre giorni, sopportando
le mie improbabili richieste e ricreando quella manciata di idee ritmiche che avevo realizzato
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nella soffitta, mentre Marco mi ha permesso di ottenere i suoni di chitarra che desideravo,
contribuendo con il suo ukulele in diverse canzoni. La cura del suono è fondamentalmente
opera loro. Guardare l’intera faccenda come se fosse la storia di un pellegrino con una meta,
scortato nel suo percorso da due guide eccellenti, sarebbe una buona metafora per
riassumere la faccenda.
“Rightful Size Of Fear” è un disco in cui convivono atmosfere folk, sferzate elettriche
e geometrie wave. Ispirazioni e sonorità eterogenee che sei riuscito a veicolare in un
unico flusso sonoro. Da dove vengono e come hai gestito tutte queste influenze?
Sono convinto che parte della responsabilità sia attribuibile alle influenze musicali della mia
infanzia. Sono cresciuto negli anni 80, subendo gli influssi di un immaginario magico dettato
dalla cultura pop. Penso che la wave provenga da questo. Se prendiamo la mia crescita
musicale, attraverso il grunge - che a differenza di molti non sminuisco oggi come moda
passeggera - per poi dirigersi in tante direzioni, mi accorgo che c’è una linea precisa che ho
marcato tra ciò che volevo fosse espresso nella mia musica e ciò che per limiti o scelta non
doveva essere presente. The Smashing Pumpkins sono stati un faro in tal senso: avevano
un cantante dal timbro storpiato eppure suggestivo, oscillavano tra armonie semplici e
complesse, avevano capolavori acustici accanto a manifestazioni fieramente aggressive, e
questi aspetti invece che disperdere la loro personalità andavano a sfaccettare la superficie
di un unico diamante. Il folk di per sé è un canale contaminabile in molte forme (Current 93,
16 Horsepower e Shearwater rappresentano solo alcune delle nobili varianti), e non escludo
che sia divenuto una delle mie colonne stilistiche per la sua dimensione drammatica. Il folk
inoltre si lega inevitabilmente con il mystery, e i misteri (inteso in senso teatrale, sacrale o
gergale) vantano una condizione atemporale che volevo appartenesse allo spirito dei miei
brani.
Ti sei occupato anche dell’artwork del disco. Qual è il tuo legame con le arti figurative
e quanto incidono sulle composizioni musicali?
Ho iniziato a disegnare verso i tre anni e ho continuato impunito sino ad oggi. Lì dove la
musica è derivata da una passione accettata coscientemente in un determinato momento
della mia vita, la pratica delle arti figurative è invece sempre stata presente, a volte in modo
ingombrante. Una fondamentale differenza tra i due approcci è che con il disegno sono
molto meno severo nelle scelte e nei fini, dedicandomi anche a forme che non mi
appartengono o poco familiari. Adoro l’estetica figurativa dell’Art Noveau, cui si basa il mio
artwork. Solo dopo la stampa del disco mi sono ricordato che l’Art Noveau era una corrente
generata dall’introduzione in occidente dell’arte orientale: grafica e nome sull’album a quanto
pare condividevano la stessa origine. Naturalmente devo altrettanto alla pittura dei Simbolisti
quanto al fumetto di Burne Hogarth. Di rado disegno senza ascoltare musica, così come mi
è accaduto diverse volte di voler tradurre la suggestione di un’immagine in un brano, per
esempio “The Bayou Is Endless”.
I testi di “Rightful Size Of Fear” hanno una connotazione molto intima e personale, ed
anche nei frangenti più fragorosi, appaiono concepiti in un momento di assoluta
solitudine. Da cosa sono scaturiti?
Scrivevo i testi a partire da un nucleo emotivo che volevo tradurre in parole. L’assoluta
solitudine che menzioni è sostanzialmente uno stato in cui è possibile creare cose
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meravigliose, se non se ne diviene succubi, dunque non lo caricherei necessariamente di
un’accezione negativa. Noto piuttosto, ora che ho una certa distanza critica dai testi, che il
tema della perdita è ricorrente: perdita di luoghi, di persone e soprattutto di attimi del tempo.
La portata del tempo sulle cose mi spaventa sin da quando ero piccolo, così immagino che
in molte delle parole spese nel disco ci sia l’inevitabile tentativo di forzare questo effetto,
accelerandolo o sospendendolo.
Non credi che l’italiano sia una via più diretta (seppur difficile da adattare) nella
comunicazione dei testi?
È certamente una via più diretta, ma l’elaborazione da parte dell’ascoltatore può avvenire o
non avvenire in entrambi i casi linguistici, in italiano ed in inglese. Certamente il motivo per il
quale ho preferito inserire i testi nel disco è stato proprio il poter fornire uno strumento in più
all’ascoltatore interessato ad indugiare maggiormente sulle parole che ho scelto. Nel mio
caso la possibilità di scrivere testi in inglese passa necessariamente attraverso l’italiano: di
norma penso al soggetto che voglio descrivere, inizio con l’inglese, per servirmi dunque dei
sinonimi e delle metafore italiane per esprimere la stessa immagine sino a quando
musicalità e metrica inglesi vengono soddisfatte. Non escludo di voler, un giorno, scrivere
testi in italiano, ma credo che l’inglese resterà la mia via per qualche tempo ancora.
Contatti: www.myspace.com/tsunaandtheshadowlands
Luca Minutolo
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Valentina Gravili
La brava cantautrice pugliese torna sulle scene a dieci anni di distanza dall’esordio “Alle
ragazze nulla accade a caso”, che era stato tra l’altro accolto molto bene dalla critica
specializzata. Nulla accade a caso, allora, se “La balena nel Tamigi” conferma grazia
compositiva, pregevole cura sonora e approccio ingegnoso, dolceamaro verso le parole.
Com’era logico aspettarsi, gli argomenti da approfondire sono numerosi.
È inevitabile chiederti come mai sono trascorsi ben dieci anni dal tuo primo disco.
Cosa hai fatto nel frattempo e quando hai composto i brani de “La balena nel
Tamigi”?
Il lungo periodo intercorso tra il mio primo album e l’ultimo è dovuto a problemi che definirei
di tipo “burocratico”. Ho composto molto e avrei potuto pubblicare un disco all’anno, ma è
stata dura arrivare a concepire l’idea di potercela fare solo con le proprie forze. Ho cercato a
lungo un supporto esterno, che finiva però per non soddisfarmi: perché non c’era la minima
voglia di investire - una pecca di molte pseudo-etichette discografiche che credono di potersi
definire tali soltanto perché pagano la stampa di duecento cd, centellinando ogni spesa
senza rischiare mai, sperando in miracoli che in rarissimi e fortunatissimi casi sono le band a
compiere - e perché spesso andava a intaccare le mie scelte artistiche, i miei gusti. E così
ho preferito rinunciare, piuttosto che uscire con qualcosa di cui non ero assolutamente
convinta. I dieci brani del nuovo lavoro sono stati scritti in periodi differenti, alcuni di qualche
anno più recenti rispetto agli altri, e sono il frutto di una selezione attuata scegliendo quelli
che mi rappresentavano maggiormente in questo momento storico.
Sei tornata a collaborare con Amerigo Verardi.
Ho sempre amato il lavoro di Amerigo, sia per quanto riguarda i suoi progetti personali che
le sue produzioni artistiche per altri gruppi: “Il sussidiario illustrato della giovinezza” dei
Baustelle è un capolavoro anche grazie a lui. Ha un approccio “artigianale” con la musica
perché riesce a cucire addosso a ogni brano il vestito giusto. Un abito mai dozzinale o da
discount bensì di alta sartoria. Questo disco ci ha fatto riavvicinare tantissimo e la
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collaborazione è stata ancora più interessante e illuminante perché ora ho gli strumenti per
comprendere e confrontarmi in maniera attiva con un talento come il suo, e come quello di
Max Baldassarre e Silvio Trisciuzzi che, insieme ad Amerigo, hanno curato gli arrangiamenti.
Rispetto ad “Alle ragazze nulla accade a caso”, “La balena nel Tamigi” suona
maggiormente pop e colorato, ma mantiene una grandissima cura negli
arrangiamenti, ricchi e stratificati. Sei d’accordo se sintetizzo così le principali
differenze/analogie tra i due lavori?
D’accordissimo! "La balena nel Tamigi" è un disco più solare, colorato e, perché no?, molto
pop, ma nell’accezione spero più nobile del termine. Nella composizione la melodia è
sempre importante perché, se dovessi inserire soltanto delle parole monotone su un
sottofondo musicale, scriverei poesie e non canzoni. Per quanto riguarda i testi ho cercato di
essere non banale ma neanche pretenziosa, preferendo un linguaggio più semplice ed
evitando sterili aulicismi. Anche nella voce mi sono mantenuta più morbida perché credo si
possa essere “devianti” anche senza urlare e fare la voce grossa a tutti i costi, quando
magari il brano non lo richiede.
A proposito degli arrangiamenti, le orchestrazioni della radiosa traccia d’apertura,
“Avvenne ad un tratto”, sembrano in complementare contrapposizione con le trame
sintetiche dell’ombrosa, conclusiva “La casa nel bosco”. Un effetto voluto?
Credo che la scaletta sia fondamentale perché permette di guidare l’ascoltatore lungo un
percorso stabilito. Volevo che la radiosità di quasi tutto il disco terminasse mostrando l’altra
faccia della medaglia, l’oscurità. Volevo far capire che il mio essere apparentemente positiva
e ironica non significa non comprendere quanto ci sia ben poco da sorridere, ma
semplicemente affrontare la situazione senza piangersi addosso perché la rassegnazione è
l’anticamera della sconfitta.
Altre due tracce che mi hanno particolarmente colpita sono la title track e “La
malafede”, al contempo orecchiabili e ricercate.
Era proprio questo il mio intento: riuscire a coniugare l’orecchiabilità con la ricercatezza dei
suoni e di alcune soluzioni armoniche e melodiche, e soprattutto la title track corrisponde
perfettamente a questi requisiti. Ho voluto giocare con il testo, che sembra descrivere la
disperazione per un amore perduto ma alla fine si riduce alle preoccupazioni di come pagare
l’affitto quando non si è più in due a sostenere le spese. Ne “La malafede”, invece, sottolineo
un’insofferenza che spesso mi attanaglia, quando mi accorgo che ci stanno mettendo nella
condizione di non potersi più fidare di niente e nessuno. È una situazione che mi toglie il
fiato e per questo ho cercato comunque di offrire delle piccole vie d’uscita.
Il titolo dell’album prende spunto da un fatto reale e diviene metafora dei disagi
contemporanei. Ci illustri gli intenti concettuali?
In effetti, una balena nel Tamigi c’è stata davvero. Arrivò nelle acque londinesi nel 2006,
dopo aver perso il senso dell’orientamento. In questo evento curioso ma allo stesso tempo
preoccupante, ho visto la metafora del senso di smarrimento che molti di noi stanno vivendo
in tempi di crisi economica e politica, in cui i punti di riferimento come il lavoro, la scuola, il
concetto di legalità stanno venendo meno facendoci perdere la bussola. Come quella
balena, anche noi sguazziamo in acque putride e poco confortevoli. Nel disco si susseguono
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personaggi che, ognuno a suo modo, sono vittime di questo smarrimento: la “bimba viziata e
brillante” che si accontenta di fare la segretaria a causa di una società maschilista che
riserva i posti di prestigio solo agli uomini; il single che non sa come pagare l’affitto; Nena
che vede il suo paese occupato da truppe straniere, che si definiscono portatrici di
democrazia e salvezza; B.B. che si oppone alla durezza della vita con la follia; il vicino di
casa rompipalle perché la solitudine lo ha reso burbero ed egoista.
Hai dato il via persino al movimento “Sindrome da balena nel Tamigi”, propugnato
tramite Facebook. Di cosa si tratta?
L’idea è nata da un gruppo di amici che, dopo aver ascoltato “La balena nel Tamigi” in
anteprima, si sono rivisti nella metafora, si sono inventati la “sindrome da balena nel Tamigi”
e di conseguenza un movimento che raccogliesse le storie di tutti coloro che si sentono
vittime di questa malattia dilagante e percepiscono lo stesso senso di smarrimento. Il
movimento ha generato una pagina Facebook che spesso gestisco personalmente, dove
prendono vita dibattiti molto interessanti. Ultima in ordine cronologico, una discussione sulla
Chiesa che ha infiammato gli animi. Inoltre, le balene nel Tamigi escono dalla virtualità di
Internet per organizzare degli happening divertenti e provocatori o per partecipare ad alcune
manifestazioni.
A proposito delle possibilità della Rete, hai scelto di offrire il disco gratuitamente sul
tuo sito ufficiale, seppur disponibile anche in formato fisico ai concerti. Come sei
arrivata a una simile decisione?
Si sa che i guadagni degli artisti sulla vendita dei dischi sono davvero risibili, per cui ho
pensato di cominciare col guadagnare visibilità. Il panorama musicale è saturo e so che è
molto difficile persino portare qualcuno ad ascoltare quello che fai, figuriamoci ad
acquistarlo. In questo modo, invece, sto raggiungendo molte più persone aumentando le
probabilità che possano apprezzare ciò che faccio e magari decidano in seguito di comprare
il biglietto per un mio concerto o di acquistare il cd, che comunque esiste e vendo durante i
live. È semplicemente un investimento su me stessa, lungi da me l’idea di svendere la mia
musica. Sono convinta che l’arte debba essere retribuita, ma voglio arrivarci in maniera
graduale per avere un raccolto abbondante e non solo qualche misero frutto.
In “BB”, “Cellophan” o “John e Yoko” abbondano le citazioni. Perché proprio Brigitte
Bardot, Marilyn Monroe, Lennon e Ono e via proseguendo?
Indubbiamente le grandi icone del cinema e della musica mi affascinano, perché
rappresentano un mondo che per molti di noi è quasi fantascienza. Proprio per questo in
“B.B.” mi piaceva l’idea che un’anziana fruttivendola pugliese, che ha vissuto sempre una
vita molto umile, fosse convinta di essere Brigitte Bardot, accusando l’attrice francese di
essere un’impostora. In “Cellophan” le gambe “impareggiabili” di Marilyn diventano un luogo
comune (con pretese di originalità) per finti intellettuali che, purtroppo, affollano anche il
mondo della musica. “John e Yoko”, invece, è nata una sera, in un home studio piccolissimo
e buio, vivacizzato solo da qualche fotografia appesa al muro (come quella famosissima di
John Lennon e Yoko Ono abbracciati, nudi), mentre nascevano i bellissimi brani di uno dei
cantautori per me più interessanti degli ultimi anni, Vincenzo Assante, leader del progetto Il
soldato timido. Avevo l’impressione che stesse accadendo qualcosa di grande. Con lui ho
scritto “Avvenne ad un tratto”, il brano che apre “La balena nel Tamigi”.
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Come ti poni in un panorama nazionale che purtroppo non ha alle spalle una
tradizione di cantautorato al femminile? Eventuali modelli o nomi affini?
Proprio perché non abbiamo una grande tradizione di cantautorato al femminile, la difficoltà
maggiore è riuscire a sfuggire ai paragoni con le poche songwriter italiane che sono riuscite
a ritagliarsi una consistente fetta di pubblico. Se sei donna, componi e suoni la chitarra, il
riferimento a Carmen Consoli o a Cristina Donà è quasi spontaneo. Ovviamente il mio
intento è perseguire una strada personale, e faccio in modo di non farmi influenzare in
maniera passiva dalla musica che ascolto. Quindi non ho modelli, semplicemente ci sono
artisti che mi piacciono e altri che non mi piacciono. E la lista, sia degli uni che degli altri,
sarebbe interminabile.
Progetti per veicolare il nuovo album, proporlo dal vivo?
Sono già in giro con il mio gruppo e il calendario delle date è costantemente in
aggiornamento. Proponiamo una versione un po’ più scarna e rock del disco, ma molto
efficace.
Contatti: www.valentinagravili.com
Elena Raugei
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Vishu Flama
Il rock ha i suoi strani percorsi, è capace di assemblare caratteri differenti, gente di mondi
diversi, generazioni lontane e vicine. I veronesi Vishu Flama sono uno dei tanti esempi di
“multi qualcosa” che gira intorno a questa musica. Li guardi in foto e non capisci se è un
progetto tra ragionieri con un metallaro o piuttosto una strana collaborazione tra avvocati e
gli amici dei loro figli. Eppure quando ascolti la musica questi Vishu Flama sanno stupirti, un
rock sanguigno immediato, che guarda agli anni 50/60, al punk, ma anche al power pop
americano dei 70, costruito su linee melodiche avvolgenti ed avvincenti, che ti ritrovi a
cantarle dopo un solo assaggio. Sono in giro dal 2007 ed hanno pubblicato due album,
entrambi omonimi, ma promettono di sommergerci con altri tre e poi di scrivere la parola
fine. Sara vero?
Direi di cominciare con una breve presentazione per i nostri lettori e la spiegazione
del vostro nome curioso.
Siamo una band di Verona, più rock del previsto. Matteo suona la chitarra, scrive la maggior
parte dei brani, e qualcuno lo canta pure su disco. Martino è l’altro compositore del gruppo,
canta quasi tutti i brani e suona la chitarra. Emmanuele suona il basso e canta, Nicola è alla
batteria. Il nome Vishu Flama è storpiato dal russo e significa "Vedo fiamme". È il grido di
Ludmila, una cosmonauta la cui capsula prese fuoco rientrando nell’orbita terrestre, captato
dai fratelli Judica Cordiglia, due radioamatori torinesi. Gli astronauti del gruppo di Gagarin
hanno sempre negato l’incidente, negli anni 60 così come oggi. Ascoltammo l'episodio in
una puntata del programma radiofonico "Golem" di Gianluca Nicoletti e ci fece grande
impressione.
I Vishu Flama hanno la caratteristica di unire musicisti di varie età e con diverse
influenze artistiche. Come siete riusciti a trovare un punto in comune tra di voi? Come
è scattata la scintilla di scrivere musica che convincesse tutti?
La scintilla? La prima volta che ci siamo trovati a suonare insieme tutti e quattro, nel 2007,
Nicola, che era un musicista già affermato in zona, inorridì: eravamo un'accozzaglia indegna.
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Un anno dopo però ci abbiamo riprovato e messi a fuoco con Emmanuele alcuni brani, tutto
è decollato furioso e rapido. Le dinamiche tra noi sono semplici perché abbiamo un metodo
di lavoro efficace e proficuo. Due compongono, a volte ognuno per proprio conto, a volte
insieme, e la sezione ritmica, la nostra sala macchine, convoglia, disciplina e armonizza.
Siamo tutti tra i 30 ed i 40 anni e ci lega una vera amicizia. Questa aiuta, perché
invecchiando le differenze di età sfumano ma si diventa più fastidiosi...
Come tutte le band “emergenti” di oggi cercate di sfruttare al meglio le tecnologie per
diffondere la vostra musica. Credete che sia ancora possibile sognare che possa
succedere qualcosa o è meglio limitare i sogni, suonare quello che si ama e poi tutto
quello che arriva in più è il benvenuto?
Più che sogni facciamo progetti. È il bello di non avere più vent'anni. La nostra speranza è
combinare qualcosa di buono proprio suonando la nostra musica, senza porci limiti.
Utilizziamo la tecnologia per essere raggiungibili da tutti. Sappiamo che i nostri dischi sono
stati acquistati in rete in svariate parti del mondo: questo ci fa sentire vivi e ci spinge ad
andare avanti.
Nei vostri testi cercate sempre di essere lucidi e pungenti. Come nasce l’ispirazione
per le parole? C’è un’analisi ad ampio raggio della società, dei costumi o vi limitate al
vostro vissuto? E ci spieghi perché nasce una canzone come “Fighe in SUV”?
C'è un po' di tutto. La nostra vita avventurosa tra i leoni...! Matteo è un avvocato e guarda il
mondo dal suo oblò. Martino è un sociologo “boomerang”; cervello in fuga, rimpatriato, con
tutta la trafila del precario. L'università, la cooperazione internazionale, il cinema in Etiopia,
lo stage in corporation, il telemarketing ieri, responsabilità gestionali oggi. È inevitabile
scrivere del mondo che ci circonda. Poi certo c'è anche la sfera del privato, con i suoi crucci.
C'è pure divertimento, perché scrivere canzoni ci diverte, usando l'ironia come medicina.
“Fighe in SUV” nasce per gioco. Matteo si è divertito a fare un pezzo da stadium-rock,
pensando al Jimmy Page drogatissimo di fine anni 70, con la piramide magica di luce, il
raggio laser da scagliare con l'archetto sulla folla e tutto il resto. Una delle sue innumerevoli
ossessioni. Il testo è uno scherzo che riflette il suo sincero schifo per vari mondi che oggi
sono alla ribalta e di stretta attualità. Una "riflessione" sulla famiglia, l'economia e l'ambiente.
Scrivere parole di grana grossa è stato curioso, un po' come sforzarsi di fare errori
grammaticali anche quando si pensa.
Avete pubblicato il secondo album a breve distanza dal debutto (senza contare che
mi avete già accennato ad un terzo e volendo quarto album già scritti). Una scelta che
non condivido, ma i gruppi di questi anni duemila sembrano tutti tarantolati dal
bisogno di fare dischi, pubblicare album su album e progetti paralleli, privilegiando la
quantità alla qualità. Che cosa scatta che non si riesce a frenare questo impeto
creativo?
Sono anni tarantolati per tutti. Noi abbiamo cominciato tardi a far musica; se non facciamo
dischi adesso... Non sappiamo quanti ne faremo, quello che conta è fare canzoni che ci
convincano: ne abbiamo alcune che da anni chiedono di essere registrate, altre che forse
non lo saranno mai. Ma non vogliamo vivere con la sindrome del capolavoro; quando non
avremo più niente da dire con la musica, faremo dell'altro. Il discorso su quantità e qualità è
soggettivo, in tutte le epoche: negli anni 60 i Beatles fecero quattordici album in otto anni, e
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prolifici erano tutti i vari "mostri" dell'epoca. Certo il mercato chiedeva sempre nuova musica
ed i musicisti erano attorniati da un alone di mistero e venerazione. Oggi in molti casi non è
più così. Di solito nei loro “anni buoni” i gruppi hanno idee e sono ansiosi di esprimerle.
Siete ascoltatori attenti anche alle realtà artistiche degli ultimi anni o vivete, come
molti, solo nel passato? Quali sono gli ultimi dischi che vi hanno veramente
emozionato?
Siamo onnivori e cerchiamo di tenerci aggiornati, anche se il gusto della novità c'è anche
ascoltando per la prima volta musica del tempo che fu. Procediamo per esclusione ed ogni
tanto nello scoprire nuovi artisti ci si entusiasma ancora. Premesso che attualmente siamo il
nostro gruppo preferito, per mesi l’anno scorso Martino non ha ascoltato altro che “Bang
Goes The Knighthood” e “The Duckworth Lewis Method” di Neil Hannon. Matteo adesso sta
ascoltando Devendra Banhart, “Marinai, profeti e balene” di Vinicio Capossela e trova
“Canzoni a manovella” il suo capolavoro. Emmanuele attualmente è alle prese con “The
Path of Love” di Terje Nordgarden e Nicola con "Grebfruit" di Benny Greb.
Oggi la musica vive tanti paradossi, uno riguarda i produttori. I gruppi ed artisti
importanti vivono costantemente alla ricerca del produttore, magari di moda, che
possa aiutarli a veicolarsi sempre di più. I gruppi underground sono convinti di non
aver bisogno di nessuno e lavorano da soli, con la scusa dell’integrità, ma di fatto
autolimitandosi ed impedendosi una possibile crescita. Voi da che parte state?
Siamo un caso strano. Ti farà sorridere, ma non ci reputiamo un gruppo underground.
Facciamo dischi per tutti, con un approccio molto disincantato. Siamo alquanto avulsi dal
contesto musicale nostrano, non “conosciamo” nessuno. Abbiamo un produttore
professionista, Fabio Serra, che ha infinita sapienza musicale ed è nostro amico. Noi
ascoltiamo sempre quello che ha da insegnarci, poi sbagliamo di testa nostra!
Un vostro brano è stato trasmesso dal noto e storico programma “Demo” su Rai
Radio 1, che sinceramente mi sembra una bella vetrina, ma breve. Certo, meglio di
niente, fa curriculum, ma non cambia nulla per una band. Di fatto cosa si dovrebbe
fare in Italia per far sì che la musica rock italiana non sia sempre l’ultima ruota del
carro della programmazione?
È un problema atavico. L'Italia non è un Paese rock, non lo è mai stato. Basta vedere i
servizi in tv che parlano di musica: a volte sfacciati spot, spesso maldestri e improvvisati. Il
rock appartiene alla cultura anglosassone, poco incline al compromesso. Noi italiani siamo
autoindulgenti, la nostra tradizione musicale è melodica. Andiamo rassicurati sul fatto che
comunque, alla fine, c'è sempre una soluzione o un'assoluzione. Ma non sta scritto che
debba per forza essere sempre così. Per cambiare le cose bisogna imparare ad ascoltare, e
non parliamo solo di musica... Convegni, libri, trasmissioni, tutto serve. Quanto al nostro
passaggio su Radiouno, diciamo che ogni tanto la Rai sa ancora fare servizio pubblico!
Contatti: www.myspace.com/vishuflama
Gianni Della Cioppa
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Zippo
Con “Maktub” (Subsound) gli Zippo stagliano l’ennesimo scossone alla florida scena metal
italiana. Scopriamo assieme a loro cosa si nasconde negli anfratti di “Maktub”, un disco
intricato e splendente di luce oscura.
Partiamo da “Maktub”, un disco molto più strutturato rispetto ai precedenti, che
segna un netto distacco con il passato. Da cosa è scaturita questa evoluzione e come
si è svolta la sua gestazione?
(Sergente) Avevamo voglia di raccontare la storia degli Zippo, ci siamo guardati in faccia e
abbiamo deciso di cacciare fuori qualcosa di più "pesante". Quindi abbiamo deciso di
complicare le strutture, lasciandoci alle spalle la vecchia concezione Zippo e rivolgendoci
totalmente verso una concezione progressiva.
Le collaborazioni con Luca T. Mai degli Zu e Ben Ward degli Orange Goblin hanno
dato un supporto prezioso al disco. Come sono nate queste collaborazioni e quanto
hanno influito nella scrittura?
(Dave) In passato abbiamo avuto modo di suonare diverse volte sia con Zu che Orange
Goblin, sono quindi collaborazioni nate in modo naturale. Sia a Luca che a Ben abbiamo
lasciato carta bianca, poiché sapevamo che non potevamo rimanere delusi dal loro apporto.
Ci piacciono gli interventi esterni, purché ci sia libertà artistica da parte dell'ospite.
La letteratura è sempre stata un punto su cui si è mossa la vostra composizione.
Qual è il concetto che si nasconde dietro la scelta, nel caso di “Maktub”, di Coelho?
(Sergente) Il libro tratta la storia di un ragazzo che insegue il proprio sogno, noi facciamo lo
stesso!
La spiritualità è un elemento su cui fonda tutto il vostro ultimo disco, “Maktub”,
partendo dall’artwork, fino a lambire i testi e le componenti musicali. Perché la scelta
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di un titolo come “così è scritto”?
(Sergente) È una parola molto importante nella lingua araba. Gli arabi pensano che "cosi è
scritto" non sia una buona traduzione, perché, sebbene ogni cosa sia già scritta, Dio ha
compassione, e ha scritto tutto solo per aiutarci.
Avete mai valutato la possibilità di confrontarvi con testi in italiano?
(Dave) Su “Ode To Maximum”, il nostro primo album, c'erano un paio di pezzi in italiano, ma
abbiamo deciso di abbandonare presto questa avventura, non trovandoli troppo convincenti.
Per la musica che ci piace suonare, l'inglese è molto più musicale e plasmabile.
La scena metal italiana è viva e naviga in acque tumultuose, grazie a voi ed a gruppi
come gli Ufommammut e i Lento, anche se molti, compresi voi, riescono a trovare un
maggiore consenso e pubblico al di fuori dei nostri confini. Secondo voi esiste una
vera e propria cultura del metal nel nostro paese?
(Dave) Il concetto di metal è troppo ampio per parlare di una scena italiana. Troppi generi e
sottogeneri che a loro volta sfociano in troppe band e fan dalle attitudini e dai gusti
diametralmente opposti. La nicchia da te individuata gode certamente di buona salute. È
l'underground a dare il meglio in Italia, basti vedere cosa ci propinano nei grossi festival
ultimamente per rendersi conto che non c'è una grossa cultura del metal nel nostro paese,
hai presente la differenza abissale tra un “Gods Of Metal” e un “Hellfest”?
Contatti: www.zippomusic.it
Luca Minutolo
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Above The Tree
Into The Nature
Musica per Organi Caldi
Marco Bernacchia, alias Above The Tree, sembra intraprendere con questo EP “Into The
Nature” un viaggio all’interno di se stesso. Attorniato dalla montagna, dalle Alpi, forse con
una ragazza speciale, ecco nascere al cospetto della musica un comune denominatore: il
maestoso silenzio della solitudine sana e la riscoperta del proprio respiro naturale.
Sensazioni di serenità s’intravedono discernere tra queste tracce, come in “Sinking Wreck
Story”, quando sembra abbandonare gli oggetti inutili per terra e con una sorta di fischio
andare a cercare gli uccellini dei dintorni per abbandonarsi sdraiati in vista di un cielo limpido
con la brezza che aguzza lo sguardo. I luoghi cambiano, trasformano e in questo caso
ispirano le persone. Se poi è un musicista che ha l’impeto tra le dita si arriva ad avvalorare
anche i momenti di pausa, di riposo, di stacco che diventano il momento unico, perfetto,
imprescindibile a cui affidare il proprio cuore. “1942 – 1971 (Jimmy Alive)” è noise quasi
tribale, un canto all’innocenza dell’acqua che scorre generosa sulla roccia e incontra tanti
cumuli impuri ma che poi riesce a lavare. E farsi ninnare da “Hole In The Sun” diventa dolce
con la voce di Marco in uno dei pochi momenti da cantante sdrucciolato e dal respiro rotto
vicino al J Mascis più acustico. La particolarità del progetto Above The Tree non è una voce,
uno strumento, gli accordi, il mixing, ma è l’insieme, la compagine che mette in ordine di
elementi, le moltitudini emozionali di queste espressioni minimali ma anche pop.
Contatti: www.myspace.com/bluerevenge1
Francesca Ognibene
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Agatha
Goatness
Basement City/Wallace
Puntualissime, ogni tre anni le Agatha pubblicano un disco. Questo è il terzo e in buona
sostanza il discorso è sempre lo stesso, il che non significa che “Goatness” non sia un
lavoro più che buono. Il duo di Sesto San Giovanni sa fare solo una cosa e quella cosa
continua a farla molto bene: percorrere i sentieri dell'indie americano di derivazione hardcore
(con incursioni nel noise e qualche riff affilato memore dell'era grunge) incarnandone la fiera
indipendenza (dalle mode, dal bisogno di nuove scene e nuove sonorità, dalla schiavitù della
novità a tutti i costi) con la massima efficacia espressiva possibile. Se è vero che di gruppi
femminili sintonizzati sulle stesse frequenze come Sleater-Kinney, L7 e Bikini Kill bastano gli
originali, il duo ripercorre quegli stessi sentieri con una invidiabile padronanza dei mezzi,
senza far mancare una certa dose di ironia (che dire di un titolo come “Morrissey vs Slayer”?
Semplicemente fantastico. E “Punk Rock Explained To My Mother”?). Se i binari sono, come
si è detto, ancora una volta quelli, “Goatness”, rispetto ai predecessori, si caratterizza per
una aggressività ancora più marcata e per una cattiveria che lascia spesso da parte la
velocità, prediligendo lente e minacciose strutture di scuola Melvins. Un gruppo che sa quel
che vuole e da come ottenerlo, e tanto basta per dargli fiducia.
Contatti: www.myspace.com/agathatrio
Alessandro Besselva Averame
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Angus Mc Og
Anorak
Picicca/Audioglobe
Appendere al chiodo la chitarra elettrica. Staccare la spina, e ricominciare. È quello che un
bel giorno ha messo in pratica Antonio Tavoni, in arte Angus Mc Og. Dopo un viaggio
iniziatico in Australia sulle tracce dell’amico musicista Lucio Pedrazzi (presente nel disco
come ospite alle percussioni), Angus ha messo in fila dodici tracce acustiche che si
inseriscono a pieno diritto nel filone del cantautorato indie-alt d’oltreoceano.
Che ci si trovi di volta in volta più dalle parti di Elliott Smith o di Bon Iver; che la parentela
più prossima sia con i Songs:Ohia o con Bonnie “Prince” Billy, e che la genealogia più antica
risalga a Bob Dylan o a Nick Drake, sarà un dibattito relativamente appassionante. Certo,
per gli amanti del genere folk cantautorale, una piccola manna. Una gemma acustica. Buona
scrittura delle canzoni, atmosfere di artigianale immediatezza che fa perdonare qualche
ingenuità; chitarre-verità e poco altro, di funzionale arredo: qualche percussione,
un’armonica, un accordion.
Le canzoni sono state composte tra Vignola e Sydney, tra le colline modenesi e gli antipodi
del mondo australe. “Anorak”, registrato da Davide Cristiani, è un lavoro da salutare con
piacere e fiducia, e Tavoni una voce che si fa apprezzare nel panorama del nostrano folk
d’autore. Una sola domanda, per chi vi scrive sempre attuale in proposte come questa:
perché non cimentarsi con la lingua italiana? Ci proverai, Angus?
Contatti: www.angusmcog.it
Gianluca Veltri
Pagina 39
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Belladonna
And There Was Light
Belladonna/Venus
Ha tre problemi, per chi scrive, il disco dei Belladonna: i suoni un po' datati da hard rock
melodico misto AOR fuori tempo massimo (le chitarre soprattutto), con un piede negli anni
Novanta più mainstream e una produzione nitida e dinamica che rappresenta l'unico vero
legame con il presente; una voce senz'altro notevole ma un po' troppo legata al cliché della
“cantante rock al femminile” sopra le righe; e una scaletta francamente troppo lunga, venti
brani. Ma, a dispetto di tutto questo, se a collaborare con il gruppo romano (ex Zoo di
Venere) ultimamente troviamo addirittura Michael Nyman (il singolo “Let There Be Light”
pubblicato lo scorso anno, una rilettura di “The Heart Asks Pleasure First” da “Lezioni di
piano” con ospite lo stesso compositore al pianoforte), se su questo disco tra gli ospiti ci
troviamo Imani Coppola, e se lo stesso disco è stato registrato a Los Angeles ed è frutto
della collaborazione con quotati produttori e ingegneri del suono americani, allora ci
dev'esserci qualcos'altro. Non è l'immaginario “rock noir”, così lo definisce il gruppo, né i pur
solleticanti riferimenti a Jung e Crowley, ma l'effettiva capacità di tirare fuori canzoni incisive,
innegabilmente catchy al netto del rivestimento ampolloso che le ricopre: la ballata “I Feel
Life” “Spirit Dancer”, la vagamente circense “You And I Are One”, ad esempio. Quel che è
sicuro, al di là dei gusti e dei giudizi, è che i Belladonna faranno parecchia strada, visto che
quello che hanno scelto di fare lo sanno fare piuttosto bene.
Contatti: www.myspace.com/wwwbelladonnatv
Alessandro Besselva Averame
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Butcher Mind Collapse
Night Dress
Bloody Sound Fucktory
Come i protagonisti del romanzo “Cavie” di Chuck Palanhiuk finiscono per mangiarsi l’un
l’altro in un orgia di cannibalismo rivoltante, così i Butcher Mind Collapse finiscono per
ingurgitare i propri simili, tagliuzzando il lato rivoltante della coscienza umana, e cavalcando
l’ammaliante attrazione che il grottesco genera sulle menti umane.
Prodotti dalle viscose mani di Giulio “Ragno” Favero, i Butcher Mind Collapse gettano in un
tritacarne a grana doppia la membra rancide degli Zu, nutrendosi dei loro scarti, da cui
generano un disco dalle fibre oscure battute come carne da macello. In un alternarsi
ossessivo di psicosi e sporcizia gravita “Night Dress”, secondo parto discografico del
quartetto, travagliato e ritorto in fiati avventati e chitarre acide di elettricità squassante. Nove
staffilate a colpi di mannaia sporca di sangue incrostato, sferrate con la goffaggine di un
macellaio psicopatico, che intinge di sangue malato e morboso le martellate hardcore dei
Jesus Lizard, in un viatico che accosta la teatralità sghemba dei Primus ad atmosfere
rancide e decadenti. Come nell’incedere ansiogeno del basso di “Complicity” o nella
strisciante e paludosa “Night Dress”, i singulti di sax deflagrano in lamenti sconcertanti,
delineando paesaggi oscuri e grotteschi ammantati dal calore tenebroso di dissonanze
sinistre, che deflagrano vertiginosamente nei vorticosi andri di “The Loss”. Ed è proprio nei
fiati isterici il tratto distintivo della frollatura dei Butcher Mind Collapse, che partendo da una
matrice noise-core, mescolano in un piatto rancido dissonanze free-jazz e psicosi
beefheartiane, generando vortici viziosi e claustrofobici senza vie di fuga, dall’ansiogena
atmosfera orrorifica e dai singhiozzanti cambi ritmici che mescolano le carte in tavola in
repentini cambiamenti d’umor nero. L’ideale colonna sonora di un film splatter in cui cane
mangia cane, umano mangia umano.
Contatti: www.butchermusic.com
Luca Minutolo
Pagina 41
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Numero Giugno '11
Camera 237
Alone In An Empty Bed
Foolica/Halidon
“Alone In An Empty Bed” è il terzo lavoro sulla lunga distanza per i Camera 237, formazione
di Cosenza presentatasi nel 2005 con “Vectorial Maze” e all’esordio ufficiale nel 2009 con
“Inspiration Is Not Here”, con rispettivamente Fabio Magistrali e Francesco Donadello dei
Giardini di Mirò in cabina di regia. Un terzo lavoro che porta con sé non poche novità e al
contempo conferisce continuità al progetto. Accanto a Marco Orrico, Ignazio Nisticò e
Yandro Estrada è arrivato Raffaele Burdzynski al basso, al posto del dimissionario Tonie
Chiodo. Prodotto da Bruno Germano (Disco Drive, My Awesome Mixtape), masterizzato da
Carl Staff e racchiuso in un bel digipack dall’artwork filo-fantasy, il disco possiede un sound
energico e compatto, dal respiro non a caso internazionale. La sostenuta “Wake Up Alone In
An Empty Bed” potrebbe essere un ottimo manifesto programmatico, dato che le sonorità
sintetiche emergono con maggior prepotenza rispetto al passato. Se i testi si concentrano
sulle “affinità reali o presunte che esistono tra gli individui”, da un punto di vista prettamente
sonoro l’alchimia è raggiunta con la salvaguardia di trame elettriche di stampo post-rock (si
senta la suggestiva “John Arne”, con echi e delay a spadroneggiare, oppure l’altro
strumentale in scaletta, il conclusivo, rumoroso “Caledonian Mcbryne”), melodie indie-pop (la
canticchiabile “Echoes From My Brian) e arrangiamenti sempre più moderni (“Carry On (To
Carry On)” o “My Wrong Words”, attente a ogni più piccolo dettaglio). Un ulteriore passo
avanti.
Contatti: www.camera237.com
Elena Raugei
Pagina 42
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Numero Giugno '11
Captain Quentin
Instrumental Jet Set
FromScratch
Ad oggi, A.D. 2011, il math-rock ha espresso tutte le sue forme convenzionali raggiungendo
il proprio acme con il capolavoro “Mirrored” dei Battles. A capire dove e come trovare strade
alternative alle digressioni angolari e rigidamente geometriche che in questi anni il genere ha
espresso, ci pensano i tre calabresi Captain Quentin, che mettono in luce con “Instrumental
Jet Set” due aspetti fondamentali: il primo, che la Calabria non è solo terra di tarantelle e
canti popolari come le mode del momento vogliono darci a bere. Il secondo, che girarsi al
passato è la soluzione più ovvia per tornare al futuro.
In “Instrumental Jet Set” tutte le tracce sono intrise di uno spirito Sixties che collima alla
perfezione con gli incastri geometrici, espressa al meglio nell’apertura “Le case avanti” dove
sintetico e analogico giocano in un vortice circolare e cervellotico, spinto dall’incedere ritmico
instabile e puntellato di inserti elettronici. Bisogna semplicemente strappar fuori le
potenzialità sonore del trio calabrese, fin troppo ammaestrato e reso innocuo tra questi
solchi - come in “La distanza inverte il semaforo”, dalla costruzione pregevole, ma difettante
di potenza sonora -, attraverso una presa di coscienza maggiore delle proprie capacità.
In “Instrumental Jet Set” gli spunti e le soluzioni si susseguono l’una dopo l’altra, in cerca di
un canale di sfogo che renda la giusta apertura agli incastri geometrici dalle curve
vertiginose ed alla carica del trio calabrese. Potremmo chiamarlo post-rock per chiudere i
giochi brevemente, ma qui di “post” ce n’è ben poco. Piuttosto, possiamo parlare di uno
sguardo proteso in avanti, ma che con la coda dell’occhio resta guardingo a sbirciare il
passato.
Contatti: www.captainquentin.it
Luca Minutolo
Pagina 43
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Numero Giugno '11
Doppia Erre
L'osservatore
C.P.S.R./Venus
“Cazzi vostri, io vado a vivere in Svizzera”: molti amerebbero poterlo dire, Doppia Erre lo ha
direttamente fatto. In realtà per lui è stato un ritorno: in Svizzera ci è nato, andandone via
dopo tre mesi per poi ritornarvi nel 1995, a quattordici anni, perché lì dagli elvetici
effettivamente le cose funzionano un po' meglio e qualche speranza in più di avere un futuro
decente c'è. La matrice era e resta italiana, linguisticamente: ascoltandolo, sarebbe difficile
capire che si tratta di un mc non residente dalle nostre parti. Certo, c'è una pulizia e
un'educazione per alcuni versi molto svizzera nel suo incedere al microfono. I testi sono
ragionevoli, introspettivo-malinconici, difficili da criticare o da contestare. Però ci viene da
dire che Doppia Erre sarebbe molto più interessante ed appassionante se si lasciasse
andare un po', se si concedesse qualche artificio testuale gratuito ma accattivante, se
insomma sparasse qualche cazzata in più, detto brutalmente... Ma di quelle cazzate che
sono interessanti e rendono un po' più personaggio il rapper (lo fa ad esempio in “Colpo
sicuro”). In queste faccende cose così ci vogliono, soprattutto quando di base l'intelligenza
c'è – e qui c'è. Per quanto riguarda la parte musicale, l'hip hop de “L'osservatore” mette
senz'altro in campo intenzioni interessanti: una spazialità e una complessità nelle strutture
che di solito non si sente nelle basi hip hop a questi livelli. Peccato che la qualità un po'
scolastica dei beat e della loro programmazione faccia un po' da zavorra. Insomma,
ascoltando questo LP si resta pienamente soddisfatti a metà. Potrebbe anche bastare.
Contatti: www.erre.ch
Damir Ivic
Pagina 44
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Numero Giugno '11
Egokid
Ecce homo
Novunque/Self
Il “turning point” nel percorso degli Egokid, band milanese nata dall’incontro fra Diego
Palazzo e Piergiorgio Pardo, accomunati persino dalla collaborazione giornalistica per “Blow
Up”, è stato il terzo album, “Minima storia curativa” del 2008. Al di là della presenza di
Francesco Bianconi nella traccia “L’orso” (Palazzo ha tra l’altro fatto parte della line-up dei
Baustelle durante i loro ultimi tour), il motivo è da rintracciare nel passaggio all’italiano dei
testi, che dalla sfera intimista si stanno adesso aprendo sempre più verso l’esterno, le
innumerevoli sfaccettature dell’essere umano. Registrato alle Officine Meccaniche da Taketo
Gohara e prodotto da Sergio Maggioni e Giulio Calvino, “Ecce homo” esprime le potenzialità
di un pop al pari intelligente e radiofonico, dove amore per la nostra tradizione cantautorale e
sonorità brit, echi degli anni 80 ed eccentricità sono frullate con piacevole freschezza.
L’ex-Bluvertigo Sergio Carnevale dà il suo apporto alla batteria e Faust’O si presta al
microfono in “Non si uccidono così anche i cavalli?”, mentre le convenzioni sociali de
“L’uomo qualunque” sono frantumate briosamente, il giusto “Credo” procede in direzione
antidogmatica, l’amore è vissuto “Come un eroe della Marvel” e i crucci lavorativi
monopolizzano “Una vita”. Seppur divertente, “Ragazze + ragazzi” è un prescindibile
adattamento della “Girls & Boys” dei Blur. Non tutte le canzoni risultano memorabili, ma
oggigiorno sorriso sulle labbra e occhi ben aperti sul mondo non possono che essere armi
preziose.
Contatti: www.egokid.it
Elena Raugei
Pagina 45
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Numero Giugno '11
Encode
Core
Ghost/Venus
Le canzoni di “Core” ci hanno messo un po' di tempo per vedere la luce, essendo state
scritte quando in formazione c'era ancora Elena Ceci alla voce, nell'ormai lontano 2005. Ma
il tempo di tanto in tanto è, come si suol dire, galantuomo, e i brani del disco, con il nuovo
cantante Max Martinenghi dietro al microfono, non risentono del lungo periodo di silenzio,
collocandosi in un fecondo corridoio temporale che coniuga riverberi psichedelici (“Reset” è
un lungo, magnifico miraggio desertico dai contorni psicotropi, “Frost Killed Most Of The
Sense” è pure meglio), chitarre circolari e lente rullate che si posizionano agevolmente tra gli
Slint e il migliore slowcore, e una scrittura solida, capace di regalare grani dalla sottile malìa
ipnotica come “Six Days”, o un lento krautrock che incontra i dEUS lungo una Autobahn che
si snoda lungo gli immensi spazi del Nord America. Un disco che, come spesso di dice (a
volte per stanca abitudine, nel caso specifico ampiamente convinti), se uscisse abbinato al
nome di qualche formazione statunitense se non sfracelli farebbe quantomeno parlare
parecchio di sé. Speriamo di non dover attendere altri sei anni, e nel frattempo godiamoci
questo piccolo gioiello.
Contatti: www.myspace.com/encode
Alessandro Besselva Averame
Pagina 46
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Numero Giugno '11
Fabio Orsi

Wo Ist Behle?

Boring Machines
I tempi di un “Osci” che attualizzava i field recordings su un'elettronica concreta filtrata da
microfoni “freddi come aghi” sono ormai archiviati. Fabio Orsi è di casa a Berlino, ora, e la
sua produzione musicale subisce il cambio di domicilio uscendone arricchita. “Wo Ist
Behle?” è un disco che sa di krautrock ma che è pure sigillato da un looping continuativo e in
crescendo capace di nascondere il processo di implementazione dei suoni dietro a una
fluidità quasi immateriale. Tra ambienti dilatati e psichedelia, strutture monumentali e spazi
ossessivi. Che sia il drone in accumulazione di “Loipe 01” a condurre le danze o i suoni
percussivi in loop vagamente Neu! di “Loipe 02”, l'ambient eterea di “Loipe 4” o il noise
ripetitivo della conclusiva “Loipe 5”, il risultato è sempre lo stesso: un gradiente di pattern
glaciali e reiterati che ha il pregio di astrarre pur mantenendo il rigore tipico delle
composizioni di Orsi. Ennesima dimostrazione di come i dischi del musicista siano fasi di un
processo di perfezionamento costante associato a un'estrema versatilità (in passato
collaborazioni con Mamuthones, Gianluca Becuzzi, My Cat Is An Alien) e a una biografia
giovane ma già ricchissima.
Contatti: www.myspace.com/orsifabio
Fabrizio Zampighi
Pagina 47
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Numero Giugno '11
Fine99
Fino alla fine
My Motion/Venus
Un disco importante, di quelli di cui puoi riconoscere distintamente un "prima" e un "dopo". I
Fine99 ci arrivano dopo quindici anni e tra album, lo chiamano "Fino alla fine" e ci han
condensato ore in sala prove ed in studio di registrazione. Partono si col piede sbagliato,
ovvero con un'intro abbastanza incolore, ma già da "Il mostro della scatola" si notano le
qualità del combo: un cantato in italiano convincente e capace di essere credibile sia nei
momenti melodici che in quelli più urlati sostenuto da un gruppo coeso e, anche se il termine
non mi piace, tecnicamente preparato. Insomma, i fan di Funeral For A Friend, Dufresne o
Linea77 troveranno musica per le loro orecchie. Non potevano certo mancare, visti anche i
riferimenti citati, i campionatori, ed anche se qualche volta vanno sopra le righe - vedi "Segni
sulla pelle" - nel complesso non stonano. Tornando al discorso iniziale il disco assume il
ruolo di spartiacque perché tutti i vari elementi del sound dei Fine99 sono perfettamente a
fuoco, ed il gruppo ha poi il giusto grado di esperienza per far rendere questi elementi al
massimo. Sarà questo il viatico per una maggiore notorietà? Il gruppo continuerà su questi
binari oppure deraglierà per andare altrove? Io non ho elementi per sbilanciarmi, ma vi
consiglio comunque un ascolto perché il tempo non sarà sprecato.
Contatti: www.myspace.com/fine99ninetynine
Giorgio Sala
Pagina 48
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Numero Giugno '11
Idramante
Vite in scatola
autoprodotto
Inizierei la recensione dell'album parafrasando un loro brano: "Che cosa resta"? Resta
innanzitutto un disco anomalo, frutto di due session distinte nello spazio - i mitici Electrical
Audio di Steve Albini per il lato A e l'RT studio di Mantova per il lato B - e nel tempo, in un
lasso di tempo che va dal 2008 al 2010. Un modo molto interessante per valutare
l'evoluzione nella scrittura di un trio capace di passare dalle atmosfere rilassate e dagli echi
vagamente prog, di "Adagio in re" ed arrivare al classico guitar-rock nella traccia che da il
titolo all'album. Resta poi la voce di Anna Luppi; semplicemente una bella voce, di quelle che
ti aspetteresti di sentire su brani anonimi ad un festival del "bel canto" e che invece si sporca
le mani, anzi l'ugola, con brani originali cercando originalità e spessore. Resta anche, e qui
permettetemi lo sfogo, un gruppo che non si appiattisce sullo home recording e mi regala un
ascolto in cuffia degno di questo nome. Resta, e mi sembra la cosa più importante, un disco
piacevole e che trasuda passione, con un quadro in copertina ed un'attenzione per i dettagli
che, mi sembra, non appartiene più a questo mondo. Ma che, in questo stesso mondo,
riesce a distinguersi e a farsi piacere.
Contatti: www.myspace.com/idramanteproject
Giorgio Sala
Pagina 49
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Numero Giugno '11
Il Carico dei Suoni Sospesi
Condizione alienata
autoprodotto
Mentre scrivo, i giovani della Spagna sono scesi in piazza a milioni per protestare contro un
governo che gli ha impedito di sognare e di guardare al futuro, se non sotto la voce “buio
totale”. I nostri connazionali, i “bamboccioni” per dirla alla Brunetta, sembrano invece
rassegnati che nulla di buono possa accadere e mentre cercano risposte, aumentano le
domande. I fiorentini Il Carico dei Suoni Sospesi, in attività dal 2008, si fanno carico –
appunto... – di questo crescente disagio e lo trasferiscono su un telaio musicale ritmato, con
un funky metal aggressivo, ma dalle linee melodiche ben evidenziate dalla voce di Sara
Matteini Chiari, un tipetto che dietro al sorriso possiede una grinta degna di Joyce Kennedy
dei Mother’s Finest (se siete di casa nel metal sapete di chi sto parlando). Il basso pulsante
di Sacha Mecocci è l’elemento su cui gravita la forza del Carico dei Suoni Sospesi, con le
chitarre di Massimo Governi che rievocano i Rage Against The Machine e certi Living
Colour, anche se i synth e i campionamenti di Rekombinant, conferiscono un tocco
elettronico e sperimentale che distingue il quintetto dai tanti replicanti del crossover.
L’insieme sviluppa canzoni molto belle e potenti, su cui i testi si stagliano impetuosi, con il
loro carico di verità, ribellione, saggezza e pugni nello stomaco, d’altronde con titoli come
“Sensi di colpa di un ritardatario cittadino medio”, La società dei consumi”, “Sua maestà il
mercato”, L’uomo non serve all’universo”, non ci può certo aspettare carezze e baci. Se i
soliti burattinai non guardano solo al mondo indie, fate attenzione, perché i cinque Il carico
dei Suoni Sospesi, potrebbero essere la prossima rivelazione del rock in italiano. Sul loro
sito si può scaricare gratis l’album.
Contatti: www.ilcaricodeisuonisospesi.it
Gianni Della Cioppa
Pagina 50
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Numero Giugno '11
La Metralli
Del mondo che vi lascio
Amigdala/Audioglobe
“La Metralli ha una parola chiave: alchimia. Le loro suggestioni sono dei Balcani e del
Mediterraneo. [...] Il segno zodiacale della Metralli è lo scorpione. Il segno cinese: la tigre, il
metallo: il rame. Le loro note organolettiche: colore rosso rubino, odore speziato di incenso e
liquirizia, il loro sapore: pieno sapido, armonico”. Queste le lusinghiere parole spese da
un’intenditrice come Mara Redeghieri per definire La Metralli, band formata a Modena da
Meike Clarelli (cantante duttile e carismatica, nonché direttrice del coro di donne migranti Le
Chemin de Femmes), Matteo Colombini (raffinato chitarrista dal brackground fra classica e
jazz), Marcella Menozzi (sei corde elettrica) e Serena Fasulo (basso e contrabbasso). “Del
mondo che vi lascio” è un debutto dalle sonorità mature, che sa guardare alla tradizione
popolare con passione, personalità e lodevoli testi in italiano, laddove reminiscenze etniche
e propensione alla contaminazione vanno felicemente a braccetto. Jonathan LaThangue e
Davide Fasulo prestano aiuto alla batteria e alla fisarmonica, contribuendo così ad apportare
ulteriori nuance a un progetto senz’altro meritevole, proprio perché capace di guardare a
certe radici e al contempo non rinunciare mai a una stravaganza, tra gioco e
sperimentazione, ben ravvisabile sin dalla sigla sociale, che si rifà alla “saggezza della
medicina antica cinese, il mistero del metallo”, la “scienza della trasmutazione”. Citare una
traccia piuttosto che un’altra sarebbe ingiusto, così come confinare il disco soltanto a
specifiche, limitanti aree di genere.
Contatti: www.myspace.com/lametralli
Elena Raugei
Pagina 51
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Numero Giugno '11
Manziluna
Manziluna
Fitzcarraldo Records
La Sicilia, gettata come un ponte nel Mediterraneo, è sempre stata un laboratorio di
stratificazioni. Quando si decide di mescolare le influenze tradizionali con altri linguaggi, si
possono creare dei corto circuiti interessanti. È il caso che si verifica con il quartetto siciliano
dei Manziluna. Una proposta, la loro – è bene dirlo – non aperta a tutte le orecchie.
Impegnative e sofisticate, le dieci tracce strumentali del loro album d’esordio si pongono in
un territorio sincretico che fa incrociare la musica etnica, il jazz, la fusion mediterranea. Il
calore e il ghiaccio. L’alternanza tra un biancore luminescente e l’oscurità di traversate
notturne. “Inno al passato” e “Accura” raccolgono spore sparse di Miles Davis perso nel
Kilimangiaro, “Qanuni” mette in scena, drammaticamente, l’insistenza ipnotica di un Bill
Frisell. La rotondità appena accarezzata, e poi gli spigoli; dissonanze, poliritmie. Il Medio
Oriente e certe atmosfere nordiche da ECM. Ralph Towner e una percussività afro. Se la
“voce” melodica è affidata per lo più al sax (alto o soprano) di Calogero Genco, e il lavoro
ritmico a Carmelo Graceffa, risulta cruciale il costante cesello chitarristico di Leonardo
Grimaudo e Fabrizio Brusca, tra la classicità di velluto delle classiche e un’obliqua elettricità
che fa ricorso a riverberi e ondosità. Attraverso i suoni e le atmosfere cariche di esotismo, il
gruppo nondimeno riesce a trasmettere un senso di enigmatico “ritorno” – forse perché
“Manziluna” in arabo significa “nostra casa”.
Contatti: www.fitzcarraldorecords.com
Gianluca Veltri
Pagina 52
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Numero Giugno '11
Matteo Malquori
Il gioco analogo
autoprodotto/Wondermark
“Parole, colori, luci, suoni, pietra, legno, bronzo appartengono all'artista vivente.
Appartengono a chiunque sappia usarli. Saccheggiate il Louvre!” Si trova questa frase di
William Seward Burroughs andando a far ricerche su Matteo Malquori sul web, investigando
con quel Tom Ponzi tecnologico e contemporaneo che è Facebook. Sul suo profilo anche
origine e classe: San Miniato (Pisa), 1978. Che sia toscano lo si capisce anche scovando
biografie sparse, artistiche, sempre in rete, parlando di una iniziazione a 15 anni quando ha
avuto per la prima volta in mano la sua chitarra, che da allora non lo ha abbandonato più. Il
tono un po' epico non è casuale, dato che dopo una formazione a caccia di jazz e curiosità
verso la musica afroamericana, è avvenuta nel 2009 la folgorazione: l'incontro,
musicalmente parlando, con Tom Waits, di cui mette addosso anche simili panni, come si
può vedere dal suo sito, inseguendo bellamente la mise vaudeville anche di Vinicio
Capossela, in particolare ai tempi dell'album “Canzoni a manovella”. Son riferimenti quelli di
Malquori come appunto i già citati Waits, Capossela, ai quali si unisce Paolo Conte, voce
roca, contaminazioni blues, folk, lo spettacolo/rappresentazione/esibizione, che si intride
nelle note e nei testi, per i quali si saluta da lontano Kurt Weill, Raymond Carver, come
indica la presentazione, che si desume sempre da sito; son riferimenti, appunto, che son ben
identificabili e ritrovabili nel suo album d'esordio, in questa nuova incarnazione teatralizzata
da palco e da esibizione che dal 3 giugno si potrà trovare, autoprodotta, su tutte le
piattaforme digitali: “Il gioco analogo”, copertina dal tratto volutamente semplice e grezzo, a
rappresentare il gioco della campana, dai numeri uno a dieci, per giocare, citando il
comunicato stampa, “(...) cercando di arrivare fino alla punta estrema, la vetta, la casella più
lontana, la numero 10, che secondo Cortázar rappresentava il Cielo, e da lassù
sperare di vedere il mondo da una prospettiva diversa, un panorama nuovo. Dieci storie,
dieci personaggi, a cui la vita ha dato, ma anche tolto(...)”. Volontà ambiziosa, che fa ben
sperare dall'inizio forte di “Una volta da piccolo”, che, passo dopo passo, nei dieci brani che
compongono l'album, dimostra la bravura tecnica di Matteo Malquori e di tutti i suoi
compagni di viaggio musicale in questo progetto, ma mostrando anche come la frase citata
ad apertura di articolo, con quel “Saccheggiate il Louvre!”, sia stata fin troppo messa in
pratica da Malquori, peccando nell'album di poca originalità, e cadendo nel già sentito,
compreso lo stesso (in)evitabile imbuto/megafono a schizzare voce e suoni. D'effetto è di
sicuro effetto il lavoro di Malquori, tant'è, e non si potrebbe essere più felici per lui, si ritrova
ora in finale al concorso “Sonic Waft Contest”, la cui finale avverrà ad Anzio a Villa Adele il
30 luglio prossimo. Ma il dubbio che si utilizzi un modo di proporsi e di musicare che
“funziona” per ottenere riscontro galleggia nell'aria. Essendo ben presenti capacità e
presupposti, si spera che dalla prossima prova ci si disarcioni maggiormente dal genere e
dall'essere epigoni, trovando il valore aggiunto della personalità e del proprio registro, che di
sicuro porterà Matteo Malquori, oltre che a realizzare con la sua band di bravi musicisti un
prodotto da ascoltare, scivolando però in questo caso un po' via, anche se si fa di tutto per
graffiare, per rimanere, non solo di voce roca, che spesso disturba invece (probabilmente dal
vivo l'effetto “permanenza” potrebbe essere più netto, date le premesse che si avvertono tra
le note e le corde di forte interpretazione), a lasciare il segno, prendendo il volo in questo
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Numero Giugno '11
gioco del mondo che viene qui reclamato.
Contatti: www.matteomalquori.it
Giacomo d'Alelio
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Numero Giugno '11
Mulee
Caballero
Bleu Records
Da dove vengano i Mulee, non è dato sapere. Nella ressa di un festival musicale sull'argine
del Po, un tizio mi consegna un vinile serigrafato a mano da un certo Algas e mi dice: “Ti
piacerà”. Arrivo a casa e metto il vinile sul piatto. Lato A e lato B volano via in tutta serenità,
si fanno ascoltare con gli occhi chiusi e la schiena appoggiata sulla poltrona. Scopro che i
Mulee sono in tre, con tre pseudonimi che non dicono nulla come Mulee, Klee e Mattew, e
che suonano praticamente ogni cosa: chitarre, batterie, percussioni, piano, vibrafono,
computer, computer e ancora computer. “Caballero” ha sei tracce per lato, forse anche
troppo lo-fi, e i titoli sembrano del tutto superflui per delle musiche che sono in tutto e per
tutto dodici specie di colonne sonore per dodici film d'autore mai girati, con una predilezione
per il duo Tarantino/Rodriguez. Si passa dal piglio morriconiano alla sinfonia per ugole tirate
in stile Radiohead, passando per le corde pizzicate come potrebbero fare i Ronin e l'opera
rock anni 70 della prima traccia del lato B che s'intitola, guarda a caso, “Zeppelin”. E non c'è
davvero un punto preciso in cui poter iniziare l'ascolto di “Caballero”: si può tranquillamente
appoggiare la puntina a caso sul vinile e mettersi all'ascolto. Se suonino in giro, non si sa,
c'è davvero dell'anonimato spinto dietro ai tre Mulee, ma la voglia di saperne di più viene
stuzzicata per bene, come mi aveva stuzzicato quel tizio dicendomi: “Ti piacerà”. Tutto
sommato, aveva ragione.
Contatti: www.kleemusi.net/mulee
Marco Manicardi
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Numero Giugno '11
Naked Truth
Shizaru
RareNoise/Goodfellas
Lorenzo Feliciati è un nome che pesa molto, fra chi ama seguire la musica non tanto
attraverso i leader carismatici visibili a tutti quanto attraverso gli strumentisti di qualità, quelli
che magari appaiono solo nei credits e mai nelle immagini di copertina ma non per questo
contano di meno (e, infatti, sono richiestissimi). È un classico che proprio gli artisti di questo
genere ogni tanto vogliano togliersi degli sfizi: se per farlo riesci a coinvolgere dei grandi
internazionali quali il batterista Pat Mastelotto (robe di King Crimson...) e il trombettista
Cuong Vu (da Pat Metheny a Laurie Anderson con in mezzo mille altri), allora hai vinto in
partenza. O quasi. “Shizaru” infatti è lavoro di qualità, jazz “bastardo” contaminato col rock
(più nel modo in cui vengono fatti gli arrangiamenti che nella composizione) che spesso sa
anche volare piuttosto alto. Certo, non mancano i semi-difetti che spesso accompagnano gli
album partoriti da progetti più o meno estemporanei composti da strumentisti di alta qualità:
ogni tanto un eccesso di virtuosismo, talora un'involuzione che nasce dalla voglia di fare una
nota o un cambio armonico in più invece che uno in meno, in generale un amalgama sonoro
ben fatto ma che – ad orecchie attente – svela più l'idea di alto mestiere che quella di
bruciante passione. Tuttavia queste note a margine non devono mettere in ombra la bontà
complessiva di questo LP: materiale avventuroso, non scontato, con modelli alti (il jazz-rock
più “cosmico”), che ci permette tra l'altro di conoscere anche il Feliciati chitarrista – bravo – e
non solo quello al basso. Consigliato.
Contatti: www.rarenoiserecords.com
Damir Ivic
Pagina 56
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Numero Giugno '11
Paolo Cattaneo
Il gioco
Eclectic Circus
Arrivando dalle nebbie di malinconia che, come nel video di “Sei qui con me” (brano
contenuto nel precedente album del 2009 “Adorami e perdonami”, vincitore col suo video
della Miglior Fotografia nel concorso PVI-Premio Videoclip Italiano), si sono diffuse finora
nella discografia di Paolo Cattaneo (classe 1971, nato a Brescia), giunge come una brezza
di aria rinfrescante, leggera, conducendo però vibrazioni di emotività profonda, l'EP “Il Gioco”
(prodotto ancora una volta dall'Eclectic Circus di Stefano Clessi), appena uscito (il 20
maggio). Già la copertina annuncia il suo tocco gentile: un'antilope, rannicchiata ad
annusare/lasciarsi annusare, carica di curiosità e non di spavento, da un orso bianco, su
sfondo ancora più bianco. Alle chitarre quelle molto capaci, talentuose e toccanti di Giuliano
Dottori (collaboratore negli anni, oltre che dei suoi stessi progetti, anche degli Amor Fou).
Agli arrangiamenti Matteo Cantalupi: l'aria di novità che percorre il nuovo progetto di
Cattaneo è proprio stata dettata dalla volontà di apertura da cui è partito “Il gioco”, che dal
comunicato stampa è stato annunciato come “un progetto breve, leggero, curato ed
originale”, “frutto di un forte cambiamento non solo compositivo ma anche sonoro e musicale
di un artista solitamente crepuscolare e intimista che riscopre l’aspetto giocoso della
musica”. Ispirato dal libro “La memoria degli specchi” di Luciana Landolfi, a cui si lancia
anche dal sito di Cattaneo uno speciale ringraziamento, conferma la sua natura giocosa
anche dal video di backstage, in preparazione di quello definitivo proprio del brano, che dà
nome all'EP, girato al Parco Faunistico Le Cornelle di Valbrembo (BG), dove non potevano
mancare giraffe e struzzi in questa arca di Noè delle emozioni, di cui Cattaneo è splendido
“ballerino sul filo”, per citare un passaggio di “L'uomo sul filo”, brano che conclude l'EP,
breve, ma intenso veicolo di traiettorie aeree, in volo, formato da quattro gioielli (ai due citati
si uniscono “Se lasci fare al vento” e “Occhi”). Opera di un autore da (ri)scoprire, fin dal 1995
sulla breccia quando uscì il suo album d'esordio, “L’anima del cipresso”, dedicato ad
Alexander Calder, carico di talento, finora reso poco visibile nel maelstrom discografico che
soffoca paludoso. Ma ne risale a colpi di ali e di vento, Paolo Cattaneo, col suo “Il gioco”,
tutto da ascoltare e riascoltare.
Contatti: www.paolocattaneo.it
Giacomo d'Alelio
Pagina 57
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Numero Giugno '11
Piccola Orchestra Karasciò
Made In Italy
autoprodotto
Circense e umanitaria, la Piccola Orchestra Karasciò è un combo bergamasco attivo da
qualche anno, giunto al debutto con una release di sette tracce che è un po’ più di un EP e
qualcosa in meno di un full-length. La confezione del disco, a sottolineare scherzosamente
l’italianità già insita nel titolo, è il cartone di una pizza d’asporto, e il libretto un tovagliolo.
Sette elementi, la band certamente sa esprimersi al meglio e con completo agio dal vivo, nel
funambolico contagio che le ritmiche in levare e gli arrangiamenti generosi sono in grado di
creare. Sul piano della scrittura consideriamo “Made In Italy” un inizio incoraggiante, dal
quale però i ragazzi devono prendere spinta per andare avanti, trovare nuova linfa e
emanciparsi. Anzitutto da padri ingombranti come Pierangelo Bertoli e soprattutto Fabrizio
De André, quello di Bubola, che più di altri ha segnato la grammatica di un folk iridato e
indomito, ma sempre meno originale. E poi dai canoni dei continuatori, Modena City
Ramblers e via combat-tendo. Tra una vena più spiccatamente cantautorale (“Noi sempre
più uomini”, “70 estati”) e un reggae-folk patchankato (“Grappa e fogli di giornale”), quella dei
Karasciò risulta una proposta ben formulata (e anche ben suonata), ma che su disco è
capace di coinvolgere e emozionare soltanto a tratti.
Primo premio “Una canzone per Amnesty - Emergenti” edizione 2010, il brano “Beshir”, un
brano che racconta l’immigrazione con vividezza, arriva alla fine come bonus, imponendosi
come la traccia migliore dell’esordio.
Contatti: www.piccolaorchestrakarascio.com
Gianluca Veltri
Pagina 58
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Numero Giugno '11
Poor Man Style
Lontano
autoprodotto/Self
Torinesi, titolari di un esordio che tre anni fa usciva con la benedizione di personaggi di
primo piano della scena reggae nostrana (Bunna e Madaski), i Poor Man Style affinano
ulteriormente la loro versione del suono in levare che si contamina volentieri con l'universo
hip hop e fa moderato ricorso ad additivi elettronici, in una decina di canzoni attraversate da
istanze sociali e politiche a tratti forse un poco ingenue (non parliamo di intenti né di sincera
adesione, naturalmente, piuttosto di efficacia negli slogan e nei ritornelli) ma di sicura presa,
uno spirito al quale contribuisce, nelle vesti di responsabile della copertina, il pittore
muralista cileno Eduardo Carrasco, manager per l'Italia degli Inti Illimani. Un prodotto
decisamente di spessore, che rinnova la tradizione filo-giamaicana così ben radicata nel
capoluogo piemontese e non si fa troppi scrupoli di frequentare territori radiofonici,
corteggiati senza scendere a compromessi qualitativi (ascoltate la title track e diteci se non
farebbe la sua figura nei palinsesti di qualche radio commerciale, senza doversene
vergognare). Soprattutto, a convincere sono la varietà dei registri, l'eclettismo dell'insieme e
la compattezza del suono. Un nome che gli amanti del genere dovranno tenere d'occhio, ma
che anche i semplici curiosi possono annotarsi.
Contatti: www.poormanstyle.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 59
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Numero Giugno '11
Radici nel Cemento
Fiesta
RNC/Goodfellas
Una celebrazione. L'idea che pare celarsi dietro a “Fiesta”, primo live delle Radici nel
Cemento, pare proprio quella di festeggiare e festeggiarsi. Del resto per la formazione
romana il 2011 segna il sedicesimo anno di attività, e dopo i molti album in studio era
arrivata l'ora di fissare su disco un po' di quell'atmosfera che si respira ai loro (moltissimi)
concerti. Con una scaletta, registrata nel corso del tour dello scorso anno, che si sforza di
non dimenticare nessuno dei brani essenziali del loro repertorio si può così avere un bel
bignami di quella miscela di ska, reggae e divertimento che da sempre caratterizza le Radici.
Miscela impreziosita dalla title track, nient'altro che la rilettura in levare del classicissimo dei
Pogues, un pezzo nato per far ballare e che qui trova la sua perfetta trasfigurazione
jamaicana. Qual è il limite di un'operazione del genere? Evidentemente non c'è molto di
nuovo sotto al sole, ma il disco dal vivo è, quando fatto bene e coi tempi giusti, anche un
modo per fissare al meglio un'esperienza. Potrebbe anche essere un punto fermo per poi
ripartire con nuovi stimoli. Oppure si tratta più semplicemente di un modo per allietare i molti
fan e di godersi un po' di quello che il gruppo ha seminato - pensiamo soltanto alle
collaborazioni eccellenti con artisti come il compianto Laurel Aitken - in oltre quindici anni di
intensa attività. Non concedere loro questo onore sarebbe quantomeno ingiusto.
Contatti: www.myspace.com/radicinelcementospace
Giorgio Sala
Pagina 60
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Numero Giugno '11
Rella The Woodcutter
Inactivity – The Woodcutter Early Crap
Fallodischi
Innanzitutto bisogna capire chi si nasconde dietro il moniker di “Rella il taglialegna”. Ex
batterista degli As A Commodore, band post-punk milanese misconosciuta ai più (per
strabuzzare le orecchie sula rete gira in download gratuito uno split EP della band condiviso
con i Fine Before You Came), dopo aver abbandonato le spigolose pelli del gruppo madre, si
è immerso nel brodo blues primordiale e ballate folk riscaldate al calore della luna.
Tutti i numerosi dischi a nome di Rella The Woodcutter suonano fumosi e lontani, come se
fuoriuscissero dal corno impolverato di un grammofono dimenticato in soffitta, e tormentati
dai fantasmi dei primi bluesmen che si aggirano spettrali fra le sue chitarre scordate. La
raccolta di B-sides e cover “Inactivity: The Woocutter Early Crap” non è da meno,
costituendo un’istantanea a tinte sbiadite del periodo tra il 2005 ed il 2006. Il valore
intrinseco di questa raccolta risiede nella messa a nudo dei lamenti blues e folk del nostro
cantautore, resi scarni da sola chitarra e voce disarmati e scoperti di ogni orpello,
raccogliendo un pugno di ballate folk solitarie e fanghiglie blues scarne come cicche di
sigarette raccolte per strada.
Un artista “minore” per fama, ma non di certo per qualità e scrittura, e questa raccolta è un
occasione succosa per (ri)scoprirlo. Non approfittare del download gratuito sul sito della
buona Fallodischi sarebbe un peccato capitale imperdonabile, altrimenti “che lo spirito di
Blind Lemon Jefferson vi venga a tirare per i piedi durante il sonno”, sentenziava qualcuno
tempo fa.
Contatti: http://fallodischi.blogspot.com/2011/03/rella-woodcutter-inactivity-woodcutter.html
Luca Minutolo
Pagina 61
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Numero Giugno '11
Satan Is My Brother
A Forest Dark
Boring Machines
Dopo un esordio del 2007 che col suo funk-jazz metropolitano faceva da colonna sonora a
una pellicola notturna girata dallo stesso gruppo sulla Milano-Torino, tornano i Satan Is My
Brother. Il tema questa volta è l'Inferno dell'omonimo film muto girato nel 1911 dalla Milano
Films – tratto a sua volta dalla cantica dantesca - a cui il gruppo lombardo fornisce un
corrispettivo musicale dilatato e liquido. I toni si fanno meno paranoici rispetto al disco
d'esordio ma ugualmente inquietanti, tra ambient (“Movimento I”, “Movimento VI”), ottoni
sfilacciati (“Movimento II”), free saturato (“Movimento 8”), qualche accenno post-rock
(“Movimento V”) e un'elettronica che rimane volutamente sullo sfondo a fare da collante. Con
in più le tastiere di Antonello Raggi a dare spessore e un mood che lavora sui colori (scuri)
abbandonando la fisicità del passato in favore di un descrittivismo millimetrico e cesellato. Il
risultato è un ottimo esempio di contaminazione tra jazz e musica contemporanea, che nel
formato CD+DVD riservato alle prime cento copie del disco trova la sua naturale
collocazione.
Contatti: www.myspace.com/satanismybrother6
Fabrizio Zampighi
Pagina 62
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Numero Giugno '11
Steela
Un passo un dubbio
OTR Live/Universal
Musicisti e produttori lo sanno da tempo: non esiste una ricetta per il disco perfetto. Ci sono
tuttavia delle qualità che nella musica, alla lunga, sembrano ripagare gli artisti e di riflesso,
gli ascoltatori. Costanza e dedizione, per dirne un paio. Sono proprio queste le
caratteristiche che più spesso tornano alla mente durante l’ascolto del nuovo album degli
SteelA. La dedizione, il sestetto salentino, ce l’ha nel sangue; è il filo che tiene saldo il cuore
che batte a tempo di reggae con la mente, intenta a filtrare dubstep, electro, e pop. Non è un
caso che con “Un passo un dubbio”, seguito del fortunato “I livello” (Casasonica, 2006), il
gruppo dimostri come la passione che li ha uniti giovanissimi si sia col tempo trasformata,
rigenerata, rifinita. Gli undici brani che compongono l'album (di cui due cover, “Two” dei
Motel Connection con la partecipazione di Samuel e “Cu’mme” di Roberto Murolo) mostrano
uno stile sempre più personale, dove pur rimanendo definite le radici giamaicane del
progetto, emerge evidente la volontà di creare qualcosa di inedito. Illuminanti in tal senso le
coinvolgenti “Cusì nu m'hai istu mai”, “Senza te” e la traccia che dà il titolo al disco (e che del
disco ne segna la fine). Inizialmente si parlava di costanza non a caso. Anche questa volta
nel ruolo di produttore fa la sua comparsa Max Casacci, così come ritroviamo Madaski al
banco mix. Due personaggi che hanno puntato sugli SteelA in tempi non sospetti e che oggi
ne rinnovano la stima, collaborando non al disco perfetto, ma a quello più giusto, oggi.
Contatti: www.steela.it
Giovanni Linke
Pagina 63
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Numero Giugno '11
Susanna Parigi
La lingua segreta delle donne
Promo Music/Edel
Giorni fa con un amico siamo arrivati alla conclusione che se Susanna Parigi non è una
delle figure musicali più note in italiane è per una sua scelta. Probabilmente per arrivare a
certi livelli, quelli alti alti intendo, servono troppi compromessi e sotterfugi che Susanna non
ha mai accettato. Non ci sono altre spiegazioni per decifrare il suo mancato successo su
vasta scala. In possesso di una vocalità straordinaria, capace di unire i virtuosismi di Alice e
l’interpretazione calda di Fiorella Mannoia, brava e coraggiosa a (co)scrivere musiche e testi,
con il talentuoso Kaballà, la Parigi potrebbe tranquillamente conquistare un pubblico di
massa, magari di stampo femminile, se diamo per buono che è la parte più sensibile del
genere umano (sarà così?). Ed è proprio dell’universo femminile che questo terzo album di
Susanna Parigi ci parla, ma non è solo a questo nucleo che si rivolge, anzi scoprire tra le
pieghe delle parole e degli sguardi silenziosi, la lingua segrete delle donne, tramandata da
madre in figlia, può essere illuminante anche per gli uomini. I riferimenti sono tantissimi,
musica francese, da camera, melodramma, operetta, pop adulto e le melodie che intagliano
le canzoni sono belle, cariche di valori e colme di emozione. Le donne al centro di tutto,
ciniche e realiste in “L’uomo senza qualità”, un potenziale singolo prendi tutto, decise in
“Così è se vi pare”, con l’accettazione della sofferenza in “La città senza porte”, con la
percezione della bellezza in “Una certa esaltazione di vivere”, e commozione nei tratteggi di
“Il suono invisibile” condivisa con Ferruccio Spinetti e per chiudere una versione italiana di
“Volesse il cielo” di Toquinho, che evidenzia la vastità di sentimenti che anima la musica di
Susanna Parigi. La traccia per CD-ROM offre spazio ad ospiti/amici, Gianna Schelotto,
Ottavia Piccolo, Teresa De Sio ed altri, con il video dell’introduzione di “Liquida”. L’hanno
definito pop letterario, pienamente d’accordo. Dipendesse da me, Susanna Parigi finirebbe
dritta sulla copertina del Mucchio.
Contatti: www.susannaparigi.it
Gianni Della Cioppa
Pagina 64
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Numero Giugno '11
The Churchill Outfit
In Dark Times
Produzioni Dada
Tra i frutti più recenti della ricchissima scena bresciana, i Churchill Outfit esordiscono con
un EP che mette in mostra doti interessanti. In particolare, ciò che colpisce nei quattro brani
contenuti all'interno di “In Dark Times” è la capacità di attingere da istanze e periodi storici
differenti – la seconda metà degli anni 60 dei Doors e del garage, anzitutto, ma anche
qualcosa del decennio successivo (il prog più asciutto, certi echi pinkfloydiani), mentre più
recente è il lirismo che sta alla base dei passaggi maggiormente introspettivi – senza però
rimanerne invischiati, riuscendo anzi a filtrare il tutto attraverso un'ottica se non ancora
completamente personale (del resto è di un esordio che stiamo parlando, non
dimentichiamolo) per lo meno lontana dal mero calligrafismo. Al netto di qualche ingenuità,
non dispiacciono gli intrecci tra chitarre e tastiere, allo stesso modo in cui l'uso delle
dinamiche vuoto-pieno e dei cambi di passo mette in mostra una sicurezza da non
sottovalutare. Non ogni cosa è perfetta: la scrittura potrebbe essere più incisiva, i suoni più
potenti impatto e le melodie di maggiore presa. Problemi che il tempo e l'impegno possono
senz'altro risolvere; per intanto il presente promette bene, e le potenzialità per un futuro, se
non radioso, quantomeno degno di nota ci sono tutte. Aspettiamo fiduciosi.
Contatti: www.thechurchilloutfit.com
Aurelio Pasini
Pagina 65
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Numero Giugno '11
The Cruels
Infesto EP
Clinical Archives/Nero Machete
Vi ricordate i Millionaire? Erano belgi, hanno avuto un momento di gloria effimera nei primi
Anni Zero grazie a “brand:new” e al video di “Champagne”. Ecco. Il loro tentativo di unire
respiri nazionali di area dEUS al post-rock e filtrandoli attraverso lo stoner (non a caso, il
secondo disco era stato prodotto da Josh Homme) non ha avuto il successo sperato ma il
bacino di idee si è dimostrato fertile e niente affatto esaurito. Capita, infatti, che sei anni
dopo “Paradisiac” arrivi una band del lucchese, i Cruels, e riportino in auge quelle sonorità,
quella voglia di scoprire, di esplorare, di mettersi in gioco.
“Infesto EP” va preso come presentazione, manifesto, dichiarazione di intenti. E certe
formule retoriche, in questo caso, possono veramente funzionare. È un antipasto di quelli
che si ascoltano raramente. Sei canzoni che non accettano compromessi, che pestano sulle
chitarre e sulle batterie senza rinunciare a una certa ricerca “sonora” e “espressiva”. Li si
attende, ora, alla prova di maturità del disco. Adesso non posso che constatare la bontà di
una proposta che, tra i clangori disturbanti di “I’m A Big Machine” e la ripetitività ossessiva di
“Infesto” riesce a delineare una mappa abbastanza chiara di quello che potrebbe essere il
loro futuro.
Contatti: www.myspace.com/cruelscrew
Hamilton Santià
Pagina 66
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Numero Giugno '11
The Great Saunites
Delay Jesus ‘68
Il Verso del Cinghiale/Hypershape
Ora, cosa ce ne facciamo dell’ennesimo album strumentale che non è tanto post-rock
quanto metal-“de”metallizzato? Cosa ci servono tre “movimenti” per 29 minuti di musica che
rimanda (in Italia) agli Ufomammut e (all’estero) ai Jesu? Insomma, cosa rende questo
“Delay Jesus ‘68” (ecco sì, forse il titolo spiega già tutto: c’è parecchio delay, ci sono i Jesu –
e la s? e va beh – c’è quel tipo di ’68 che riecheggia rivoluzioni e, soprattutto, album dei Blue
Cheer) degno di essere ascoltato ora che, nel 2011, roba di tal foggia di esce dalle
orecchie?
Sì, insomma, il problema è sempre il solito. Non è che i The Great Saunites facciano schifo
o abbiano qualche demerito particolare. Anzi, la loro musica si ascolta anche con piacere.
Però non può restare in mente. Non ce la può proprio fare. È fisiologico. Arriva in un
momento in cui c’è talmente tanta offerta che non si pensa più all’entità della domanda.
Ormai sono troppe le band che si lanciano in lunghissime e estenuanti suite strumentali
anche coinvolgenti, anche ben suonate, anche accattivanti (immagino che dal vivo questa
roba abbia una ragion d’essere ben maggiore) ma totalmente interscambiabili,
assolutamente indistinguibili, così “mediamente” cazzute che pare ascoltare sempre la
stessa cosa dalla stessa band.
Contatti: www.myspace.com/thegreatsaunites
Hamilton Santià
Pagina 67
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Numero Giugno '11
The Perfect Guardaroba
Sometimes They Come Back
autoprodotto
È un garage rock vagamente stoogesiano nel piglio, ma con un tiro decisamente power pop
– a tratti sfociante nella musica da ballo, con una granitica cassa che sta a metà tra gli
AC/DC e certe metronomiche soluzioni punk-funk – e una compattezza che fa pensare a
gruppi come Bud Spencer Blues Explosion o Fratelli Calafuria, quello che salta fuori dalle
casse ascoltando “Sometimes They Come Back” di The Perfect Guardaroba, secondo album
degli anconetani a distanza di sei anni dall'esordio. Qualcosa di già sentito in qualsiasi salsa,
ma suonato con una convinzione e una freschezza che non lasciano indifferenti e sfuggono
dalle maglie del puro mestiere. Con, oltretutto, la sana e autentica strafottenza – vi ricordate
gli Knack di “My Sharona”? – di chi non si vergogna di gettare in pasto all'ascoltatore i suoi
amori, elaborati quando basta per non scadere nella copia e d'altro canto non troppo
complessi, in grado di mantenere immediatezza e impatto. Difficile scegliere brani di The
Perfect Guardaroba a discapito di altri, ma senz'altro “Altes Wesserwerk”, l'ipermelodica
“The Art Of Falling”, la martellante “So Much Better” e la inaspettatamente acustica
“Expecting To Fly” sono le migliore frecce all'arco dei marchigiani.
Contatti: www.theperfectguardaroba.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 68
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Numero Giugno '11
The Sleeping Cell
The Sleeping Cell
Suoni Liberi/Self
Nati nel 2008, e già l'anno dopo su uno dei palcoscenici più prestigiosi d'Europa, quello
dello “Sziget Festival” (ok, non dalla porta principale ma dalle classiche forche caudine dei
concorsi/concorsini per band emergenti; ma intanto loro c'erano). Ora l'album di debutto, che
raccoglie materiale nuovo così come cose che circolavano già da un po' di tempo. Pure qui
hanno voluto fare le cose in grande, con una masterizzazione allo Sterling Sound di New
York. Insomma, l'intenzione fin dall'inizio è stata quella di fare le cose per bene. E di credere
in se stessi. Effettivamente i tre Sleeping Cell (ognuno con buon curriculum vitae, la cantante
è stata anche per un po' negli Almamegretta post Raiz) le cose per bene le fanno.
L'influenza, per chi mastica di club culture, è un po' Swayzak un po' DJ Hell; ovvero roba
electro-house contemporaneamente gelida e festaiola debitrice di certe atmosfere new wave
dei temibili anni 80. Ecco, alla band potremmo rimproverare di aver seguito un po' troppo
calligraficamente questa traccia. Visto che la qualità di base c'è, ci sarebbe piaciuta qualche
svisata in più, qualche colpo di scena, qualche variazione sul tema. L'unica vera variazione è
un lento che, ahimè, più che affascinare ricorda piuttosto Celine Dion (“Don't Forget My
Name”): non propriamente una medaglia al valore. Complessivamente il giudizio è positivo,
ma al tempo stesso l'impressione è che per emergere veramente in serie A e non restare
eternamente nel limbo (cosa a cui chiaramente e giustamente ambiscono) gli Sleeping Cell
debbano assolutamente trovare e inventarsi una marcia in più.
Contatti: www.myspace.com/thesleepingcell
Damir Ivic
Pagina 69
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Numero Giugno '11
TV Lumière
Addio, amore mio!
Acid Cobra/Venus
Canzone d'autore ombrosa e autunnale immersa in dissonanze e muri di rumore che
occasionalmente lievitano, occupando lo spettro sonoro: ecco la poetica degli umbri TV
Lumière, ancora una volta accompagnati nella loro ricerca di identità da Amaury Cambuzat
(Ulan Bator, Faust). Le linee melodiche si fanno qui ancora più sepolcrali, così come la voce
di Federico Persichini, e non si posso negare le parentele con certi esponenti dell'area dark
e del cosiddetto folk apocalittico, e pure con la poetica di Michael Gira (un Michael Gira a
metà tra Swans e Angels Of Light), anche se la qualità maggiore del progetto risiede
nell'essere riusciti ad imbastardire questi elementi con spunti di Americana e soprattutto
suggestioni di chiara matrice psichedelica (si ascolti l'organo spettrale sullo sfondo della più
che riuscita “Un fiore per il capitano”, immersa in una nebbia pastosa che rimanda pure, per
altre vie, all'alba della stagione prog italica, e chiusa da un agglomerato di suoni dai contorni
sfocati e allucinati). Ricerca di identità, si diceva: il gruppo è cresciuto parecchio negli ultimi
anni, qualche dettaglio va ancora sistemato e non mancano alcune perplessità (nei testi
soprattutto, scritti in un italiano volutamente “desueto” ma non sempre perfettamente
funzionali), ma “Addio, Amore Mio!” rappresenta senz'altro il punto di non ritorno nella ricerca
di una identità solida e totalmente convincente.
Contatti: www.tvlumiere.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 70
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Numero Giugno '11
Baby Blue
Glue, Firenze, 10 maggio 2011
Se i Baby Blue hanno via via dimostrato di essere una delle nostre migliori band emergenti,
la prova del palcoscenico - temuta dalla maggior parte dei colleghi - ha sempre fatto nel loro
caso la differenza: scusate se è poco. Il live fiorentino del 10 maggio ha però assunto una
rilevanza particolare per vari motivi, a partire da una location, il Glue, che dallo scorso
autunno ha ribadito come sia ancora possibile invogliare le persone a uscire di casa per
ascoltare della buona musica, a suon di programmazione interessante e numerose iniziative
culturali. Il concerto è stato poi filmato per la regia di Pamela Maddaleno, già ottimamente
all’opera su alcuni clip del quartetto pratese. Scelta semplice e d’impatto in fatto di
scenografia, con numerose lampadine a scendere dal soffitto. Ma le luci si accendono
innanzitutto grazie alle contagiosa energia sprigionata “on stage”, per un’ora abbondante di
asperità rock, intensità blues e orecchiabilità pop shakerate in egregia scioltezza.
L’essenzialità stilistica va di pari passo con deviazioni nevrotiche, accelerate violente,
melodie di una dolcezza malsana e approccio fanciullesco, giocoso alla bizzarria. La
bellissima voce di Serena Altavilla, catalizzante frontwoman, si alterna o affianca a quella di
Mirko Maddaleno, a momenti incontenibile nei suoi virtuosismi chitarristici, mentre Lorenzo
Maffucci (alias Mangiacassette) maneggia il basso con piglio punk e Graziano Ridolfo
scandisce ritmi marziali. Ogni componente, insomma, è indispensabile ai fini del risultato
complessivo e l’impatto scenico è assicurato. La scaletta pesca sia dal primo, omonimo EP
sia dai due album “Come!” e “We Don’t Know”: menzione per una “Ice Cream” che parte con
introduzione rumorista, i saliscendi di “Don’t Ask Me Why”, “All You’ve Know” o “Suga”, la
ballad da manuale “Hay Baby Hey”, l’imponenza di una “Porto Palo” con tanto di coda
disturbante e una “Earthquake”, manco a dirlo, tellurica. Appena si presta l’occasione,
andate a goderne con le vostre orecchie.
Elena Raugei
Gazebo Penguins
I Vizi del Pellicano, Fosdondo di Correggio (RE), 20 maggio 2011
Ai Gazebo Penguins mancava una cosa sola per farli diventare i nuovi eroi dell’emocore
italiano. Ora ce l’hanno e ne fanno pieno sfoggio per il release party di “Legna”, in un locale
disperso nelle nebbie dell’entroterra reggiano. Ma prima di loro c’è Three Lakes, un
ragazzone con una chitarra acustica che biascica al microfono con voce sottile, saltano alla
mente Bob Corn e Micah P. Hinson, ascoltando le sue piccole ballate che si guadagnano
una barca di applausi. Quando finisce, stacca la chitarra guardando in basso e si dilegua
nella folla. Poi i tre pinguini saltano sul palco, scrivono la scaletta al volo e la consegnano
Pagina 71
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Numero Giugno '11
alla prima fila. “Diteci cosa dobbiamo suonare”. E partono. Capra alla chitarra, e una distesa
di pedalini da pestare in sequenza, sbraita al microfono insieme a Sollo, che suona un basso
del ’72 a volume oltraggioso. Dietro di loro, Peter bastona le pelli in tempi pari e dispari, ma
sempre velocissimi. “Tram delle sei”, “Dettato”, “Ci mancherà”, “Frate indovino”, “300 lire”,
“Cinghiale”, “Troppo facile”. Applausi. L’aver reso disponibile il disco in free download
qualche giorno prima dell’uscita del CD è stata una mossa che paga (loro) e appaga (noi),
perché le teste in sala, numerosissime, si muovono a tempo, le dita si alzano e s’inclinato
verso il palco, le voci del pubblico cantano tutto, tanto che il finale di “Senza di te”, col testo
scritto e oggi urlato da Jacopo dei Verme e dei Fine Before You Came, è quasi una crisi
mistica collettiva. Qui a Correggio li avevamo visti nascere, i Gazebo Penguins, e siamo tutti
nella stessa stanza quando scendono dal palco, a dar loro delle gran pacche sulle spalle. Al
power-trio dei pinguini mancava una sola cosa per farli diventare i nuovi eroi dell’emocore
italiano, o power-punk per chi ascolta power-metal, se volete, e questa cosa era il cantato in
italiano. Ora ce l’hanno. E sono davvero imperdibili.
Marco Manicardi
Pagina 72
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Numero Giugno '11
Brothers In Law
Direttamente da una costola dei Be Forest, i Brothers In Law mutuano dal gruppo madre le
atmosfere fumose e riverberate, scarnificando il sound più tronfio della band primaria, ed
accostandosi verso i frastagliati pendii dello shoegaze più scuro ed introspettivo. Siamo dalle
parti oggi rievocate dalle sporche mani di Crocodiles e Blank Dogs, e che il duo pesarese
infarcisce di feedback i fragili wall of sound eretti sui riverberi sporchi ed in circolo perenne,
ammantando il tutto di un calore tenebroso e fitto di malinconia e ritmiche al metronomo,
come la buona tradizione del genere vuole. Ne sono un chiaro esempio le chitarre
dark-caraibiche e narcolettiche di “T.T.T.”, o il battito marziale di “Like A Good Dream”,
costruito su feedback circolari coperti da un atmosfera satura di fredda elettricità, che
infondono a questo EP non solo la classica atmosfera shoegaze, ma un oscurità minacciosa
e calda che attrae ai propri poli grazie alla sua carica elettrica e magnetica.
Mantenendo un occhio sempre vivido alle atmosfere spectoriane, il loro EP d’esordio è una
prova tecnica di trasmissione per un album che, sporcandosi le mani con qualche sferzata
elettronica, potrebbe riversare una piacevole scarica nera sul nostro panorama italiano.
Teniamoli d’occhio, senza indugiare troppo a rimirarsi le scarpe.
Contatti: www.myspace.com/brothersinlow
Luca Minutolo
La Via degli Astronauti
La napoletana Fallodischi è una fucina di ottime proposte. Dopo L’Amo e Nasov, ora tocca ai
dissacranti La Via degli Astronauti rinforzare le fila della piccola etichetta partenopea con
l’EP “Storie”, rigorosamente scaricabile in maniera gratuita sul blog dell’etichetta.
Inafferrabile e fuori dalle rigide righe dei generi, il quartetto napoletano miscela una carica
wave letale, inserti funk ed impeto punk, riempiendo i testi di flussi di coscienza dissacranti e
senza pudore. Testi che dissestano quel flusso irrefrenabile e rivoltante, accartocciandosi in
pensieri completamente dissociati fra loro, forti di un impatto autentico e senza filtri che
definiscono la cifra stilistica del gruppo. Pensieri e monologhi legati dal filo scomposto del
“cut-up”, frutto di riflessioni più intime e nascoste, in cui fanno breccia gli spigoli appuntiti
delle strumentali, aprendo ferite da cui sgorgare senza sosta.
Così si sciorinano quattro tracce dal sapore acido ma autentico e spregiudicato, che parlano
di fondoschiena di donne attempate (“Una storia tra le più appassionate”, tratta da “Tra le più
ardenti” di Bukowski), diossina nell’aria e gesti estremi di defecazione pubblica, a
simboleggiare il declino di una città - e di un mondo - con uno sguardo assolutamente
sconcertante, vicino alla decadenza ed alla confusione letteraria di Borroughs o di Bukowski
stesso. Estremi a parole, attendiamo il costruirsi dei fatti.
Contatti: www.myspace.com/laviadegliastronauti
Pagina 73
Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Giugno '11
Luca Minutolo
The Monolithics - The Kaams
“Choose Your Coffin!”: questo l'evocativo titolo di un sette pollici in edizione limitata di
trecento copie che, pubblicato dalla Boss Hoss Records con distribuzione Area Pirata,
raccoglie due brani a testa per due formazioni lombarde, i Monolithics e i Kaams. Più vicini al
garage classico i primi, maggiormente ruvidi e r'n'r i secondi, entrambi i gruppi convincono
non poco e, pur muovendosi in ambiti tanto inflazionati quanto cristallizzati stilisticamente, se
la cavano alla grande. Una battaglia a suon di riff, decibel, fuzz e sudore che – giustamente
– non ha vincitori né vinti, per un risultato finale che non possiamo che consigliare
spassionatamente a quanti amano i generi in questione. Perché, prendendo in prestito il
titolo del dischetto, qualsiasi bara si scelga tra le due in questione la metaforica morte è
sempre la stessa: la migliore, per chi ama il rock a tutto volume.
Contatti: www.myspace.com/themonolithics / www.myspace.com/thekaams
Aurelio Pasini
Pagina 74
Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it

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