Qui - The Medi Telegraph

Transcript

Qui - The Medi Telegraph
ANNO LXXXVIII - N. 208
€ 1,30
QUOTIDIANO INDIPENDENTE DI INFORMAZIONI MARITTIME E DI POLITICA ECONOMICA
Giovedì 27 ottobre 2016
www.avvisatoremarittimo.it
(CONV. IN
TARIFFA R.O.C.: “POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE
IN ABBONAMENTO POSTALE D.L. 353/2003
L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1 COMMA 1, DCB GENOVA”
S PECIALE M IDDLE E AST
ASSICURAZIONI. PARLA FRANCESCO FERRARI (FIRST)
Medio Oriente, la vera prova per ogni broker
Guerre, pirati, tensioni internazionali: l’area è un labirinto in continua evoluzione
I
l Medio Oriente è un’area difficile, un vero test di prova
per gli assicuratori marittimi, che
si trovano continuamente alle prese
con nuove soluzioni da adottare
per garantire coperture assicurative agli operatori marittimi impegnati nell’approvvigionamento via
nave in aree dove nell’ultimo decennio si sono alternate guerre civili, pirateria, minacce di terrorismo,
aggressioni militari vere e proprie.
Ma quali sono oggi le criticità maggiori in questa regione?
«La regione più calda in questo
momento - spiega Francesco Ferrari della società genovese di brokeraggio assicurativo First - è lo Yemen, dove è in corso una guerra.
Alcune navi sono state attaccate,
anche con i missili. E’ un problema
di ordine politico». Per accedere
in questa zona le navi devono stipulare un’apposita polizza per il rischio guerra. Come spiega il broker, «i tassi sono aumentati notevolmente per la copertura Corpo
e Macchine della nave e addirittura
alcuni assicuratori non accettano
comunque di assumere il rischio.
Aden e Hodeidah, i porti più importanti del paese, sono pienamente
operativi, sebbene non venga garantita una sicurezza adeguata».
E così le addizionali sono molto
elevate. Gli armatori a volte decidono di non operare nello Yemen,
oppure di rinunciare alla copertura
assicurativa, assumendosi un rischio che Ferrari giudica molto pesante. Una situazione analoga si
riscontra in Libia, dove i porti sono
quasi tutti operativi, ma gli armatori devono pagare premi extra per
la polizza rischi guerra molto elevati. Una nave del valore di 25 milioni
di dollari arriva a pagare un extra
da 60 mila dollari.
Due anni fa il problema in Medio
Oriente non era la guerra, ma la
pirateria nel golfo di Aden. «A quel
tempo lo strumento assicurativo
utilizzato, denominato “Kidnap
and ransom” (rapimento e riscatto),
era stato elaborato - ricorda Ferrari
- dagli assicuratori britannici. Anche in quel caso alcuni armatori
si adeguavano ai tassi elevati che
venivano imposti per stipulare una
polizza di tale tipo, ma altri mandavano le navi a proprio rischio. Non
appena il fenomeno della pirateria
ha cominciato a ridimensionarsi
anche questi tassi sono andati a
ridursi, finché con l’instaurarsi del
sistema dei convogli, che garantiva
maggiore protezione dagli attacchi, molti assicuratori non hanno
più proposto queste polizze. In un
mercato di noli depresso ogni ag-
Lo shipping guarda con attenzione al Middle East
gravio di costi rappresenta un’incidenza non indifferente nei bilanci
di armamento. Oggi il problema
della pirateria riguarda più il West
Africa che il golfo di Aden». Per
mostrare come sia dinamico il mer-
cato assicurativo, Ferrari ricorda
che proprio in Africa occidentale
il problema recentemente era rappresentato dal virus ebola e che
anche in quel caso il mercato assicurativo predispose un prodotto ap-
posito per l’armatore, contro il rischio che le autorità locali mettessero la nave in quarantena.
Per quanto riguarda il Medio
Oriente, una altra incognita è rappresentata dall’Iran. «E’ un paese
in parte ancora sotto sanzioni, ma
adesso si può operare in Iran e
gli armatori effettivamente mandano le proprie navi. Prima i Club
P&I non potevano garantire la loro
copertura, che era vietata. A oggi
le sanzioni sono state alleggerite,
tuttavia esistono black list di persone e aziende collegate al programma nucleare iraniano che rimangono sanzionate. I Club sono in grado
di garantire la loro copertura soltanto se i soggetti che partecipano alla
spedizione non sono inserite nella
lista.. Gli assicuratori devono conoscere i nomi dei soggetti coinvolti nel trasporto, dallo shipper fino
al ricevitore. Basta che un solo soggetto appaia nella black list perché
l’eventuale copertura assicurativa
non venga garantita».
La complessità del caso Iran è
dimostrata dalla cosiddetta “snap
back clause”. In cosa consiste?
«Adesso i Club possono operare
in caso di sinistro. Ma avvertono
che qualora debbano emettere una
lettera di garanzia in nome dell’assicurato, l’efficacia della lettera è
condizionata dal fatto che l’Iran
non venga nuovamente sanzionato». In effetti, la fine del regime
sanzionatorio è stata decisa in seguito a un accordo internazionale
che però è sottoposto a verifica.
Se i termini non vengono rispettati,
l’accordo salta. E così «se il paese
venisse di nuovo sanzionato, l’effetto della garanzia verrebbe meno». Per fare un esempio concreto:
se una nave urta e danneggia una
banchina del porto di Bandar Abbas, il Club emette una lettera con
cui si impegna a pagare, ma se
l’Iran viene di nuovo sanzionato,
i danni subiti dalla banchina non
vengono risarciti. Le Autorità portuali iraniane non accettano questa
condizione, per cui le lettere di
garanzia non bastano a evitare all’armatore l’eventuale sequestro
della nave.
«Un altro problema con l’Iran
sono le transazioni bancarie, che
sono effettuate in dollari e passano
attraverso le banche statunitensi,
che le bloccano». Ciò nonostante,
spiega il broker, l’interesse dei
P.&I. per l’Iran resta alto. La flotta
nazionale iraniana sta rinascendo
ed è priva di copertura assicurativa,
a parte quello che può garantire
un piccolo club locale, e l’interesse
di società, anche italiane, come F.lli
Cosulich e Rina, impone che si
trovino soluzioni.
L'AVVISATORE MARITTIMO
II
Giovedì 27 ottobre 2016
S PECIALE M IDDLE E AST
L’ANALISI DELL’AGENZIA INTERNAZIONALE PER L’ENERGIA ATOMICA. SI RIAPRE UN MERCATO DA 80 MILIONI DI PERSONE
Iran, l’accordo funziona: torna la superpotenza
Il Paese sta rispettando alla lettera il patto sul nucleare, come ammette anche Gerusalemme
I
n un’area che è la principale
fonte di preoccupazioni geopolitiche al mondo, c’è un tassello
che sta rapidamente tornando al
suo posto: l’Iran. La repubblica
islamica sta infatti rispettando alla
lettera gli accordi sul nucleare firmati l’anno scorso a Vienna e procedendo spedita sulla strada che
la porterà a ristabilire normali rapporti diplomatici e commerciali
con l’Occidente. Di recente, in
un’intervista al quotidiano francese Le Monde il capo dell’Agenzia
internazionale per l’energia atomica (Aiea), Yukiya Amano, ha affermato che Teheran “sta facendo ciò
che ha promesso” e che “l’accordo
non presenta particolari problemi”.
Ancora più degno di nota è il fatto
che qualche giorno prima era stato
addirittura Israele a fare affermazioni di simile tenore, nonostante
fosse venuta proprio da Gerusalemme la più intransigente opposizione alla firma dell’accordo siglato a Vienna.
Intervistato a margine della 60ma
Conferenza generale Aiea, che si
è tenuta dal 26 al 30 settembre
nella capitale austriaca, dove ha
sede l’agenzia, Yukiya Amano ha
ricordato solo “un piccolo incidente” avvenuto sinora, al quale le
autorità iraniane “hanno subito rimediato”.
“Posso confermare - ha aggiunto
69enne diplomatico giapponese che Teheran rispetta gli impegni
presi alla lettera”, facendo quanto
“ha promesso alla comunità internazionale”.
Il capo dell’Aiea nega con forza
il rischio di una “proliferazione”
del nucleare in Medio oriente, come paventato alla vigilia dello storico accordo da Arabia Saudita e
Israele, quest’ultimo unica potenza
atomica nella regione. A dispetto
delle voci, ha affermato, non si
è verificato alcun “fatto” che possa
“corroborare queste speculazioni”.
L’accordo sul nucleare di Teheran è forse il successo maggiore
di Yukiya Amano, in lizza per un
terzo mandato quando, nel novembre 2017, dovrà essere rinnovata
la carica. E proprio sul dossier atomico iraniano egli assicura che la
partita “non è chiusa”, perché è
un percorso “iniziato solo da pochi
mesi” e sarà massimo l’impegno
per “garantire che l’accordo sia ap-
plicato” anche in futuro.
Lo smantellamento delle sanzioni occidentali nei confronti di Teheran è iniziato nel gennaio scorso
e, se gli accordi saranno rispettati,
verranno progressivamente e com-
pletamente tolte nell’arco di qualche anno. Il reinserimento dell’Iran
nel consesso internazionale rappresenta un’ottima notizia per
l’Europa e in particolar modo per
l’Italia che vanta storicamente
stretti rapporti commerciali con il
Paese mediorientale. Nonostante
il sostanziale isolamento degli ultimi decenni, acuito negli ultimi anni
dalle sanzioni commerciali imposte dall’Occidente, l’Iran è tuttora
la 32ma economia mondiale per
dimensioni del Pil nominale. Secondo i dati della Fondo Monetario
Internazionale, nel 2014 il prodotto
interno lordo è stato pari a 402
miliardi di dollari; senza contare
che nel biennio precedente, prima
che le sanzioni provocassero una
contrazione del Pil di oltre il 30%,
l’Iran era a ridosso delle prime venti
economie al mondo, con una dimensione stimata simile a quella
del Belgio e superiore alla Norvegia ed all’Austria.
Il Paese sciita vanta inoltre quasi
80 milioni di abitanti (come la Turchia), tra cui molti specialisti con
un buon grado di formazione e una
classe alta facoltosa. Per l’Italia
in particolare l’Iran rappresenta un
mercato molto interessante. Il Belpaese è sempre stato uno dei partner
commerciali più importanti per
Teheran (sanzioni permettendo).
Nel 2014 l’interscambio commerciale si è fermato a 1,596 miliardi
di euro contro un picco di 7,097
miliardi nel 2011. Se si considerano
solo le esportazioni, l’talia ha raggiunto un picco di 2,125 miliardi
di euro nel 2008, mentre nel 2014
sono ammontate a 1,156 miliardi,
in crescita rispetto al 2013. In Iran
al momento ci sono alcune centinaia di imprese italiane, attive in tutti
i settori economici, salvo che nel
petrolifero per la parte vietata.
INSURANCE. A CONVERSATION WITH FRANCESCO FERRARI (FIRST)
The Middle East, a testing ground for the insurance sector
Wars, pirates, international tensions: the region is a shifting crucible
T
he Middle East is a difficult
region, truly the testing
ground for marine insurers; they
are constantly struggling to come
up with new solutions to offer marine insurance to operators who carry
out shipping in areas that over the
last decade have witnessed a succession of civil wars, acts of piracy,
terrorist threats and military aggressions. But what are the most
serious challenges in this region?
“The hotspot right now,” explains
Francesco Ferrari of Genoa-based
insurance brokerage company,
First, “is Yemen, where there is
an ongoing war. Some ships have
been attacked, even with rockets.
The problem has a political dimension.” Ships that want to access
this area have to take out special
insurance cover for war risks. “Rates,” Ferrari pointed out, “have risen sharply for ship hull and machinery cover, with some insurers
going as far as refusing to cover
the risk. Aden and Hodeidah, Yemen’s most important ports, while
fully operational do not guarantee
adequate security conditions.”
Premiums for additional insurance, then, are very high. Shipowners
sometimes decide not to operate
in Yemen, or to forgo insurance
coverage, taking risks that Ferrari
sees as very significant. A similar
situation exists in Libya, where almost all ports are operational, but
owners have to pay costly extra
premiums for war risk insurance.
A ship that may be worth $25 million can end up paying up to
$60,000 dollars in extra premiums.
Two years ago, the scourge in the
Middle East was not war, but piracy
in the Gulf of Aden. “At that time,
we utilized insurance instruments
called Kidnap and Ransom, which
had been devised by UK insurers,”
recalled Ferrari.
Even then, while some shipowners went along with the higher
premiums that applied to policies
of this type, others undertook navigation at their own risk. As, over
time, acts of piracy began to drop,
the premiums followed suit, until,
with the establishment of the con-
voy system, which guarantees greater protection from attacks, many
insurers have stopped marketing
these policies. In a depressed freight rate market any increase in costs
affects shipowners’ balance sheets
significantly. Today, the problem
of piracy is more significant in West
Africa than in the Gulf of Aden.”
To illustrate the insurance
market’s changing nature, Ferrari
recalled how, in West Africa, until
recently, the Ebola virus represented a real threat, and that then, as
well, the insurance industry came
up with a specific insurance product for shipowners, against the
risk of the ship being put under
quarantine by authorities. In the
Middle East, Iran represents
another unknown. “It’s a country
in part still under sanctions, but
now Iran is open for business, and
shipowners are indeed operating
there. The P&I insurance Clubs
in the past could not offer coverage,
which was then prohibited.
While at present the sanction regime has been eased, there is still
a blacklist of people and companies
connected to Iran’s nuclear pro-
gramme that remain under sanctions. The Clubs are able to provide
insurance only if the parties that
undertake the shipment are not included in that list. Insurers have
to know the names of those involved in the shipping, from that of
the shipper to the receiver. If even
one name is contained in that
blacklist, insurance coverage is refused.”
The complexity of the Iran
case is revealed by the so-called
“snap back clause”. What is it,
exactly? “At present the Clubs are
able to cover accidents there. But
they warn that if they’re requested
to issue a letter of guarantee on
behalf of the insured party, that
letter’s effectiveness is conditioned to Iran remaining free of international sanctions.” In fact, the end
of the sanction regime was decided
following an international agreement, which, however, is subject
to verification. If the terms are not
met, the agreement is void. And
so “if the country were to have
sanctions again, the guarantee of
insurance would be voided.”
To give a concrete scenario: if
due to a ship collision, a quay in
the port of Bandar Abbas gets damaged, the Club issues a letter in
which it undertakes to cover damages; but if Iran is sanctioned again,
the damages will not be covered.
It follows that as Iranian port authorities will not recognize that clause,
the letter of guarantee will not prevent the shipowner from the possibility of having his ship seized.
“Another challenge in doing business in Iran are bank transactions,
which are carried out in US dollars
and go through US banks, that
block them.” Nevertheless, explained Ferrari, the interest of P&I insurance Club associations for Iran
remains high. The Iranian merchant fleet is being reborn and lacks
insurance, apart from that which
a small domestic club is able to
provide, and it is in the interest
of firms, including Italian ones,
such as Fratelli Cosulich and Rina,
that solutions be found.
L'AVVISATORE MARITTIMO
III
Giovedì 27 ottobre 2016
S PECIALE M IDDLE E AST
INTERVISTA A IGNAZIO MESSINA, AMMINISTRATORE DELEGATO DELLA COMPAGNIA: «POSSIAMO VALUTARE NUOVE ALLEANZE»
«Noi armatori tra i conflitti del Medio Oriente»
Tra Golfo e Mar Rosso: i Messina hanno nell’area più complessa del mondo il loro core-business
P
er gli armatori italiani il Medio Oriente è sempre stato
un punto di riferimento imprescindibile, a partire nel XIX secolo
dalle pionieristiche (per l’armamento moderno dell’Italia unita)
iniziative commerciali del genovese Raffaele Rubattino, attivo prima
in Maghreb e poi, con l’apertura
del canale di Suez nel 1869, nel
Mar Rosso. Un’eredità presa in
consegna da un’altra società genovese, il gruppo Messina, titolare
di una flotta fra le più presenti sulle
rotte fra Mediterraneo e Africa. «In
quest’area - spiega Ignazio Messina - siamo presenti in maniera più
o meno intensa dalla metà degli
anni Cinquanta. Le rotte oltre Suez
per noi sono sempre state importanti e ricche di soddisfazioni».
Quali Paesi sono più importanti per il commercio con l’Italia?
«Arabia Saudita e Giordania; sulla costa africana del Mar Rosso
Etiopia e Sudan; poi Emirati Arabi
Uniti, India, Iran e Paesi del Golfo
come Bahrein, Qatar e Iraq. A causa
delle guerre, Iraq e Iran sono diventati meno importanti».
Che tipo di traffico viaggia su
queste rotte?
«Oltre ai container, noi trasportiamo materiale per cantieri e mezzi
rotabili, come camion destinati alla
ricerca petrolifera».
Come vivono gli operatori logistici e dei trasporti l’attuale fase
politica e economica di questi paesi?
«Le economie di questi Paesi sono in sofferenza a causa dell’instabilità politica e dei conflitti anche
fra gli stessi stati dell’area. Arabia
Saudita e Iran hanno interrotto le
relazioni. Questo significa che un
armatore non può trasportare merce da uno all’altro di questi due
Paesi, neanche utilizzando un porto
di trasbordo. A loro volta gli Emirati hanno vietato le esportazioni verso alcuni Paesi dell’Africa settentrionale e verso la Libia. L’Egitto
sta risorgendo, ma rimane instabilità. In Giordania vengono spedite
soprattutto mattonelle e qualche
impianto industriale. Poi c’è Gibu-
ti, porta d’ingresso per l’Etiopia,
dove sono attivi molti cantieri e
dove lavoriamo ad esempio con
realtà come Salini e Ethiopian
Shipping Lines».
Come sta influendo il basso
prezzo del petrolio?
«La nostra attività soffre assieme
all’economia di questi Paesi. I Pae-
si arabi di basano su petrolio e
gas. Con il crollo del prezzo si
rivedono le politiche di bilancio,
aumenta il prezzo della benzina,
diminuisce il valore dei salari, molti servizi non vengono più offerti
gratuitamente, girano meno camion, molti cantieri si sono fermati.
Oggi è un mercato più difficile che
in passato».
C’è qualche segnale positivo?
«Gli Emirati hanno sofferto lo
scoppio di una bolla finanziaria,
ma adesso sono stabili, Dubai resta
un mercato importante per i derivati del petrolio. In Iran, da quando
sono terminate le sanzioni, si pensava che il commercio potesse ripartire. Attualmente le risorse sono
ancora limitate, mentre non è possibile effettuare transazioni finanziarie attraverso le banche statunitensi. Gli iraniani hanno bisogno di
liquidi, ma i soldi sono ancora bloccati all’estero. Non c’è ancora il
picco atteso. In India prima arrivavamo con un servizio diretto, adesso via feeder. Qui i noli hanno sofferto più che nel vicino Medio
Oriente. Intanto si sono intensificati i traffici fra Estremo e eMedio
Oriente».
Messina ha stretto accordi per
la condivisione di stiva con altre
compagnie, anche grandi.
«Già 30 o 40 anni fa avevamo
stretto alleanze con compagnie italiane. Da allora, ad esempio, abbiamo mantenuto il collegamento con
Tarros per l’Algeria. Negli ultimi
cinque anni abbiamo fatto accordi
con grandi compagnie realizzando
sinergie, in particolare verso l’Africa Occidentale. In un primo momenti avevamo sdoppiato i traffici,
ro-ro da una parte, full container
dall’altra. Poi il calo del ro-ro in
Africa occidentale (in Nigeria, con
l’introduzione di una forte tassa
sui rotabili, c’è stato un calo del
50%, ma sappiamo che anche in
Angola, dove non siamo presenti,
c’è stato un calo del 70%) ha portato
a incrementare i traffici container
con Cosco, Zim, Arkas e altri».
E il Medio Oriente?
«Per adesso ci muoviamo da soli,
con nuove navi ro-ro sulle rotte
oltre Suez. La particolarità dei traffici su questi mercati, che uniscono
contenitori, merci varie, rotabili,
non permette servizi in comune,
se non in casi eccezionali. Se dovessimo fare servizi full-container anche con il Golfo, sarebbe possibile
creare sinergie con altre compagnie. Studi in questo senso sono
già stati fatti».
ISRAEL TOO CONCEDES. THE INTERNATIONAL ATOMIC ENERGY AGENCY’S REPORT: AN 80 MILLION PEOPLE STRONG MARKET IS BACK IN BUSINESS
Iran: the agreement is working, a superpower is back on track
The country is following to the letter the agreement on the nuclear issue
I
n an area that is the main source
of geopolitical concern in the
world, one element of the puzzle
is rapidly returning to its proper
place: Iran. The Islamic republic
is in fact complying to the letter
with the nuclear accord signed last
year in Vienna and moving quickly
along the path that will lead it to
re-establish normal diplomatic and
commercial relations with the
West. Recently, in an interview
with France’s Le Monde, the chief
of the International Atomic Energy
Agency (IAEA) Yukiya Amano
confirmed that Tehran “is doing
what it promised” and that “the
agreement does not present particular problems.” Even more noteworthy is the fact that a few days
earlier Israel made statements to
the same effect, despite the fact
that Jerusalem offered the most intransigent opposition to the signing
of the accord in Vienna.
Interviewed at the 60th General
Conference of the IAEA, which
was held from 26 to 30 September
in the Austrian capital, where the
agency is headquartered, Yukiya
Amano mentioned that only “a minor incident” had taken place so
far, which the Iranian authorities
“immediately remedied.”
“I can confirm,” the 69-year-old
Japanese diplomat added, “that
Tehran is fulfilling the commitments that it made to the letter,”
doing everything that “it promised
the international community.”
The chief of the IAEA strongly
denies the risk of nuclear “proliferation” in the Middle East, as Saudi
Arabia and Israel - the only nuclear
power in the region - feared on
the eve of the historic accord. De-
spite the rumours, he insisted, there
is no evidence of any “fact” that
could “corroborate this speculation.”
The Iranian nuclear accord is perhaps the greatest success of Yukiya Amano, who is being considered
for a third term as director of the
IAEA, starting in November 2017.
Regarding the Iranian atomic dos-
sier, he guarantees that the game
“is not yet over,” because it is a
process that “only began a few
months ago” and will require maximum commitment to “guarantee
that the accord is enforced” in the
future, as well.
The dismantling of the Western
sanctions against Iran began last
January, and if the accords are com-
plied with, the sanctions will gradually be removed over a few years.
Iran’s rejoining of the international
consensus is excellent news for Europe and particularly for Italy, which can historically boast of excellent commercial relations with the
Middle Eastern country. Despite
the substantial isolation of the last
few decades, worsened in recent
years by commercial sanctions imposed by the West, Iran is still the
32nd largest economy in the world
by nominal GDP. According to data
from the International Monetary
Fund, in 2014 its Gross Domestic
Product was $402 billion; not to
mention that in the two years before
sanctions caused a more than 30%
contraction in GDP, Iran was one
of the 20 largest economies in the
world, with an estimated GDP similar to Belgium’s and greater than
Norway’s or Austria’s. The Shiite
country can also boast of over 80
million inhabitants (like Turkey),
among which there are many highly educated specialists and a wealthy upper class. For Italy in particular, Iran represents a very interesting market. Italy has always been
one of Tehran’s most important
commercial partners (sanctions
permitting). In 2014, the commercial exchange reached €1.596 billion versus a peak of €7.097 in
2011. If one considers only exports,
Italy reached a peak of €2.125 billion in 2008, while in 2014 they
reached only €1.156 billion, which
was an increase compared to 2013.
There are hundreds of Italian companies in Iran at the moment, active
in all sectors of the economy, except
for the oil sector, which is prohibited.
L'AVVISATORE MARITTIMO
IV
Giovedì 27 ottobre 2016
S PECIALE M IDDLE E AST
L’ALLARME DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE. LE MIGRAZIONI? «SE REGOLATE FANNO BENE ALL’EUROPA»
Il rischio di una “deriva palestinese”
Guerre e inflazione stanno compromettendo l’economia dell’intera area
I
l Medio Oriente è stretto fra
due guerre. A nord c’è il conflitto siriano e a sud quello nello
Yemen. Le economie dei due Paesi
sono in ginocchio ormai da anni
ma le ripercussioni coinvolgono
tutte le nazioni che si trovano nel
mezzo, con costi economici “massicci e persistenti”. A certificare
questo stato di cose è il Fondo Monetario Internazionale che nel recente studio “The Economic Impact of Conflicts and the Refugee
Crisis in the Middle East and North
Africa” ha cercato di quantificare
i danni economici causati dalle
guerre. L’istituto guidato da Christine Lagarde è così arrivato alla
conclusione che i Paesi coinvolti
nelle guerre devono fare i conti
con una “profonda recessione”
(quasi due punti di Pil all’anno)
abbinata a una forte inflazione, senza dimenticare il deterioramento
delle condizioni fiscali e finanziarie e l’indebolimento delle istituzioni. Per quel che riguarda invece
gli Stati vicini si registra una diminuzione della sicurezza reale e di
quella percepita e un peggioramento della coesione sociale che mina
la fiducia nelle istituzioni e la loro
capacità di elaborare le riforme
economiche più urgenti. Secondo
l’Fmi questi pericoli sono estremamente reali soprattutto per Libano,
Giordania e Turchia.
L’istituto di Washington ricorda
poi come “dalla fine della Seconda
guerra mondiale i Paesi di questa
regione abbiano sofferto più conflitti di qualsiasi altra regione del
mondo”. L’Fmi stima che oggi nella regione vivano almeno 10 milioni di rifugiati
I dati parlano molto chiaro: in
Siria, dopo quattro anni di conflitto,
il Pil è crollato a meno della metà
del livello registrato nel 2010. Lo
Yemen, invece, accusa una perdita
che, per il solo 2015, si aggira tra
il 25 ed il 35%. La prospettiva a
lungo termine di ciò che potrebbe
accadere in questi Stati, avverte
l’Fmi, è quella della Cisgiordania
e della Striscia di Gaza.
Una pesante recessione economi-
ca non è però l’unico devastante
effetto di una guerra; l’altro fronte
è quello dell’inflazione che rappresenta una minaccia per la popola-
zione tanto quanto la contrazione
dell’attività economica.
In Iraq e Afghanistan, nei primi
anni Duemila è stata del 30%, in
Yemen ha viaggiato al ritmo del
15% dal 2011. Il caso siriano è
però quello “più estremo”, con un
aumento dei prezzi del 300% tra
marzo 2011 e maggio 2015. Sono
dinamiche, quelle inflattive, spesso connesse con una forte svalutazione delle valute locali. Il crollo
del Pil, sottolinea l’istituto diretto
da Christine Lagarde, “aumenta in
proporzione alla durata dell’esposizione alla violenza” e lo stesso
discorso per l’inflazione.
Per quel che riguarda invece gli
Stati vicini, l’Fmi afferma che essi
soffrono un calo del Pil dell’1,9%
annuo e un aumento del tasso d’inflazione del 2,8% medio. Ma in
questo caso le ricadute dei conflitti
non sono solo agli indicatori di
crescita. Da un lato, infatti, c’è la
credibilità delle istituzioni. L’Fmi
analizza il caso dell’Unione Europea che non è direttamente confinante con il Medio Oriente ma che
è la meta dei civili in fuga dai
conflitti mediorientali. Ebbene, secondo il Fondo monetario internazionale il flusso di migranti verso
il Vecchio Continente (1,7 milioni
di persone dal 2014 hanno raggiunto gli Stati membri) sta “minando
importanti conquiste del progetto
europeo, come la libertà di movimento delle persone attraverso i
confini nazionali, e sta contribuendo ad un crescente senso d’insicurezza“. Dall’altro c’è poi la pressione sempre più forte che le masse
di rifugiati esercitano su “servizi
pubblici già in crisi”. Per l’Europa,
però, un’integrazione ben regolamentata “di un numero di rifugiati
limitato rispetto al totale della popolazione potrebbe avere un effetto
molto più positivo sulla crescita
economica” di quanto non avvenga
negli Stati più arretrati dell’area
mediorientale.
INTERVIEW WITH IGNAZIO MESSINA, CEO OF MESSINA LINE: “WE’RE OPEN TO THE IDEA OF NEW ALLIANCES”
Between the Persian Gulf and the Red Sea:
being a shipowner amidst the conflicts
F
OR ITALIAN shipowners
the Middle East has always
been a fundamental point of reference, starting in the nineteenth
century with Genoan Raffaele Rubattino, a pioneer in modern shipowning in the history of the united Italy. He started trading in the
Maghreb and after the opening of
the Suez Canal in 1869, he moved
on to the Red Sea. Today, his legacy in the Red Sea area of the
Middle East lives on thanks to
another Genoese company, the
Messina Group, owner of the most
active fleet on the routes between
the Mediterranean and Africa.
“In this area,” explains Ignazio
Messina, “we have had a constant
and intense presence since the
mid-1950s. We have always valued and made the most of all routes
going through the Suez canal.”
Which countries are most important in terms of trade for
Italy? “Saudi Arabia and Jordan,
Ethiopia and Sudan on the African
coast of the Red Sea, the United
Arab Emirates, India and Iran, as
well as countries of the Upper Gulf,
such as Bahrain, Qatar and Iraq.
Because of the wars, Iraq and Iran
have become less important.”
What kind of freight travels
on these routes?
“In addition to containers, we handle construction materials and vehicles such as trucks destined for
oil exploration.”
How are logistics operators and
transport businesses affected by
the current political and economic state of these countries? “The
economies of these countries have
been struggling due to political instability and conflicts between neighbouring countries in the area.
Ties between Saudi Arabia and Iran
have been cut. This means that a
shipowner cannot transport goods
from one of these two countries
to the other, even with the use of
a transhipment port. In turn, the
Emirates have banned exports to
certain North African countries and
to Libya. Egypt is recovering, but
it remains unstable. In Jordan we
mainly handle cargoes of tiles and
some industrial materials. Then
there’s Djibouti, a gateway to
Ethiopia, where construction is
booming and where we work with
companies such as Salini and
Ethiopian Shipping Lines.”
How are you handling the low
oil prices?
“Our business is struggling along
with the economies of these countries. The Arab countries rely
exclusively on oil and gas. With
the collapse of oil prices their governments have had to revise budgetary policies, the price of gasoline has increased, while the value
of wages has dropped and many
benefits are no longer offered by
the state. Construction has slowed
down, in some cases it has come
to a complete halt and fewer lorries
are seen on the streets. Today’s
market is far more difficult than
in the past.”
Are there any positive signs?
“The Emirates took a blow from
the bursting of an economic bubble,
but are now stable. Dubai remains
an important market for oil derivatives. In Iran, it was thought that
trade would resume after the sanctions had been lifted. However, resources are still limited, and no
one can complete financial transactions through US banks. Iranians
need liquidity, but the money is
still stranded abroad. We haven’t
seen the much awaited awakening
yet. We used to offer a direct service
to India, now we get there via feeder. Here freight rates have suffered
more than in the neighbouring Middle East. Meanwhile traffic between the Middle and the Far East
has grown.”
Messina Line has signed alliance agreements with other companies, even big ones.
“We started forming alliances with
Italian companies 30 or 40 years
ago. Since then, for example, we
have maintained our partnership
with Tarros in Algeria. In the last
five years we have signed agreements of collaboration with large
companies, particularly on routes
towards West Africa. At the beginning, our business was split in two,
ro-ro on one side and full containers
on the other. With the drop in ro-ro
traffic in West Africa (Nigeria introduced a high tax on rolling stock
and saw a decline of 50%, but we
know that even in Angola, where
we are not present, the decline was
as high as 70%) we focused on
container traffic with Cosco, Zim,
Arkas and others.”
And the Middle East?
“For now, we operate on our own,
with new ro-ro vessels on more
routes, in addition to our Suez service. The peculiarity of handling traffic in these markets, combining
containers, general cargo and vehicles, is that it doesn’t favour collaborations, except in rare cases. If
we were to focus on full-container
services including the Gulf, it
would be easier to create alliances
with other companies. We have
already examined this possibility.”
L'AVVISATORE MARITTIMO
V
Giovedì 27 ottobre 2016
S PECIALE M IDDLE E AST
L’ANALISI DI FILIPPO GALLO, DELL’UFFICIO DI PRESIDENZA DI FEDERAGENTI: «LA SITUAZIONE È CAMBIATA QUANDO SULLA SCENA È COMPARSO IL GAS»
Traffici in calo con l’Italia, noli sempre ondivaghi
Non è un mercato facile, quello del Medio Oriente: non ci sono punti di riferimento fissi
L
e spedizioni di container dall’Italia verso il Middle East
sono diminuite del 6 per cento fra
2015 e 2016. I container partiti
dal nostro paese nei primi otto mesi
dell’anno sono stati 211.823, contro i 224.315 dello stesso periodo
del 2015. E se il porto principale
dell’area, Jebel Ali, ha visto un’impennata (da 51 a 58 mila teu) è
forse dovuto alle nuove strategie
di concentrazione dei traffici da
parte delle compagnie; gli altri scali
hanno invece registrato perdite anche pesanti: Jeddah da 49 a 43
mila teu fra 2015 e 2016, sempre
nel periodo gennaio-agosto, Amman da 20 mila a 18.800, Abu Dhabi da 25 mila a 15.500. Tuttavia
la dinamica dei noli marittimi, pur
non positiva, è differente e con criticità minori in Medio Oriente rispetto a quella di un altro mercato in
forte crisi dall’Europa, quello con
il Far East.
«E’ evidente - dice Filippo Gallo,
rappresentante dell’ufficio di presidenza di Federagenti - che la geografia politica dei paesi arabi è mutata e continua a mutare. La loro
importanza, dall’Arabia agli Emirati eccetera, era legata all’influenza dovuta alla produzione di petrolio. La situazione è cambiata da
quando il gas ha acquisito quote
di mercato importante rispetto a
10-15 anni fa, quando il petrolio
la faceva da padrone. Questo ha
condizionato le relazioni di dipendenza e l’importanza che i paesi
arabi esercitavano sul mondo e
quindi sul Mediterraneo. La Russia
e i paesi ex-sovietici che producono
gas hanno acquisito una fetta consistente del rifornimento mondiale».
Per gli agenti marittimi, le dinamiche politiche internazionali incidono direttamente sui flussi di traf-
fico che si distribuiscono sulle diverse rotte e quindi sui
corrispondenti livelli dei noli per
le navi, da cui derivano i principali
introiti per la categoria. Gallo ha
una profonda esperienza del mercato del Medio Oriente acquisita
come agente in Italia di Uasc, la
compagnia portacontainer dei paesi del Golfo Persico, con il Qatar
come socio di maggioranza.
«Il Qatar - spiega - è un produttore
di gas. E’ un paese piccolo, ma
influente, sede di banche e fondi
d’investimento. Oltre alla sua presenza nel calcio, ha acquisito marchi importanti e si sta imponendo
in tutto il mondo». Oltre alle considerazioni sui cambiamenti in atto
nei paesi degli emiri, se ne aggiun-
gono altre su paesi importanti come
Iran e Iraq da un lato, Libia e Egitto
dall’altro.
«Egitto e Libia - ricorda Gallo
- giocavano un ruolo importante
nel nostro trading. Oggi non abbiamo quasi più export verso la Libia,
né importazioni di petrolio dalla
Libia». Insomma, i punti di riferimento vacillano continuamente,
considerazione che vale altrettanto
per due grandi paesi come Iran e
Iraq. «L’Iran è molto fermo. L’embargo è quasi terminato, ma restano
ancora molte restrizioni. Si fa fatica
a vendere i prodotti italiani e a
trasportarli là. Tuttavia c’è fermento e aspettiamo che la situazione
maturi e porti frutti dal marzo del
2017». Peggiore la situazione del-
l’Iraq, dove pure «tutto è fermo»,
ma per il momento senza prospettive di cambiamento. «Eppure il potenziale di questi paesi è importante. Ricordiamoci che hanno una
forte densità di popolazione».
I numeri del trade, come si è visto,
sono in calo, una cosa che non
si era mai vista in passato. «Dai
numeri sempre positivi a cui eravamo abituati prima, con crescite di
mercato importanti, siamo passati
da un paio d’anni a una frenata
del trading. Il potere d’acquisto di
questi paesi è diminuito con il calo
del prezzo del petrolio». Gallo spiega che questa situazione si fa sentire
anche sui noli, il cui andamento
è però diverso qui rispetto ad altre
aree del mondo. «Certamente il calo del prezzo del petrolio e le difficoltà dei paesi del Medio Oriente
incidono sui noli marittimi, che dallo scorso anno sono stabili. L’andamento è diverso rispetto al Far East,
dove invece si registrano cali. Il
Medio Oriente è un mercato a sé
stante, che vede la presenza di tutti
i grandi player. Fa eccezione il porto di Jeddah, proprio perché influenzato dai traffici con il Far East:
qui i noli sono ondivaghi, c’è una
pressione maggiore al ribasso».
Per quanto riguarda gli episodi
di pirateria e terrorismo, la preoccupazione per quanto riguarda il
corretto funzionamento delle reti
di approvvigionamento marittimo
sono minori. «Pirateria e terrorismo non hanno influenza né sul
mercato container né sulle cisterne
sulle rotte con il Golfo. Ci sono
costi maggiori, ma non sono preoccupanti. La situazione di conflitto
incide enormemente sulla Libia e,
in parte, sull’Egitto. Qui si percepisce la mancanza di fiducia che limita il livello degli acquisti».
ANALYSIS
Wars and inflation are undermining the economy of the entire area
Immigration, Europe must invest on integration
T
he Middle East is caught
between two wars. The
Syrian conflict rages in the north
and the one in Yemen to the south.
For years the economies of those
two countries have been on their
knees, but the repercussions of those conflicts are now being felt by
all the nations located between
them, with “massive and persistent” economic damage. A recent
report by the International Monetary Fund confirms this state of
affairs; titled “The Economic Impact of Conflicts and the Refugee
Crisis in the Middle East and North
Africa”, the IMF study attempts
to quantify the economic damage
caused by the fighting. The analysis
by the organization, which is headed by Christine Lagarde, concludes that those countries that are
being battered by armed conflicts
have suffered a “deep recession”
(with average losses of almost two
percentage points in GDP per year)
combined with high inflation, not
to mention a deteriorating fiscal
and financial situation, and a weakening of their institutions. As
for those states bordering the conflict zone, a decrease in real and
perceived safety has been observed, coupled by a deterioration in
social cohesion, which undermines
trust in the institutions and their
ability to undertake much-needed
economic reforms. According to
the IMF, these kinds of threats are
extremely real, particularly in Lebanon, Jordan and Turkey.
Bank of Mexico Agustín Carstens and IMF Managing Director Christine Lagarde attend the IMFC press conference
The paper goes on to remind how
“since the Second World War,
countries in this region have experienced more frequent conflicts
than in any other region of the world.” The IMF estimates that there
are at least 10 million refugees present in the region currently.
The numbers paint a very clear
picture: in Syria, after four years
of conflict, GDP has fallen to less
than half of what it was in 2010.
In Yemen, on the other hand, data
points to a loss in GDP of between
25% and 35%, in 2015 alone. Over
the long-term, these states risk following the pattern of what happened in the West Bank and the Gaza
Strip, warns the report.
A severe economic downturn is
not the only devastating effect of
war: inflation represents another
threat to the population, as much
as the contraction in economic activity.
In Iraq and Afghanistan inflation
soared to 30% in the opening years
of the 21st century, in Yemen it
has run at 15% since 2011. The
Syrian case, however, is the “most
extreme” one, with prices rocketing by 300% between March 2011
and May 2015. These inflationary
processes often come associated
with a sharp devaluation of the local
currency. The collapse in GDP “increases in proportion to the duration of exposure to violence,” and
the same goes for inflation, stresses
the IMF report.
As for the region’s neighbouring
states, the IMF says that they suffered an annual decline in GDP of
1.9%, and an average increase in
the inflation rate of 2.8%. But it’s
not just economic indicators that
fall prey to high-intensity conflict:
the very credibility of institutions
is affected. The IMF study looked
at the EU, which, while not directly
bordering the Middle East, is, nevertheless, the final destination of
civilians fleeing the conflicts in that
region. According to the IMF’s paper, the flow of migrants towards
the EU (since 2014, 1.7 million
have fled to EU Member States)
is “undermining important achievements of the European project,
such as the freedom of movement
of people across national borders,
and is contributing to a growing
sense of insecurity.” Then, there
is also the issue of increasing pressure brought on “public services,
which were already in crisis,” by
masses of refugees. However, according to the study, a properly
regulated migration of “a number
of refugees which is limited compared to the overall population,
could have a much more positive
effect on economic growth” in Europe, compared to what occurs in
the least developed Middle East
and North African host countries.
L'AVVISATORE MARITTIMO
VI
Giovedì 27 ottobre 2016
S PECIALE M IDDLE E AST
CAPITAL ECONOMICS E BNP PARIBAS PREVEDONO LA PRIMA CONTRAZIONE DELL’ECONOMIA DEL REGNO DAL 2009
La Vision opaca dell’Arabia Saudita
Austerity e crisi energetica mettono in bilico il programma di affrancamento dal petrolio
I
l nuovo corso della politica
economica dell’Arabia Saudita sta andando incontro a non
poche difficoltà. Il primo anno del
programma Vision 2030, pensato
per ridurre la dipendenza del Paese
dal petrolio, potrebbe chiudersi con
una recessione, senza aver minimamente diminuito la percentuale del
Pil che arriva dall’oro nero. Le misure di austerity introdotte per far
fronte al calo del prezzo del barile
hanno infatti penalizzato l’attività
economica, mentre l’aumento della produzione di greggio, voluta
da Riad per mettere fuori mercato
il fracking Usa (e garantire sufficienti introiti per la macchina statale), ha fatto sì che l’economia petrolifera non facesse alcun passo indietro. È comunque presto per
parlare di un fallimento del programma voluto dal principe
Muhammad bin Salman, soprattutto ora che i corsi al rialzo petrolio
potrebbero risolvere non pochi problemi in casa saudita.
Secondo uno studio condotto da
Bloomberg, quest’anno l’economia dell’Arabia Saudita crescerà
dell’1,1%, mentre sia Capital Economics che Bnp Paribas prevedono
la prima contrazione dal 2009. “Il
peso sulle famiglie sta aumentando
sempre di più”, spiega Jason Tuvey,
economista responsabile del Medio Oriente della società Capital
Economics di Londra.
Vision 2030 prevede che, nell’arco di 15 anni, il Pil raddoppi con
la creazione di 6 milioni di posti
di lavoro nel settore privato, così
da poter competere sui mercati internazionali in settori che non hanno niente a che vedere con l’industria petrolifera. Particolare attenzione sarà dedicata al settore
finanziario e non è un caso che
uno degli investimenti più importanti sia la costruzione, con un costo
complessivo di 8 miliardi di dollari,
del The King Abdullah Financial
District, una “city” finanziaria nel
cuore di Riyadh che vuole ospitare
il nucleo economico del Paese.
L’Arabia Saudita, che di recente
è stata protagonista di importanti
emissioni sul mercato obbligazionario e si appresta a privatizzare
parte dell’Aramco, la mega compa-
gnia petrolifera nazionale, vuole
diventare la piazza finanziaria di
riferimento per la regione mediorientale e per fare ciò è anche disposta ad aprire il primo del Paese
proprio nel The King Abdullah Financial District.
Per ora, però, hanno la meglio
le difficoltà finanziarie. Già prima
di annunciare il suo programma
Vision 2030 ad aprile, il governo
aveva aumentato il prezzo di carburante e utenze. Secondo alcune indiscrezioni starebbe ora valutando
dei piani per cancellare progetti
per oltre 18 miliardi di euro. Di
recente, invece, stati sospesi i bonus e ridotte le indennità per i dipendenti del governo, lo stipendio dei
ministri è stato tagliato del 20%
e la Banca centrale del paese ha
detto che sta immettendo circa 20
miliardi di riyal (4,8 miliardi di
euro) nel sistema bancario per contrastare la contrazione della liquidità. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che nel 2017 il deficit
di bilancio saudita scenderà sotto
al 10% del Pil dall’esorbitante 16%
dell’anno scorso. All’inizio di questo mese la Banca nazionale commerciale dell’Arabia Saudita, il più
grande istituto di credito del Paese
per risorse, ha comunicato che prevede un terzo trimestre in perdita.
La probabile contrazione del Pil
non legato al petrolio di quest’anno
interromperà un periodo in cui la
sua quota nell’economia complessiva del paese è aumentata stabilmente, arrivando nel 2015 a superare il 55%. La crescita, tuttavia, era
stata alimentata dalla spesa pubblica, che a sua volta dipendeva dalle
entrate derivanti dalle esportazioni
di idrocarburi per gli investimenti
in progetti infrastrutturali e la creazione di posti di lavoro pubblici
per i cittadini sauditi.
“Con i tagli alla spesa pubblica
e le riforme fiscali, per quest’anno
non vediamo da dove possa arrivare la crescita nei settori non legati
al petrolio”, afferma Monica Malik, economista capo della Abu
Dhabi Commercial Bank. Ad aprile bin Salman ha riconosciuto gli
ostacoli a breve termine per la crescita dell’Arabia Saudita: “Nei primi anni non ci aspettiamo crescita
perché sono gli anni delle riforme,
ma per gli anni successivi ci aspettiamo una crescita molto alta”.
A REPORT BY FILIPPO GALLO, FROM THE BUREAU OF FEDERAGENTI: “THE GAME CHANGER WAS GAS COMING INTO THE PICTURE”
“Trade with Italy down, shifting freight volumes”
The Middle East, a tough market: there are no fixed reference points
C
ontainer shipments from
Italy to the Middle East decreased by 6 percent from 2015
to 2016. 211,823 containers departed from Italy in the first eight months of the year, versus 224,315 in
the same period in 2015. And if
the main port in the area, Jebel
Ali, saw an increase (from 51,000
to 58,000 TEU), it is perhaps due
to the lines’ new strategy of concentrating traffic; the other ports, on
the other hand, recorded heavy losses: Jeddah from 49,000 TEU in
2015 to 43,000 TEU in 2016, also
in the period from January to August, in Amman from 20,000 to
18,800 TEU, and Abu Dhabi from
25,000 to 15,500 TEU. However,
the dynamic in maritime freightage
rates in the Middle East, although
not positive, is different and has
fewer critical situations than in
another market that is experiencing
a series crisis, the East Asian freight
market.
“It is clear,” said Filippo Gallo,
representative of the office of the
president of Federagenti, “that the
political geography of the Arab
countries has changed and continues to change. Their importance,
from Saudi Arabia to the United
Arab Emirates and beyond, was
linked to their influence due to the
production of oil. The situation has
changed since gas won a significant
market share compared to 10-15
years ago, when oil ruled the roost.
This conditioned the relationships
of dependency and the role that
Arab countries played in the world
and therefore in the Mediterranean.
Russia and the former Soviet countries that produce gas won a substantial share of the global market.”
International political dynamics
directly affect the flows of traffic
that are distributed across the various routes and therefore also affect the corresponding levels of
freight rates for ships, which are
the major drivers of revenue for
that category of shipping agent.
Gallo has profound experience in
the Middle Eastern market which
he gained as an agent in Italy for
UASC, the container carrier company of the Persian Gulf States,
with Qatar as a majority shareholder.
“Qatar is a gas producer,” he explained. “It is a small country, but
influential, with bank and investment fund headquarters. Besides
its presence in football, it has acquired major brands and is successful
worldwide.” Besides considering
changes under way in the Emirates,
one must add other important coun-
tries like Iran and Iraq on one hand,
and Libya and Egypt on the other.
“Egypt and Libya,” reminded
Gallo, “played an important role
in our trade. Today we hardly
export to Libya, nor import oil from
Libya.” In short, the most important points of reference are constantly changing, a principle which also
applies to the two large countries,
Iran and Iraq. “Iran is very solid.
The embargo is almost over, but
many restrictions remain in place.
It is difficult to sell Italian products
and to transport them there. But
there is ferment, and we expect
that the situation will ripen and
bear fruit from March, 2017.” The
situation in Iraq is worse, where
in fact “everything has stopped,”
and for the moment there are no
prospects for change. “And yet this
country has significant potential.
We mustn’t forget that they have
a high population density.”
The trade numbers, as we have
seen, have dropped, which has never happened in the past. “From
the always positive numbers that
we were accustomed to seeing be-
fore, with significant market
growth, we have had a couple of
years in which trading has slowed.
The purchasing power of these
countries has decreased with the
decreasing price of oil.” Gallo explained that this situation has also
made itself felt in terms of freight
rates, for which, however, the trend
is different than in other areas of
the world. “Certainly the drop in
the price of oil and the difficulties
of countries in the Middle East are
affecting maritime freight rates,
which have stabilised since last year. The trend is different than in
East Asia, where decreases in traffic have been recorded. The Middle
East is a distinct market, in which
all the major players have a presence. The Port of Jeddah is the exception, precisely because it was influenced by traffic to the Far East:
here freight rates have risen and
fallen, but there is greater
downward pressure.”
In terms of episodes of piracy
and terrorism, there are few concerns about the proper functioning of
the maritime supply networks. “Piracy and terrorism have no influence either on the container market
nor on tankers on routes to the
Gulf. There are higher costs, but
they are no cause for concern. The
conflict has had an enormous effect
on Libya and partly on Egypt. Here
one perceives a lack of confidence
that is limiting the level of acquisitions.”
L'AVVISATORE MARITTIMO
VII
Giovedì 27 ottobre 2016
S PECIALE M IDDLE E AST
IL PUNTO DI VISTA DEL PRESIDENTE DI SPEDIPORTO
Genova-Medio Oriente, rapporto sempre più stretto
Pitto: «Mercato non più legato solamente al petrolio, ma ai beni di consumo»
P
er gli spedizionieri genovesi
il Medio Oriente è una delle
destinazioni più frequentate. «Il
terzo porto internazionale per volume di traffico di merce in movimentazione da Genova - spiega Alessandro Pitto, presidente di Spediporto, l’associazione delle case di
spedizione di Genova - è quello
di Jeddah e il settimo è Jebel Alì.
Vuol dire che come destinazione
il Medio Oriente è importante. In
teoria nei primi posti della classifica c’è anche Port Said, che è sedicesimo, ma si tratta di uno scalo dedicato soprattutto al transhipment».
Nella tabella stilata dall’Autorità
portuale di Genova per il 2015,
Jeddah è al terzo posto come provenienza o destinazione (3,72 per
cento dei container movimentati
nello scalo), Jebel Ali al settimo
(2,64 per cento), Alessandria, in
Egitto, all’undicesimo (1,83 per
cento) e Port Said al sedicesimo
(1,56 per cento). Pitto nota inoltre
come, secondo i dati Istat 2015
sulle esportazioni dall’Italia (in cui
sono comprese le diverse modalità
di trasporto, non solo via mare)
il Medio Oriente rappresenti un
buon 5,2 per cento delle esportazioni nel 2015, su un totale dell’Asia
pari al 15 per cento.
Le economie dei paesi del Golfo
Persico non stanno attraversando
un momento brillante a causa del
basso prezzo del petrolio. Uno studio pubblicato in Kuwait e ripreso
dal giornale francese “Le Figaro”
mostra che il deficit accumulato
dalle sei monarchie del petrolio
del Golfo raggiungerà nel 2016 i
153 miliardi di dollari contro i 119
miliardi di deficit del 2015. Nel
2013 le entrate da petrolio e gas
erano di 735 miliardi di dollari,
nel 2016 scenderanno a 330 miliar-
di.
Ma i paesi del Golfo restano un
cliente importante per la produzione italiana. Il presidente degli spedizionieri genovesi dal canto suo
è ottimista e cita il dato del Fondo
monetario internazionale, secondo
cui il Pil delle economie del Golfo
salirà del 2,3 per cento nel 2017,
quello dell’Iran del 3,7 per cento.
E anche se riconosce che, per le
merci in esportazione dall’Italia al
Medio Oriente, «i prodotti chimici
per il settore dell’oil and gas risentono del calo del prezzo del petro-
lio», tuttavia «parecchi beni di lusso, tessili, mobili, prendono la via
di Emirati e Dubai, dove edilizia
e turismo sono in crescita. E anche
il food italiano è molto richiesto».
I dati Istat sul commercio estero
italiano mostrano come il Medio
Oriente non sfiguri rispetto al Far
East, principale polo del commercio mondiale, per quanto riguarda
le nostre esportazioni e che abbia
un peso considerevole, sia pure minore, anche per quanto riguarda
le importazioni.
L’andamento però è altalenante,
proprio a causa dei problemi che
sta attraversando quest’area. Fra
le aree geografiche di provenienza
dell’import italiano, il Medio
Oriente ha rappresentato nel 2015
un valore di 15,231 miliardi di euro,
in calo rispetto ai 16,604 miliardi
del 2014, a fronte di un aumento
complessivo delle importazioni
italiane (da 356,939 del 2014 a
368,715 miliardi di euro del 2015).
Nel 2016 c’è stato un ulteriore calo.
Nei primi cinque mesi, da gennaio
a maggio, l’Istat registra un valore
di importazioni di 4,793 miliardi
di euro, contro i 6,639 miliardi dello
stesso periodo del 2015. Quest’anno però il calo è generalizzato e
le importazioni italiane sono diminuite con tutto il mondo (nei primi
cinque mesi, da 155,031 a 151,547
miliardi di euro fra 2015 e 2016).
In termini percentuali sul totale dell’import italiano, il Medio Oriente
è calato dal 4,7 al 4,1 per cento
fra 2014 e 2015 e, nei primi cinque
mesi, da 4,3 a 3,2 per cento fra
2015 e 2016. Va tenuto conto che
le importazioni riguardano in grande parte prodotti petroliferi, per
cui anche a parità di tonnellaggio
movimentato, influisce la variazione di valore del petrolio. Se poi
si guarda all’export, la situazione
è meno definita e il quadro non
così chiaramente negativo, anzi.
Fra 2014 e 2015 c’è stato un aumento in termini di valore, mentre fra
2015 e 2016 il calo non è stato
così vistoso come per le importazioni.
Fra le aree geografiche di destinazione delle esportazioni italiane,
il Medio Oriente ha rappresentato
nel 2015 un valore di 21,543 miliardi di euro, in aumento rispetto ai
19,867 miliardi del 2014, in linea
con un aumento complessivo delle
esportazioni italiane (da 398,870
del 2014 a 413,881 miliardi di euro
del 2015). Nel 2016 c’è stato un
calo. Nei primi cinque mesi, da
gennaio a maggio, l’Istat registra
un valore di esportazioni di 8,086
miliardi di euro, contro gli 8,743
miliardi dello stesso periodo del
2015. Quest’anno le esportazioni
italiane nel mondo sono aumentate
(nei primi cinque mesi, da 170,100
a 170,217 miliardi di euro fra 2015
e 2016). In termini percentuali sul
totale dell’export italiano, il Medio
Oriente è cresciuto dal 5,0 al 5,2
per cento fra 2014 e 2015, mentre
nei primi cinque mesi è calato da
5,1 a 4,8 per cento fra 2015 e 2016.
«Il Medio Oriente - conclude Pitto - non è più legato soltanto al
mercato petrolifero, ma diventa anche destinazione di beni. Per il made in Italy è un mercato di riferimento. Il prezzo del petrolio si sta
riprendendo e paesi come gli Emirati tentano di diversificare la propria economia, anche se sicuramente prezzo del petrolio e conflitti
(Iraq, Siria, Yemen, Libia) hanno
influito sui traffici».
FOCUS
Il caso dell’export alimentare italiano: quando
pasta e macchinari riescono a fare sistema
L
e esportazioni italiane di
prodotti alimentari continuano a crescere, raggiungendo 21
miliardi di euro nel 2015. Lo si
legge in un rapporto Sace. L’apprezzamento dei nostri beni alimentari tradizionali non è una novità ma è meno nota la loro funzione
di traino per le altre eccellenze del
sistema produttivo italiano. I macchinari sono una di queste.
Collegati alla vendita dei prodotti
alimentari, ci sono infatti i macchinari per la trasformazione, l’altra
faccia – meno nota ai consumatori
– della stessa medaglia. Basti pensare che nel 2015 l’Italia ha esportato macchinari per oltre 3 miliardi
di euro, rivelando una crescita del
6,3% che molto si avvicina al tasso
con cui sono cresciuti gli alimentari
che con questi si producono
(+6,8%). Si tratta di macchinari
specifici e con un uso piuttosto
circoscritto, quindi non deve stupire se rappresentano una quota modesta del totale della meccanica
strumentale italiana nel mondo
(circa il 4%). I macchinari per la
trasformazione alimentare sono
stati, tra l’altro, tra quelli con una
crescita più sostenuta: più che doppia rispetto al totale della meccanica strumentale nell’ultimo anno
(+2,7%).
Dei 21 miliardi di euro di beni
alimentari esportati nel 2015, la
metà ha riguardato solamente tre
prodotti: pasta, vino e formaggi.
La crescita delle vendite all’estero
non solo ha tenuto il passo con
l’andamento mondiale degli ultimi
anni, ma è riuscita anche a fare
meglio nei formaggi e nel vino.
Questi due comparti hanno registrato una performance superiore
a quella dei concorrenti francesi
e tedeschi, il cui dinamismo è stato
invece limitato, ottenendo una
maggiore quota nel mercato mondiale. Tutt’altra storia per gli Stati
Uniti, in cui le vendite di questi
prodotti sono cresciute a ritmi elevati guadagnando fette di mercato,
anche se i valori esportati continuano a essere ridotti. Un caso particolare riguarda la pasta, in cui l’Italia
continua a essere il primo produtto-
re ed esportatore mondiale, mantenendo a distanza Cina, Turchia,
Thailandia e Stati Uniti, che seguono nella classifica dei top exporter.
La differenza nei tassi di crescita
con alcuni dei nostri competitor
va letta in un quadro di crescente
interesse per questo alimento e
quindi anche di maggiore attrattività per i produttori non tradizionali.
Questo andamento e la competizione con le economie emergenti è
anche indice di una ricerca da parte
dei consumatori non solo della pasta di maggiore qualità, e quindi
di fascia di prezzo più elevata come
quella italiana, ma anche di varianti
più economiche.
Ma come si producono questi alimenti? Oltre alla materia prima,
fondamentale, l’esperienza e la conoscenza, l’utilizzo di macchinari
specifici è indispensabile per un
prodotto esclusivo. Le vendite all’estero di macchinari mostrano,
sempre per il periodo 2007-2015,
un andamento diverso rispetto a
quella dei prodotti alimentari, con
tassi di crescita negli scambi più
contenuti se non addirittura in contrazione.
Dal 2007, infatti, la domanda glo-
bale di macchinari per la produzione di formaggio e vino è in calo.
L’export di macchine tedesche per
formaggi e latticini (terzi produttori a livello mondiale) si è dimezzato
nel 2015 rispetto al 2007. Come
per i prodotti alimentari, le esportazioni di macchine americane segnano un’inversione di rotta rispetto all’andamento mondiale. Le
esportazioni italiane di macchine
per la produzione di formaggi, pasta e vino emergono, invece, più
solide rispetto ai vicini di casa tedeschi e francesi.
Se negli ultimi anni i trend di
crescita degli alimentari e relativi
macchinari hanno seguito andamenti diversi, a riprova del fatto
che non necessariamente esiste una
correlazione forte tra le esportazioni dei due settori, è tuttavia importante rilevare che, in un’ottica sistemica, l’andamento all’estero degli
uni può segnalare opportunità di
sviluppo per gli altri e viceversa.
Possiamo allora considerare i
prodotti alimentari e le macchine
dedicate alla loro produzione come
due facce della stessa medaglia?
In un approccio di filiera, la possibilità di fare sistema tra le eccellenze
produttive italiane apre nuove possibilità nell’identificazione delle
geografie di opportunità e nuove
strade nell’espansione nei mercati
esteri. L’ampliamento del mercato
dei prodotti alimentari non deriva
solo da un maggiore domanda dei
beni stessi, ma può derivare anche
dalla vendita dei macchinari specializzati in quella produzione, e
viceversa.
Analizzando l’andamento delle
nostre esportazioni negli ultimi anni dei macchinari per la produzione
di formaggi, pasta e vino e dei
relativi prodotti alimentari in alcune delle geografie più promettenti
per la crescita delle nostre vendite
– Cina, India, Messico e Stati Uniti
–, alcune tendenze appaiono chiare. C’è una chiara relazione tra prodotto venduto e macchinario necessario alla sua produzione per tutti
e quattro i Paesi nel caso dei formaggi e, più in generale, per tutti
i prodotti considerati esportati verso Cina e Messico.
L'AVVISATORE MARITTIMO
VIII
Giovedì 27 ottobre 2016
S PECIALE M IDDLE E AST
SAT NAV AND FREIGHT SOFTWARE: SHIPPING SECTOR’S WEAK POINTS
Being at sea turns out to be risky
So far fewer than ten hacker attacks, international guidelines being studied by UN
W
orldwide, 90% of freight
is transported by sea,
and ferries transport 2.1 billion
passengers
annually,
plus
another 24 million travel aboard
cruise ships. While a confusing
array of national and international regulations, focused mainly
on safety and pollution (criteria
easily translated into dollarsand-cents by the industry) regulate merchant shipping and port
facilities, however, in terms of
cyber security, the International
Maritime Organization (the
UN’s maritime safety agency)
is still struggling to come up with
a draft law, and for now makes
do with a set of non-binding guidelines for the main international
organizations in the sector. A study by the University of Coventry
highlights that 67% of Company
Security Officers (CSOs) within
shipping companies felt cyber
security was not a serious threat
to international shipping, and,
furthermore, 89% of CSOs did
not believe cyber security was
their responsibility.
In Italy, just as elsewhere in
the world - in March this year
Homeland Security described
US ports as “poorly equipped”
against attacks by hackers - there
is no global shield in place to
protect computer network systems in port terminals, port
stakeholders (agents, freight
forwarders, hauliers, tugs, pilots,
boatmen, stevedores), government agencies, safety authorities
and shipowners: each protect
themselves separately. “Until
now,” says Philip Roche, a partner at London law firm Norton
Rose Fulbright, “cyber-attacks
have not been perceived by the
This general view shows the Keppel container port in Singapore
maritime sector as something
that presents a risk of physical
harm,” as, for example, happens
conversely with a ship that sinks
or a crane that collapses. “Instead, as ships and terminals are
increasingly computerized, there are increasing risks of something going wrong. The threats do not always come from hackers: shipboard systems are
connected to one common
network, and it would only take
a shipping agent’s laptop containing some hidden malware to
create problems.” In addition, up
to now, the few actual cyber-attacks at sea have not produced
victims nor caused great economic losses to businesses, and
overall they number less than
ten: too few to create widespread
awareness.
The weak points of port termi-
nals can be seen in the inset above. A ship has at least 15 on-board
systems controlled by a computer. Presently, as noted by Yohan
Le Godinec of TECNITAS, who
spoke at IUMI, the huge world
congress of maritime insurers
that was held in Genoa last month, a ship’s weakest point for
cyber-attacks is the on-board
GPS system; this controls radio
trackers, digital maps and
electronic compasses. In 2013,
a group of students from the University of Austin managed to
tamper with the GPS of a yacht,
the White Rose of Drachs, while
off the coast of western Liguria:
her sailors thought they were
charting a straight course, while
in fact they zigzagged for hours
in open waters. The equipment
to conduct a hack such as that
costs less than $3,000.
Over a two-year period, between 2011 and 2013, a criminal
organization targeted the locators of unloaded containers at
Antwerp, managing to retrieve
smuggled cocaine contained inside boxes, before the containers
were handed over to the legitimate receiver. Other weak points:
the AIS (Marine Automatic Identification System), the technology that identifies in real time
the position of all ships in the
world, “can be used, basically,
as a shopping list by pirates,”
or by anyone who wants to attack
a ship, emphasized Le Godinec.
He also described two instances
of oil rigs tilting, one of a customs
system failure (Australia, 2012)
and two computer failures at the
terminals for system updates, in
Genoa and New York in 2013.
It truly is a world without borders.
L'AVVISATORE MARITTIMO
IX
Giovedì 27 ottobre 2016
S PECIALE M IDDLE E AST
INDICATORI POSITIVI PER LE MONARCHIE DEL GOLFO PERSICO. MA A SORPRESA IL TURISMO REGISTRA UNA FRENATA
Economia diversificata: gli Emirati non soffrono
L’affrancamento dalla monocoltura dell’industria petrolifera porta frutti
N
on tutti i grandi produttori
di petrolio sono stati colpiti
duramente dal crollo del barile. Gli
Emirati Arabi Uniti, per esempio,
sono riusciti ad attenuarne l’impatto grazie agli sforzi fatti negli ultimi
anni per diversificare la propria
economia. “Da decenni gli Emirati
investono in infrastrutture, trasporti, servizi finanziari, commercio e
costruzioni, al fine di rafforzare
il livello di diversificazione dell’economia - certifica Seltem Iyigun, economista per la regione Mena di Coface - Tale diversificazione
si è rivelata indispensabile da quando, a metà del 2014, i prezzi del
petrolio sono crollati. Nel 2015,
la quota degli altri settori nel Pil
ha raggiunto il 75% circa, contro
il 65% a metà degli anni 2000”.
Secondo l’esperto dell’equivalente francese dell’italiana Sace
“l’economia degli Emirati Arabi
Uniti è la più diversificata della
regione del Golfo. Il livello relativamente alto di diversificazione
economica l’ha resa meno vulnerabile agli shock dei prezzi petroliferi; questi sforzi hanno permesso
al governo di avere solidi strumenti
di sicurezza finanziaria tali da continuare a sostenere gli altri settori,
come l’immobiliare, le costruzioni, il commercio, le vendite al dettaglio e il turismo”.
Oltre a questa diversificazione,
gli Emirati Arabi Uniti beneficiano
di una stabilità politica e di un solido sistema finanziario, due fattori
che consentono a Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Fujaira, Ras al-Khaima, Sharja e Umm al-Qaywayn
di continuare ad attirare gli investitori internazionali. Inoltre, i consumi delle famiglie sono rimasti stabili, grazie a una liquidità abbon-
dante, a tassi di interesse bassi e
alle continue entrate da turismo.
A febbraio 2016, i prestiti concessi
al settore privato sono aumentati
dell’8,5% in un anno. La diversificazione dell’economia ha infine
evitato che il calo del petrolio aves-
se forti ripercussioni sul piano occupazionale.
Negli Emirati Arabi, le vendite
al dettaglio hanno raggiunto i 173
miliardi di dirham (43 miliardi di
euro) nel 2014, con un aumento
del 6% rispetto al 2013. Nel 2016,
le spese totali delle famiglie dovrebbero raggiungere i 267,1 miliardi di dirham (66 miliardi di euro), contro una previsione di 241,8
miliardi (59 miliardi di euro) per
il 2015. Tale crescita sarà sostenuta
da un alto livello di redditi disponibili e una base stabile di consumato-
ri benestanti, alimentata dagli abitanti locali, dagli espatriati e dai
turisti.
Iyigun stima che “il settore della
distribuzione attiri attualmente il
23% delle entrate totali di investimenti diretti esteri negli Emirati.
Malgrado la saturazione, il settore
distributivo offre sempre possibilità di investimenti, sostenuti dalle
infrastrutture robuste, dall’ambiente ricettivo e da progetti di sviluppo giganteschi”.
Pur essendo la situazione generale complessivamente buona, ovviamente i problemi non mancano.
L’aumento degli affitti sta restringendo i margini di profitto e il calo
continuo dei prezzi del petrolio potrebbe, a lungo termine, destabilizzare gli investimenti in questo settore. Anche le banche devono affrontare un peggioramento delle
condizioni di liquidità e una mancanza di dollari, a causa del crollo
dei depositi da parte delle amministrazioni pubbliche in seguito alla
diminuzione dei prezzi del petrolio. Il turismo, inoltre, è sotto pressione a causa del deprezzamento
del rublo russo e dell’euro. Negli
Emirati, le somme spese dai visitatori ammontavano a 23,5 miliardi
di dollari nel 2014 e a 26 miliardi
nel 2015, un valore che rappresentava il 60% delle esportazioni di
servizi e il 5,4% del totale delle
esportazioni, merci e servizi compresi. Tale dato dovrebbe aumentare del 3,3% nel 2016, dal momento
che il Paese prevede di accogliere
più di 15 milioni di visitatori esteri.
“Per favorire la costruzione di strutture alberghiere di categoria media,
il governo ha deciso di esonerare
dal pagamento delle tasse locali
per un importo pari al 10% (per
una durata iniziale di 4 anni, a partire dalla data di rilascio della concessione edilizia) le costruzioni iniziate tra il 2013 e il 2017 - conclude
Iyigun - Tuttavia, persistono alcuni
problemi; nei primi due mesi del
2016, a Dubai l’occupazione degli
hotel non è aumentata rispetto all’anno precedente, ferma all’84%”.
CAPITAL ECONOMICS AND BNP PARIBAS PREDICT FIRST CONTRACTION OF THE ECONOMY FOR THE KINGDOM SINCE 2009
Saudi Arabia’s lack of Vision: austerity and the energy crisis risk
derailing programmes to move away from dependence on oil
T
he path of Saudi Arabia’s
new economic policy is running up against considerable difficulties.
The first year of the Vision 2030
Programme, which was intended
to reduce the country’s dependence
on petroleum, could have ended
in a recession, without having the
slightest effect on the percentage
of the GDP that comes from oil.
The austerity measures introduced
to cope with the drop in oil prices
have in fact penalised economic
activity, while the increase in the
production of crude oil, which Riyadh wanted in order to shut U.S.
fracking oil out of the market (and
ensure sufficient income for the
state machine), had the result that
the country’s oil dominated economy made no steps forward.
However, it is too soon to speak
of a failure of the programme created by Prince Mohammad bin Salman, especially now that upwards
trending oil prices could resolve
many of Saudi Arabia’s problems.
According to a study conducted
by Bloomberg, this year the Saudi
economy will grow by 1.1%, while
both Capital Economics and BNP
Paribas predict the first contraction
since 2009. “The effect on families
continues to become more and more serious,” Jason Tuvey explained.
Tuvey is head economist for the
Middle East at the London-based
company Capital Economics.
Vision 2030 calls for GDP to
double over the course of 15 years,
with the creation of 6 million jobs
in the private sector, as well as
being able to compete on international markets in sectors that have
nothing to do with the oil sector.
Particular attention will be paid to
the financial sector, and it is not
by chance that one of the most
important investments is the construction of the King Abdullah Financial District, with an overall
cost of $8 billion. The district is
a “city” at the core of Riyadh that
has been designed to play host to
the country’s economic centre.
Saudi Arabia, which recently completed a significant bond issue and
is rushing to privatise part of
Aramco, the enormous national oil
company, wants to become the
“Wall Street” of the Middle East
and is ready to make that happen
at the King Abdullah Financial District.
But for the moment, financial difficulties are winning out. Before
announcing the Vision 2030 Programme in April, the government
increased the price of fuel and utili-
ties. According to leaks they are
now considering plans to cancel
projects worth over €18 billion.
And recently, bonuses were suspended and benefits for government employees were reduced, salaries for ministers were cut by
20% and the country’s central bank
said that it is feeding about 20 billion Saudi Riyal (€4.8 billion) into
the banking system to fight the con-
traction of liquidity. The International Monetary Fund predicts that
in 2017 the Saudi budget deficit
will drop under 10% of GDP from
the exorbitant 16% the previous
year. At the beginning of this month, the Saudi National Commercial
Bank, which is the largest credit
institution in the country in terms
of funds, announced that it expects
losses in the third quarter.
The likely contraction in GDP
not-linked to oil this year will interrupt a period in which its share
in the country’s economy as a whole regularly increased, reaching
over 55% in 2015. The growth,
however, was fed by public spending, which in turn depended on
revenue from hydrocarbon exports
for investments in infrastructure
projects and the creation of publicsector jobs for Saudi citizens.
“With the cuts to public spending
and the fiscal reforms, for this year
we do not see where the growth
in the non-oil linked sectors could
come from,” stated Monica Malik,
the chief economist of the Abu
Dhabi Commercial Bank. In April,
bin Salman recognised the short
term obstacles to Saudi Arabia’s
growth: “In the first years we do
not expect growth because they
are years of reforms, but for the
years that follow we expect very
high growth.”
L'AVVISATORE MARITTIMO
X
Giovedì 27 ottobre 2016
S PECIALE M IDDLE E AST
FOCUS
Israele, la forza miliardaria delle start-up
Nel 2015 hanno attirato investimenti per 9 miliardi, riducendo l’effetto negativo del calo dell’export
S
econdo i dati resi noti dal
Central Bureau of Statistics
(CBS), la crescita del Pil in termini
reali per il 2015 in Israele è stata
del 2,5%. Sull’economia israeliana
pesa in particolar modo la caduta
delle esportazioni, causata dalla
crisi economica globale e dal continuo apprezzamento della valuta locale (Shekel). Il flusso degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) nel
2015 è stato di 12 miliardi di dollari,
pari al 4,1% del Pil, ritornando cosi
ai livelli del 2013 (12,4 miliardi)
dopo un deludente 2014 (poco più
di 6 miliardi). Sul fronte delle Fusioni&Acquisizioni, il bilancio resta ampiamente positivo, registrando una crescita delle acquisizioni
da parte di Stati Uniti e Regno
Unito. Nel 2015 le start-up israeleiane hanno attirato investimenti per
oltre 9 miliardi di dollari, con un
incremento del 16% rispetto al
2014.
II deficit della bilancia commerciale nel 2015 si è quasi dimezzato
rispetto al 2014: a un calo del
14,24% delle importazioni (61,302
miliardi di dollari), è corrisposta
una riduzione del 7,35% delle
esportazioni (53,427 miliardi di
dollari), a causa della crisi economica globale e di un brusco calo
dell’export di diamanti lavorati,
mitigato in parte da una forte crescita dell’export di prodotti di alta
tecnologia.
L’84% dell’export israeliano del
2015 è stato costituito da prodotti
dell’industria
manifatturiera
(esclusi i diamanti) e in particolare
di prodotti ad alto contenuto tecnologico che costituiscono il 50% dell’export di quel segmento. I prodotti che hanno registrato il tasso di
crescita più alto, nell’ambito delle
esportazioni high-tech, sono quelli
dell’industria aereo-spaziale, seguiti da quelli dell’elettronica,
computer e strumentazioni ottiche
e dell’industria farmaceutica. Si
sono invece contratte le esportazioni di beni a medio-alto valore tecnologico (in particolare i prodotti chimici) e quelle di diamanti lavorati
(-20,6%) e di prodotti agricoli
(-16,1%).
Sul fronte delle importazioni, il
più vistoso calo (in valore, ma non
in quantità) è stato quello dei carburanti (-42%). Sono ugualmente diminuite (-26,8%) le importazioni
di diamanti grezzi. Le importazioni
di materie prime (esclusi idrocarburi), che costituiscono il 37,5%
dell’import, sono costituite principalmente da prodotti per l’industria
manifatturiera ed elettronica e prodotti chimici. Le importazioni di
beni di consumo si sono attestate
al 16,7% delle importazioni totali
e sono essenzialmente rappresentate da mobili ed apparecchi elettrici, prodotti alimentari, abbigliamento e calzature. Le importazioni
di beni strumentali, pari al 12,7%
dell’import totale, sono costituite
principalmente da macchinari ed
impianti.
L’Unione europea permane il primo partner commerciale di Israele:
primo fornitore, con una quota del
37,8%, seguita dall’Asia (23,5%)
e dagli Stati Uniti (13,5%). I principali fornitori di Israele (esclusi i
diamanti) sono gli Stati Uniti, la
Cina, la Germania, la Svizzera e
l’Italia che si conferma terzo fornitore europeo. Seguono Turchia, Paesi Bassi, Regno Unito e Belgio.
Anche sul fronte delle esportazioni
israeliane (diamanti esclusi),
l’Unione europea rappresenta il
primo mercato di sbocco per Israele, con una quota del 29%, seguita
Un ufficiale della Marina israeliana nel porto di Haifa
dall’Asia (25%) e gli Stati Uniti
(24%). I principali clienti di Israele
sono gli Stati Uniti, il Regno Unito,
la Cina e i Paesi Bassi. L’Italia
è l’undicesimo cliente di Israele.
Il Bilancio dello Stato ha registrato un deficit contenuto pari al 2%
del Pil determinato dalla tardiva
approvazione della legge del Bilancio che ha obbligato tutti i Ministeri
ad operare in regime provvisorio.
La Banca Centrale, nel tentativo
di frenare le spinte deflazionistiche
(a settembre 2015, l’indice dei
prezzi al consumo è diminuito dello
0,5% su base annua), continua a
mantere il tasso d’interesse allo
0,1%. Il tasso di disoccupazione
è passato dall’8,3% del 2010 al
5,3% del 2015.
ll mercato israeliano, nonostante
le sue piccole dimensioni, si conferma di grande interesse per l’Italia. Analogamente, quello italiano
e’ spesso considerato strategico per
imprese israeliane che cercano
nuovi sbocchi sul mercato UE, grazie alla vicinanza geografica e culturale.
La collaborazione con l’industria
italiana, viene sempre più considerata dagli ambienti hi-tech israeliani come un naturale complemento
nel passaggio dalla fase di ricerca
e brevettazione a quella di realizzazione e commercializzazione dei
prodotti finiti. Occorre ricordare
infatti che il tessuto industriale israeliano non è molto articolato, con
l’ovvia eccezione del settore della
difesa. L’Italia è quindi vista come
un valido partner nella fase di industrializzazione dei prodotti e delle
tecnologie, grazie alla diversificazione, flessibilità ed estensione del
nostro sistema industriale. Contestualmente negli ambienti imprenditoriali italiani è cresciuta la consapevolezza del rilievo assunto dall’high-tech israeliano e delle
opportunità che offre.
In questo quadro, i rapporti economici bilaterali tra Italia ed Israele
hanno visto affiancarsi al volume
di scambi tradizionalmente cospicuo un flusso crescente di iniziative
volte a stimolare la cooperazione
scientifica, tecnologica e finanziaria tra i due Paesi.
Oltre alle industrie tradizionali
come ad esempio quella della plastica, dei minerali e della chimica,
Israele vanta un’eccellente reputazione nei settori legati all’hi-tech,
biomedicina, innovazione agricola, security e energie rinnovabili,
tutti settori legati all’innovazione
tecnologica.
Particolarmente promettente è la
cooperazione nel settore dell’energia e dell’acqua, tra i temi qualificanti del Vertice di Roma del 2
dicembre 2013, quando è stata firmata una Dichiarazione sulla collaborazione bilaterale in tale settore.
Di particolare interesse sono i contatti per verificare la possibilità che
l’Italia costituisca in futuro l’hub
principale per il transito verso l’Europa centrosettentrionale del gas
israeliano destinato all’esportazione. E’ utile menzionare in questo
contesto, l’incontro che l’Amministratore Delegato di Eni, Claudio
Descalzi ha avuto recentemente a
Gerusalemme con il Priemier Israeliano, Netanyahu ed il Ministro
delle Infrastrutture e dell’Energia
Steinitz, per discutere su possibili
sinergie e sul potenziale sviluppo
congiunto del settore gas naturale
nel Mediterraneo, per quanto riguarda le infrastrutture di trasporto
e distribuzione.
FOCUS
Export italiano, gli Emirati Arabi si confermano
tra i principali partner delle aziende italiane
G
li Emirati Arabi si confermano il principale mercato
di sbocco delle esportazioni italiane nell’area Mena. L’Italia si posiziona all’ottavo posto in assoluto
tra i paesi fornitori degli Eau e
terzo tra i partners europei.
Nel 2015 l’interscambio ItaliaEau ha registrato un trend molto
positivo, durante il quale diversi
sono stati i record segnati, a testimonianza degli effetti positivi del
basso valore dell’Euro rispetto alla
valuta locale, da oltre un ventennio
ancorata a tasso fisso al Dollaro
Usa. Di record si è trattato, infatti,
non solo per il nostro export, che
ha superato quota 6 miliardi di euro
(circa 6,19 miliardi), ma anche per
l’interscambio totale (oltre 7 miliardi di euro) e per il surplus della
bilancia commerciale (oltre 5,3 miliardi di euro). In particolare, il
comparto orafo e della bigiotteria
si è confermato quale principale
contributo singolo delle nostre
esportazioni in questo Paese, pur
segnando una contrazione del 11%
(con un valore di oltre 1 miliardo
di euro) e superato, in aggregato,
dal comparto dei macchinari, vicino agli 1,2 miliardi di euro. Al
terzo posto i raffinati del petrolio,
in crescita del 30% rispetto al 2014.
Passando alle importazioni, esse
hanno fatto segnare un +35,5% pari
ad un valore complessivo di oltre
850 milioni di euro, dovuto essenzialmente al comparto dei prodotti
raffinati del petrolio (331 milioni
di euro).
I dati dei primi cinque mesi del
2016 segnano invece una flessione
del 13,8% del nostro export , che
ha totalizzato circa 2,2 miliardi di
euro, con un incremento del 14.4%
per il nostro import, pari a circa
342 milioni di euro. Guardando
alle singole voci, si osserva che
l’effetto deprimente sul totale dell’interscambio è ascrivibile al comparto gioielleria (-17,5%), che conferma la flessione settoriale registrata nel 2015 ascrivibile
probabilmente alla contrazione dei
flussi turistici provenienti in parti-
colare da Fed. Russa e Cina, nonché
della perdita, almeno temporanea,
per i rivenditori Eau di importanti
mercati mediorientali o nordafricani, segnati da conflitti o profonde
tensioni socio-economiche. A tale
flessione si aggiunge quella del
comparto dei prodotti petroliferi
raffinati (-71,4%), che risentono
in maniera netta dell’andamento
sfavorevole dei prezzi del greggio
e del relativo rallentamento di questa economia. Si afferma, al contra-
rio, la progressione di molti altri
settori di punta del “made in Italy”
quali Macchine di impiego generale (+30,1%), Motori, generatori
elettrici, ecc.(+52,2%), Altre macchine di impiego generale (+10%),
Altre macchine per impieghi speciali ( +8,4%) e Mobili (+18,3%),
a testimonianza della vitalità delle
produzioni italiane e della loro capacita’ di raccogliere il consenso
degli acquirenti locali, a maggior
ragione in una fase di crescente
diversificazione economica ed allargamento della base manifatturiera. Sotto il profilo del nostro
import, e’ invece importante sottolineare come gran parte dell’inatteso incremento sia di fatto riconducibile al comparto “metalli di base
preziosi ed altri metalli non ferrosi”
(euro 196 milioni +116,3%). Un
dato che lascia ben sperare in una
ripresa del nostro export del comparto “gioielleria”: i produttori italiani, che operano in questo merca-
to essenzialmente come contoterzisti per le grandi catene orafe
indiane e/o pakistane, sembrerebbero infatti aver aumentato l’acquisto di materia prima in vista di
un previsto incremento degli ordinativi.
La presenza imprenditoriale italiana negli Emirati Arabi Uniti è
altamente qualificata ed è rappresentata da oltre 600 aziende onshore operanti tra unità con propria
filiale e molte altre che operano
tramite agenti locali. Il potenziale
per le produzioni ed i servizi italiani
sul mercato rimane alto potendo
comunque beneficiare della presenza nel Paese di un elevato reddito pro-capite e di una ricchezza
petrolifera che durerà almeno per
i prossimi 100 anni.
Di fatto gli Emirati Arabi Uniti
rimangono una delle più dinamiche
realtà dell’intera regione, con una
crescita economica che è stata particolarmente intensa nel periodo
compreso fra il 2005 e il 2008,
per poi rallentare a partire dalla
fine del 2008 - in coincidenza con
la fase di recessione della crisi debitoria della holding pubblica Dubai
World - ed infine riprendere dal
2013. Tuttavia, la recente stagnazione del mercato petrolifero ed
il rallentamento della domanda
mondiale, unitamente all’indebolimento delle entrate fiscali e della
liquidità bancaria, stanno producendo effetti calmieranti sul tasso
di crescita del PIL reale del paese.
Grandi opportunità di business potranno essere colte sul percorso verso l’Expo di Dubai del 2020.
L'AVVISATORE MARITTIMO
XI
Giovedì 27 ottobre 2016
S PECIALE M IDDLE E AST
SISTEMI SATELLITARI E SOFTWARE AZIENDALI I PUNTI DEBOLI DEL SETTORE
Anche il mare scopre di essere vulnerabile
Finora meno di 10 attacchi hacker, l’Onu studia una legge internazionale
N
el mondo, il 90% della merce viaggia via mare, i traghetti trasportano ogni anno 2,1
miliardi di persone cui si aggiunge
una quota di 24 milioni di passeggeri a bordo delle navi da crociera.
La navigazione commerciale e le
strutture portuali sono dominate da
una selva di regole nazionali e internazionali, fortemente centrate su
sicurezza e inquinamento (fattori
monetizzati dal mercato dei noli)
mentre sul fronte della cyber-sicurezza l’Organizzazione marittima
internazionale (l’Onu dei mari) è
ancora alle prese con la bozza di
legge, cui per ora supplisce un codice di auto-regolamentazione delle
principali organizzazioni internazionali di settore. Un’indagine dell’Università di Coventry sottolinea
che il 67% dei responsabili della
sicurezza delle compagnie di navigazione ritiene che la cyber-sicurezza non sia una minaccia seria
per le aziende e comunque l’89%
pensa che non sia questione di loro
competenza.
In Italia come nel mondo - a marzo di quest’anno è stata l’Homeland Security a definire i porti Usa
«scarsamente attrezzati» sul fronte
hacker - non esiste uno scudo globale che preveda la protezione della
rete informatica tra terminal portuali, società di servizi (agenti, spedizionieri, autotrasportatori, rimorchiatori, piloti, ormeggiatori,
scaricatori), enti pubblici, autorità
di sicurezza e armatori: ogni soggetto ha le proprie difese in autonomia. «Sinora - spiega Philip Roche,
partner a Londra dello studio legale
Norton Rose Fulbright - nel settore
marittimo il cyber-attacco è percepito come qualcosa che non deter-
mina rischi fisici» al contrario per
esempio di una nave che affonda
o una gru che cade. «Invece, su
navi e terminal sempre più infor-
matizzati, il rischio di comprometterne l’attività cresce. Non sempre
si tratta di hacker: i sistemi sono
in rete, basta il pc di un agente
marittimo infettato da un virus per
creare problemi». Inoltre, fino a
questo momento i pochi cyber-attacchi in mare non hanno prodotto
vittime né causato grandi perdite
economiche alle aziende, e complessivamente sono risultati inferiori alla decina: troppo poco per
creare una sensibilità diffusa.
I punti deboli di un terminal portuale si possono vedere nell’infografica qui sopra. Una nave a sua
volta ha almeno 15 punti controllati
da un sistema informatico. Per ora,
come rilevato da Yohan Le Godinec della società Tecnitas, intervenuto allo Iumi, il maxi-congresso
mondiale degli assicuratori marittimi che si è tenuto il mese scorso
a Genova, il punto debole degli
attacchi informatici è la rete satellitare Gps (Global Positioning System) su cui si basano geolocalizzatori, mappe digitali e bussole elettroniche. Nel 2013, al largo del
Ponente ligure, un gruppo di studenti dell’Università di Austin sono riusciti a manomettere il Gps
dello yacht “White Rose of Drachs”: i marinai credevano di andare
dritti, in realtà hanno fatto zig-zag
per ore in mare aperto. L’operazione è costata meno di 3.000 dollari.
Per due anni, tra 2011 e 2013
un’organizzazione criminale ha
preso di mira i localizzatori di alcuni container scaricati ad Anversa,
riuscendo a togliere la cocaina che
si trovava dentro questi cassoni prima che venissero presi in consegna
dal ricevente legittimo. Ancora:
l’Ais, il sistema radar-satellitare
che identifica in tempo reale la posizione di tutte le navi del mondo,
«è in pratica la lista della spesa
per i pirati» o chiunque voglia assaltare una nave, sottolinea Le Godinec. Due i casi di tilt di piattaforme petrolifere, uno di blocco del
sistema doganale (Australia, 2012)
due blocchi informatici nei terminal per l’aggiornamento dei sistemi
operativi, a Genova e New York
nel 2013. Davvero qui non esistono
frontiere.
L'AVVISATORE MARITTIMO
XII
Giovedì 27 ottobre 2016
S PECIALE M IDDLE E AST
ANALISI
Commercio, saldo il legame Italia-Giordania
Nei primi 5 mesi del 2016 le esportazioni italiane hanno registrato un trend positivo
L
a presenza economica italiana in Giordania si caratterizza tradizionalmente più sul profilo
commerciale che quello degli investimenti produttivi.
Nei primi 5 mesi del 2016 le
esportazioni italiane hanno registrato un trend positivo nei seguenti
settori, rispetto allo stesso periodo
del 2015,: +12,7% prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici; +37,5% prodotti dell’agricoltura, pesca e silvicoltura;
+31,7% articoli in pelle escluso
abbigliamento; +39% altri prodotti
della lavorazione di minerali non
metalliferi; +682,3% prodotti in
metallo esclusi macchinari ed attrezzature; +128,6% computer e
prodotti di elettronica ed ottica ed
apparecchi
elettromedicali;
+58,7% apparecchiature elettriche
ed apparecchiature per uso domestico non elettriche; +24,6% prodotti delle altre industrie manifatturiere. I trend negativi si sono registrati, invece, nei seguenti settori:
- 60,1% prodotti delle miniere e
delle cave; -28,2% bevande; 32,4% legno e prodotti in legno
e sughero (escluso i mobili), articoli in paglia e materiali da intreccio;
-8,4% carta e prodotti di carta;
-26,5% coke e prodotti derivanti
dalla raffinazione del petrolio; 10,8% prodotti chimici; - 8% macchinari ed apparecchiature; -0,7%
autoveicoli, rimorchi e semirimorchi; -8,8% altri mezzi di trasporto;
-4,3% mobili.
Per quanto riguarda la composizione merceologica dell’interscambio, in base ai dati Ice, l’Italia
ha importato nell’ordine prodotti
della metallurgia, prodotti chimici,
articoli di abbigliamento e in pelle,
prodotti delle altre industrie manifatturiere e prodotti alimentari. Dal
lato delle esportazioni, le principali
voci sono rappresentate da prodotti
delle industrie manifatturiere,
macchinari e apparecchiature, prodotti derivanti dalla raffinazione
del petrolio, apparecchi elettrici e
per uso domestico e prodotti chimi-
ci. Le maggiori opportunità per il
rafforzamento delle relazioni commerciali bilaterali derivano dai reali punti di forza del Made in Italy
e dai settori con potenziali margini
di crescita: macchinari industriali,
apparecchiature e beni strumentali
(in particolare per l’industria agroalimentare, l’imballaggio e la lavo-
razione del marmo), design, moda
e arredamento. L’afflusso di investimenti diretti esteri in Giordania
sono rimasti stabili nel corso degli
ultimi anni, con l’eccezione di un
calo nel 2015, quando gli IDE hanno raggiunto solo i 905 milioni
di dinari, il più basso in oltre un
decennio, e oltre il 36% in meno
rispetto agli IDE registrato nel
2014. Un mix di fattori , tra cui
l’insicurezza regionali, l’instabilità legislativa, ed i prezzi del petrolio
più bassi hanno giocato un ruolo
nel limitare il valore degli IDE nel
2015.
Il Libano
La presenza commerciale italiana
è ben radicata e copre tutti i settori,
dai beni d’investimento a quelli
di consumo ed intermedi. Il mercato locale non è certo rilevante per
volume, ma dispone di un elevato
grado di apertura a scambi e triangolazioni varie, nei segmenti qualitativamente alti, ed è anche piattaforma di lancio verso l’area mediorientale, mettendo al servizio le sue
affinità con il mondo occidentale
ed i relativi sistemi industriali. Le
società libanesi sono infatti ben
radicate nei Paesi del Golfo e nel
Kurdistan irakeno, lavorando soprattutto nei settori delle costruzioni e di ingegneria, oltre che nei
servizi. La presenza italiana si concretizza attraverso una fitta rete di
agenti e rapporti di franchising. Nel
complesso l’Italia gode di una ottima immagine come partner commerciale, infatti la qualità dei prodotti italiani qui commercializzati,
unita alla professionalità dei nostri
operatori, pongono il nostro paese
ai più alti livelli di simpatia e preferenze da parte dei consumatori libanesi. Anche l’attiva presenza della
Cooperazione Italiana – in aggiunta alla diffusa consapevolezza qui,
a tutti i livelli, del ruolo complessivo svolto dal nostro Paese a sostegno del Libano - con i suoi numerosi
progetti di sviluppo in tutto il Paese,
nonché le molteplici attività promozionali organizzate dall’Ufficio
Commerciale di questa Ambasciata e dall’Ufficio Ice - Agenzia per
la Promozione all’Estero e l’Internazionalizzazione delle Imprese
Italiane, hanno contribuito e stanno
contribuendo in maniera determinante a consolidare la già positiva
percezione dell’Italia in Libano.
www.infomercatiesteri.it