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ANNO LXXXVIII - N. 208 € 1,30 QUOTIDIANO INDIPENDENTE DI INFORMAZIONI MARITTIME E DI POLITICA ECONOMICA Giovedì 27 ottobre 2016 www.avvisatoremarittimo.it (CONV. IN TARIFFA R.O.C.: “POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE D.L. 353/2003 L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1 COMMA 1, DCB GENOVA” S PECIALE M IDDLE E AST ASSICURAZIONI. PARLA FRANCESCO FERRARI (FIRST) Medio Oriente, la vera prova per ogni broker Guerre, pirati, tensioni internazionali: l’area è un labirinto in continua evoluzione I l Medio Oriente è un’area difficile, un vero test di prova per gli assicuratori marittimi, che si trovano continuamente alle prese con nuove soluzioni da adottare per garantire coperture assicurative agli operatori marittimi impegnati nell’approvvigionamento via nave in aree dove nell’ultimo decennio si sono alternate guerre civili, pirateria, minacce di terrorismo, aggressioni militari vere e proprie. Ma quali sono oggi le criticità maggiori in questa regione? «La regione più calda in questo momento - spiega Francesco Ferrari della società genovese di brokeraggio assicurativo First - è lo Yemen, dove è in corso una guerra. Alcune navi sono state attaccate, anche con i missili. E’ un problema di ordine politico». Per accedere in questa zona le navi devono stipulare un’apposita polizza per il rischio guerra. Come spiega il broker, «i tassi sono aumentati notevolmente per la copertura Corpo e Macchine della nave e addirittura alcuni assicuratori non accettano comunque di assumere il rischio. Aden e Hodeidah, i porti più importanti del paese, sono pienamente operativi, sebbene non venga garantita una sicurezza adeguata». E così le addizionali sono molto elevate. Gli armatori a volte decidono di non operare nello Yemen, oppure di rinunciare alla copertura assicurativa, assumendosi un rischio che Ferrari giudica molto pesante. Una situazione analoga si riscontra in Libia, dove i porti sono quasi tutti operativi, ma gli armatori devono pagare premi extra per la polizza rischi guerra molto elevati. Una nave del valore di 25 milioni di dollari arriva a pagare un extra da 60 mila dollari. Due anni fa il problema in Medio Oriente non era la guerra, ma la pirateria nel golfo di Aden. «A quel tempo lo strumento assicurativo utilizzato, denominato “Kidnap and ransom” (rapimento e riscatto), era stato elaborato - ricorda Ferrari - dagli assicuratori britannici. Anche in quel caso alcuni armatori si adeguavano ai tassi elevati che venivano imposti per stipulare una polizza di tale tipo, ma altri mandavano le navi a proprio rischio. Non appena il fenomeno della pirateria ha cominciato a ridimensionarsi anche questi tassi sono andati a ridursi, finché con l’instaurarsi del sistema dei convogli, che garantiva maggiore protezione dagli attacchi, molti assicuratori non hanno più proposto queste polizze. In un mercato di noli depresso ogni ag- Lo shipping guarda con attenzione al Middle East gravio di costi rappresenta un’incidenza non indifferente nei bilanci di armamento. Oggi il problema della pirateria riguarda più il West Africa che il golfo di Aden». Per mostrare come sia dinamico il mer- cato assicurativo, Ferrari ricorda che proprio in Africa occidentale il problema recentemente era rappresentato dal virus ebola e che anche in quel caso il mercato assicurativo predispose un prodotto ap- posito per l’armatore, contro il rischio che le autorità locali mettessero la nave in quarantena. Per quanto riguarda il Medio Oriente, una altra incognita è rappresentata dall’Iran. «E’ un paese in parte ancora sotto sanzioni, ma adesso si può operare in Iran e gli armatori effettivamente mandano le proprie navi. Prima i Club P&I non potevano garantire la loro copertura, che era vietata. A oggi le sanzioni sono state alleggerite, tuttavia esistono black list di persone e aziende collegate al programma nucleare iraniano che rimangono sanzionate. I Club sono in grado di garantire la loro copertura soltanto se i soggetti che partecipano alla spedizione non sono inserite nella lista.. Gli assicuratori devono conoscere i nomi dei soggetti coinvolti nel trasporto, dallo shipper fino al ricevitore. Basta che un solo soggetto appaia nella black list perché l’eventuale copertura assicurativa non venga garantita». La complessità del caso Iran è dimostrata dalla cosiddetta “snap back clause”. In cosa consiste? «Adesso i Club possono operare in caso di sinistro. Ma avvertono che qualora debbano emettere una lettera di garanzia in nome dell’assicurato, l’efficacia della lettera è condizionata dal fatto che l’Iran non venga nuovamente sanzionato». In effetti, la fine del regime sanzionatorio è stata decisa in seguito a un accordo internazionale che però è sottoposto a verifica. Se i termini non vengono rispettati, l’accordo salta. E così «se il paese venisse di nuovo sanzionato, l’effetto della garanzia verrebbe meno». Per fare un esempio concreto: se una nave urta e danneggia una banchina del porto di Bandar Abbas, il Club emette una lettera con cui si impegna a pagare, ma se l’Iran viene di nuovo sanzionato, i danni subiti dalla banchina non vengono risarciti. Le Autorità portuali iraniane non accettano questa condizione, per cui le lettere di garanzia non bastano a evitare all’armatore l’eventuale sequestro della nave. «Un altro problema con l’Iran sono le transazioni bancarie, che sono effettuate in dollari e passano attraverso le banche statunitensi, che le bloccano». Ciò nonostante, spiega il broker, l’interesse dei P.&I. per l’Iran resta alto. La flotta nazionale iraniana sta rinascendo ed è priva di copertura assicurativa, a parte quello che può garantire un piccolo club locale, e l’interesse di società, anche italiane, come F.lli Cosulich e Rina, impone che si trovino soluzioni. L'AVVISATORE MARITTIMO II Giovedì 27 ottobre 2016 S PECIALE M IDDLE E AST L’ANALISI DELL’AGENZIA INTERNAZIONALE PER L’ENERGIA ATOMICA. SI RIAPRE UN MERCATO DA 80 MILIONI DI PERSONE Iran, l’accordo funziona: torna la superpotenza Il Paese sta rispettando alla lettera il patto sul nucleare, come ammette anche Gerusalemme I n un’area che è la principale fonte di preoccupazioni geopolitiche al mondo, c’è un tassello che sta rapidamente tornando al suo posto: l’Iran. La repubblica islamica sta infatti rispettando alla lettera gli accordi sul nucleare firmati l’anno scorso a Vienna e procedendo spedita sulla strada che la porterà a ristabilire normali rapporti diplomatici e commerciali con l’Occidente. Di recente, in un’intervista al quotidiano francese Le Monde il capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Yukiya Amano, ha affermato che Teheran “sta facendo ciò che ha promesso” e che “l’accordo non presenta particolari problemi”. Ancora più degno di nota è il fatto che qualche giorno prima era stato addirittura Israele a fare affermazioni di simile tenore, nonostante fosse venuta proprio da Gerusalemme la più intransigente opposizione alla firma dell’accordo siglato a Vienna. Intervistato a margine della 60ma Conferenza generale Aiea, che si è tenuta dal 26 al 30 settembre nella capitale austriaca, dove ha sede l’agenzia, Yukiya Amano ha ricordato solo “un piccolo incidente” avvenuto sinora, al quale le autorità iraniane “hanno subito rimediato”. “Posso confermare - ha aggiunto 69enne diplomatico giapponese che Teheran rispetta gli impegni presi alla lettera”, facendo quanto “ha promesso alla comunità internazionale”. Il capo dell’Aiea nega con forza il rischio di una “proliferazione” del nucleare in Medio oriente, come paventato alla vigilia dello storico accordo da Arabia Saudita e Israele, quest’ultimo unica potenza atomica nella regione. A dispetto delle voci, ha affermato, non si è verificato alcun “fatto” che possa “corroborare queste speculazioni”. L’accordo sul nucleare di Teheran è forse il successo maggiore di Yukiya Amano, in lizza per un terzo mandato quando, nel novembre 2017, dovrà essere rinnovata la carica. E proprio sul dossier atomico iraniano egli assicura che la partita “non è chiusa”, perché è un percorso “iniziato solo da pochi mesi” e sarà massimo l’impegno per “garantire che l’accordo sia ap- plicato” anche in futuro. Lo smantellamento delle sanzioni occidentali nei confronti di Teheran è iniziato nel gennaio scorso e, se gli accordi saranno rispettati, verranno progressivamente e com- pletamente tolte nell’arco di qualche anno. Il reinserimento dell’Iran nel consesso internazionale rappresenta un’ottima notizia per l’Europa e in particolar modo per l’Italia che vanta storicamente stretti rapporti commerciali con il Paese mediorientale. Nonostante il sostanziale isolamento degli ultimi decenni, acuito negli ultimi anni dalle sanzioni commerciali imposte dall’Occidente, l’Iran è tuttora la 32ma economia mondiale per dimensioni del Pil nominale. Secondo i dati della Fondo Monetario Internazionale, nel 2014 il prodotto interno lordo è stato pari a 402 miliardi di dollari; senza contare che nel biennio precedente, prima che le sanzioni provocassero una contrazione del Pil di oltre il 30%, l’Iran era a ridosso delle prime venti economie al mondo, con una dimensione stimata simile a quella del Belgio e superiore alla Norvegia ed all’Austria. Il Paese sciita vanta inoltre quasi 80 milioni di abitanti (come la Turchia), tra cui molti specialisti con un buon grado di formazione e una classe alta facoltosa. Per l’Italia in particolare l’Iran rappresenta un mercato molto interessante. Il Belpaese è sempre stato uno dei partner commerciali più importanti per Teheran (sanzioni permettendo). Nel 2014 l’interscambio commerciale si è fermato a 1,596 miliardi di euro contro un picco di 7,097 miliardi nel 2011. Se si considerano solo le esportazioni, l’talia ha raggiunto un picco di 2,125 miliardi di euro nel 2008, mentre nel 2014 sono ammontate a 1,156 miliardi, in crescita rispetto al 2013. In Iran al momento ci sono alcune centinaia di imprese italiane, attive in tutti i settori economici, salvo che nel petrolifero per la parte vietata. INSURANCE. A CONVERSATION WITH FRANCESCO FERRARI (FIRST) The Middle East, a testing ground for the insurance sector Wars, pirates, international tensions: the region is a shifting crucible T he Middle East is a difficult region, truly the testing ground for marine insurers; they are constantly struggling to come up with new solutions to offer marine insurance to operators who carry out shipping in areas that over the last decade have witnessed a succession of civil wars, acts of piracy, terrorist threats and military aggressions. But what are the most serious challenges in this region? “The hotspot right now,” explains Francesco Ferrari of Genoa-based insurance brokerage company, First, “is Yemen, where there is an ongoing war. Some ships have been attacked, even with rockets. The problem has a political dimension.” Ships that want to access this area have to take out special insurance cover for war risks. “Rates,” Ferrari pointed out, “have risen sharply for ship hull and machinery cover, with some insurers going as far as refusing to cover the risk. Aden and Hodeidah, Yemen’s most important ports, while fully operational do not guarantee adequate security conditions.” Premiums for additional insurance, then, are very high. Shipowners sometimes decide not to operate in Yemen, or to forgo insurance coverage, taking risks that Ferrari sees as very significant. A similar situation exists in Libya, where almost all ports are operational, but owners have to pay costly extra premiums for war risk insurance. A ship that may be worth $25 million can end up paying up to $60,000 dollars in extra premiums. Two years ago, the scourge in the Middle East was not war, but piracy in the Gulf of Aden. “At that time, we utilized insurance instruments called Kidnap and Ransom, which had been devised by UK insurers,” recalled Ferrari. Even then, while some shipowners went along with the higher premiums that applied to policies of this type, others undertook navigation at their own risk. As, over time, acts of piracy began to drop, the premiums followed suit, until, with the establishment of the con- voy system, which guarantees greater protection from attacks, many insurers have stopped marketing these policies. In a depressed freight rate market any increase in costs affects shipowners’ balance sheets significantly. Today, the problem of piracy is more significant in West Africa than in the Gulf of Aden.” To illustrate the insurance market’s changing nature, Ferrari recalled how, in West Africa, until recently, the Ebola virus represented a real threat, and that then, as well, the insurance industry came up with a specific insurance product for shipowners, against the risk of the ship being put under quarantine by authorities. In the Middle East, Iran represents another unknown. “It’s a country in part still under sanctions, but now Iran is open for business, and shipowners are indeed operating there. The P&I insurance Clubs in the past could not offer coverage, which was then prohibited. While at present the sanction regime has been eased, there is still a blacklist of people and companies connected to Iran’s nuclear pro- gramme that remain under sanctions. The Clubs are able to provide insurance only if the parties that undertake the shipment are not included in that list. Insurers have to know the names of those involved in the shipping, from that of the shipper to the receiver. If even one name is contained in that blacklist, insurance coverage is refused.” The complexity of the Iran case is revealed by the so-called “snap back clause”. What is it, exactly? “At present the Clubs are able to cover accidents there. But they warn that if they’re requested to issue a letter of guarantee on behalf of the insured party, that letter’s effectiveness is conditioned to Iran remaining free of international sanctions.” In fact, the end of the sanction regime was decided following an international agreement, which, however, is subject to verification. If the terms are not met, the agreement is void. And so “if the country were to have sanctions again, the guarantee of insurance would be voided.” To give a concrete scenario: if due to a ship collision, a quay in the port of Bandar Abbas gets damaged, the Club issues a letter in which it undertakes to cover damages; but if Iran is sanctioned again, the damages will not be covered. It follows that as Iranian port authorities will not recognize that clause, the letter of guarantee will not prevent the shipowner from the possibility of having his ship seized. “Another challenge in doing business in Iran are bank transactions, which are carried out in US dollars and go through US banks, that block them.” Nevertheless, explained Ferrari, the interest of P&I insurance Club associations for Iran remains high. The Iranian merchant fleet is being reborn and lacks insurance, apart from that which a small domestic club is able to provide, and it is in the interest of firms, including Italian ones, such as Fratelli Cosulich and Rina, that solutions be found. L'AVVISATORE MARITTIMO III Giovedì 27 ottobre 2016 S PECIALE M IDDLE E AST INTERVISTA A IGNAZIO MESSINA, AMMINISTRATORE DELEGATO DELLA COMPAGNIA: «POSSIAMO VALUTARE NUOVE ALLEANZE» «Noi armatori tra i conflitti del Medio Oriente» Tra Golfo e Mar Rosso: i Messina hanno nell’area più complessa del mondo il loro core-business P er gli armatori italiani il Medio Oriente è sempre stato un punto di riferimento imprescindibile, a partire nel XIX secolo dalle pionieristiche (per l’armamento moderno dell’Italia unita) iniziative commerciali del genovese Raffaele Rubattino, attivo prima in Maghreb e poi, con l’apertura del canale di Suez nel 1869, nel Mar Rosso. Un’eredità presa in consegna da un’altra società genovese, il gruppo Messina, titolare di una flotta fra le più presenti sulle rotte fra Mediterraneo e Africa. «In quest’area - spiega Ignazio Messina - siamo presenti in maniera più o meno intensa dalla metà degli anni Cinquanta. Le rotte oltre Suez per noi sono sempre state importanti e ricche di soddisfazioni». Quali Paesi sono più importanti per il commercio con l’Italia? «Arabia Saudita e Giordania; sulla costa africana del Mar Rosso Etiopia e Sudan; poi Emirati Arabi Uniti, India, Iran e Paesi del Golfo come Bahrein, Qatar e Iraq. A causa delle guerre, Iraq e Iran sono diventati meno importanti». Che tipo di traffico viaggia su queste rotte? «Oltre ai container, noi trasportiamo materiale per cantieri e mezzi rotabili, come camion destinati alla ricerca petrolifera». Come vivono gli operatori logistici e dei trasporti l’attuale fase politica e economica di questi paesi? «Le economie di questi Paesi sono in sofferenza a causa dell’instabilità politica e dei conflitti anche fra gli stessi stati dell’area. Arabia Saudita e Iran hanno interrotto le relazioni. Questo significa che un armatore non può trasportare merce da uno all’altro di questi due Paesi, neanche utilizzando un porto di trasbordo. A loro volta gli Emirati hanno vietato le esportazioni verso alcuni Paesi dell’Africa settentrionale e verso la Libia. L’Egitto sta risorgendo, ma rimane instabilità. In Giordania vengono spedite soprattutto mattonelle e qualche impianto industriale. Poi c’è Gibu- ti, porta d’ingresso per l’Etiopia, dove sono attivi molti cantieri e dove lavoriamo ad esempio con realtà come Salini e Ethiopian Shipping Lines». Come sta influendo il basso prezzo del petrolio? «La nostra attività soffre assieme all’economia di questi Paesi. I Pae- si arabi di basano su petrolio e gas. Con il crollo del prezzo si rivedono le politiche di bilancio, aumenta il prezzo della benzina, diminuisce il valore dei salari, molti servizi non vengono più offerti gratuitamente, girano meno camion, molti cantieri si sono fermati. Oggi è un mercato più difficile che in passato». C’è qualche segnale positivo? «Gli Emirati hanno sofferto lo scoppio di una bolla finanziaria, ma adesso sono stabili, Dubai resta un mercato importante per i derivati del petrolio. In Iran, da quando sono terminate le sanzioni, si pensava che il commercio potesse ripartire. Attualmente le risorse sono ancora limitate, mentre non è possibile effettuare transazioni finanziarie attraverso le banche statunitensi. Gli iraniani hanno bisogno di liquidi, ma i soldi sono ancora bloccati all’estero. Non c’è ancora il picco atteso. In India prima arrivavamo con un servizio diretto, adesso via feeder. Qui i noli hanno sofferto più che nel vicino Medio Oriente. Intanto si sono intensificati i traffici fra Estremo e eMedio Oriente». Messina ha stretto accordi per la condivisione di stiva con altre compagnie, anche grandi. «Già 30 o 40 anni fa avevamo stretto alleanze con compagnie italiane. Da allora, ad esempio, abbiamo mantenuto il collegamento con Tarros per l’Algeria. Negli ultimi cinque anni abbiamo fatto accordi con grandi compagnie realizzando sinergie, in particolare verso l’Africa Occidentale. In un primo momenti avevamo sdoppiato i traffici, ro-ro da una parte, full container dall’altra. Poi il calo del ro-ro in Africa occidentale (in Nigeria, con l’introduzione di una forte tassa sui rotabili, c’è stato un calo del 50%, ma sappiamo che anche in Angola, dove non siamo presenti, c’è stato un calo del 70%) ha portato a incrementare i traffici container con Cosco, Zim, Arkas e altri». E il Medio Oriente? «Per adesso ci muoviamo da soli, con nuove navi ro-ro sulle rotte oltre Suez. La particolarità dei traffici su questi mercati, che uniscono contenitori, merci varie, rotabili, non permette servizi in comune, se non in casi eccezionali. Se dovessimo fare servizi full-container anche con il Golfo, sarebbe possibile creare sinergie con altre compagnie. Studi in questo senso sono già stati fatti». ISRAEL TOO CONCEDES. THE INTERNATIONAL ATOMIC ENERGY AGENCY’S REPORT: AN 80 MILLION PEOPLE STRONG MARKET IS BACK IN BUSINESS Iran: the agreement is working, a superpower is back on track The country is following to the letter the agreement on the nuclear issue I n an area that is the main source of geopolitical concern in the world, one element of the puzzle is rapidly returning to its proper place: Iran. The Islamic republic is in fact complying to the letter with the nuclear accord signed last year in Vienna and moving quickly along the path that will lead it to re-establish normal diplomatic and commercial relations with the West. Recently, in an interview with France’s Le Monde, the chief of the International Atomic Energy Agency (IAEA) Yukiya Amano confirmed that Tehran “is doing what it promised” and that “the agreement does not present particular problems.” Even more noteworthy is the fact that a few days earlier Israel made statements to the same effect, despite the fact that Jerusalem offered the most intransigent opposition to the signing of the accord in Vienna. Interviewed at the 60th General Conference of the IAEA, which was held from 26 to 30 September in the Austrian capital, where the agency is headquartered, Yukiya Amano mentioned that only “a minor incident” had taken place so far, which the Iranian authorities “immediately remedied.” “I can confirm,” the 69-year-old Japanese diplomat added, “that Tehran is fulfilling the commitments that it made to the letter,” doing everything that “it promised the international community.” The chief of the IAEA strongly denies the risk of nuclear “proliferation” in the Middle East, as Saudi Arabia and Israel - the only nuclear power in the region - feared on the eve of the historic accord. De- spite the rumours, he insisted, there is no evidence of any “fact” that could “corroborate this speculation.” The Iranian nuclear accord is perhaps the greatest success of Yukiya Amano, who is being considered for a third term as director of the IAEA, starting in November 2017. Regarding the Iranian atomic dos- sier, he guarantees that the game “is not yet over,” because it is a process that “only began a few months ago” and will require maximum commitment to “guarantee that the accord is enforced” in the future, as well. The dismantling of the Western sanctions against Iran began last January, and if the accords are com- plied with, the sanctions will gradually be removed over a few years. Iran’s rejoining of the international consensus is excellent news for Europe and particularly for Italy, which can historically boast of excellent commercial relations with the Middle Eastern country. Despite the substantial isolation of the last few decades, worsened in recent years by commercial sanctions imposed by the West, Iran is still the 32nd largest economy in the world by nominal GDP. According to data from the International Monetary Fund, in 2014 its Gross Domestic Product was $402 billion; not to mention that in the two years before sanctions caused a more than 30% contraction in GDP, Iran was one of the 20 largest economies in the world, with an estimated GDP similar to Belgium’s and greater than Norway’s or Austria’s. The Shiite country can also boast of over 80 million inhabitants (like Turkey), among which there are many highly educated specialists and a wealthy upper class. For Italy in particular, Iran represents a very interesting market. Italy has always been one of Tehran’s most important commercial partners (sanctions permitting). In 2014, the commercial exchange reached €1.596 billion versus a peak of €7.097 in 2011. If one considers only exports, Italy reached a peak of €2.125 billion in 2008, while in 2014 they reached only €1.156 billion, which was an increase compared to 2013. There are hundreds of Italian companies in Iran at the moment, active in all sectors of the economy, except for the oil sector, which is prohibited. L'AVVISATORE MARITTIMO IV Giovedì 27 ottobre 2016 S PECIALE M IDDLE E AST L’ALLARME DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE. LE MIGRAZIONI? «SE REGOLATE FANNO BENE ALL’EUROPA» Il rischio di una “deriva palestinese” Guerre e inflazione stanno compromettendo l’economia dell’intera area I l Medio Oriente è stretto fra due guerre. A nord c’è il conflitto siriano e a sud quello nello Yemen. Le economie dei due Paesi sono in ginocchio ormai da anni ma le ripercussioni coinvolgono tutte le nazioni che si trovano nel mezzo, con costi economici “massicci e persistenti”. A certificare questo stato di cose è il Fondo Monetario Internazionale che nel recente studio “The Economic Impact of Conflicts and the Refugee Crisis in the Middle East and North Africa” ha cercato di quantificare i danni economici causati dalle guerre. L’istituto guidato da Christine Lagarde è così arrivato alla conclusione che i Paesi coinvolti nelle guerre devono fare i conti con una “profonda recessione” (quasi due punti di Pil all’anno) abbinata a una forte inflazione, senza dimenticare il deterioramento delle condizioni fiscali e finanziarie e l’indebolimento delle istituzioni. Per quel che riguarda invece gli Stati vicini si registra una diminuzione della sicurezza reale e di quella percepita e un peggioramento della coesione sociale che mina la fiducia nelle istituzioni e la loro capacità di elaborare le riforme economiche più urgenti. Secondo l’Fmi questi pericoli sono estremamente reali soprattutto per Libano, Giordania e Turchia. L’istituto di Washington ricorda poi come “dalla fine della Seconda guerra mondiale i Paesi di questa regione abbiano sofferto più conflitti di qualsiasi altra regione del mondo”. L’Fmi stima che oggi nella regione vivano almeno 10 milioni di rifugiati I dati parlano molto chiaro: in Siria, dopo quattro anni di conflitto, il Pil è crollato a meno della metà del livello registrato nel 2010. Lo Yemen, invece, accusa una perdita che, per il solo 2015, si aggira tra il 25 ed il 35%. La prospettiva a lungo termine di ciò che potrebbe accadere in questi Stati, avverte l’Fmi, è quella della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Una pesante recessione economi- ca non è però l’unico devastante effetto di una guerra; l’altro fronte è quello dell’inflazione che rappresenta una minaccia per la popola- zione tanto quanto la contrazione dell’attività economica. In Iraq e Afghanistan, nei primi anni Duemila è stata del 30%, in Yemen ha viaggiato al ritmo del 15% dal 2011. Il caso siriano è però quello “più estremo”, con un aumento dei prezzi del 300% tra marzo 2011 e maggio 2015. Sono dinamiche, quelle inflattive, spesso connesse con una forte svalutazione delle valute locali. Il crollo del Pil, sottolinea l’istituto diretto da Christine Lagarde, “aumenta in proporzione alla durata dell’esposizione alla violenza” e lo stesso discorso per l’inflazione. Per quel che riguarda invece gli Stati vicini, l’Fmi afferma che essi soffrono un calo del Pil dell’1,9% annuo e un aumento del tasso d’inflazione del 2,8% medio. Ma in questo caso le ricadute dei conflitti non sono solo agli indicatori di crescita. Da un lato, infatti, c’è la credibilità delle istituzioni. L’Fmi analizza il caso dell’Unione Europea che non è direttamente confinante con il Medio Oriente ma che è la meta dei civili in fuga dai conflitti mediorientali. Ebbene, secondo il Fondo monetario internazionale il flusso di migranti verso il Vecchio Continente (1,7 milioni di persone dal 2014 hanno raggiunto gli Stati membri) sta “minando importanti conquiste del progetto europeo, come la libertà di movimento delle persone attraverso i confini nazionali, e sta contribuendo ad un crescente senso d’insicurezza“. Dall’altro c’è poi la pressione sempre più forte che le masse di rifugiati esercitano su “servizi pubblici già in crisi”. Per l’Europa, però, un’integrazione ben regolamentata “di un numero di rifugiati limitato rispetto al totale della popolazione potrebbe avere un effetto molto più positivo sulla crescita economica” di quanto non avvenga negli Stati più arretrati dell’area mediorientale. INTERVIEW WITH IGNAZIO MESSINA, CEO OF MESSINA LINE: “WE’RE OPEN TO THE IDEA OF NEW ALLIANCES” Between the Persian Gulf and the Red Sea: being a shipowner amidst the conflicts F OR ITALIAN shipowners the Middle East has always been a fundamental point of reference, starting in the nineteenth century with Genoan Raffaele Rubattino, a pioneer in modern shipowning in the history of the united Italy. He started trading in the Maghreb and after the opening of the Suez Canal in 1869, he moved on to the Red Sea. Today, his legacy in the Red Sea area of the Middle East lives on thanks to another Genoese company, the Messina Group, owner of the most active fleet on the routes between the Mediterranean and Africa. “In this area,” explains Ignazio Messina, “we have had a constant and intense presence since the mid-1950s. We have always valued and made the most of all routes going through the Suez canal.” Which countries are most important in terms of trade for Italy? “Saudi Arabia and Jordan, Ethiopia and Sudan on the African coast of the Red Sea, the United Arab Emirates, India and Iran, as well as countries of the Upper Gulf, such as Bahrain, Qatar and Iraq. Because of the wars, Iraq and Iran have become less important.” What kind of freight travels on these routes? “In addition to containers, we handle construction materials and vehicles such as trucks destined for oil exploration.” How are logistics operators and transport businesses affected by the current political and economic state of these countries? “The economies of these countries have been struggling due to political instability and conflicts between neighbouring countries in the area. Ties between Saudi Arabia and Iran have been cut. This means that a shipowner cannot transport goods from one of these two countries to the other, even with the use of a transhipment port. In turn, the Emirates have banned exports to certain North African countries and to Libya. Egypt is recovering, but it remains unstable. In Jordan we mainly handle cargoes of tiles and some industrial materials. Then there’s Djibouti, a gateway to Ethiopia, where construction is booming and where we work with companies such as Salini and Ethiopian Shipping Lines.” How are you handling the low oil prices? “Our business is struggling along with the economies of these countries. The Arab countries rely exclusively on oil and gas. With the collapse of oil prices their governments have had to revise budgetary policies, the price of gasoline has increased, while the value of wages has dropped and many benefits are no longer offered by the state. Construction has slowed down, in some cases it has come to a complete halt and fewer lorries are seen on the streets. Today’s market is far more difficult than in the past.” Are there any positive signs? “The Emirates took a blow from the bursting of an economic bubble, but are now stable. Dubai remains an important market for oil derivatives. In Iran, it was thought that trade would resume after the sanctions had been lifted. However, resources are still limited, and no one can complete financial transactions through US banks. Iranians need liquidity, but the money is still stranded abroad. We haven’t seen the much awaited awakening yet. We used to offer a direct service to India, now we get there via feeder. Here freight rates have suffered more than in the neighbouring Middle East. Meanwhile traffic between the Middle and the Far East has grown.” Messina Line has signed alliance agreements with other companies, even big ones. “We started forming alliances with Italian companies 30 or 40 years ago. Since then, for example, we have maintained our partnership with Tarros in Algeria. In the last five years we have signed agreements of collaboration with large companies, particularly on routes towards West Africa. At the beginning, our business was split in two, ro-ro on one side and full containers on the other. With the drop in ro-ro traffic in West Africa (Nigeria introduced a high tax on rolling stock and saw a decline of 50%, but we know that even in Angola, where we are not present, the decline was as high as 70%) we focused on container traffic with Cosco, Zim, Arkas and others.” And the Middle East? “For now, we operate on our own, with new ro-ro vessels on more routes, in addition to our Suez service. The peculiarity of handling traffic in these markets, combining containers, general cargo and vehicles, is that it doesn’t favour collaborations, except in rare cases. If we were to focus on full-container services including the Gulf, it would be easier to create alliances with other companies. We have already examined this possibility.” L'AVVISATORE MARITTIMO V Giovedì 27 ottobre 2016 S PECIALE M IDDLE E AST L’ANALISI DI FILIPPO GALLO, DELL’UFFICIO DI PRESIDENZA DI FEDERAGENTI: «LA SITUAZIONE È CAMBIATA QUANDO SULLA SCENA È COMPARSO IL GAS» Traffici in calo con l’Italia, noli sempre ondivaghi Non è un mercato facile, quello del Medio Oriente: non ci sono punti di riferimento fissi L e spedizioni di container dall’Italia verso il Middle East sono diminuite del 6 per cento fra 2015 e 2016. I container partiti dal nostro paese nei primi otto mesi dell’anno sono stati 211.823, contro i 224.315 dello stesso periodo del 2015. E se il porto principale dell’area, Jebel Ali, ha visto un’impennata (da 51 a 58 mila teu) è forse dovuto alle nuove strategie di concentrazione dei traffici da parte delle compagnie; gli altri scali hanno invece registrato perdite anche pesanti: Jeddah da 49 a 43 mila teu fra 2015 e 2016, sempre nel periodo gennaio-agosto, Amman da 20 mila a 18.800, Abu Dhabi da 25 mila a 15.500. Tuttavia la dinamica dei noli marittimi, pur non positiva, è differente e con criticità minori in Medio Oriente rispetto a quella di un altro mercato in forte crisi dall’Europa, quello con il Far East. «E’ evidente - dice Filippo Gallo, rappresentante dell’ufficio di presidenza di Federagenti - che la geografia politica dei paesi arabi è mutata e continua a mutare. La loro importanza, dall’Arabia agli Emirati eccetera, era legata all’influenza dovuta alla produzione di petrolio. La situazione è cambiata da quando il gas ha acquisito quote di mercato importante rispetto a 10-15 anni fa, quando il petrolio la faceva da padrone. Questo ha condizionato le relazioni di dipendenza e l’importanza che i paesi arabi esercitavano sul mondo e quindi sul Mediterraneo. La Russia e i paesi ex-sovietici che producono gas hanno acquisito una fetta consistente del rifornimento mondiale». Per gli agenti marittimi, le dinamiche politiche internazionali incidono direttamente sui flussi di traf- fico che si distribuiscono sulle diverse rotte e quindi sui corrispondenti livelli dei noli per le navi, da cui derivano i principali introiti per la categoria. Gallo ha una profonda esperienza del mercato del Medio Oriente acquisita come agente in Italia di Uasc, la compagnia portacontainer dei paesi del Golfo Persico, con il Qatar come socio di maggioranza. «Il Qatar - spiega - è un produttore di gas. E’ un paese piccolo, ma influente, sede di banche e fondi d’investimento. Oltre alla sua presenza nel calcio, ha acquisito marchi importanti e si sta imponendo in tutto il mondo». Oltre alle considerazioni sui cambiamenti in atto nei paesi degli emiri, se ne aggiun- gono altre su paesi importanti come Iran e Iraq da un lato, Libia e Egitto dall’altro. «Egitto e Libia - ricorda Gallo - giocavano un ruolo importante nel nostro trading. Oggi non abbiamo quasi più export verso la Libia, né importazioni di petrolio dalla Libia». Insomma, i punti di riferimento vacillano continuamente, considerazione che vale altrettanto per due grandi paesi come Iran e Iraq. «L’Iran è molto fermo. L’embargo è quasi terminato, ma restano ancora molte restrizioni. Si fa fatica a vendere i prodotti italiani e a trasportarli là. Tuttavia c’è fermento e aspettiamo che la situazione maturi e porti frutti dal marzo del 2017». Peggiore la situazione del- l’Iraq, dove pure «tutto è fermo», ma per il momento senza prospettive di cambiamento. «Eppure il potenziale di questi paesi è importante. Ricordiamoci che hanno una forte densità di popolazione». I numeri del trade, come si è visto, sono in calo, una cosa che non si era mai vista in passato. «Dai numeri sempre positivi a cui eravamo abituati prima, con crescite di mercato importanti, siamo passati da un paio d’anni a una frenata del trading. Il potere d’acquisto di questi paesi è diminuito con il calo del prezzo del petrolio». Gallo spiega che questa situazione si fa sentire anche sui noli, il cui andamento è però diverso qui rispetto ad altre aree del mondo. «Certamente il calo del prezzo del petrolio e le difficoltà dei paesi del Medio Oriente incidono sui noli marittimi, che dallo scorso anno sono stabili. L’andamento è diverso rispetto al Far East, dove invece si registrano cali. Il Medio Oriente è un mercato a sé stante, che vede la presenza di tutti i grandi player. Fa eccezione il porto di Jeddah, proprio perché influenzato dai traffici con il Far East: qui i noli sono ondivaghi, c’è una pressione maggiore al ribasso». Per quanto riguarda gli episodi di pirateria e terrorismo, la preoccupazione per quanto riguarda il corretto funzionamento delle reti di approvvigionamento marittimo sono minori. «Pirateria e terrorismo non hanno influenza né sul mercato container né sulle cisterne sulle rotte con il Golfo. Ci sono costi maggiori, ma non sono preoccupanti. La situazione di conflitto incide enormemente sulla Libia e, in parte, sull’Egitto. Qui si percepisce la mancanza di fiducia che limita il livello degli acquisti». ANALYSIS Wars and inflation are undermining the economy of the entire area Immigration, Europe must invest on integration T he Middle East is caught between two wars. The Syrian conflict rages in the north and the one in Yemen to the south. For years the economies of those two countries have been on their knees, but the repercussions of those conflicts are now being felt by all the nations located between them, with “massive and persistent” economic damage. A recent report by the International Monetary Fund confirms this state of affairs; titled “The Economic Impact of Conflicts and the Refugee Crisis in the Middle East and North Africa”, the IMF study attempts to quantify the economic damage caused by the fighting. The analysis by the organization, which is headed by Christine Lagarde, concludes that those countries that are being battered by armed conflicts have suffered a “deep recession” (with average losses of almost two percentage points in GDP per year) combined with high inflation, not to mention a deteriorating fiscal and financial situation, and a weakening of their institutions. As for those states bordering the conflict zone, a decrease in real and perceived safety has been observed, coupled by a deterioration in social cohesion, which undermines trust in the institutions and their ability to undertake much-needed economic reforms. According to the IMF, these kinds of threats are extremely real, particularly in Lebanon, Jordan and Turkey. Bank of Mexico Agustín Carstens and IMF Managing Director Christine Lagarde attend the IMFC press conference The paper goes on to remind how “since the Second World War, countries in this region have experienced more frequent conflicts than in any other region of the world.” The IMF estimates that there are at least 10 million refugees present in the region currently. The numbers paint a very clear picture: in Syria, after four years of conflict, GDP has fallen to less than half of what it was in 2010. In Yemen, on the other hand, data points to a loss in GDP of between 25% and 35%, in 2015 alone. Over the long-term, these states risk following the pattern of what happened in the West Bank and the Gaza Strip, warns the report. A severe economic downturn is not the only devastating effect of war: inflation represents another threat to the population, as much as the contraction in economic activity. In Iraq and Afghanistan inflation soared to 30% in the opening years of the 21st century, in Yemen it has run at 15% since 2011. The Syrian case, however, is the “most extreme” one, with prices rocketing by 300% between March 2011 and May 2015. These inflationary processes often come associated with a sharp devaluation of the local currency. The collapse in GDP “increases in proportion to the duration of exposure to violence,” and the same goes for inflation, stresses the IMF report. As for the region’s neighbouring states, the IMF says that they suffered an annual decline in GDP of 1.9%, and an average increase in the inflation rate of 2.8%. But it’s not just economic indicators that fall prey to high-intensity conflict: the very credibility of institutions is affected. The IMF study looked at the EU, which, while not directly bordering the Middle East, is, nevertheless, the final destination of civilians fleeing the conflicts in that region. According to the IMF’s paper, the flow of migrants towards the EU (since 2014, 1.7 million have fled to EU Member States) is “undermining important achievements of the European project, such as the freedom of movement of people across national borders, and is contributing to a growing sense of insecurity.” Then, there is also the issue of increasing pressure brought on “public services, which were already in crisis,” by masses of refugees. However, according to the study, a properly regulated migration of “a number of refugees which is limited compared to the overall population, could have a much more positive effect on economic growth” in Europe, compared to what occurs in the least developed Middle East and North African host countries. L'AVVISATORE MARITTIMO VI Giovedì 27 ottobre 2016 S PECIALE M IDDLE E AST CAPITAL ECONOMICS E BNP PARIBAS PREVEDONO LA PRIMA CONTRAZIONE DELL’ECONOMIA DEL REGNO DAL 2009 La Vision opaca dell’Arabia Saudita Austerity e crisi energetica mettono in bilico il programma di affrancamento dal petrolio I l nuovo corso della politica economica dell’Arabia Saudita sta andando incontro a non poche difficoltà. Il primo anno del programma Vision 2030, pensato per ridurre la dipendenza del Paese dal petrolio, potrebbe chiudersi con una recessione, senza aver minimamente diminuito la percentuale del Pil che arriva dall’oro nero. Le misure di austerity introdotte per far fronte al calo del prezzo del barile hanno infatti penalizzato l’attività economica, mentre l’aumento della produzione di greggio, voluta da Riad per mettere fuori mercato il fracking Usa (e garantire sufficienti introiti per la macchina statale), ha fatto sì che l’economia petrolifera non facesse alcun passo indietro. È comunque presto per parlare di un fallimento del programma voluto dal principe Muhammad bin Salman, soprattutto ora che i corsi al rialzo petrolio potrebbero risolvere non pochi problemi in casa saudita. Secondo uno studio condotto da Bloomberg, quest’anno l’economia dell’Arabia Saudita crescerà dell’1,1%, mentre sia Capital Economics che Bnp Paribas prevedono la prima contrazione dal 2009. “Il peso sulle famiglie sta aumentando sempre di più”, spiega Jason Tuvey, economista responsabile del Medio Oriente della società Capital Economics di Londra. Vision 2030 prevede che, nell’arco di 15 anni, il Pil raddoppi con la creazione di 6 milioni di posti di lavoro nel settore privato, così da poter competere sui mercati internazionali in settori che non hanno niente a che vedere con l’industria petrolifera. Particolare attenzione sarà dedicata al settore finanziario e non è un caso che uno degli investimenti più importanti sia la costruzione, con un costo complessivo di 8 miliardi di dollari, del The King Abdullah Financial District, una “city” finanziaria nel cuore di Riyadh che vuole ospitare il nucleo economico del Paese. L’Arabia Saudita, che di recente è stata protagonista di importanti emissioni sul mercato obbligazionario e si appresta a privatizzare parte dell’Aramco, la mega compa- gnia petrolifera nazionale, vuole diventare la piazza finanziaria di riferimento per la regione mediorientale e per fare ciò è anche disposta ad aprire il primo del Paese proprio nel The King Abdullah Financial District. Per ora, però, hanno la meglio le difficoltà finanziarie. Già prima di annunciare il suo programma Vision 2030 ad aprile, il governo aveva aumentato il prezzo di carburante e utenze. Secondo alcune indiscrezioni starebbe ora valutando dei piani per cancellare progetti per oltre 18 miliardi di euro. Di recente, invece, stati sospesi i bonus e ridotte le indennità per i dipendenti del governo, lo stipendio dei ministri è stato tagliato del 20% e la Banca centrale del paese ha detto che sta immettendo circa 20 miliardi di riyal (4,8 miliardi di euro) nel sistema bancario per contrastare la contrazione della liquidità. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che nel 2017 il deficit di bilancio saudita scenderà sotto al 10% del Pil dall’esorbitante 16% dell’anno scorso. All’inizio di questo mese la Banca nazionale commerciale dell’Arabia Saudita, il più grande istituto di credito del Paese per risorse, ha comunicato che prevede un terzo trimestre in perdita. La probabile contrazione del Pil non legato al petrolio di quest’anno interromperà un periodo in cui la sua quota nell’economia complessiva del paese è aumentata stabilmente, arrivando nel 2015 a superare il 55%. La crescita, tuttavia, era stata alimentata dalla spesa pubblica, che a sua volta dipendeva dalle entrate derivanti dalle esportazioni di idrocarburi per gli investimenti in progetti infrastrutturali e la creazione di posti di lavoro pubblici per i cittadini sauditi. “Con i tagli alla spesa pubblica e le riforme fiscali, per quest’anno non vediamo da dove possa arrivare la crescita nei settori non legati al petrolio”, afferma Monica Malik, economista capo della Abu Dhabi Commercial Bank. Ad aprile bin Salman ha riconosciuto gli ostacoli a breve termine per la crescita dell’Arabia Saudita: “Nei primi anni non ci aspettiamo crescita perché sono gli anni delle riforme, ma per gli anni successivi ci aspettiamo una crescita molto alta”. A REPORT BY FILIPPO GALLO, FROM THE BUREAU OF FEDERAGENTI: “THE GAME CHANGER WAS GAS COMING INTO THE PICTURE” “Trade with Italy down, shifting freight volumes” The Middle East, a tough market: there are no fixed reference points C ontainer shipments from Italy to the Middle East decreased by 6 percent from 2015 to 2016. 211,823 containers departed from Italy in the first eight months of the year, versus 224,315 in the same period in 2015. And if the main port in the area, Jebel Ali, saw an increase (from 51,000 to 58,000 TEU), it is perhaps due to the lines’ new strategy of concentrating traffic; the other ports, on the other hand, recorded heavy losses: Jeddah from 49,000 TEU in 2015 to 43,000 TEU in 2016, also in the period from January to August, in Amman from 20,000 to 18,800 TEU, and Abu Dhabi from 25,000 to 15,500 TEU. However, the dynamic in maritime freightage rates in the Middle East, although not positive, is different and has fewer critical situations than in another market that is experiencing a series crisis, the East Asian freight market. “It is clear,” said Filippo Gallo, representative of the office of the president of Federagenti, “that the political geography of the Arab countries has changed and continues to change. Their importance, from Saudi Arabia to the United Arab Emirates and beyond, was linked to their influence due to the production of oil. The situation has changed since gas won a significant market share compared to 10-15 years ago, when oil ruled the roost. This conditioned the relationships of dependency and the role that Arab countries played in the world and therefore in the Mediterranean. Russia and the former Soviet countries that produce gas won a substantial share of the global market.” International political dynamics directly affect the flows of traffic that are distributed across the various routes and therefore also affect the corresponding levels of freight rates for ships, which are the major drivers of revenue for that category of shipping agent. Gallo has profound experience in the Middle Eastern market which he gained as an agent in Italy for UASC, the container carrier company of the Persian Gulf States, with Qatar as a majority shareholder. “Qatar is a gas producer,” he explained. “It is a small country, but influential, with bank and investment fund headquarters. Besides its presence in football, it has acquired major brands and is successful worldwide.” Besides considering changes under way in the Emirates, one must add other important coun- tries like Iran and Iraq on one hand, and Libya and Egypt on the other. “Egypt and Libya,” reminded Gallo, “played an important role in our trade. Today we hardly export to Libya, nor import oil from Libya.” In short, the most important points of reference are constantly changing, a principle which also applies to the two large countries, Iran and Iraq. “Iran is very solid. The embargo is almost over, but many restrictions remain in place. It is difficult to sell Italian products and to transport them there. But there is ferment, and we expect that the situation will ripen and bear fruit from March, 2017.” The situation in Iraq is worse, where in fact “everything has stopped,” and for the moment there are no prospects for change. “And yet this country has significant potential. We mustn’t forget that they have a high population density.” The trade numbers, as we have seen, have dropped, which has never happened in the past. “From the always positive numbers that we were accustomed to seeing be- fore, with significant market growth, we have had a couple of years in which trading has slowed. The purchasing power of these countries has decreased with the decreasing price of oil.” Gallo explained that this situation has also made itself felt in terms of freight rates, for which, however, the trend is different than in other areas of the world. “Certainly the drop in the price of oil and the difficulties of countries in the Middle East are affecting maritime freight rates, which have stabilised since last year. The trend is different than in East Asia, where decreases in traffic have been recorded. The Middle East is a distinct market, in which all the major players have a presence. The Port of Jeddah is the exception, precisely because it was influenced by traffic to the Far East: here freight rates have risen and fallen, but there is greater downward pressure.” In terms of episodes of piracy and terrorism, there are few concerns about the proper functioning of the maritime supply networks. “Piracy and terrorism have no influence either on the container market nor on tankers on routes to the Gulf. There are higher costs, but they are no cause for concern. The conflict has had an enormous effect on Libya and partly on Egypt. Here one perceives a lack of confidence that is limiting the level of acquisitions.” L'AVVISATORE MARITTIMO VII Giovedì 27 ottobre 2016 S PECIALE M IDDLE E AST IL PUNTO DI VISTA DEL PRESIDENTE DI SPEDIPORTO Genova-Medio Oriente, rapporto sempre più stretto Pitto: «Mercato non più legato solamente al petrolio, ma ai beni di consumo» P er gli spedizionieri genovesi il Medio Oriente è una delle destinazioni più frequentate. «Il terzo porto internazionale per volume di traffico di merce in movimentazione da Genova - spiega Alessandro Pitto, presidente di Spediporto, l’associazione delle case di spedizione di Genova - è quello di Jeddah e il settimo è Jebel Alì. Vuol dire che come destinazione il Medio Oriente è importante. In teoria nei primi posti della classifica c’è anche Port Said, che è sedicesimo, ma si tratta di uno scalo dedicato soprattutto al transhipment». Nella tabella stilata dall’Autorità portuale di Genova per il 2015, Jeddah è al terzo posto come provenienza o destinazione (3,72 per cento dei container movimentati nello scalo), Jebel Ali al settimo (2,64 per cento), Alessandria, in Egitto, all’undicesimo (1,83 per cento) e Port Said al sedicesimo (1,56 per cento). Pitto nota inoltre come, secondo i dati Istat 2015 sulle esportazioni dall’Italia (in cui sono comprese le diverse modalità di trasporto, non solo via mare) il Medio Oriente rappresenti un buon 5,2 per cento delle esportazioni nel 2015, su un totale dell’Asia pari al 15 per cento. Le economie dei paesi del Golfo Persico non stanno attraversando un momento brillante a causa del basso prezzo del petrolio. Uno studio pubblicato in Kuwait e ripreso dal giornale francese “Le Figaro” mostra che il deficit accumulato dalle sei monarchie del petrolio del Golfo raggiungerà nel 2016 i 153 miliardi di dollari contro i 119 miliardi di deficit del 2015. Nel 2013 le entrate da petrolio e gas erano di 735 miliardi di dollari, nel 2016 scenderanno a 330 miliar- di. Ma i paesi del Golfo restano un cliente importante per la produzione italiana. Il presidente degli spedizionieri genovesi dal canto suo è ottimista e cita il dato del Fondo monetario internazionale, secondo cui il Pil delle economie del Golfo salirà del 2,3 per cento nel 2017, quello dell’Iran del 3,7 per cento. E anche se riconosce che, per le merci in esportazione dall’Italia al Medio Oriente, «i prodotti chimici per il settore dell’oil and gas risentono del calo del prezzo del petro- lio», tuttavia «parecchi beni di lusso, tessili, mobili, prendono la via di Emirati e Dubai, dove edilizia e turismo sono in crescita. E anche il food italiano è molto richiesto». I dati Istat sul commercio estero italiano mostrano come il Medio Oriente non sfiguri rispetto al Far East, principale polo del commercio mondiale, per quanto riguarda le nostre esportazioni e che abbia un peso considerevole, sia pure minore, anche per quanto riguarda le importazioni. L’andamento però è altalenante, proprio a causa dei problemi che sta attraversando quest’area. Fra le aree geografiche di provenienza dell’import italiano, il Medio Oriente ha rappresentato nel 2015 un valore di 15,231 miliardi di euro, in calo rispetto ai 16,604 miliardi del 2014, a fronte di un aumento complessivo delle importazioni italiane (da 356,939 del 2014 a 368,715 miliardi di euro del 2015). Nel 2016 c’è stato un ulteriore calo. Nei primi cinque mesi, da gennaio a maggio, l’Istat registra un valore di importazioni di 4,793 miliardi di euro, contro i 6,639 miliardi dello stesso periodo del 2015. Quest’anno però il calo è generalizzato e le importazioni italiane sono diminuite con tutto il mondo (nei primi cinque mesi, da 155,031 a 151,547 miliardi di euro fra 2015 e 2016). In termini percentuali sul totale dell’import italiano, il Medio Oriente è calato dal 4,7 al 4,1 per cento fra 2014 e 2015 e, nei primi cinque mesi, da 4,3 a 3,2 per cento fra 2015 e 2016. Va tenuto conto che le importazioni riguardano in grande parte prodotti petroliferi, per cui anche a parità di tonnellaggio movimentato, influisce la variazione di valore del petrolio. Se poi si guarda all’export, la situazione è meno definita e il quadro non così chiaramente negativo, anzi. Fra 2014 e 2015 c’è stato un aumento in termini di valore, mentre fra 2015 e 2016 il calo non è stato così vistoso come per le importazioni. Fra le aree geografiche di destinazione delle esportazioni italiane, il Medio Oriente ha rappresentato nel 2015 un valore di 21,543 miliardi di euro, in aumento rispetto ai 19,867 miliardi del 2014, in linea con un aumento complessivo delle esportazioni italiane (da 398,870 del 2014 a 413,881 miliardi di euro del 2015). Nel 2016 c’è stato un calo. Nei primi cinque mesi, da gennaio a maggio, l’Istat registra un valore di esportazioni di 8,086 miliardi di euro, contro gli 8,743 miliardi dello stesso periodo del 2015. Quest’anno le esportazioni italiane nel mondo sono aumentate (nei primi cinque mesi, da 170,100 a 170,217 miliardi di euro fra 2015 e 2016). In termini percentuali sul totale dell’export italiano, il Medio Oriente è cresciuto dal 5,0 al 5,2 per cento fra 2014 e 2015, mentre nei primi cinque mesi è calato da 5,1 a 4,8 per cento fra 2015 e 2016. «Il Medio Oriente - conclude Pitto - non è più legato soltanto al mercato petrolifero, ma diventa anche destinazione di beni. Per il made in Italy è un mercato di riferimento. Il prezzo del petrolio si sta riprendendo e paesi come gli Emirati tentano di diversificare la propria economia, anche se sicuramente prezzo del petrolio e conflitti (Iraq, Siria, Yemen, Libia) hanno influito sui traffici». FOCUS Il caso dell’export alimentare italiano: quando pasta e macchinari riescono a fare sistema L e esportazioni italiane di prodotti alimentari continuano a crescere, raggiungendo 21 miliardi di euro nel 2015. Lo si legge in un rapporto Sace. L’apprezzamento dei nostri beni alimentari tradizionali non è una novità ma è meno nota la loro funzione di traino per le altre eccellenze del sistema produttivo italiano. I macchinari sono una di queste. Collegati alla vendita dei prodotti alimentari, ci sono infatti i macchinari per la trasformazione, l’altra faccia – meno nota ai consumatori – della stessa medaglia. Basti pensare che nel 2015 l’Italia ha esportato macchinari per oltre 3 miliardi di euro, rivelando una crescita del 6,3% che molto si avvicina al tasso con cui sono cresciuti gli alimentari che con questi si producono (+6,8%). Si tratta di macchinari specifici e con un uso piuttosto circoscritto, quindi non deve stupire se rappresentano una quota modesta del totale della meccanica strumentale italiana nel mondo (circa il 4%). I macchinari per la trasformazione alimentare sono stati, tra l’altro, tra quelli con una crescita più sostenuta: più che doppia rispetto al totale della meccanica strumentale nell’ultimo anno (+2,7%). Dei 21 miliardi di euro di beni alimentari esportati nel 2015, la metà ha riguardato solamente tre prodotti: pasta, vino e formaggi. La crescita delle vendite all’estero non solo ha tenuto il passo con l’andamento mondiale degli ultimi anni, ma è riuscita anche a fare meglio nei formaggi e nel vino. Questi due comparti hanno registrato una performance superiore a quella dei concorrenti francesi e tedeschi, il cui dinamismo è stato invece limitato, ottenendo una maggiore quota nel mercato mondiale. Tutt’altra storia per gli Stati Uniti, in cui le vendite di questi prodotti sono cresciute a ritmi elevati guadagnando fette di mercato, anche se i valori esportati continuano a essere ridotti. Un caso particolare riguarda la pasta, in cui l’Italia continua a essere il primo produtto- re ed esportatore mondiale, mantenendo a distanza Cina, Turchia, Thailandia e Stati Uniti, che seguono nella classifica dei top exporter. La differenza nei tassi di crescita con alcuni dei nostri competitor va letta in un quadro di crescente interesse per questo alimento e quindi anche di maggiore attrattività per i produttori non tradizionali. Questo andamento e la competizione con le economie emergenti è anche indice di una ricerca da parte dei consumatori non solo della pasta di maggiore qualità, e quindi di fascia di prezzo più elevata come quella italiana, ma anche di varianti più economiche. Ma come si producono questi alimenti? Oltre alla materia prima, fondamentale, l’esperienza e la conoscenza, l’utilizzo di macchinari specifici è indispensabile per un prodotto esclusivo. Le vendite all’estero di macchinari mostrano, sempre per il periodo 2007-2015, un andamento diverso rispetto a quella dei prodotti alimentari, con tassi di crescita negli scambi più contenuti se non addirittura in contrazione. Dal 2007, infatti, la domanda glo- bale di macchinari per la produzione di formaggio e vino è in calo. L’export di macchine tedesche per formaggi e latticini (terzi produttori a livello mondiale) si è dimezzato nel 2015 rispetto al 2007. Come per i prodotti alimentari, le esportazioni di macchine americane segnano un’inversione di rotta rispetto all’andamento mondiale. Le esportazioni italiane di macchine per la produzione di formaggi, pasta e vino emergono, invece, più solide rispetto ai vicini di casa tedeschi e francesi. Se negli ultimi anni i trend di crescita degli alimentari e relativi macchinari hanno seguito andamenti diversi, a riprova del fatto che non necessariamente esiste una correlazione forte tra le esportazioni dei due settori, è tuttavia importante rilevare che, in un’ottica sistemica, l’andamento all’estero degli uni può segnalare opportunità di sviluppo per gli altri e viceversa. Possiamo allora considerare i prodotti alimentari e le macchine dedicate alla loro produzione come due facce della stessa medaglia? In un approccio di filiera, la possibilità di fare sistema tra le eccellenze produttive italiane apre nuove possibilità nell’identificazione delle geografie di opportunità e nuove strade nell’espansione nei mercati esteri. L’ampliamento del mercato dei prodotti alimentari non deriva solo da un maggiore domanda dei beni stessi, ma può derivare anche dalla vendita dei macchinari specializzati in quella produzione, e viceversa. Analizzando l’andamento delle nostre esportazioni negli ultimi anni dei macchinari per la produzione di formaggi, pasta e vino e dei relativi prodotti alimentari in alcune delle geografie più promettenti per la crescita delle nostre vendite – Cina, India, Messico e Stati Uniti –, alcune tendenze appaiono chiare. C’è una chiara relazione tra prodotto venduto e macchinario necessario alla sua produzione per tutti e quattro i Paesi nel caso dei formaggi e, più in generale, per tutti i prodotti considerati esportati verso Cina e Messico. L'AVVISATORE MARITTIMO VIII Giovedì 27 ottobre 2016 S PECIALE M IDDLE E AST SAT NAV AND FREIGHT SOFTWARE: SHIPPING SECTOR’S WEAK POINTS Being at sea turns out to be risky So far fewer than ten hacker attacks, international guidelines being studied by UN W orldwide, 90% of freight is transported by sea, and ferries transport 2.1 billion passengers annually, plus another 24 million travel aboard cruise ships. While a confusing array of national and international regulations, focused mainly on safety and pollution (criteria easily translated into dollarsand-cents by the industry) regulate merchant shipping and port facilities, however, in terms of cyber security, the International Maritime Organization (the UN’s maritime safety agency) is still struggling to come up with a draft law, and for now makes do with a set of non-binding guidelines for the main international organizations in the sector. A study by the University of Coventry highlights that 67% of Company Security Officers (CSOs) within shipping companies felt cyber security was not a serious threat to international shipping, and, furthermore, 89% of CSOs did not believe cyber security was their responsibility. In Italy, just as elsewhere in the world - in March this year Homeland Security described US ports as “poorly equipped” against attacks by hackers - there is no global shield in place to protect computer network systems in port terminals, port stakeholders (agents, freight forwarders, hauliers, tugs, pilots, boatmen, stevedores), government agencies, safety authorities and shipowners: each protect themselves separately. “Until now,” says Philip Roche, a partner at London law firm Norton Rose Fulbright, “cyber-attacks have not been perceived by the This general view shows the Keppel container port in Singapore maritime sector as something that presents a risk of physical harm,” as, for example, happens conversely with a ship that sinks or a crane that collapses. “Instead, as ships and terminals are increasingly computerized, there are increasing risks of something going wrong. The threats do not always come from hackers: shipboard systems are connected to one common network, and it would only take a shipping agent’s laptop containing some hidden malware to create problems.” In addition, up to now, the few actual cyber-attacks at sea have not produced victims nor caused great economic losses to businesses, and overall they number less than ten: too few to create widespread awareness. The weak points of port termi- nals can be seen in the inset above. A ship has at least 15 on-board systems controlled by a computer. Presently, as noted by Yohan Le Godinec of TECNITAS, who spoke at IUMI, the huge world congress of maritime insurers that was held in Genoa last month, a ship’s weakest point for cyber-attacks is the on-board GPS system; this controls radio trackers, digital maps and electronic compasses. In 2013, a group of students from the University of Austin managed to tamper with the GPS of a yacht, the White Rose of Drachs, while off the coast of western Liguria: her sailors thought they were charting a straight course, while in fact they zigzagged for hours in open waters. The equipment to conduct a hack such as that costs less than $3,000. Over a two-year period, between 2011 and 2013, a criminal organization targeted the locators of unloaded containers at Antwerp, managing to retrieve smuggled cocaine contained inside boxes, before the containers were handed over to the legitimate receiver. Other weak points: the AIS (Marine Automatic Identification System), the technology that identifies in real time the position of all ships in the world, “can be used, basically, as a shopping list by pirates,” or by anyone who wants to attack a ship, emphasized Le Godinec. He also described two instances of oil rigs tilting, one of a customs system failure (Australia, 2012) and two computer failures at the terminals for system updates, in Genoa and New York in 2013. It truly is a world without borders. L'AVVISATORE MARITTIMO IX Giovedì 27 ottobre 2016 S PECIALE M IDDLE E AST INDICATORI POSITIVI PER LE MONARCHIE DEL GOLFO PERSICO. MA A SORPRESA IL TURISMO REGISTRA UNA FRENATA Economia diversificata: gli Emirati non soffrono L’affrancamento dalla monocoltura dell’industria petrolifera porta frutti N on tutti i grandi produttori di petrolio sono stati colpiti duramente dal crollo del barile. Gli Emirati Arabi Uniti, per esempio, sono riusciti ad attenuarne l’impatto grazie agli sforzi fatti negli ultimi anni per diversificare la propria economia. “Da decenni gli Emirati investono in infrastrutture, trasporti, servizi finanziari, commercio e costruzioni, al fine di rafforzare il livello di diversificazione dell’economia - certifica Seltem Iyigun, economista per la regione Mena di Coface - Tale diversificazione si è rivelata indispensabile da quando, a metà del 2014, i prezzi del petrolio sono crollati. Nel 2015, la quota degli altri settori nel Pil ha raggiunto il 75% circa, contro il 65% a metà degli anni 2000”. Secondo l’esperto dell’equivalente francese dell’italiana Sace “l’economia degli Emirati Arabi Uniti è la più diversificata della regione del Golfo. Il livello relativamente alto di diversificazione economica l’ha resa meno vulnerabile agli shock dei prezzi petroliferi; questi sforzi hanno permesso al governo di avere solidi strumenti di sicurezza finanziaria tali da continuare a sostenere gli altri settori, come l’immobiliare, le costruzioni, il commercio, le vendite al dettaglio e il turismo”. Oltre a questa diversificazione, gli Emirati Arabi Uniti beneficiano di una stabilità politica e di un solido sistema finanziario, due fattori che consentono a Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Fujaira, Ras al-Khaima, Sharja e Umm al-Qaywayn di continuare ad attirare gli investitori internazionali. Inoltre, i consumi delle famiglie sono rimasti stabili, grazie a una liquidità abbon- dante, a tassi di interesse bassi e alle continue entrate da turismo. A febbraio 2016, i prestiti concessi al settore privato sono aumentati dell’8,5% in un anno. La diversificazione dell’economia ha infine evitato che il calo del petrolio aves- se forti ripercussioni sul piano occupazionale. Negli Emirati Arabi, le vendite al dettaglio hanno raggiunto i 173 miliardi di dirham (43 miliardi di euro) nel 2014, con un aumento del 6% rispetto al 2013. Nel 2016, le spese totali delle famiglie dovrebbero raggiungere i 267,1 miliardi di dirham (66 miliardi di euro), contro una previsione di 241,8 miliardi (59 miliardi di euro) per il 2015. Tale crescita sarà sostenuta da un alto livello di redditi disponibili e una base stabile di consumato- ri benestanti, alimentata dagli abitanti locali, dagli espatriati e dai turisti. Iyigun stima che “il settore della distribuzione attiri attualmente il 23% delle entrate totali di investimenti diretti esteri negli Emirati. Malgrado la saturazione, il settore distributivo offre sempre possibilità di investimenti, sostenuti dalle infrastrutture robuste, dall’ambiente ricettivo e da progetti di sviluppo giganteschi”. Pur essendo la situazione generale complessivamente buona, ovviamente i problemi non mancano. L’aumento degli affitti sta restringendo i margini di profitto e il calo continuo dei prezzi del petrolio potrebbe, a lungo termine, destabilizzare gli investimenti in questo settore. Anche le banche devono affrontare un peggioramento delle condizioni di liquidità e una mancanza di dollari, a causa del crollo dei depositi da parte delle amministrazioni pubbliche in seguito alla diminuzione dei prezzi del petrolio. Il turismo, inoltre, è sotto pressione a causa del deprezzamento del rublo russo e dell’euro. Negli Emirati, le somme spese dai visitatori ammontavano a 23,5 miliardi di dollari nel 2014 e a 26 miliardi nel 2015, un valore che rappresentava il 60% delle esportazioni di servizi e il 5,4% del totale delle esportazioni, merci e servizi compresi. Tale dato dovrebbe aumentare del 3,3% nel 2016, dal momento che il Paese prevede di accogliere più di 15 milioni di visitatori esteri. “Per favorire la costruzione di strutture alberghiere di categoria media, il governo ha deciso di esonerare dal pagamento delle tasse locali per un importo pari al 10% (per una durata iniziale di 4 anni, a partire dalla data di rilascio della concessione edilizia) le costruzioni iniziate tra il 2013 e il 2017 - conclude Iyigun - Tuttavia, persistono alcuni problemi; nei primi due mesi del 2016, a Dubai l’occupazione degli hotel non è aumentata rispetto all’anno precedente, ferma all’84%”. CAPITAL ECONOMICS AND BNP PARIBAS PREDICT FIRST CONTRACTION OF THE ECONOMY FOR THE KINGDOM SINCE 2009 Saudi Arabia’s lack of Vision: austerity and the energy crisis risk derailing programmes to move away from dependence on oil T he path of Saudi Arabia’s new economic policy is running up against considerable difficulties. The first year of the Vision 2030 Programme, which was intended to reduce the country’s dependence on petroleum, could have ended in a recession, without having the slightest effect on the percentage of the GDP that comes from oil. The austerity measures introduced to cope with the drop in oil prices have in fact penalised economic activity, while the increase in the production of crude oil, which Riyadh wanted in order to shut U.S. fracking oil out of the market (and ensure sufficient income for the state machine), had the result that the country’s oil dominated economy made no steps forward. However, it is too soon to speak of a failure of the programme created by Prince Mohammad bin Salman, especially now that upwards trending oil prices could resolve many of Saudi Arabia’s problems. According to a study conducted by Bloomberg, this year the Saudi economy will grow by 1.1%, while both Capital Economics and BNP Paribas predict the first contraction since 2009. “The effect on families continues to become more and more serious,” Jason Tuvey explained. Tuvey is head economist for the Middle East at the London-based company Capital Economics. Vision 2030 calls for GDP to double over the course of 15 years, with the creation of 6 million jobs in the private sector, as well as being able to compete on international markets in sectors that have nothing to do with the oil sector. Particular attention will be paid to the financial sector, and it is not by chance that one of the most important investments is the construction of the King Abdullah Financial District, with an overall cost of $8 billion. The district is a “city” at the core of Riyadh that has been designed to play host to the country’s economic centre. Saudi Arabia, which recently completed a significant bond issue and is rushing to privatise part of Aramco, the enormous national oil company, wants to become the “Wall Street” of the Middle East and is ready to make that happen at the King Abdullah Financial District. But for the moment, financial difficulties are winning out. Before announcing the Vision 2030 Programme in April, the government increased the price of fuel and utili- ties. According to leaks they are now considering plans to cancel projects worth over €18 billion. And recently, bonuses were suspended and benefits for government employees were reduced, salaries for ministers were cut by 20% and the country’s central bank said that it is feeding about 20 billion Saudi Riyal (€4.8 billion) into the banking system to fight the con- traction of liquidity. The International Monetary Fund predicts that in 2017 the Saudi budget deficit will drop under 10% of GDP from the exorbitant 16% the previous year. At the beginning of this month, the Saudi National Commercial Bank, which is the largest credit institution in the country in terms of funds, announced that it expects losses in the third quarter. The likely contraction in GDP not-linked to oil this year will interrupt a period in which its share in the country’s economy as a whole regularly increased, reaching over 55% in 2015. The growth, however, was fed by public spending, which in turn depended on revenue from hydrocarbon exports for investments in infrastructure projects and the creation of publicsector jobs for Saudi citizens. “With the cuts to public spending and the fiscal reforms, for this year we do not see where the growth in the non-oil linked sectors could come from,” stated Monica Malik, the chief economist of the Abu Dhabi Commercial Bank. In April, bin Salman recognised the short term obstacles to Saudi Arabia’s growth: “In the first years we do not expect growth because they are years of reforms, but for the years that follow we expect very high growth.” L'AVVISATORE MARITTIMO X Giovedì 27 ottobre 2016 S PECIALE M IDDLE E AST FOCUS Israele, la forza miliardaria delle start-up Nel 2015 hanno attirato investimenti per 9 miliardi, riducendo l’effetto negativo del calo dell’export S econdo i dati resi noti dal Central Bureau of Statistics (CBS), la crescita del Pil in termini reali per il 2015 in Israele è stata del 2,5%. Sull’economia israeliana pesa in particolar modo la caduta delle esportazioni, causata dalla crisi economica globale e dal continuo apprezzamento della valuta locale (Shekel). Il flusso degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) nel 2015 è stato di 12 miliardi di dollari, pari al 4,1% del Pil, ritornando cosi ai livelli del 2013 (12,4 miliardi) dopo un deludente 2014 (poco più di 6 miliardi). Sul fronte delle Fusioni&Acquisizioni, il bilancio resta ampiamente positivo, registrando una crescita delle acquisizioni da parte di Stati Uniti e Regno Unito. Nel 2015 le start-up israeleiane hanno attirato investimenti per oltre 9 miliardi di dollari, con un incremento del 16% rispetto al 2014. II deficit della bilancia commerciale nel 2015 si è quasi dimezzato rispetto al 2014: a un calo del 14,24% delle importazioni (61,302 miliardi di dollari), è corrisposta una riduzione del 7,35% delle esportazioni (53,427 miliardi di dollari), a causa della crisi economica globale e di un brusco calo dell’export di diamanti lavorati, mitigato in parte da una forte crescita dell’export di prodotti di alta tecnologia. L’84% dell’export israeliano del 2015 è stato costituito da prodotti dell’industria manifatturiera (esclusi i diamanti) e in particolare di prodotti ad alto contenuto tecnologico che costituiscono il 50% dell’export di quel segmento. I prodotti che hanno registrato il tasso di crescita più alto, nell’ambito delle esportazioni high-tech, sono quelli dell’industria aereo-spaziale, seguiti da quelli dell’elettronica, computer e strumentazioni ottiche e dell’industria farmaceutica. Si sono invece contratte le esportazioni di beni a medio-alto valore tecnologico (in particolare i prodotti chimici) e quelle di diamanti lavorati (-20,6%) e di prodotti agricoli (-16,1%). Sul fronte delle importazioni, il più vistoso calo (in valore, ma non in quantità) è stato quello dei carburanti (-42%). Sono ugualmente diminuite (-26,8%) le importazioni di diamanti grezzi. Le importazioni di materie prime (esclusi idrocarburi), che costituiscono il 37,5% dell’import, sono costituite principalmente da prodotti per l’industria manifatturiera ed elettronica e prodotti chimici. Le importazioni di beni di consumo si sono attestate al 16,7% delle importazioni totali e sono essenzialmente rappresentate da mobili ed apparecchi elettrici, prodotti alimentari, abbigliamento e calzature. Le importazioni di beni strumentali, pari al 12,7% dell’import totale, sono costituite principalmente da macchinari ed impianti. L’Unione europea permane il primo partner commerciale di Israele: primo fornitore, con una quota del 37,8%, seguita dall’Asia (23,5%) e dagli Stati Uniti (13,5%). I principali fornitori di Israele (esclusi i diamanti) sono gli Stati Uniti, la Cina, la Germania, la Svizzera e l’Italia che si conferma terzo fornitore europeo. Seguono Turchia, Paesi Bassi, Regno Unito e Belgio. Anche sul fronte delle esportazioni israeliane (diamanti esclusi), l’Unione europea rappresenta il primo mercato di sbocco per Israele, con una quota del 29%, seguita Un ufficiale della Marina israeliana nel porto di Haifa dall’Asia (25%) e gli Stati Uniti (24%). I principali clienti di Israele sono gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Cina e i Paesi Bassi. L’Italia è l’undicesimo cliente di Israele. Il Bilancio dello Stato ha registrato un deficit contenuto pari al 2% del Pil determinato dalla tardiva approvazione della legge del Bilancio che ha obbligato tutti i Ministeri ad operare in regime provvisorio. La Banca Centrale, nel tentativo di frenare le spinte deflazionistiche (a settembre 2015, l’indice dei prezzi al consumo è diminuito dello 0,5% su base annua), continua a mantere il tasso d’interesse allo 0,1%. Il tasso di disoccupazione è passato dall’8,3% del 2010 al 5,3% del 2015. ll mercato israeliano, nonostante le sue piccole dimensioni, si conferma di grande interesse per l’Italia. Analogamente, quello italiano e’ spesso considerato strategico per imprese israeliane che cercano nuovi sbocchi sul mercato UE, grazie alla vicinanza geografica e culturale. La collaborazione con l’industria italiana, viene sempre più considerata dagli ambienti hi-tech israeliani come un naturale complemento nel passaggio dalla fase di ricerca e brevettazione a quella di realizzazione e commercializzazione dei prodotti finiti. Occorre ricordare infatti che il tessuto industriale israeliano non è molto articolato, con l’ovvia eccezione del settore della difesa. L’Italia è quindi vista come un valido partner nella fase di industrializzazione dei prodotti e delle tecnologie, grazie alla diversificazione, flessibilità ed estensione del nostro sistema industriale. Contestualmente negli ambienti imprenditoriali italiani è cresciuta la consapevolezza del rilievo assunto dall’high-tech israeliano e delle opportunità che offre. In questo quadro, i rapporti economici bilaterali tra Italia ed Israele hanno visto affiancarsi al volume di scambi tradizionalmente cospicuo un flusso crescente di iniziative volte a stimolare la cooperazione scientifica, tecnologica e finanziaria tra i due Paesi. Oltre alle industrie tradizionali come ad esempio quella della plastica, dei minerali e della chimica, Israele vanta un’eccellente reputazione nei settori legati all’hi-tech, biomedicina, innovazione agricola, security e energie rinnovabili, tutti settori legati all’innovazione tecnologica. Particolarmente promettente è la cooperazione nel settore dell’energia e dell’acqua, tra i temi qualificanti del Vertice di Roma del 2 dicembre 2013, quando è stata firmata una Dichiarazione sulla collaborazione bilaterale in tale settore. Di particolare interesse sono i contatti per verificare la possibilità che l’Italia costituisca in futuro l’hub principale per il transito verso l’Europa centrosettentrionale del gas israeliano destinato all’esportazione. E’ utile menzionare in questo contesto, l’incontro che l’Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi ha avuto recentemente a Gerusalemme con il Priemier Israeliano, Netanyahu ed il Ministro delle Infrastrutture e dell’Energia Steinitz, per discutere su possibili sinergie e sul potenziale sviluppo congiunto del settore gas naturale nel Mediterraneo, per quanto riguarda le infrastrutture di trasporto e distribuzione. FOCUS Export italiano, gli Emirati Arabi si confermano tra i principali partner delle aziende italiane G li Emirati Arabi si confermano il principale mercato di sbocco delle esportazioni italiane nell’area Mena. L’Italia si posiziona all’ottavo posto in assoluto tra i paesi fornitori degli Eau e terzo tra i partners europei. Nel 2015 l’interscambio ItaliaEau ha registrato un trend molto positivo, durante il quale diversi sono stati i record segnati, a testimonianza degli effetti positivi del basso valore dell’Euro rispetto alla valuta locale, da oltre un ventennio ancorata a tasso fisso al Dollaro Usa. Di record si è trattato, infatti, non solo per il nostro export, che ha superato quota 6 miliardi di euro (circa 6,19 miliardi), ma anche per l’interscambio totale (oltre 7 miliardi di euro) e per il surplus della bilancia commerciale (oltre 5,3 miliardi di euro). In particolare, il comparto orafo e della bigiotteria si è confermato quale principale contributo singolo delle nostre esportazioni in questo Paese, pur segnando una contrazione del 11% (con un valore di oltre 1 miliardo di euro) e superato, in aggregato, dal comparto dei macchinari, vicino agli 1,2 miliardi di euro. Al terzo posto i raffinati del petrolio, in crescita del 30% rispetto al 2014. Passando alle importazioni, esse hanno fatto segnare un +35,5% pari ad un valore complessivo di oltre 850 milioni di euro, dovuto essenzialmente al comparto dei prodotti raffinati del petrolio (331 milioni di euro). I dati dei primi cinque mesi del 2016 segnano invece una flessione del 13,8% del nostro export , che ha totalizzato circa 2,2 miliardi di euro, con un incremento del 14.4% per il nostro import, pari a circa 342 milioni di euro. Guardando alle singole voci, si osserva che l’effetto deprimente sul totale dell’interscambio è ascrivibile al comparto gioielleria (-17,5%), che conferma la flessione settoriale registrata nel 2015 ascrivibile probabilmente alla contrazione dei flussi turistici provenienti in parti- colare da Fed. Russa e Cina, nonché della perdita, almeno temporanea, per i rivenditori Eau di importanti mercati mediorientali o nordafricani, segnati da conflitti o profonde tensioni socio-economiche. A tale flessione si aggiunge quella del comparto dei prodotti petroliferi raffinati (-71,4%), che risentono in maniera netta dell’andamento sfavorevole dei prezzi del greggio e del relativo rallentamento di questa economia. Si afferma, al contra- rio, la progressione di molti altri settori di punta del “made in Italy” quali Macchine di impiego generale (+30,1%), Motori, generatori elettrici, ecc.(+52,2%), Altre macchine di impiego generale (+10%), Altre macchine per impieghi speciali ( +8,4%) e Mobili (+18,3%), a testimonianza della vitalità delle produzioni italiane e della loro capacita’ di raccogliere il consenso degli acquirenti locali, a maggior ragione in una fase di crescente diversificazione economica ed allargamento della base manifatturiera. Sotto il profilo del nostro import, e’ invece importante sottolineare come gran parte dell’inatteso incremento sia di fatto riconducibile al comparto “metalli di base preziosi ed altri metalli non ferrosi” (euro 196 milioni +116,3%). Un dato che lascia ben sperare in una ripresa del nostro export del comparto “gioielleria”: i produttori italiani, che operano in questo merca- to essenzialmente come contoterzisti per le grandi catene orafe indiane e/o pakistane, sembrerebbero infatti aver aumentato l’acquisto di materia prima in vista di un previsto incremento degli ordinativi. La presenza imprenditoriale italiana negli Emirati Arabi Uniti è altamente qualificata ed è rappresentata da oltre 600 aziende onshore operanti tra unità con propria filiale e molte altre che operano tramite agenti locali. Il potenziale per le produzioni ed i servizi italiani sul mercato rimane alto potendo comunque beneficiare della presenza nel Paese di un elevato reddito pro-capite e di una ricchezza petrolifera che durerà almeno per i prossimi 100 anni. Di fatto gli Emirati Arabi Uniti rimangono una delle più dinamiche realtà dell’intera regione, con una crescita economica che è stata particolarmente intensa nel periodo compreso fra il 2005 e il 2008, per poi rallentare a partire dalla fine del 2008 - in coincidenza con la fase di recessione della crisi debitoria della holding pubblica Dubai World - ed infine riprendere dal 2013. Tuttavia, la recente stagnazione del mercato petrolifero ed il rallentamento della domanda mondiale, unitamente all’indebolimento delle entrate fiscali e della liquidità bancaria, stanno producendo effetti calmieranti sul tasso di crescita del PIL reale del paese. Grandi opportunità di business potranno essere colte sul percorso verso l’Expo di Dubai del 2020. L'AVVISATORE MARITTIMO XI Giovedì 27 ottobre 2016 S PECIALE M IDDLE E AST SISTEMI SATELLITARI E SOFTWARE AZIENDALI I PUNTI DEBOLI DEL SETTORE Anche il mare scopre di essere vulnerabile Finora meno di 10 attacchi hacker, l’Onu studia una legge internazionale N el mondo, il 90% della merce viaggia via mare, i traghetti trasportano ogni anno 2,1 miliardi di persone cui si aggiunge una quota di 24 milioni di passeggeri a bordo delle navi da crociera. La navigazione commerciale e le strutture portuali sono dominate da una selva di regole nazionali e internazionali, fortemente centrate su sicurezza e inquinamento (fattori monetizzati dal mercato dei noli) mentre sul fronte della cyber-sicurezza l’Organizzazione marittima internazionale (l’Onu dei mari) è ancora alle prese con la bozza di legge, cui per ora supplisce un codice di auto-regolamentazione delle principali organizzazioni internazionali di settore. Un’indagine dell’Università di Coventry sottolinea che il 67% dei responsabili della sicurezza delle compagnie di navigazione ritiene che la cyber-sicurezza non sia una minaccia seria per le aziende e comunque l’89% pensa che non sia questione di loro competenza. In Italia come nel mondo - a marzo di quest’anno è stata l’Homeland Security a definire i porti Usa «scarsamente attrezzati» sul fronte hacker - non esiste uno scudo globale che preveda la protezione della rete informatica tra terminal portuali, società di servizi (agenti, spedizionieri, autotrasportatori, rimorchiatori, piloti, ormeggiatori, scaricatori), enti pubblici, autorità di sicurezza e armatori: ogni soggetto ha le proprie difese in autonomia. «Sinora - spiega Philip Roche, partner a Londra dello studio legale Norton Rose Fulbright - nel settore marittimo il cyber-attacco è percepito come qualcosa che non deter- mina rischi fisici» al contrario per esempio di una nave che affonda o una gru che cade. «Invece, su navi e terminal sempre più infor- matizzati, il rischio di comprometterne l’attività cresce. Non sempre si tratta di hacker: i sistemi sono in rete, basta il pc di un agente marittimo infettato da un virus per creare problemi». Inoltre, fino a questo momento i pochi cyber-attacchi in mare non hanno prodotto vittime né causato grandi perdite economiche alle aziende, e complessivamente sono risultati inferiori alla decina: troppo poco per creare una sensibilità diffusa. I punti deboli di un terminal portuale si possono vedere nell’infografica qui sopra. Una nave a sua volta ha almeno 15 punti controllati da un sistema informatico. Per ora, come rilevato da Yohan Le Godinec della società Tecnitas, intervenuto allo Iumi, il maxi-congresso mondiale degli assicuratori marittimi che si è tenuto il mese scorso a Genova, il punto debole degli attacchi informatici è la rete satellitare Gps (Global Positioning System) su cui si basano geolocalizzatori, mappe digitali e bussole elettroniche. Nel 2013, al largo del Ponente ligure, un gruppo di studenti dell’Università di Austin sono riusciti a manomettere il Gps dello yacht “White Rose of Drachs”: i marinai credevano di andare dritti, in realtà hanno fatto zig-zag per ore in mare aperto. L’operazione è costata meno di 3.000 dollari. Per due anni, tra 2011 e 2013 un’organizzazione criminale ha preso di mira i localizzatori di alcuni container scaricati ad Anversa, riuscendo a togliere la cocaina che si trovava dentro questi cassoni prima che venissero presi in consegna dal ricevente legittimo. Ancora: l’Ais, il sistema radar-satellitare che identifica in tempo reale la posizione di tutte le navi del mondo, «è in pratica la lista della spesa per i pirati» o chiunque voglia assaltare una nave, sottolinea Le Godinec. Due i casi di tilt di piattaforme petrolifere, uno di blocco del sistema doganale (Australia, 2012) due blocchi informatici nei terminal per l’aggiornamento dei sistemi operativi, a Genova e New York nel 2013. Davvero qui non esistono frontiere. L'AVVISATORE MARITTIMO XII Giovedì 27 ottobre 2016 S PECIALE M IDDLE E AST ANALISI Commercio, saldo il legame Italia-Giordania Nei primi 5 mesi del 2016 le esportazioni italiane hanno registrato un trend positivo L a presenza economica italiana in Giordania si caratterizza tradizionalmente più sul profilo commerciale che quello degli investimenti produttivi. Nei primi 5 mesi del 2016 le esportazioni italiane hanno registrato un trend positivo nei seguenti settori, rispetto allo stesso periodo del 2015,: +12,7% prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici; +37,5% prodotti dell’agricoltura, pesca e silvicoltura; +31,7% articoli in pelle escluso abbigliamento; +39% altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi; +682,3% prodotti in metallo esclusi macchinari ed attrezzature; +128,6% computer e prodotti di elettronica ed ottica ed apparecchi elettromedicali; +58,7% apparecchiature elettriche ed apparecchiature per uso domestico non elettriche; +24,6% prodotti delle altre industrie manifatturiere. I trend negativi si sono registrati, invece, nei seguenti settori: - 60,1% prodotti delle miniere e delle cave; -28,2% bevande; 32,4% legno e prodotti in legno e sughero (escluso i mobili), articoli in paglia e materiali da intreccio; -8,4% carta e prodotti di carta; -26,5% coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio; 10,8% prodotti chimici; - 8% macchinari ed apparecchiature; -0,7% autoveicoli, rimorchi e semirimorchi; -8,8% altri mezzi di trasporto; -4,3% mobili. Per quanto riguarda la composizione merceologica dell’interscambio, in base ai dati Ice, l’Italia ha importato nell’ordine prodotti della metallurgia, prodotti chimici, articoli di abbigliamento e in pelle, prodotti delle altre industrie manifatturiere e prodotti alimentari. Dal lato delle esportazioni, le principali voci sono rappresentate da prodotti delle industrie manifatturiere, macchinari e apparecchiature, prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, apparecchi elettrici e per uso domestico e prodotti chimi- ci. Le maggiori opportunità per il rafforzamento delle relazioni commerciali bilaterali derivano dai reali punti di forza del Made in Italy e dai settori con potenziali margini di crescita: macchinari industriali, apparecchiature e beni strumentali (in particolare per l’industria agroalimentare, l’imballaggio e la lavo- razione del marmo), design, moda e arredamento. L’afflusso di investimenti diretti esteri in Giordania sono rimasti stabili nel corso degli ultimi anni, con l’eccezione di un calo nel 2015, quando gli IDE hanno raggiunto solo i 905 milioni di dinari, il più basso in oltre un decennio, e oltre il 36% in meno rispetto agli IDE registrato nel 2014. Un mix di fattori , tra cui l’insicurezza regionali, l’instabilità legislativa, ed i prezzi del petrolio più bassi hanno giocato un ruolo nel limitare il valore degli IDE nel 2015. Il Libano La presenza commerciale italiana è ben radicata e copre tutti i settori, dai beni d’investimento a quelli di consumo ed intermedi. Il mercato locale non è certo rilevante per volume, ma dispone di un elevato grado di apertura a scambi e triangolazioni varie, nei segmenti qualitativamente alti, ed è anche piattaforma di lancio verso l’area mediorientale, mettendo al servizio le sue affinità con il mondo occidentale ed i relativi sistemi industriali. Le società libanesi sono infatti ben radicate nei Paesi del Golfo e nel Kurdistan irakeno, lavorando soprattutto nei settori delle costruzioni e di ingegneria, oltre che nei servizi. La presenza italiana si concretizza attraverso una fitta rete di agenti e rapporti di franchising. Nel complesso l’Italia gode di una ottima immagine come partner commerciale, infatti la qualità dei prodotti italiani qui commercializzati, unita alla professionalità dei nostri operatori, pongono il nostro paese ai più alti livelli di simpatia e preferenze da parte dei consumatori libanesi. Anche l’attiva presenza della Cooperazione Italiana – in aggiunta alla diffusa consapevolezza qui, a tutti i livelli, del ruolo complessivo svolto dal nostro Paese a sostegno del Libano - con i suoi numerosi progetti di sviluppo in tutto il Paese, nonché le molteplici attività promozionali organizzate dall’Ufficio Commerciale di questa Ambasciata e dall’Ufficio Ice - Agenzia per la Promozione all’Estero e l’Internazionalizzazione delle Imprese Italiane, hanno contribuito e stanno contribuendo in maniera determinante a consolidare la già positiva percezione dell’Italia in Libano. www.infomercatiesteri.it