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ISTANBUL “Tra terra e cielo, alla fine dell’arcobaleno...” di ALESSANDRO ZANELLI 1. Pensieri di viaggio «Nessun diletto può star a fronte di quello che si prova entrando in un paese sconosciuto, coll’immaginazione preparata a veder cose nuove e mirabili, con mille ricordi di fantastiche letture nel capo, senza pensieri, senza cure» (EDMONDO DE AMICIS, Spagna) Occidente e Oriente: due mondi, due anime. È stato il loro abbraccio a partorire la ‘Città delle Città’, terra di sultani e imperatori, luogo prescelto di un incontro mai concluso. Arrivarci in moto è un’esperienza strana. Il tempo scorre lento. La mente viaggia libera fra mille e più pensieri. Le moschee di Bosnia raccontano di un’enclave musulmana ancora viva nel cuore dell’Europa, mentre i palazzi di Sarajevo, crivellati dai proiettili, evocano il buio di una guerra che sa troppo d’altri tempi. Cristiani contro islamici, quasi fosse un dejavu, ennesimo tassello di un mosaico vecchio ormai di secoli. A poco a poco mi convinco che queste terre dilaniate dall’odio non potranno mai avere pace, fino a che il mio sguardo scorge una chiesa, una sinagoga e una moschea ergersi l’una dirimpetto all’altra. Aurora di un’insperata riconciliazione La Turchia mi accoglie col sole. Nei pressi del confine i minareti sembrano rispondere alla croce bianca dei bulgari, mentre il richiamo dei muezzin («Allāhu Akbar», «Iddio è Sommo») subentra al suono delle campane. Le asperità dei monti Rodopi lasciano il campo alle basse colline; i boschi e le brughiere incolte cedono il passo a pascoli sconfinati e campi coltivati a cereali. La strada semideserta, adagiata nel mezzo di questo paesaggio verde-ocra, invita a procedere verso l’ignoto. Tra il turchese del cielo e il marroncino della costa si impone prepotente il blu del mare. Lentamente i profili cambiano: i sobborghi affacciati sulle falesie prendono il posto dei terreni agricoli, le automobili quello di pecore e pastori. Senza rendermene conto, la città mi sta ingoiando in sé. Per la prima volta provo un senso di estraneità, quasi fossi un esule fuggiasco in una terra lontana. L’aroma pungente di salsedine proveniente dal mare si frammischia al profumo di spezie ed essenze sollevato dalla pioggia. La meta è raggiunta, assaporo l’Oriente. Un breve sospiro e una parola appena sussurrata: «Istanbul», capitale di tre imperi, «mano ingioiellata che l’Asia tende verso l’Europa»1, poliedrica come un diamante. Ciò che si coglie di lei dipende solo dal modo in cui la si guarda. 2. Avventura notturna «C’è un solo modo per conoscerla bene: girare da solo, a piedi, e smarrirsi» (U. ECO, Istanbul, Una e Trina) La prima cosa che ho vissuto di Istanbul è stata la notte. Le luci calde e soffuse rompono l’oscurità, sfumano i contorni di palazzi e moschee rendendoli magici e misteriosi. Il centralissimo quartiere Sultanahmed, terra di conquista per turisti fino al tramonto, si popola esclusivamente di gente del posto. Gruppi di bambini giocano a pallone tra gli obelischi dell’antico Ippodromo; crocchi di anziani si trovano appena fuori dalle sale da tè per giocare a backgammon o fumare in compagnia, mentre piccole botteghe per clienti del luogo si materializzano nei punti più improbabili. Sono queste le «notti d’agosto organizzate per essere vissute vegliando»2, descritte negli Otto paradisi di Marthe Lucile Bibesco. La curiosità spinge inesorabilmente verso gli shisha bar, caratteristiche ‘taverne’ in cui è possibile ristorarsi dal lungo viaggio gustando un rinfrescante tè alla menta, associandolo al sapore dolce del tipico narghilè. Entrando in uno di questi locali, realizzo con sorpresa come sorga nel bel mezzo di un piccolo cimitero posto sul retro di una moschea. Un modo singolare di tener compagnia ai defunti. Passare dalla Istanbul tradizionale a quella moderna è piuttosto semplice: si attraversa il Ponte di Galata per arrivare al quartiere Beyoğlu, dove il lungo viale Istiklal caddesi, celebre per le sue boutique di moda, catapulta il visitatore nel bel mezzo di una Parigi belle epoque. Più a monte fanno capolino i grattacieli di piazza Taksim, zona dedita agli affari e al moderno capitalismo, che mi riavvicina un poco alla quotidianità da cui provengo. La sensazione di trovarmi in un luogo familiare si acuisce ancor di più al momento di visitare uno dei locali più ‘in’ della città: una musica popolare turca remixata in chiave moderna risuona a tutto volume fra le pareti, mentre camerieri che 1 2 COCTEAU J., Il giro del mondo in 80 giorni, Excelsior, 2010. BIBESCO M.L., Gli otto paradisi, Sellerio, 1993. 2 distribuiscono tartine e stuzzichini a getto continuo si inframmezzano a schiere di ragazzi e ragazze che ballano e parlano senza sosta. Immagini come questa sarebbero sufficienti a far fuggire gran parte delle persone giunte a Istanbul con ben altre aspettative, ma l’idea di avventurarmi ancora un po’ nella vita trasgressiva dei giovani turchi mi spinge a restare. Decido dunque di godermi uno spettacolo di danza offerto da alcune ballerine abbronzate e dai lineamenti orientaleggianti. Di lì a poco, però, mi trovo costretto a porre fine alla mia ‘notte brava’, quando le redini dello spettacolo vengono affidate ad alcune darkladies dalle rotondità estremamente pronunciate, che conquistano il centro della scena oscillando i prosperosi ventri fra la grande approvazione del pubblico. Mi viene detto che sono queste le vere signore delle notti alla moda di Istanbul. Contenti loro! 3. «Isten polis», ovvero la Città «Se a un uomo venisse concessa la possibilità di un unico sguardo sul mondo, è Istanbul che dovrebbe guardare» (ALPHONSE DE LAMARTINE) I paesaggi e le bellezze, architettoniche e non, rappresentano certamente i punti chiave del fascino di una città. Da questo punto di vista, Istanbul è in grado di suscitare un’attrattiva irresistibile e per certi versi atipica, tale da meritare il giudizio appassionato di De Amicis, secondo cui: È il più bel luogo della terra a giudizio di tutta la terra3. Vagare per le sue strade è «come perdersi in una foresta. Un perfetto labirinto. Stretto. Chiuso, serrato»4. Gli scorci sono molteplici. Dal mare e da Usküdar (l’antica Crisopoli) si ha un’ampia visuale del profilo cittadino. Si vedono le cupole e i minareti puntare dritti verso il cielo; i palazzi colorati e le colline sagomate; la Torre e il Ponte di Galata, con i suoi ristoranti affacciati sulla baia; i caicchi dei pescatori e i battelli di turisti che fanno la spola tra il Bosforo e il Corno d’Oro, veri protagonisti della connessione fra il continente europeo e quello asiatico. Dinanzi a un tale spettacolo riaffiorano alla mente le parole di Pierre Loti in Aziyadé: Istanbul, prima di tutto, è una città fatta di orizzonti5. 3 DE AMICIS E., Costantinopoli, Einaudi, 2007. MELVILLE H., Diario di viaggio in Europa e nel Levante, Greenwood Press Reprint, 1976. 5 LOTI P., Aziyadé, Schoenhofs Foreign Books, 1988. 4 3 È soprattutto dalla cima della Torre di Galata, il punto d’osservazione migliore di tutta la metropoli, che si comprende appieno la veridicità di quella frase. Il colpo d’occhio è straordinario: le antichità e la modernità acquisiscono tratti distinti; i rumori della città giungono ovattati; la brezza salmastra suscita un sopito desiderio di mare, disteso al di sotto come un tappeto turchese increspato dal vento. Aguzzando la vista posso scorgere, appena sopra la linea dell’orizzonte, le vette anatoliche innevate e sgombre da nubi. L’onirico di quegli istanti sta esattamente in ciò che si vede: un gigante adagiato a cavallo tra due continenti, tra passato e presente, tra la terra e il cielo. Si ha realmente la sensazione di un qualcosa di surreale. Un non-luogo, quasi fosse la fine dell’arcobaleno. I miei occhi possono cogliere solo ora la singolarità dei paesaggi nascosti di Istanbul, portati alla luce anni or sono dalle quarantotto incisioni del miniaturista Antoine Ignace Melling, che di questa città soleva dire: È nel dettaglio architettonico e nel comportamento del semplice cittadino che si scorge la quintessenza dei suoi paesaggi6. E fu gradita sorpresa, passeggiando per i carruggi, le strade e le piazze meno frequentate dalla massa di turisti, accorgersi di come la ritualità e gestualità dei turchi appaia ancora analoga a quella dei loro progenitori: i venditori ambulanti che offrono le proprie merci; la disposizione delle mercanzie nei bazar; il fedele che si purifica alla fontana prima della preghiera; lo spettacolo del domatore di orsi; il modo di passeggiare delle famiglie; la gente accoccolata sui divani nelle sale da tè; i fumatori seduti agli angoli delle strade; i marinai che lavano i loro battelli, dopo aver venduto per tutto il pomeriggio il tipico panino con le alici; la folla che brulica nei sottopassaggi fitti di botteghe; un anziano che si appoggia a un bastone nodoso per risalire le ripide colline della città; i gruppi di ragazzini che vagano apparentemente senza meta, divertendosi alle spalle dei turisti. È questa la quotidianità di Istanbul, una città che vive e cresce in connessione col proprio passato. Un pesante fardello è tuttavia visibile negli occhi dei suoi abitanti. Uno stato d’animo omogeneo, interiorizzato con orgoglio e condiviso dalla comunità intera, come fosse un peccato inconfessabile. È proprio a questo che si riferisce Orhan Pamuk, scrivendo: Quando percepiamo a fondo questo sentimento, e i paesaggi, gli angoli, le persone che lo trasmettono alla città, quando ci cresciamo insieme, a un certo punto quella sensazione di tristezza, simile al vapore che comincia a muoversi sottile sulle acqua della stretto nelle fredde e assolate mattine d’inverno, acquista forme sempre più concrete ed evidenti7. 4. La Costantinopoli di sempre «Tutto attorno c’è molto rumore, e cemento, dappertutto. Ma i cambiamenti 6 7 MELLING A.I., Voyage pittoresque de Constantinople et des rives du Bosphore, Adamant Media Corporation, 2006. PAMUK O., Istanbul, Einaudi, 2006. 4 di superficie non significano niente: a conoscerla davvero, questa è la Costantinopoli di sempre. Il suo fascino è intatto» (ORHAN PAMUK, Istanbul) In quanto turco atipico, oltre che uomo di cultura e visioni assai aperte, Pamuk riconosce all’antica Costantinopoli un ruolo di primo piano per l’identificazione culturale e sociale della Istanbul dei giorni nostri. È perciò indispensabile riscoprire le fondamenta gloriose del passato bizantino della città, elemento che difficilmente sfugge a uno sguardo attento, nonostante gli ultimi secoli di dominio islamico. Punto di partenza di questo moderno Grand Tour non può che essere Santa Sofia, opera degna secondo Giustiniano di superare il mito del Tempio di Salomone e ultimo rifugio nel giorno estremo della caduta per mano ottomana. Facendo il mio ingresso in quegli ambienti, mi chiedevo se sarei rimasto colpito o deluso da una sovrapposizione di stili artistici così diversi. In fondo su questo luogo sono stati scritti pareri assai contrastanti. Se De Amicis rimase «come inchiodato», ammirando un non so che di teatrale e di principesco, più che di sacro; una ostentazione di grandezza e di forza, un’aria d’eleganza mondana, una confusione di classico, di barbaro, di capriccioso, di presuntuoso, di magnifico; una grande armonia8, Mark Twain osservò freddamente: Non mi dice molto. È il più rugginoso vecchio granaio della paganità. Credo che tutto l’interesse che attira derivi dal fatto che l’edificio fu costruito per essere una chiesa cristiana e poi trasformato in moschea, senza grandi ritocchi, dai conquistatori maomettani della città9. Il primo impatto non fu rassicurante. Come descritto da Alphonse de Lamartine: Nel suo stato attuale assomiglia a un gran caravanserraglio di Dio. Ecco le colonne del tempio di Efeso, ecco le immagini degli apostoli con le loro aureole d’oro sulla volta, che guardano le lampade appese dall’imam10. È innegabile infatti che, almeno all’inizio, Santa Sofia disorienti e non poco. Ci si aspetta una chiesa, ma la cristianità bisogna saperla cercare nelle opere musive del Cristo Pantocratore, degli imperatori e dei santi. Il contesto in cui queste sono immerse è però tutt’altra cosa. Quattro enormi stemmi circolari con iscrizioni coraniche, collocati nei punti cardinali, insieme con le decorazioni della cupola, fanno assomigliare l’interno della basilica a quello della Moschea Blu, edificata dall’architetto Sinan nel piazzale adiacente. Ed è straniante il sentir risuonare ancora fra quelle pareti il giudizio di Borgese, secondo cui: 8 DE AMICIS E., Op. cit. TWAIN M., Gli innocenti all’estero, Rizzoli, 2001. 10 DE LAMARTINE A., Voyage en Orient, Arlea, 2008. 9 5 Ci si torna quante volte si può […] E dubbio e rimorso se ne vanno, commozione e timor religioso subentrano in loro luogo11. Santa Sofia infatti rappresenta realmente l’ambivalenza nella quale tutta Istanbul è immersa: agli occhi di un cristiano regala nostalgia e rimpianto, ma anche orgoglio per la propria fede in Dio e negli uomini; i musulmani più oltranzisti del quartiere Fener non gradiscono il peso così grande della tradizione che si porta appresso, ma la apprezzano in quanto simbolo perpetuo della vittoria sull’infedele. Le origini bizantine della città tuttavia trasudano dagli angoli più disparati e non solo nelle chiese e monasteri che le soprintendenze ottomane, con il passare dei secoli, hanno lentamente convertito in moschee. Il sottosuolo inoltre lascia senza fiato. All’interno della Cisterna Basilica, un magico sotterraneo nel cuore del quartiere Sultanahmed, dove i visitatori camminano su passerelle sospese fra meravigliose colonne e giochi di luci, si può ancora ammirare la base di un grosso capitello raffigurante la testa di una gorgone schiacciata dalla colonna soprastante, simbolo della vittoria del cristianesimo sul paganesimo ellenico. Di fatto, dopo il senso di smarrimento iniziale, si comprende il fascino della dicotomia di Istanbul, che la rende senza dubbio una delle città più intriganti e malinconiche d’Europa. Essa è il risultato dell’unione di due società fra loro agli antipodi, che convivono l’una incastrata nell’altra tra la metropoli moderna e la Costantinopoli antica. Alla domanda «quanto armoniosamente?», le risposte sono giunte molteplici e diverse tra loro. La realtà dei fatti tuttavia è innegabile: si scorgono case di privati cittadini che sfruttano porzioni delle antiche mura come pareti, vestigia romane impiegate a mo’ di recinti per gli animali domestici e cappelle bizantine adibite a biglietterie. La conquista di Costantinopoli fu un trionfo di sangue e di morte, ma l’occhio ottomano la paragona a una seduzione. Fortezza inespugnata, hortus conclusus dietro le altissime mura di Teodosio, nel folto dei suoi giardini, la Polis è la ‘Città vergine’. Per lei il giovane sultano prova un’attrazione fisica, come per una donna desiderata in modo incontenibile. È il sapore dolce della conquista. Non meno desiderosi sono tuttavia gli sguardi che le rivolgono da Occidente, descrivendola come città dalla seduzione misteriosa e proibita, sensuale, velata dalla nebbia e insieme impudica, schiva e al tempo stesso disponibile. È qui che Flaubert rimugina Madame Bovary e Guillaume Apollinaire ripensa Les Onze Mille Verges. Maurice Barrès ne parla come di «una riserva d’angoscia e di piaceri»12. Le Corbusier è colpito dal «flusso impuro» nelle sue strade, dove «le vie stesse si prostituiscono, rinnegando secoli di vita turca; si vendono ai cupidi mercanti»13, mentre 11 BORGESE G.A., Autunno di Costantinopoli, Carocci, 2009. BARRÈS M., Una Inchiesta nei paesi del Levante, Manuzio Editore, 1923. 13 LE CORBUSIER, Il Viaggio d’Oriente, Faenza Editrice, 1974. 12 6 Chateaubriand annota come «non c’è altro piacere che la dissipazione, altra infelicità che la morte»14. È il fascino di Istanbul, terra che attira e respinge, lasciando i suoi amanti lentamente impazzire. 5. Le rovine sui Dardanelli: la Ilio di Omero «Cerca loro altre terre, ergi altre mura; Chè dopo lungo e travaglioso esiglio L’ergerai più di Troia altere e grandi». (VIRGILIO, Eneide) La mia permanenza a Istanbul è giunta al termine. Oltrepassare il ponte dedicato a Mehmet elFātiḥ (Maometto il conquistatore), mettendo piede per la prima volta nel continente asiatico, è come svegliarsi da un lungo torpore: alle spalle ci sono i sogni e gli incubi della notte, mentre tutto intorno aleggiano le promesse di una lunga giornata carica di aspettative. L’Anatolia è un mondo inatteso e del tutto differente rispetto alla periferia stambuliota. Un susseguirsi di piccoli paesi, composti per lo più da agglomerati di condomini moderni, ma situati in un contesto completamente agricolo, ricalcano il desiderio di progresso delle nuove generazioni turche. Anche Iznit e Brussa (ovvero Nicomedia e Prusa, fra le città più importanti dell’Asia occidentale) hanno perso i loro connotati storici, schiacciate come sono da una selvaggia edilizia popolare che ne ha compromesso le peculiarità artistiche e architettoniche, sostituite da volgari quartieri dormitorio. Persino la celebre Iznik (la Nicea di cristiana memoria) appare come una borgata quasi anonima di case racchiuse dalle mura quadrate di epoca bizantina e adagiate tra le colline, sulla riva del più importante lago della zona. La sua struttura viaria è rimasta immutata dai tempi dell’Impero, con il cardo e il decumano che si incrociano nella piazza principale in cui sorge la basilica di Santa Sofia, trasformata in moschea dopo la conquista ottomana e ora desolante e malinconico sito archeologico. Provo un velo di tristezza al pensiero che qui, un tempo, si siano celebrati alcuni fra i più importanti concili ecumenici, tra i quali anche quello in cui si sancì il Credo ancora oggi recitato nelle chiese di tutto il mondo. L’amarezza per l’incuria mi spinge a proseguire il viaggio verso l’ultimo traguardo: Troia, la città che Omero ha consegnato all’eternità. I dubbi sono tanti dopo aver rimirato la desolazione del paesaggio anatolico, ma ogni perplessità viene meno nel momento in cui il sito archeologico di Ilio mi abbraccia sotto un cielo terso, un sole sfavillante e una frizzante brezza marina proveniente dall’Egeo. È un momento indimenticabile. Richiamando un po’ l’immagine di Costantinopoli e del Bosforo, essa si adagia all’imboccatura dello stretto dei Dardanelli. Si viene travolti da un’atmosfera pregna di storia e mito che si fondono in un’unica entità dai contorni sfuggevoli. È 14 CHATEAUBRIAND F.R., L’Itinerario da Parigi a Gerusalemme, 1811. 7 proprio questa mescolanza a costituire il fascino della passeggiata tra le rovine. Solo la famosa trincea di Schliemann (l’archeologo tedesco che per primo rinvenne il sito) rompe la convessità perfetta della collina. Impossibile identificare quale ‘Troia’ si stia osservando, poiché in realtà ne esistono ben dieci livelli diversi, l’uno sovrapposto all’altro e spesso tra loro intersecati. Si passa dunque rapidamente dai reperti del primo insediamento dell’età del bronzo alla Ilium romanobizantina, mentre le tracce di resti carbonizzati del sesto livello riportano alla mente i versi virgiliani riguardanti l’incendio che gli achei appiccarono durante il sacco della città: […] E già ‘l palagio Era di Deïfòbo arso e distrutto; Già ‘l suo vicino Ucalegon ardea, E l’incendio di Troja in ogni lato Rilucea di Sigèo ne la marina;15. Poco importa che non si distingua il solco da cui Paride scagliò la freccia che uccise Achille, o i resti del palazzo di re Priamo, o l’altare di Atena dove venne fatto abuso della misera Cassandra. Quello che conta è muovere i propri passi nello stesso luogo in cui sorse «un clamore d’eroi ed un fragore di trombe»16. Trovandomi sotto la riproduzione del cavallo di Troia che svetta maestosa all’uscita del sito archeologico, mi è impossibile non paragonare la cura con cui le soprintendenze turche mantengono questo sito con l’incuria riscontrata sino ad allora nei confronti di ciò che appartiene alla tradizione cristiana. È evidente come anche in questi luoghi mitici, culla della civiltà ellenistica e perciò di tutto l’Occidente, si risponda all’implacabile legge del business. Non voglio però lasciar spazio alcuno ai brutti pensieri. Gli stupendi ricordi di questa avventura saranno miei fedeli compagni durante il lungo ritorno verso casa. Ancora una volta la moto si accende e le ruote lentamente si avviano per il sentiero sterrato. Il sole comincia ad abbassarsi sullo stretto dei Dardanelli, mentre nelle orecchie risuona una canzone: Ho viaggiato nel freddo Faccia a faccia con la mia Ombra che si gettava Nel bianco velo del tempo. Ho viaggiato nel freddo Senza volto senza età Pilotando un corpo Senza guida a Istanbul, Baluardo sacro per l’incrocio Delle razze degli uomini. 15 16 VIRGILIO, Eneide, traduzione di Annibal Caro, Guaraldi, 1999. VIRGILIO, op. cit. 8 L’ho cercato nel freddo Se ne stava solo là: Istanbul, Istanbul17. 17 LITFIBA, Istanbul, 1992. 9 Bibliografia • BORGESE G.A., Autunno di Costantinopoli, Carocci, 2009. • BRACCINI T. - RONCHEY S., Il Romanzo di Costantinopoli. Guida letteraria alla Roma d’Oriente, Einaudi, 2010. • CAFFARELLI M.L., Istanbul - Sguardo alla porta d’Europa, in «Istanbul Week», 22 novembre 2005. • DE AMICIS E., Costantinopoli, Einaudi, 2007. • GINZBERG S., Istanbul - Così la Roma d’Oriente ha sedotto generazioni di scrittori e di artisti, in «I Venerdì di Repubblica», 3 settembre 2010. 10