insoliti personaggi

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insoliti personaggi
Lara Pasquini
INSOLITI PERSONAGGI
Ruggero Marcantoni e ancora...
Edizioni Helicon
Come Geppetto nel ventre della balena
(ovvero il Sig.re Ruggero Marcantoni)
Come Geppetto nel ventre della balena
(ovvero il Sig.re Ruggero Marcantoni)
…Quando Piazza Grande, con in alto le belle logge del Vasari da esse delimitata e protetta come
cosa unica e preziosa, era così poco illuminata
dai faretti moderni che ora la rendono pressappoco museo all’aperto…
….Quando Piazza Vasari era animata di sera,
quasi surrealmente, dai fumi di quei camini casalinghi attraversati e resi azzurrognoli da lampade messe un po’ a casaccio per far ritrovare (le
entrate abitative sono dietro, nel Pratello) “l’uscio di casa” e le toppe per infilarvi la chiave…
…Quando pochissime botteghe fronteggiavano
la piazza, con poveri ma bravi artigiani, che non
si facevano notare, chiusi nelle loro botteghe… e
con un antiquario chiacchierone….
…Quando la piazza costituiva un ricercato riposo, per qualche anima inquieta che non aveva
trovato il gioco giornaliero, lieve, ma confuso con
altri giochi da sparigliare le carte del buonsenso
e della quiete…
…Quando la piazza era accarezzata dalla luna
che la voleva prendere tutta per sé, coprendosi
e scoprendosi tenuamente, con quei fumi azzurrognoli e vaganti, uscenti da quei camini di quei
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palazzi imponenti e bui…
Ruggero Marcantoni era lì, nella sua bottega,
fondo oscuro senza finestre; sul davanti aveva
grossi sportelloni in legno e poi una porta-vetrina; quasi all’angolo con via Borgunto, situata dinanzi al pozzetto con il caratteristico tettuccio;
sull’altro lato c’erano l’abside silenzioso e le ombre della più bella chiesa d’Arezzo e forse d’Italia, e una fonte dalle pietre verdastre, con l’alto
zampillo che d’inverno dava un brivido di gelo,
ma continuava l’eternità del divino, quasi fosse
vita inarrestabile…
In quel negozio, che assomigliava ad una cantina, poi anche ad una soffitta, viveva tutto il giorno Ruggero Marcantoni, amico di tutte le anime
sopraffatte dalle luci della vita comune della città, intrecciata con tanti interessi e tante persone.
Sedeva tranquillo (quasi mai era solo), di giorno
ed anche di sera, con una lampada senza piatto
che illuminava e celava anche preziosi lampadari
smessi, accucciati, amputati, sovrapposti a tanti
altri oggetti che invitavano alla curiosità ed al
rimestamento; emotivo ed altrettanto piacevole,
era ascoltarne la loro storia.
Marcantoni era un narratore nato. Di storie, perché tutte le anticaglie del suo negozio avevano
una propria storia, collegate a persone conosciu12
te o no dagli interlocutori, ma che inorgoglivano con il loro nome, il parlatore; nomi noti e non
noti, quasi sempre però Conti, Marchesi, nobili
impoveriti, con i quali, per gioco, aveva contrattato quell’oggetto importante o anche misero,
ma con lo stesso gioco di parole e di fantasie, di
appetibili racconti, finiva per interessare l’altro,
l’acquirente; la compera non era più un oggetto
sciupato o messo fuori uso, ma un frammento di
vita importante, non più materia soltanto sbeccata e scartato per sempre, ma simbologia del
tempo e dei costumi fuggevoli degli uomini.
Marcantoni si era inventato la sua vita e il suo
lavoro, diventato un vero gioco… come l’arte.
Passione, ma gioco.
Il suo aspetto, era di un uomo semplice e buono;
il suo fisico un po’ tarchiato, il pallido viso, dolce
e ridente, aveva sopportato malanni e carestie di
tempi difficili che però avevano rafforzato la sua
sfidante energia. Da giovanissimo aveva sofferto
di una brutta malattia, frequente in quegli anni,
prima dell’ultima guerra mondiale, che, dopo
guarito, lo aveva per sempre allontanato da un
lavoro massacrante: quello del fabbro. La sua
fortuna fu un lavoro più leggero trovatogli da un
prete, ancora caritatevole, in Vaticano. Diventò
inserviente fidato, intelligente, buono, remissivo, umile e onesto. La sua anima e la sua mente
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però non rimasero insensibili alle ricchezze ed
alle bellezze dei capolavori che vedeva intorno, e
fu incantato dal sublime dell’arte dei più grandi
artisti che, lì dentro avevano operato con grande
dovizia. Nei momenti di relax aveva sicuramente passeggiato a lungo nei palazzi e nelle sale
vaticane, conversando solus ad solam, timido,
silenzioso, a naso all’insù, con Raffaello, Michelangelo, e con tutti gli altri artisti pittori, scultori,
architetti, decoratori; e con essi, gli ori intarsiati
delle cornici superbe, gli rimasero nel cuore.
Uscì, uomo maturo, dallo Stato Vaticano, e ritornò nella sua città, se non dopo aver sposato una
donna del Sud Italia, piccola, grassottella, da ricordare le manifatture preziose di Caltagirone,
la dolce Agatina, che amò profondamente, e che
da lei fu ricambiato altrettanto profondamente.
Cominciò, così, la sua storia di bravo rigattiere;
aveva maturati, in quegli anni buon gusto e intendimento, preparandosi con studi autonomi e
piacevoli da autodidatta. Ritornando ad Arezzo,
si dette alla ricerca di robe vecchie, di scarti di
nobili soffitte, per rinnovati stili di vita che incombevano con il benessere e l’estrosità della
gente, sapendo sempre separare i semi buoni
dai cattivi, le cose più pregiate, dalle cosiddette
cianfrusaglie, che mai però disprezzò.
Nella sua bottega approdava con interesse ogni
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categoria di persone, intenditori e non intenditori, uomini importanti e sempliciotti, amici e curiosi. Egli riceveva tutti con estrema gentilezza,
alzandosi dalla sua vecchia sedia, posta dietro il
vetro della porta-vetrina, per ossequiarli, e si toglieva per ognuno di testa quel cappello marrone sgualcito con larghe falde, anni Trenta. E tutti entravano, con un maggiore interesse che per
una partita a carte, sia gli ipotetici compratori,
sia i perditempo, che gli intenditori.
Con molta assennatezza e intelligenza, da perfetto filosofo, aveva compreso che la vita era buona
e bella se rimane un gioco, sia pur lavorativo, ma
gioco. Il denaro e gli interessi, solo lucrosi, erano quelli che se arrivavano bene, se non arrivavano… era lo stesso! C’era sempre un giorno di
poi! Nella sua mente non c’era né ambizione, né
furberia, né alcuna comune ossessione. Dopo un
po’ di tempo era riuscito a comprare una fetta
delle sovrastanti logge Vasari, dove si entrava,
ripeto, per abitare, dal Pratello posto al di sopra;
e lì aveva stabilito la sua casa, dinanzi alla bottega, abitando il piano alto, la soffitta fatta a volte,
veramente bella, agevole, molto ampia e ariosa:
un lussuoso quartiere. Dalle finestrelle messe a
rettangolo coricato (erano quelle della soffitta),
più piccole dei finestroni nobili sottostanti, alti
e lunghi, la piccola moglie, quasi un’autentica
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giapponesina, lo avvisava, con un cenno, dell’ora di pranzo e della cena, senza mai disturbarlo
dagli affari e delle sue infinite conversazioni.
Affari come gioco, durante i quali si concedeva
pure di fare preferenze per gli amici; mentre a
chi gli stava un po’ antipatico, riusciva a non
vendergli nulla, con mille raggiri (senza mai offendere la persona) anche se paventava un affare. Paventava, dico, perché a lui piaceva rimanere distaccato dalle cose e dal possesso: nei ricchi
e stupendi saloni del Vaticano, egli aveva imparato solo l’amore per il bello, la gioia e l’ammirazione, senza ombra di attaccamento personale
futile e ansioso.
A Ruggero bastava il necessario, e negli anni
Cinquanta e Sessanta quel necessario fu veramente apprezzabile. In quei tempi si vuotavano
le soffitte, si ristrutturavano le case, si ripulivano
i nobili palazzi, cercando nuove avventure, nuovi
stimoli e nuove “apparenze”. Le cose “vecchie”
uscivano anche dalle chiese in ristrutturazione
e venivano vendute (molte un po’ usurate e da
risistemare), mentre altre sparivano da palazzi,
un po’ ammuffite e da soffitte e scantinati. Tutto
questo fu rimesso sul mercato e fu una grande
festa, e un’allegria per i rigattieri come Marcantoni, fino all’esplosione della Fiera Antiquaria,
dove il Marcantoni fu quasi sommerso da tanti,
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tanti… contendenti, furbetti, smaliziati e forse
falsi saccenti.
Ma in quel primo tempo, Ruggero Marcantoni
lavorò e si divertì moltissimo, contrattando con
tutta la provincia ed oltre, molto ammirato e ricercato!
Aveva riempito le stanze affrescate dei due saloni sottostanti le sue due finestrelle e cioè quelli
delle due grandi finestre, di tante “robe”: belle,
brutte, inutili, preziose, tutte ammassate. C’era
nella sua casa (gli interni delle case antiche sono
sempre un po’ raffazzonati) un mezzanino, detto
la stanza del cane, dove teneva le cose più pregiate. A piccole tranches, le portava in bottega,
e lì le contrattava.
La visione diretta delle “stanze proibite” era per
quei pochi amici che prediligeva, che ammirava, ma soprattutto che sentiva con il cuore puro
come il suo, adatti a condividere con gioia e senza interesse, le cose più belle.
Il suo gioco continuava dal mattino alla sera, mai
si lamentava dell’invenduto, anzi, quelle cose in
mezzo alle quali viveva, erano la sua compagnia:
tazze scompagnate, zuccheriere di peltro, di argentone, di argento; specchi grandi e piccoli con
cornici dorate, candelieri, poltroncine dai bei tessuti ma un po’ rotte e usurate; divanetti di epoche diverse; bottiglie e bottigliette, vasi dal valo17
re indiscusso e altri molto meno; piatti e piattini;
acquasantiere pregiate e altre, senza valore e
più in disparte; quadretti fatti in casa, altri più
preziosi; paralumi moderni, squinternati lampadari lussuosi e piattini in vero cristallo, portalumi, lucerne; sedie impagliate di nessuna importanza e, lì vicino, una dorata, sola e dimenticata,
fuggita da un salone nobile, come una stella che
gira nell’universo; coperchi di vecchie zuppiere,
alcuni di manifatture famose, altri veramente
soli come cani randagi in cerca di un padrone.
E poi: alari, calamai, pezzi di stoffa e di pizzi. Un
appiglio forte per rovistare e poi sentirne raccontare la storia: “appartenuta al marchese Tizio, al
conte Talaltro, proveniente dalla chiesa del Tal
posto…” o presa da altri rigattieri come lui, a Firenze.
Il baratto di oggetti con quest’ultimi era una moneta come nei tempi antichissimi, una pecora
per uno staio di grano, uno staio di grano per
una pecora, un vaso per un quadro, due sedie
per un cassettone.
Il commercio diveniva così un solo gioco, e la furberia solo ricca di fantasia ma priva di competizione; era capacità, sorriso, racconto.
Nelle sere d’autunno inoltrato, quando annotta
prestissimo e le luci diventano ancora più scarse,
e i fumi di quei camini, invece, più fitti e azzur18
rognoli, Ruggero Marcantoni, seduto nella sua
bottega oscura, con quella flebile, ciondolante
lampadina, sembrava Geppetto nel ventre della balena. Tutta la piazza era silenziosa e vuota.
I pochi restauratori chiusi nelle loro officine per
un attento lavoro. Era un’incanto!
Si andava da Marcantoni spesso non per fare affari, ma per gustarci tutte le sue fantasticherie,
per il piacere di ascoltare le storie di tutti quegli
oggetti ricchi di fascino e dell’umanità a cui erano appartenuti, di colui che le aveva scelte e le
aveva godute. La vita è un gioco e “l’uomo vive
quando gioca”- scriveva Schiller - ed è una grande verità. Un vaso, aveva il suo racconto. Una
strana provenienza, forse deturpato della sua
coppia. Ma più fascinoso di sempre: un reperto
come per l’archeologia, dove all’archeologo basta un piccolo coccio per gridare: “Urrà!”.
E Marcantoni, con le sue storie, faceva risvegliare i secoli e i tempi trascorsi, riportava in vita i
proprietari e gli eredi. Raccontava come lui aveva trattato quelle robe, anche preziose, ridendo.
Scambiando a volte, forse pagando un po’, ma
sempre con molto riguardo, senza una precisa
valutazione con la quale le rivendeva. Non per
questo era uno sciocco, e neppure uno sprovveduto, ma dava la giusta importanza a tutte quelle anticaglie, e soprattutto al suo gioco-lavoro,
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che non doveva sopraffarlo, né annientarlo, né
dominarlo.
Forse quello del rigattiere-antiquario si prestò
molto al gioco-libero lavoro ed egli lo aveva inteso in pieno. Contemplava, trattava, ma non si innamorava troppo di niente. Le sue cornici, i suoi
quadri, le sue tazzine, le piccole sculture le vedeva viaggianti e spesso ritornavano a casa, per
un doppio gioco, per una rinnovata trattativa,
per nuovi clienti e per gli amici. Ha passato gran
parte della sua lunga vita in questa dimensione
umana; pacifico, ma soprattutto gran parlatore:
aveva per tutti un’empatia e un grande rispetto, sia pure facendo eccezione per qualcuno che
trattava con una buona ironia, ma intelligente e
sempre riguardoso della persona. E quando era
ironico, era simpaticissimo: la sua risata, avulsa da qualsiasi cattiveria, dava peso all’interlocutore, mentre, divertito, forse, dentro di sé, lo
equiparava ad una teiera sbeccata e molte volte
a quello che veramente era, un presuntuoso e
falso intenditore.
Ruggero Marcantoni si può dire che abbia vissuto felice, in quella dimensione umana che insegna e predica Gesù. E stupendi erano i baci
che dava alle Madonnine prima di venderle e separarsene e ai crocifissi: a questi, con estrema
deferenza, come se fossero ancora veramente
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vivi e sofferenti. Connaturato con le sue “cose”,
tutte le amava, compresa la piccola moglie siciliana e il figlio che guidava con amore, perché
imparasse ad essere come lui.
Fu l’unica pretesa verso la vita e il futuro del signor Ruggero Marcantoni, anche se il futuro arriva sempre inaspettato.
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