Notiziario settimanale n. 562 del 27/11/2015

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Notiziario settimanale n. 562 del 27/11/2015
Notiziario settimanale n. 562 del 27/11/2015
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
"Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e
stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho
Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati
e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro.
Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri"
don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù"
Dogliotti, Elena Camino)........................................................................... 9
I pericoli dello "ius culturae" (di Fiorella Farinelli).................................. 11
Obiezione di coscienza e Costituzione (di Federica Grandi)....................11
Casamonica: quello che la stampa non dice Restiamo umani - Un funerale
rom e il teatrino razzista della politica (di Marcello Palagi) .....................12
Notizie dal mondo......................................... 13
Ecco perchè l'HDP non ha perso le elezioni in Turchia (di Luigi D'Alife)
................................................................................................................. 13
Recensioni...................................................... 15
L’ultimo dialogo. La mia vita incontro all’Islam – Recensione di Cinzia
Picchioni.................................................................................................. 15
Editoriale
Non avrete il mio odio (di Gianfranco Bontempi)
27/11/2015: Giornata mondiale del non acquisto.
29/11/2015: Giornata internazionale per i diritti del popolo palestinese.
01/12/2015: Giornata mondiale della lotta contro l'AIDS.
02/12/2015: Anniversario della morte di Ivan Illich avvenuta nel 2002
Il dolore e l'orrore per le stragi di Parigi, e il dolore per tutte le vittime di
tutte le uccisioni, l'orrore per tutte le guerre e le stragi che
quotidianamente insanguinano il mondo, l'orrore per le vittime causate
dalla disuguaglianza economica.
Occorre fermare questo massacro. E per fermarlo occorre la pace, il
disarmo, la smilitarizzazione.
Il terrorismo si può contrastare solo con una politica di pace, di giustizia,
di democrazia, di riconoscimento e promozione dei diritti di tutti gli esseri
umani. Solo la nonviolenza può salvare l'umanità.
Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo
Indice generale
Editoriale......................................................... 1
Non avrete il mio odio (di Gianfranco Bontempi)...................................... 1
Evidenza...........................................................2
12 Dicembre 2015 - seconda tappa della Marcia degli Scalzi: In cammino
verso i luoghi di accoglienza e di non-accoglienza (di AA.VV.)................2
L'argomento della settimana......................... 2
David Peace: «I terroristi non sono mostri invincibili» (di Francesco
Cancellato)................................................................................................. 2
Francia: almeno smettiamola con le chiacchere (di Fulvio Scaglione) .......4
I due terrorismi e le alternative della nonviolenza (di Nanni Salio)............5
Serve una guerra contro l'isis ? Chi lo finanzia ? (di Umberto Franchi) .....6
Parigi, note e parole di “resilienza” (di Antonio Vermigli) ......................... 7
Fermiamo la spirale di violenza (di Gerardo Femina)................................ 7
Approfondimenti.............................................8
COP 21: firmato l'appello di cardinali, patriarchi e vescovi di tutto il
mondo........................................................................................................ 8
Il Tribunale Permanente dei Popoli a Torino, sulle grandi opere (di Angela
1
“Non avrete il mio odio”. È questo il titolo della lettera aperta scritta da
Antoine Leiris, un uomo che ha perso la moglie in uno degli attentati di
Parigi venerdì sera. Sono parole diverse, nuove, che non si lasciano
contaminare dall’odio o dalla sete illimitata di vendetta con cui l’essere
umano tende a rispondere all’altro in questi casi. Nel suo appello, Antoine,
aggiunge “Insieme – lui e suo figlio N.d.A. – siamo più forti di tutte le
armate del mondo”. Non si lascia schiacciare dalla paura, non incita alla
violenza cieca e acefala con cui l’uomo si fa avanti per abbattere la
differenza dell’altro: questo è un vero grido di speranza, un nuovo modo
di costruire l’orizzonte delle possibilità, un’apertura sul mondo.
In questo scenario l’Europa sta trovando la forza di nascere da premesse
forcaiole, sta trovando la forza del proprio nome in una coalizione che, per
definizione, prevede sempre un nemico abbandonando l’idea di
un’alleanza che, al contrario, ha come finalità il progresso e il
riconoscimento dell’altro. Questa contemporaneità assomiglia sempre più
al quadro “De parabel der blinden” del fiammingo Bruegel dove ciechi
guidano altri ciechi lungo una scarpata senza scampo. Questo viviamo:
ciechi che guidano altri ciechi. Odio che produce odio. Domande che non
producono risposte, grida che non muovono ascolto e tolleranza ma solo
altre urla di vendetta.
A domande mal poste seguono risposte inadeguate, perciò iniziamo a
domandarci: Quanto stiamo investendo per gli armamenti? Quanto per la
cultura? Quanto ci stiamo impegnando per promettere un futuro degno alle
nuove generazioni? Cosa stiamo lasciando in eredità ai nostri figli? Quali
tracce e quali segni gli stiamo depositando? Se è vero che ogni epoca si
misura e si ricorda in base all’azione che muove, alla cultura che produce
e alla storia che crea allora stiamo piantando un seme che darà frutti
amari. Nel suo libro “La morte del prossimo”, Zoja, ci introduce al
concetto della perdita della curiosità da ciò che si allontana da noi, da ciò
che il nostro contesto non prevede, come se nel nostro tempo si fosse fatta
spazio l’idea che il “diverso” sia sempre un pericolo, una minaccia,
un’ospite inquietante. Dobbiamo incarnare un altro modo di abitare le
relazioni, un altro modo di rapportarci all’altro riscoprendo parole come
ascolto, desiderio, differenza, fratellanza, particolarità, amore.
Qualche giorno fa un paziente, o meglio “sofferente” come suggerisce
Lacan, mi ha posto questa domanda: “Ma non sarebbe meglio se i nostri
aerei lasciassero cadere libri e caramelle sulla popolazione siriana invece
che dei missili?”. Questa apertura verso una nuova possibilità, che supera
la violenza a favore della speranza e della trasmissione del sapere è ciò
che porto dentro di me, dove nel mio spazio più intimo riconosco all’altro
la possibilità di esistere, anche se diverso da me. Non esistono risposte a
certe utopie, l’unica certezza consiste nel continuare a non reagire con una
chiusura, dimostrando che l’Europa affonda le proprie radici nei codici di
una comunità pacifica e con l’orecchio proteso alla parola dell’altro.
“Non avrete il mio odio” scrive Antoine Leiris, ebbene, unendomi a
questo appello aggiungo “Non avrete neanche il mio”.
Un pensiero di Gianfranco Bontempi, psicologo
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2399
Evidenza
12 Dicembre 2015 - seconda tappa della Marcia
degli Scalzi: In cammino verso i luoghi di
accoglienza e di non-accoglienza (di AA.VV.)
Alcuni dei promotori della prima Marcia delle donne e degli uomini scalzi
lanciano un nuovo appello. Lo inviamo qui a tutti coloro che aderirono a
settembre, chiedendo di essere pronti a rilanciarlo a partire da lunedì
prossimo quando verrà comunicato a livello nazionale.
Continua urgente il nostro appello: è oggi quanto mai necessario decidere
da che parte stare.
Dopo la grande mobilitazione della Marcia degli uomini e delle donne
scalze dell'11 settembre scorso, lanciamo l'invito per una giornata
dedicata all'incontro con richiedenti asilo e migranti in Italia. Il 12
dicembre invitiamo tutti a mettersi in cammino per visitare i luoghi di
accoglienza e di non-accoglienza in Italia.
Decine sono i cittadini che lavorano o operano in questi luoghi, ma molti
di più sono coloro che non li hanno mai visitati o che non ne conoscono
nemmeno l'esistenza. Il tema dell'accoglienza è vissuto e discusso dalla
maggior parte della nostra società solo virtualmente, attraverso
rappresentazioni mediatiche, slogan e molti pre-giudizi. E' invece
importante che la società civile e i rappresentati delle istituzioni
conoscano di persona chi vive e come vive nei luoghi di accoglienza e
ancora di più nei luoghi dove l'accoglienza non funziona o ancor peggio
non esiste.
Solo attraverso l'incontro diretto è possibile capire qual è la dimensione
reale di un tema di cui troppo spesso si parla per slogan o stereotipi e sul
quale c'è pochissima informazione completa. Ci sono in Italia esperienze
virtuose di accoglienza, ma anche molte che soffrono per inadeguatezza o
per non rispetto dei diritti delle persone. E vi sono anche luoghi in cui
richiedenti asilo e migranti sono abbandonati a loro stessi vivendo in
condizione al limite della dignità umana.
Spesso profughi e migranti vivono in luoghi isolati dalla vita civile di
piccole e grandi città, queste distanze vanno percorse fisicamente,
dobbiamo camminare verso questi luoghi e portare i nostri corpi e le
nostre vite ad incontrare le storie di migrazione, di fuga e di accoglienza.
Per aprire dei dialoghi reali tra corpi sociali che non possono rimanere
estranei, se crediamo nella costruzione di una società più giusta e degna.
Chiediamo a operatori, mediatori culturali, volontari di tutta Italia di
invitare amici e conoscenti (soprattutto tra coloro che non hanno mai
pensato di farlo) nei centri di accoglienza, nei CARA, nelle case dei
progetti SPRAR, negli accampamenti informali, negli alberghi dei
cosiddetti centri d’accoglienza straordinari, nelle mense e in altri luoghi
ancora.
E chiediamo a tutti i cittadini che non hanno mai visitato un luogo di
accoglienza di dedicare la giornata del 5 dicembre a questi incontri,
indicando la loro disponibilità a partecipare.
Abbiamo a questo scopo creato sul sito donneuominiscalzi.blogspot.com
due sezioni dove poter inviare le proprie proposte e la propria
disponibilità:
- la sezione ORGANIZZA UN INCONTRO dove associazioni o singoli
operatori possono proporre un luogo da visitare con cui sono in qualche
modo in contatto.
- la sezione PARTECIPA AD UN INCONTRO dove chiunque può
indicare la propria disponibilità a partecipare e far partecipare, segnalando
ovviamente la città in cui vuole farlo.
2
Scopo degli incontri sarà la conoscenza, ma anche l'azione e la parola.
Chiederemo a chi organizza gli incontri di individuare caso per caso un
orizzonte di azione per denunciare le ingiustizie e migliorare le condizioni
dell'accoglienza, anche grazie al coinvolgimento di coloro che
parteciperanno agli incontri stessi.
Contemporaneamente raccoglieremo sul sito i racconti dei partecipanti,
che potranno così testimoniare ciò che hanno scoperto, capito o non capito
durante gli incontri stessi. In questo modo ci auguriamo che le azioni e le
parole che nasceranno dalla seconda tappa della Marcia delle donne e
degli uomini scalzi aiutino l'Italia ad affrontare con equità e giustizia la
sfida dell'accoglienza, troppo spesso schiacciata tra indifferenza,
isolamento, mala gestione o, peggio ancora, clientelismo.
Perché, lo ribadiamo ancora, dare asilo a chi scappa dalle guerre, significa
ripudiare la guerra e costruire la pace. Dare rifugio a chi scappa dalle
discriminazioni religiose, etniche o di genere, significa lottare per i diritti
e le libertà di tutte e tutti. Dare accoglienza a chi fugge dalla povertà,
significa non accettare le sempre crescenti disuguaglianze economiche e
promuovere una maggiore redistribuzione delle ricchezze ed una vera
uguaglianza sociale, civile ed economica.
Primi firmatari (altre adesioni verranno definite a breve)
Gianfranco Bettin
Don Albino Bizzotto
Loris De Filippi (MSF Italia)
Gad Lerner
Giulio Marcon
Luigi Manconi
Filippo Miraglia (ARCI)
Maso Notarianni
Costanza Quatriglio
Andrea Segre
Sergio Staino
Daniele Vicari
Don Armando Zappolini
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2385
L'argomento della settimana...
... Dopo Parigi ... l'alternativa possibile alla
guerra
David Peace: «I terroristi non sono
invincibili» (di Francesco Cancellato)
mostri
Parla lo scrittore britannico: «L’Europa è impaurita e sta scivolando a
destra. Corbyn? Mi piace, l’ho votato, ma non è la soluzione».
Premessa: quest'intervista è stata realizzata per uno speciale sulle
ossessioni ed è antecedente all'attacco terroristico di Parigi della notte di
venerdì 13 novembre. Per un caso del destino, alcuni dei temi affrontati da
Davide Peace, toccano da vicino quel che sarebbe successo poco dopo,
affrontando il tema del terrorismo islamico e della sua “mostrificazione”
Ha raccontato le apocalissi e le paranoie sociali britanniche a cavallo tra la
depressione degli anni ’70 e l'inizio dell’era di Margaret Thatcher, le lotte
sindacali dei minatori dello Yorkshire, le epopee di due grandi leader allenatori di calcio quantomeno riduttivo, nel loro caso - come Brian
Clough e Bill Shankly. E visto che vive a Tokyo dal 1994, pure i lati
oscuri degli anni zero del Giappone post bomba. Indicato dalla rivista
letteraria Granta come uno dei cinquanta scrittori più influenti della nostra
epoca, David Peace è alle prese con un nuovo libro del suo filone
giapponese. Nel frattempo, in Italia, la casa editrice Il Saggiatore sta
ridando alle stampe il Red Riding Quartet, quadrilogia noir sullo
”Squartatore dello Yorkshire". In queste settimane è il turno di 1980 - gli
altri si chiamano 1974, 1977 e 1981 - forse il più cupo, amaro e disilluso
dei quattro. Un libro in cui si ritrovano molte delle ossessioni di oggi:
«1980 era un libro sulla grande recessione che allora attanagliava
l'Inghilterra, che c'è anche ora. Sulla psicosi del terrorismo, in quel caso
dell'Ira e oggi dell'Isis. Più in generale, sulla disillusione e sulla paura».
A proposito di paura: al centro di 1980 e di tutti i libri del Red Riding
Quartet c'è un serial killer, lo squartatore dello Yorkshire, che sevizia e
uccide le donne nel nord dell'Inghilterra..
Lo squartatore è una persona realmente esistita. che si chiamava Peter
Sutcliffe e ha ucciso quattordici donne nel West Riding Yorkshire.
Nel libro lo definisci il re di Leeds. La gente era terrorizzata da quel
mostro senza volto…
È proprio questo il punto. Peter Sutcliffe era una persona, non un mostro.
Lo era diventato, però, perché sono stati i media e la società ad averlo
creato. La polizia l'aveva interrogato almeno otto, nove volte, prima di
prenderlo. Ma l'aveva lasciato andare perché era troppo normale. Le loro
menti erano inquinate dall'immagine del mostro.
Azzardiamo: stai dicendo che più del serial killer, il problema era la
paura del serial killer?
Sto dicendo che lo squartatore dello Yorkshire aveva scelto come terreno
di caccia una comunità paranoica, terrorizzata dal futuro,
dall'immigrazione, da un ulteriore peggioramento della crisi economica.
Era una comunità che stava collassando e che la Thatcher avrebbe avuto
gioco facile a distruggere, pochi anni dopo.
Ok, allora: ragioniamo. Che ne pensi del referendum sull'uscita del
Regno Unito dall'Euro che con ogni probabilità si terrà nel 2017?
È una situazione parecchio complicata. Dovrei risponderti non lo so.
Coraggio…
Ok. Io sono di sinistra. E in Inghilterra, a sinistra, ci sono parecchie
persone scettiche sull'Unione Europea. A mio avviso hanno ragione:
durante la crisi greca - che sta proseguendo anche se le news se la sono
dimenticata - il comportamento di Bruxelles e di molti leader europei è
stato pessimo. Fossi stato un Greco, avrei votato no al referendum.
Perché è complicata, allora. Mi sembra la tua posizione sia chiara...
La questione è più spessa, perché in realtà è evidente che un atteggiamento
euroscettico anche da sinistra porta acqua al mulino di movimenti di
destra come l'Ukip. A ciò aggiungo il fatto che il sogno di un Europa unita
sia un bel sogno e che la Gran Bretagna dovrebbe essere parte attiva
affinché quel sogno diventi realtà. Non uscire, insomma, ma essere parte
di un cambiamento.
Prendi l'11 settembre. Due o tre settimane dopo c'erano già un sacco di
romanzieri disperati perché non avevano ancora scritto nulla sull'attacco
alle torri gemelle
Sembra tu stia parlando dell’Europa di oggi…
È molto affascinante e difficile avvicinare due periodi storici. In un libro
come 1980 ci sono almeno tre tempi differenti, in realtà. Io ho scritto una
storia ambientata nel 1980, ma l'ho scritta nel 1999 e la stiamo usando per
interpretare la realtà del 2015. Mi inorgoglisce il fatto che il libro possa
avere senso ancora oggi, ma in realtà non ci avevo mai nemmeno sperato
che ciò potesse accadere.
Come dovrebbe cambiare, l’Europa?
Dovrebbe tornare quella che era prima. Negli anni della Thatcher, nel
Regno Unito, l'Europa garantiva diritti sociali e politici che la lady di ferro
ci avrebbe volentieri tolto. Oggi invece è solo un corpo burocratico che
contribuisce a generare povertà, a togliere diritti e benessere. Non
condivido la posizione di chi lascia il Labour per votare Farage, o la Le
Pen, in Francia. Li capisco, però: la working class oggi si sente aliena,
disconnessa dai partiti tradizionali di sinistra. Questo è un fatto innegabile.
Però…
Però è vero, anche oggi siamo paranoici e terrorizzati e tendiamo a creare
mostri per dar corpo alle nostre mille paure.
Anche ora che Jeremy Corbyn è diventato leader del partito laburista?
Io ho votato per Corbyn, alle ultime elezioni del Labour. Era l'unico
candidato socialista che esprimeva il partito, senza nulla togliere agli altri.
Ad esempio?
Il nostro mostro dello Yorkshire, la nostra ossessione, può essere Al Qaeda
o l’Isis. È su di loro che proiettiamo la nostre paure individuali e
collettive. Ma anche loro sono persone, in fondo. E se pensiamo che le
nostre ossessioni hanno a che fare con delle persone, in fondo, è più facile
venirne a capo.
Basterà per far vincere le elezioni alla sinistra?
Non credo basterà.
«Il nostro mostro dello Yorkshire, la nostra ossessione, può essere Al
Qaeda o l’Isis. È su di loro che proiettiamo la nostre paure individuali e
collettive. Ma anche loro sono persone, in fondo. E se pensiamo che le
nostre ossessioni hanno a che fare con delle persone, in fondo, è più facile
venirne a capo»
Lo scriveresti un libro intitolato 2015?
Oggi no.
Come mai?
Perché è una storia che deve ancora compiersi. È un lavoro dei giornalisti,
raccontare il 2015, non mio. Io devo aspettare. A volte gli scrittori non lo
capiscono.
In che senso?
Prendi l'11 settembre. Probabilmente è la più spettacolare e choccante
tragedia che ci sia capitato di vedere, perlopiù in diretta tv. Due o tre
settimane dopo c'erano già un sacco di romanzieri disperati perché non
avevano ancora scritto nulla sull'attacco alle torri gemelle. Solo che la
storia dell'11 settembre non è finita l'11 settembre. Anche l'aereo russo che
è caduto poche settimane fa in Egitto è in qualche modo parte della storia
dell'11 settembre. Lo scrittore dev'essere paziente. Deve avere la giusta
prospettiva per scrivere. Deve fare ricerca, deve ragionare su quel che è
successo.
3
Come mai?
Tutto si sta spostando a destra. Prima con Cameron. Ora con Farage che
spinge Cameron ancora più a destra. E più vanno a destra i conservatori,
più si sposta a destra anche Farage. Alle ultime elezioni l'Ukip è andato
malissimo, ma da questo voto sulla Brexit guadagnerà un enorme
centralità. È un rischio enorme quello che si sta prendendo Cameron.
Quel che dici vale solo per voi o anche per il resto dell’Europa?
La crisi dei profughi in Italia e Germania è stata molto più acuta. Temo
che per voi il pericolo di scivolare a destra, di farvi dominare da paure e
ossessioni sia ancora maggiore. E se, come temo, ci sarà un altra grossa
crisi economica o se la situazione economica europea continuerà a
peggiorare, nei prossimi anni, prevedo grossi guai. Lo ammetto: sono
pessimista. È per questo che ho scritto ”Red or Dead”…
«Temo che per voi il pericolo di scivolare a destra, di farvi dominare da
paure e ossessioni sia ancora maggiore. E se, come temo, ci sarà un altra
grossa crisi economica o se la situazione economica europea continuerà a
peggiorare, nei prossimi anni, prevedo grossi guai. Lo ammetto: sono
pessimista»
Cosa c'entra con le questioni politiche di oggi un libro sull'allenatore
del Liverpool degli anni sessanta?
Tutto è politico e il calcio lo è per definizione. Credo che per un Italiano
sia più facile da capire: il calcio è un ossessione. È una parte fondamentale
della nostra cultura, così come di quella italiana e spagnola. E lo è sempre
di più. C'è calcio a ogni ora del giorno. E le storie, gli archi narrativi, i
personaggi che il calcio crea sono incredibili. Buona parte del tempo in
cui pensiamo al calcio è pura immaginazione. Ci sono novanta minuti e
poi c'è una settimana di discussioni, di calcoli, di sogni e di rimpianti.
Proprio per questo è un modo fantastico per parlare di altro in un modo
che non sia didattico.
E di cosa volevi parlare, con Red or Dead?
Red or Dead, anche se ho parlato degli anni '60, era un libro sulla Gran
Bretagna del 2010. Gordon Brown aveva appena perso le elezioni ed
erano tornati al governo i Tories, con David Cameron. L'ho scritto perché
non volevo che i miei figli - o i figli di qualcuno che abita in Inghilterra potessero crescervi senza aver mai sentito la parola "socialismo". Mio
figlio adora il calcio e io gli parlo di Clough e Shankly come mio padre
parlava a me dei giocatore della sua era. Voglio dargli degli esempi di
modi migliori in cui vivere. C'è un modo più nobile di quello attuale per
fare le cose.
In che senso?
La gente dello Yorkshire è gente di sinistra, gente che aveva fatto un sacco
di manifestazioni sindacali, che aveva combattuto la guerra dei minatori
contro la Thatcher nel 1984. Pensavo che quella gente avesse bisogno di
un’iniezione di socialismo vecchia maniera, di “old labour”. Quel mondo,
per me, era personificato attorno alla figura di Bill Shankly. È quel
bisogno, che ho percepito chiaramente, in quei due anni, che ha infine
portato Jeremy Corbyn a diventare leader del partito laburista, qualche
mese fa.
Chi è per the Bill Shankly, quindi? Una specie di Corbyn ante litteram?
Io non scrivo di giorni meravigliosi: scrivo di serial killer, di scioperi, di
povertà. Non racconto ai miei figli i giorni migliori della nostra storia. Ma
ascoltare per due anni la voce di Shankly nelle cassette, leggere di lui è
stato come confrontarmi con la vita di un santo. È una delle più belle
esperienze che ho mai vissuto. Per me un’epopea come quella di Bill
Shankly rappresenta la creazione di un ideale. Prima di lui il Liverpool era
un team di seconda divisione. Con lui, in pochi anni, è arrivato a vincere
campionato, Fa Cup, coppe europee. Shankly c'è riuscito senza nessuno
che aprisse il portafoglio per lui, ma coinvolgendo tutti, i giocatori, i tifosi,
chi lavorava per il club. Ha creato un popolo e lo ha fatto andare nella
medesima direzione. Ha costruito un utopia e l'ha resa concreta. Ed è
l'utopia di un ideale collettivo che si realizza. Tutti sono uguali, in quella
storia. Non è tutto un "io, io, io", come oggi. È un "noi, noi, noi".
«C'è calcio a ogni ora del giorno. E le storie, gli archi narrativi, i
personaggi che il calcio crea sono incredibili. Buona parte del tempo in
cui pensiamo al calcio è pura immaginazione. Proprio per questo è un
modo fantastico per parlare di altro in un modo che non sia didattico»
Red or Dead è un libro molto difficile da leggere. Pieno di ripetizioni, si
sviluppa quasi come un mantra, o una preghiera. Come mai questa scelta?
Perché volevo fare un ritratto di Shankly usando le parole. E quando leggi
di lui, leggi che si allenava tutti i giorni con la squadra, giorno dopo
giorno, partita dopo partita, stagione dopo stagione. È stata una specie di
epifania: «Tutti i giorni?», mi sono chiesto. Era un lavoro duro e alienante,
come quello di un operaio: ripetizione, ripetizione, ripetizione, fino al
successo. È l'ossessività di Shankly che ha ispirato lo stile di quel libro.
Ci riproviamo: se tra vent'anni volessi scrivere un libro su un allenatore
contemporaneo su chi lo scriveresti? Mourinho? Wenger? Ferguson?
Ahia, devo stare molto attento a quel che dico. Perché lo scriverò un altro
libro sul calcio e non posso dire su chi. Quindi devo risponderti senza
rivelare chi sarà. Ti posso dire che mi piacerebbe scrivere di un allenatore
che rappresenti la nostra società, un pensiero politico contemporaneo.
Wenger è interessante, ma non è quel che cerco.
Mourinho?
Sicuramente anche Jose Mourinho lo è: comprerei subito un libro sui suoi
anni a Madrid, in cui è riuscito a radunare attorno a se tutti i suoi nemici e
i suoi demoni. La sua storia però non è ancora finita.
4
Quindi la risposta è Ferguson? Oppure «non lo so»?
La verità è che lo so, ma non posso dirtelo.
(fonte: Linkiesta)
link: http://www.linkiesta.it/it/article/2015/11/14/david-peace-i-terroristi-non-sonomostri-invincibili/28191/
Francia: almeno smettiamola con le chiacchere (di
Fulvio Scaglione)
Da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l'Isis e i suoi
complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in
Siria e Iraq, anche quelle dell'aereo russo, del mercato di Beirut e di
Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali.
E’ inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie
come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in
genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a
confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da
quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i
social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto:
anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che
l’unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni,
francese, è stato “riconosciuto” dall’impronta presa da un dito, l’unica
parte del corpo rimasta intatta dopo l’esplosione della cintura da kamikaze
che indossava.
Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i
provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in
queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice
(come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush,
ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono:
un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli
attuali orrori del Medio Oriente.
Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo
corso. Dell’Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’è
nulla da scoprire. E’ un movimento terroristico che ha sfruttato le
repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla
scena: armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima
fra tutte l’Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la
colpevole indifferenza dell’Europa.
Quando l’Isis si è allargato troppo, i suoi mallevadori l’hanno richiamato
all’ordine e hanno organizzato la coalizione americo-saudita che, con i
bombardamenti, gli ha messo dei paletti: non più in là di tanto in Iraq,
mano libera in Siria per far cadere Assad. Il tutto mentre da ogni parte, in
Medio Oriente, si levava la richiesta di combatterlo seriamente, di
eliminarlo, anche mandando truppe sul terreno. Innumerevoli in questo
senso gli appelli dei vescovi e dei patriarchi cristiani, ormai chiamati a
confrontarsi con la possibile estinzione delle loro comunità.
Abbiamo fatto qualcosa di tutto questo? No. La Nato, ovvero l’alleanza
militare che rappresenta l’Occidente, si è mossa? Sì, ma al contrario. Ha
assistito senza fiatare alle complicità con l’Isis della Turchia di Erdogan,
ma si è indignata quando la Russia è intervenuta a bombardare i ribelli
islamisti di Al Nusra e delle altre formazioni.
Nel frattempo l’Isis, grazie a Putin finalmente in difficoltà sul terreno, ha
esportato il suo terrore. Ha abbattuto sul Sinai un aereo di turisti russi (224
morti, molti più di quelli di Parigi) ma a noi (che adesso diciamo che
quelli di Parigi sono attacchi “conto l’umanità”) è importato poco. Ha
rivendicato una strage in un mercato di Beirut, in Libano, e ce n’è
importato ancor meno. E poi si è rivolto contro la Francia.
Abbiamo fatto qualcosa? No. Abbiamo provato a tagliare qualche canale
tra l’Isis e i suoi padrini? No. Abbiamo provato a svuotare il Medio
Oriente di un po’ di armi? No, al contrario l’abbiamo riempito, con
l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ai primi posti nell’importazione
di armi, vendute (a loro e ad altri) dai cinque Paei che siedono nel
Consiglio di Sicurezza (sicurezza?) dell’Onu: Usa, Francia, Gran
Bretagna, Cina e Russia.
Solo l’altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla di
attacco all’umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti
presso il regime islamico più integralista, più legato all’Isis e più dedito al
sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno,
degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come
a tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza.
Perché la verità è questa: se vogliamo eliminare l’Isis, sappiamo
benissimo quello che bisogna fare e a chi bisogna rivolgersi. Facciamoci
piuttosto la domanda: vogliamo davvero eliminare l’Isis? E’ la nostra
priorità? Poi guardiamoci intorno e diamoci una risposta. Ma che sia
sincera, per favore. Di chiacchiere e bugie non se ne può più.
(fonte: Famigliacristiana.it)
link:
http://www.famigliacristiana.it/articolo/francia-almeno-smettiamola-con-lechiacchiere.aspx
Oriente. Insieme a loro non dobbiamo dimenticare Israele, che ha fatto
della Palestina e di Gaza in particolare il laboratorio per la
sperimentazione di ogni sorta di tecnologia di controllo sociale per
incutere terrore nella popolazione.
Se provocano paura le immagini degli uomini in nero dell’ISIS che
brandiscono in una mano un coltello e nell’altra un kalashnikov, suscitano
altrettanta paura i robocop, i soldati e i poliziotti trasformati in robot per
uccidere.
I media ci illustrano con grande dovizia di particolari le violenze inflitte ai
nostri concittadini, ma si guardano bene dal riportare ciò che avviene
quasi quotidianamanete con gli attacchi dei droni armati, che uccidono
migliaia di civili, nel vano tentativo di colpire i responsabili degli atti di
terrorismo. Il rapporto tra le vittime provocate dai nostri eserciti e quelle
dei gruppi di jihadisti è di 1:1000 o, se si vuole essere generosi, di 1:100.
E questi sono solo i dati relativi alla violenza diretta, mentre fingiamo di
non vedere quella strutturale, di dimensioni ben maggiori.
Scontro di civiltà?
I due terrorismi e le alternative della nonviolenza (di
Nanni Salio)
Occhio per occhio e il mondo diventa cieco (Gandhi)
I terrorismi sono due: quello dall’alto, degli stati, che viene chiamato
guerra, e il terrorismo dal basso, degli insorti, dei ribelli, di coloro che
subiscono gli effetti del primo terrorismo. Nasce prima l’uno o l’altro,
l’uovo o la gallina? Hanno bisogno l’uno dell’altro, si autoalimentano, in
una spirale di violenza crescente, come vediamo ogni giorno in molte aree
del mondo, in particolare nel Medio Oriente, ma non solo.
Espressioni “Shock and Awe” (colpisci e terrorizza) e “equilibrio del
terrore” (che si riferisce alla minaccia di guerra nucleare) non sono state
inventate dagli jihadisti, ma sono il frutto perverso del pensiero strategico
delle grandi potenze.
E le vittime? Sono i civili, prevalentemente, ma non dimentichiamo anche
i soldati, sottoposti allo stress della guerra, della paura, della morte.
E i burattinai? Siedono comodamente nei parlamenti, nei consigli di
amministrazione delle industrie belliche e delle banche che le finanziano,
nei centri di ricerca militari, nelle scuole di guerra, nei servizi segreti, nel
Pentagono, nel mondo accademico e scientifico che offre i suoi servizi alla
guerra, e così via. Loro la guerra non la fanno, la progettano e la fanno
fare alla manovalanza.
Dopo ogni strage, come quella di Parigi del 13 novembre scorso, si
sentono spesso opinionisti e politici urlare: “dove sono i pacifisti?”.
Stranamente, questa volta non è ancora successo. Forse perché hanno
avuto un minimo di pudore, se non di vergogna. Infatti, avrebbero dovuto
chiedere “dov’è la NATO?” Stava giocando con 35 mila uomini alla
battaglia navale nel Mediterraneo e a simulare la guerra prossima ventura
non contro l’ISIS, bensì contro la Russia, e in prospettiva anche contro la
Cina. E dove erano gli agenti dei servizi segreti, le intelligence poco
intelligenti, che fingono di non sapere nulla prima, ma sanno tutto dopo?
E’ la “grande scacchiera” del “grande gioco” per controllare l’Eurasia,
secondo le elucubrazioni di Brezinski, dove le pedine sono gli eserciti.
Non compaiono le vittime, i civili, considerati semplicemente “danni
collaterali”, né i burattinai, che operano ben nascosti.
Non è quello prefigurato da Samuel Huntington, ma lo scontro tra la
civiltà della violenza, del terrore, della barbarie e della guerra e la civiltà
dell’amore, della solidarietà reciproca, della felicità e della nonviolenza.
Sta a noi scegliere da che parte stare e quale futuro vogliamo costruire per
i nostri figli, nipoti e per l’umanità intera.
Le alternative della nonviolenza
E’ ormai risaputo, ma va sempre ribadito e documentato, che nonviolenza
non vuol dire passività, ma azione e progetto politico per la creazione di
una società equa e armonica mediante la trasformazione e risoluzione
nonviolenta dei conflitti, dal micro al macro, senza ricorrere all’uso della
violenza politica.
Molto cammino è stato fatto in questa direzione, sebbene quando ci
troviamo di fronte a eventi tragici e di estrema violenza, possiamo essere
presi dallo sconforto. Ma occorre allargare lo sguardo sia sul piano storico,
sia su quello spaziale per vedere le alternative già presenti e quelle future.
Abbiamo l’obbligo morale di dimostrare che tutti coloro che sono morti
nel corso della violenza esercitata dai due terrorismi “non sono morti
invano!”
Per rendere concreto questo impegno, possiamo ragionevolmente
individuare due principali insiemi di proposte con le quali affrontare le
crisi che attualmente lacerano l’umanità: misure non militari da adottare
nel breve periodo, immediatamente, e misure nonviolente nel medio e
lungo periodo.
Misure non militari nel breve periodo
Ecco alcune proposte ragionevoli, di buon senso, su cui c’è un accordo
piuttosto ampio da parte di soggetti diversi, anche istituzionali, che non
necessariamente aderiscono a una visione nonviolenta.
1.
2.
Frankestein, il dottor Stranamore e l’ISIS
Prima era al Qaeda con Bin Laden, ora è l’ISIS con il califfo. Entrambi
sono il risultato degli esperimenti di geopolitica condotti nel laboratoriomondo dai grandi strateghi neocon e del Pentagono.
E’ ormai ampiamente risaputo che l’ISIS è una creatura nata dalla politica
che gli USA hanno condotto da almeno un quarto di secolo in Medio
5
3.
4.
5.
Interrompere il flusso di armi ai belligeranti, come stabilisce il
diritto internazionale largamente disatteso.
Interrompere i finanziamenti ai gruppi jihadisti, che provengono
in larga misura dall’Arabia Saudita, come ben noto, e dal
commercio di petrolio e droga.
Affrontare con decisione e concretamente i problemi dei
rifugiati, migranti, profughi.
Offrire valide alternative ai giovani immigrati nei paesi
occidentali che vivono in condizioni di degrado e disagio
sociale.
Avviare processi di negoziato e dialogo con le controparti. Per
chi è scettico su questa proposta, ricordiamo che in tutte le
principali situazioni precedenti, questo è avvenuto, dapprima
con contatti segreti, poi apertamente (Irlanda del Nord, Nepal,
Colombia, Paesi Baschi).
6. Affrontare con serietà, impegno e decisione la questione IsraelePalestina, il grande bubbone del Medio Oriente, imponendo al
governo israeliano il rispetto del diritto internazionale, con
mediatori del conflitto al di sopra delle parti.
7. Istituire una commissione Verità e Riconciliazione per facilitare
i negoziati e indagare sulle responsabilità storiche passate e
recenti delle grandi potenze occidentali e di molti paesi arabi.
8. Lavorare alla costruzione di una confederazione del Medio
Oriente, sulla falsariga di altre confederazioni già esistenti e
secondo i suggerimenti dati da personalità come Edgar Morin e
Johan Galtung.
9. Coordinare azioni di polizia internazionale, che non sono guerra
in senso stretto, per individuare e catturare i responsabili degli
attentati e processarli, invece di condannarli a morte o
rinchiuderli senza un giusto processo a Guantanamo e Abhu
Ghraib. Essi vengono uccisi perché sono testimoni scomodi,
come è avvenuto con Bin Laden, Saddam Hussein, Gheddafi. Se
fossimo intelletualmente onesti dovremmo anche processare
uomini politici come Bush jr. e Tony Blair, responsabili di
crimini di guerra contro l’umanità. Ma attualmente questo è
chiedere troppo!
10. Avviare processi di ricostruzione partecipata, per rimediare ai
gravi danni inflitti alle popolazioni civili con i bombardamenti.
Misure nonviolente nel medio e lungo periodo
Le misure non militari nel breve periodo si possono avviare subito, se si
crea il consenso tra le istituzioni politiche locali e internazionali.
Ma l’umanità intera si trova oggi in una fase di profonda trasformazione
che dev’essere orientata verso la creazione di una autentica cultura della
nonviolenza, se non vogliamo soccombere alle gravi minacce della crisi
sistemica globale incombente (economico-finanziaria, alimentare,
ecologico-climatica ambientale, sociale-esistenziale-etica-culturale).
Occorre pertanto lavorare a progetti concreti di medio e lungo periodo.
Eccone alcuni, frutto degli studi avviati da tempo nel campo della ricerca
per la pace.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
6
Costituire e addestrare Corpi Civili di Pace con compiti di
mediazione, interposizione e prevenzione, ispirandosi alle
iniziative ed esperienze in corso da decenni e attuando le
proposte presentate nelle principali sedi istituzionali
internazionali, dall’Unione Europea alle Nazioni Unite
Riconvertire le industrie belliche e l’intero complesso militareindustriale in industrie civili e centri di ricerca per la pace e la
sperimentazione di tecniche di risoluzione nonviolenta dei
conflitti.
Promuovere percorsi di educazione alla pace e alla nonviolenza
sia nel mondo della scuola sia nella società in generale, per
imparare ad affrontare i conflitti con creatività, concretamente e
costruttivamente, senza cadere nella trappola della violenza.
Riconversione ecologica e intellettuale dell’economia mondiale
verso forme di economia gandhiana nonviolenta ispirate al
paradigma della semplicità volontaria e del “partire dagli
ultimi”. E’ una ricerca in atto, con sperimentazioni diffuse in
ogni angolo del mondo, da cui c’è molto da imparare per
superare la ristretta e distruttiva logica del capitalismo
finanziario basato sulla crescita illimitata e sul profitto senza
scrupoli.
Utilizzare al meglio le attuali capacità di comunicazione su scala
globale per costruire un “giornalismo di pace” alternativo al
“giornalismo di guerra” tuttora dominante e che vediamo in
azione a ogni evento luttuoso.
Dialogo tra le religioni per riscoprire il comune fondamento
basato sulla nonviolenza. Far conoscere in particolare le
componenti più coerentemente nonviolente presenti in ciascuna
religione, dai Quaccheri ai Sufi, dall’islam nonviolento di
Badshah Khan, il “Gandhi musulmano”, alle tradizioni
nonviolente della cultura ebraica, il Tikkun (aver cura del
mondo), e buddhista.
7. La cultura scientifica e la tecnoscienza svolgono una funzione
cruciale nei processi evolutivi dell’umanità, ma occorre
orientarle anch’esse, in tutta la loro enorme potenzialità, verso la
cultura della nonviolenza. La responsabilità sociale dei
tecnoscienziati è un punto nodale della ricerca scientifica.
8. La cultura artistica, in tutte le sue principali manifestazioni, può
e deve essere orientata verso lo sviluppo di una creatività che
favorisca la ricerca di soluzioni nonviolente ai conflitti umani.
Cinema, teatro, pittura, musica, letteratura sono strumenti da
utilizzare per facilitare sia la cura dei traumi subiti sia la
elaborazione positiva di visioni del mondo più armoniche.
9. Affrontare la grave crisi delle democrazie rappresentative e
partitiche occidentali, che nel corso del tempo si sono
trasformate prevalentemente in oligarchie finanziarie e
populismi di stampo reazionario. Promuovere la partecipazione
attiva e diffusa e l’autogoverno della cittadinanza.
10. Considerare i due terrorismi come una malattia mentale, una
patologia mortale dell’umanità. Utilizzare il paradigma medico
della diagnosi, prognosi e terapia (del passato e del futuro) per
curare gli attori sociali dei due terrorismi.
Tutte queste azioni possono essere attuate e incrementate dal basso, come
è avvenuto altre volte in passato, dai movimenti di base per la pace,
l’ambiente, la giustizia sociale. Oggi questi movimenti, pur presenti, sono
poco visibili e gli attentati di Parigi sembrano essere stati progettati
appositamente per impedire loro di svolgere un ruolo di primo piano nel
cambiamento sociale. Gli attentati sono avvenuti proprio a ridosso
dell’importante appuntamento del COP 21 sul cambiamento climatico e
hanno già contribuito a ridurre l’attenzione a tale conferenza.
Per tutte queste misure vale quanto abbiamo già detto: possono essere
ampliate e perfezionate ulteriormente. Per far ciò “non basta la vita” di
una singola persona, per quanto geniale, creativa, amorevole come quella
dei grandi maestri che ci hanno preceduto, da Gandhi a Martin Luther
King, da Danilo Dolci ad Aldo Capitini, da Buddha a Gesù. E’ un compito
collettivo dell’intera umanità, possibile, doveroso, entusiasmante, per
mettere fine alla violenza nella storia e far compiere un salto evolutivo alla
natura umana.
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2015/11/20/i-due-terrorismi-e-le-alternative-dellanonviolenza-nanni-salio/
Serve una guerra contro l'isis ? Chi lo finanzia ? (di
Umberto Franchi)
I terroristi dell'ISIS in poco tempo hanno conquistato territori in Siria ed in
Iraq che corrispondono all'incirca ad un'area grande come quella della
Gran Bretagna... le spese che devono sostenere sono grandi ed inoltre i
circa 30.000 miliziani sono stipendiati (400 euro mensili).
Viene spontaneo chiedersi come hanno fatto? con quali mezzi? con quale
petrolio? con quali armi? chi li finanzia?
E' assodato che i finanziamenti all'Isis provengono dal Kuwait dal Qatar e
soprattutto dallArabia Saudita che finanzia ed arma l'ISIS. Inoltre l'IS
fornisce il petrolio delle raffinerie presenti nello Stato Islamico alla
Turchia. Paesi che da una parte fanno grandi donazioni all'ISIS e dall'altra
si schierano a favore della grande coalizione contro l'ISIS guidata dagli
USA.
Ma sui giornali di oggi appare evidente che ci sono anche altri Paesi
interessati alla guerra dell'ISIS ed al suo finanziamento più o meno
nascosto:
1. ci sono multinazionali delle auto giapponesi come la Toyota e la
Nissan che vendono mezzi di trasporto all'ISIS;
2.
inoltre la monarchia Saudita sta per avere un arsenale bellico
dagli USA fatto di: 5020 bombe a guida laser, 2013 bombe blu
117, 1500 bombe "penetrator" 10.200 spolette tipo fmu152,
un'infinità di ingegneria e mezzi di trasporto, 10 elicotteri
armati, 38 missili;
3. ma dopo il recente viaggio di Renzi in Arabia saudita , arriva
anche per l'Italia il premio: un cargo pieno di armi è partito da
Cagliari per la basa saudita di Taif con la stiva zeppa di bombe
MK84.
In questo contesto coloro che pensano sia giunto il momento di continuare
con la guerra allo Stato Islamico dovrebbero quantomeno domandarsi: a
chi e cosa serve?
Serve per sconfiggere l'ISIS o per continuare ad armarli tramite i Paesi
citati ai quale vendiamo le nostre armi e quelle USA arricchendo le
multinazionali che li producono?
Non sarebbe meglio ed utile un blocco totale hai Paesi noti per i
finanziamenti ed armamenti all'ISIS ?
Umberto Franchi
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2396
Parigi, note e parole di “resilienza” (di Antonio
Vermigli)
In questi giorni le parole più ricorrenti sono terrorismo, Jihad, guerra,
attentati, kamikaze, sospetto, paura.
Parole che evocano in chi ha qualche anno in più come me, ricordi di
esperienze che non si sarebbero più volute vivere.
Parole che suscitano impotenza in quelle nuove generazioni, cresciute a
pane, videogiochi e film d’azione, che si ritrovano disorientate e confuse
in realtà che da “virtuale” si fa drammaticamente “reale”.
Se si presta attenzione, però, in mezzo al frastuono delle parole del terrore,
ce n’é una che spicca per il suo stile, pacato ma fermo e deciso, e la sua
concretezza. E’ una parola bellissima: “resilienza”.
La resilienza é la capacità di far fronte ai traumi in maniera vitale. E’ forza
di ricostruirsi, restando sensibili alle cose positive che la vita offre.
La Francia, colpita a morte dalla follia omicida di un gruppo di fanatici
terroristi, ci sta offrendo note e parole di resilienza, che sono un vero e
proprio inno alla vita.
Sono note di resilienza quelle della marsigliese, che la sera del 13
novembre, in una notte ancora buia e cupa, esce fisicamente dallo stadio di
Parigi, dove poche ore prima era risuonata come segno distintivo della
nazionale di calcio. A portare fuori da quello stadio quelle note, che da
anni siamo soliti ascoltare soprattutto durante le competizioni sportive,
sono i francesi che si aggrappano, l’uno accanto all’altro, a quelle parole,
a quei ritmi per trovare la forza di continuare a vivere, per non sentirsi
soli. Quell’inno -scritto la sera del 25 aprile 1792 da Rouget de Lisle, che
divenne ben presto la chiamata alle armi della Rivoluzione francese e in
questo contesto assunse proprio il nome di Marsigliese perché cantata
nelle strade dai volontari provenienti da Marsiglia al loro arrivo a Parigi- é
oggi un segno di resilienza, che riecheggia non solo per le strade di Parigi,
ma di tutto il mondo, reale e virtuale.
Sono note di resilienza quelle che ha offerto, come riportano le cronache,
Davide Martello, sabato mattina, il 14, nei pressi del Bataclan. Ad una
manciata di metri dalla sala da concerti dove, poche ore prima , la musica
era stata sovrastata dal rumore dei kalashnikov e dal boato delle esplosioni
che si sono portate via 89 giovani e innocenti e hanno segnato per sempre
quelle centinaia di altri loro coetanei, Martello trascina con la bicicletta
una pianola e inizia a suonare “Imagine” di John Lennon. “Dobbiamo tutti
vivere insieme, é chiaro che tutto il mondo é una grande famiglia. Ma
purtroppo non riusciamo a vivere in pace, e tutto ciò é tragicamente
ridicolo”, ha dichiarato ai cronisti di tutto il mondo.
Sono parole di resilienza quelle scritte sullo striscione nero sistemato in
Place de la Republique: “fluctuat nec mergitur”, la barca oscilla tra le onde
ma non affonda.
Sono parole di resilienza quelle che Antoine Leiris ha scritto e che hanno
fatto il giro del mondo. “Non avrete il mio odio”, scrive, padre di un
bimbo di 17 mesi, che proprio al Bataclan ha perso l’amore della sua vita
e la madre di suo figlio.
7
Vale la pena leggerle e rileggerle, le parole di Antoine: “Venerdì avete
rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre
di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio
neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale
ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di
mia moglie sarà stata ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di
odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che
siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini
con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra
è una battaglia persa, Non sarà così.”
“L’ho vista stamattina -prosegue Antoine-. Finalmente, dopo notti e giorni
di attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando
mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono
devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta
durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel
paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in
due, mio figlio ed io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo.
Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia
dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e
poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la vita questo petit
garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete
ma nemmeno il suo odio”.
Antonio Vermigli
"Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri
allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di
dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e
oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri"
don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù"
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2398
Fermiamo la spirale di violenza (di Gerardo
Femina)
Di fronte agli attentati terroristici che hanno colpito simultaneamente sette
punti nella città di Parigi si rimane con un senso di sgomento e tristezza.
Non ci sono mai parole sufficienti per condannare una violenza così
brutale. In più proviamo paura e impotenza davanti ad attacchi che
colpiscono all’improvviso e colpiscono chiunque, quasi sempre persone
innocenti che non hanno nessuna responsabilità rispetto alle mostruosità
che accadono nel mondo.
Sono molti anni che diciamo che è necessario cambiare urgentemente la
direzione degli avvenimenti e nel 2009 lo abbiamo fatto con forza durante
la Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza. Il terrorismo è anche
l’effetto del disastro prodotto dalla politica occidentale in Medio Oriente.
Come ha ammesso lo stesso Tony Blair, uno degli artefici di questo
disastro, la guerra in Iraq è stata un errore grandissimo, che tra l’altro ha
posto le basi per la nascita e lo sviluppo dell’Isis. Ancora oggi la Francia,
gli Usa e altri paesi occidentali e del Medio Oriente appoggiano in Siria
gruppi terroristi. Addestrano i cosiddetti ribelli moderati e li riforniscono
di armi e mezzi che poi finiscono nelle mani dell’Isis.
Dobbiamo a questo punto anche condannare l’ipocrisia con cui vengono
presentati e condannati questi attacchi terroristici. Sicuramente qualcuno
ne approfitterà per dire che dobbiamo aumentare il controllo, armare gli
eserciti, colpire duramente…. ma nessuno dirà che l’unica soluzione è
ritirare da tutti i territori occupati gli eserciti stranieri, cominciare una
collaborazione e un dialogo con tutti i governi per fermare il terrorismo,
bloccare immediatamente la vendita delle armi soprattutto verso il Medio
Oriente e in particolare verso l’Arabia Saudita. Tutte le altre reazioni
saranno come buttare benzina sul fuoco. Come ha detto Silo “La pace non
verrà da un approccio violento alla violenza”.
La difesa dal terrorismo è soprattutto un tema di intelligence, non di
eserciti. E come dichiarò anche il Parlamento Europeo nel 2001, invece di
spiare gli alleati i servizi segreti farebbero meglio a svolgere bene il loro
lavoro ed evitare che accadano queste cose.
Condanniamo duramente questi attentati, come duramente abbiamo
condannato la strage provocata dall’esercito USA nello scorso ottobre in
Afghanistan, bombardando un ospedale nel folle obbiettivo di uccidere dei
talebani.
Non ci facciamo prendere dal terrore, perché in questo modo saremo
facilmente manipolabili. Esprimiamo la nostra solidarietà alle famiglie
delle vittime, cosi come lo abbiamo fatto quando 224 persone hanno perso
la vita nell’attentato terroristico in Egitto contro un aereo russo.
Gerardo Femina
Mondo senza guerre e senza violenza – Repubblica Ceca
(fonte: Pressenza: international press agency)
link: http://www.pressenza.com/it/2015/11/fermiamo-la-spirale-di-violenza/
poveri“ (LS 49).
Lo sviluppo sostenibile deve includere i poveri
Mentre si lamenta il forte impatto del rapido cambiamento climatico sui
livelli del mare, sui fenomeni atmosferici estremi, sul deterioramento degli
ecosistemi e sulla perdita della biodiversità, la Chiesa è anche testimone di
come il cambiamento climatico stia avendo effetti sulle comunità ed i
popoli più vulnerabili, soprattutto a loro svantaggio. Papa Francesco
richiama la nostra attenzione sulle conseguenze irreparabili di
cambiamenti climatici incontrollati in molti paesi in via di sviluppo in
tutto il mondo. Inoltre, nel suo discorso alle Nazioni Unite Papa ha detto
che l’abuso e la distruzione dell’ambiente sono accompagnati anche da un
processo inarrestabile di esclusione.
Leader coraggiosi alla ricerca di accordi vincolanti
Approfondimenti
Ambiente ed energia
COP 21: firmato l'appello di cardinali, patriarchi e
vescovi di tutto il mondo
Cardinali, Patriarchi e Vescovi di tutto il mondo, rappresentanti le istanze
continentali delle Conferenze episcopali nazionali, riuniti il 26 ottobre, in
conferenza stampa presso la Sala Stampa Vaticana, hanno siglato un
appello rivolto a quanti negoziano la COP 21 a Parigi, invitandoli a
lavorare per l'approvazione di un accordo sul clima.
In rappresentanza della Chiesa cattolica dei cinque continenti, noi
Cardinali, Patriarchi e Vescovi ci siamo riuniti per volere del segretario di
Stato della Santa Sede per esprimere, da parte nostra e per conto delle
persone che abbiamo a cuore, la speranza diffusa che dai negoziati della
COP 21 di Parigi emerga un accordo sul clima giusto e giuridicamente
vincolante. Avanziamo una proposta politica su dieci punti, formulata sulla
base dell’esperienza concreta delle persone attraverso i vari continenti e
associando i cambiamenti climatici all’ingiustizia e all’esclusione sociale
dei più poveri e dei più vulnerabili dei nostri cittadini.
Cambiamenti climatici: sfide ed opportunità
Nella sua lettera enciclica, Laudato Si’ (LS), rivolta ad “ogni persona che
abita questo pianeta” (LS 3), Papa Francesco afferma che “i cambiamenti
climatici costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità” (LS
25). Il clima è un bene comune, condiviso, che appartiene a tutti e
destinato a tutti (LS 23). L’ambiente naturale è un bene collettivo,
patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti (LS 95).
Credenti o non, siamo d’accordo oggi che la terra è essenzialmente
un’eredità comune, i cui frutti sono destinati a beneficio di tutti. Per i
credenti, questa diventa una questione di fedeltà al Creatore, in quanto Dio
ha creato il mondo per tutti. Quindi ogni approccio ecologico deve
incorporare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti
fondamentali dei poveri e dei diseredati (LS 93).
Il danno al clima e all’ambiente ha enormi ripercussioni. Il problema sorto
a seguito della vertiginosa accelerazione del cambiamento climatico è
globale nei suoi effetti e ci sfida a ridefinire le nostre nozioni di crescita e
progresso. Rappresenta una questione di stile di vita. A causa delle sue
dimensioni e della sua natura globale, l’impatto del clima ci obbliga a
trovare una soluzione che sia consensuale e ci invita ad una solidarietà
universale, “intergenerazionale” ed “intragenerazionale” (LS 13, 14, 162).
Il Papa definisce il mondo come “la nostra casa comune”. Pertanto,
nell’amministrarla, dobbiamo tener presente il degrado umano e sociale,
che è conseguenza di un ambiente danneggiato. Chiediamo un approccio
ecologico integrale, chiediamo giustizia sociale da porre al centro
dell’attenzione “per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei
8
Costruire e mantenere una casa comune sostenibile richiede una leadership
politica coraggiosa e creativa. Si rende indispensabile creare un sistema
normativo che includa limiti e assicuri la protezione degli ecosistemi (LS
53).
Prove scientifiche attendibili rivelano che l’accelerazione del
cambiamento climatico è in gran parte dovuta all’attività umana sfrenata,
che lavora su un modello particolare di progresso e di sviluppo.
L’eccessiva dipendenza dai combustibili fossili è la prima responsabile. Il
Papa ed altri leader religiosi, sensibili al danno causato, fanno appello ad
una drastica riduzione delle emissioni di biossido di carbonio e di altri gas
tossici.
Ci uniamo al Santo Padre nell’implorare un grande passo avanti a Parigi,
per un accordo globale e generatore di un vero cambiamento sostenuto da
tutti, basati su principi di solidarietà, di giustizia e di partecipazione.
Questo accordo deve porre il bene comune innanzi agli interessi nazionali.
È essenziale anche che i negoziati si concludano con un accordo
vincolante che protegga la nostra casa comune e tutti i suoi abitanti.
Noi, Cardinali, Patriarchi e Vescovi, lanciamo un invito generale e
avanziamo dieci proposte politiche specifiche. Chiediamo alla COP 21 di
stringere un accordo internazionale per limitare l’aumento della
temperatura globale entro i parametri attualmente proposti all’interno della
comunità scientifica mondiale al fine di evitare impatti climatici
catastrofici, soprattutto sulle comunità più povere e vulnerabili. Siamo
d’accordo sul fatto che esiste una responsabilità comune, ma anche
differenziata di tutte le nazioni. Vari paesi hanno raggiunto differenti stadi
in materia di sviluppo. La necessità di lavorare insieme per uno sforzo
comune è imperativa.
Le nostre 10 proposte:
1.
2.
3.
4.
tenere a mente non solo le dimensioni tecniche, ma
soprattutto quelle etiche e morali dei cambiamenti climatici,
di cui all’articolo 3 della convenzione quadro delle Nazioni
Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC).
accettare che il clima e l’atmosfera sono beni comuni globali
appartenenti a tutti e destinati a tutti.
adottare un accordo globale equo, generatore di un vero
cambiamento e giuridicamente vincolante sulla base della
nostra visione del mondo che riconosce la necessità di vivere
in armonia con la natura e di garantire il rispetto dei diritti
umani per tutti, compresi quelli dei popoli indigeni, delle
donne, dei giovani e dei lavoratori.
mantenere l’aumento della temperatura globale e di fissare
un obiettivo per la completa decarbonizzazione entro la metà
del secolo, al fine di proteggere le comunità che in prima
linea soffrono gli impatti dei cambiamenti climatici, come
quelle nelle isole del Pacifico e nelle regioni costiere.
◦ garantendo che la soglia della temperatura sia sancita in
un accordo globale giuridicamente vincolante, con
impegni ambiziosi di attenuazione ed azioni da parte di
tutti i paesi che tengano pienamente conto delle loro
responsabilità comuni ma differenziate e delle loro
rispettive capacità (CBDRRC), sulla base di principi di
equità, responsabilità storiche e sul diritto allo sviluppo
sostenibile.
◦ per assicurare che le riduzioni delle emissioni dei
governi siano in linea con l’obiettivo della
decarbonizzazione, i governi devono svolgere dei
riesami periodici degli impegni presi e dell’ambizione
Affinché questi controlli vadano a buon fine, devono
avere basi scientifiche, devono seguire il principio
dell’equità e devono essere obbligatori.
5. generare nuovi modelli di sviluppo e stili di vita che siano
compatibili con il clima, affrontare la disuguaglianza e
portare le persone ad uscire dalla povertà. Fondamentale per
questo è porre fine all’era dei combustibili fossili,
eliminandone gradualmente le emissioni, comprese le
emissioni provenienti da militari, aerei e marittimi, e
fornendo a tutti l’accesso affidabile e sicuro alle energie
rinnovabili, a prezzi accessibili.
6. garantire l’accesso delle persone all’acqua e alla terra per
sistemi alimentari sostenibili e resistenti al clima, che
privilegino le soluzioni in favore delle persone piuttosto che
dei profitti.
7. garantire, a tutti i livelli del processo decisionale,
l’inclusione e la partecipazione dei più poveri, dei più
vulnerabili e dei più fortemente influenzati.
8. garantire che l’accordo 2015 offra un approccio di
adattamento che risponda adeguatamente ai bisogni
immediati delle comunità più vulnerabili e che si basi sulle
alternative locali.
9. riconoscere che le esigenze di adattamento sono condizionate
dal successo delle misure di attenuazione adottate. I
responsabili del cambiamento climatico hanno l’onere di
assistere i più vulnerabili nell’adattarsi e nel gestire le perdite
e i danni e nel condividere la tecnologia e il know-how
necessari.
10. fornire roadmap chiare su come i paesi faranno fronte alla
fornitura di impegni finanziari prevedibili, coerenti ed
aggiuntivi, garantendo un finanziamento equilibrato delle
azioni di attenuazione e delle esigenze di adattamento.
Tutto questo richiederebbe una seria consapevolezza e educazione
ecologica (LS 202-215).
Preghiera per la Terra
Dio dell’amore, insegnaci a prenderci cura di questo mondo, che è la
nostra casa comune. Ispira i leader di governo quando si riuniranno a
Parigi per ascoltare con attenzione il grido della terra e il grido dei poveri
ad essere uniti nel cuore e nella mente nel rispondere con coraggio alla
ricerca del bene comune e alla protezione del bellissimo giardino terrestre
che hai creato per noi, per tutti i nostri fratelli e sorelle, per tutte le
generazioni a venire. Amen
Fonte: Focsiv.it
(fonte: Unimondo newsletter)
link:
http://www.unimondo.org/Notizie/COP-21-firmato-l-appello-di-cardinalipatriarchi-e-vescovi-di-tutto-il-mondo-153325
Diritti
Il Tribunale Permanente dei Popoli a Torino, sulle
grandi opere (di Angela Dogliotti, Elena Camino)
Dal 5 al 7 novembre si è svolta a Torino, presso la Fabbrica delle E, del
Gruppo Abele, la sessione del Tribunale permanente dei popoli “Diritti
fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere” , che si
è conclusa ad Almese l’8 novembre, con la lettura della sentenza.
Davanti ad un folto pubblico di cittadini ha aperto i lavori il segretario
generale del Tribunale, Gianni Tognoni, seguito dall’intervento di Livio
Pepino (ex-magistrato, del Controsservatorio Valsusa), che ha esposto
l’atto di accusa consistente nella “grave e sistematica violazione…di
numerosi diritti fondamentali dei cittadini e della comunità della Val
Susa…espressione di un modello di sviluppo, diffuso in tutto il pianeta,
che produce devastazioni ambientali lesive dei diritti fondamentali dei
cittadini attuali e delle generazioni future e che estromette dalle scelte le
popolazioni direttamente interessate” (dalla scheda di presentazione).
La prima giornata si è poi concentrata su “Il TAV in Val Susa e la
partecipazione negata”, con interventi di Ezio Bertock, che ha chiamato a
testimoniare, in presenza o in video, alcuni dei protagonisti del movimento
di opposizione, tra cui il fondatore di Habitat, Claudio Giorno, Alberto
Perino, nonno NO TAV e leader storico del Gruppo valsusino di azione
nonviolenta, che ha ripercorso la storia delle lotte di questi 25 anni,
mettendo in luce come l’unità sia stata la forza del movimento, ed esperti
come il prof. Chiocchia, del Politecnico di Torino .
Sulla manipolazione dei dati e delle previsioni è poi intervenuto il secondo
rapporteur, Angelo Tartaglia, del Politecnico di Torino, che ha mostrato
come siano insostenibili le ragioni addotte a giustificazione dell’opera (un
supposto aumento del traffico passeggeri, dai 2000 del 1992 a più di
20.000, e delle merci): lo stesso quaderno n.1 dell’Osservatorio ha
riconosciuto che la saturazione della linea storica non è imminente; i dati
del 2013 testimoniano che il volume di traffico sulla ferrovia è pari ad un
quinto delle capacità della linea storica…
Sono poi stati chiamati a testimoniare, oltre a Simone Franchino, che ha
confermato questi dati, i professori Claudio Cancelli e Marco Ponti i quali
hanno evidenziato l’inconsistenza dell’analisi costi-benefici prodotta dai
proponenti l’opera, mentre la prof.ssa Marina Clerico ha messo sotto
accusa la legge obiettivo e la procedura dell’appalto integrato, che rinvia
l’analisi delle criticità dei progetti. Il dott. Marco Tomalino, infine, medico
di base, ha messo in evidenza dati preoccupanti sull’aumento del
mesotelioma e delle patologie cardiovascolari e polmonari per cause
ambientali in Piemonte.
Sull’esclusione dei cittadini e delle istituzioni dai processi decisionali è
poi intervenuto Luca Giunti, naturalista e componente della Commissione
tecnica Comunità montana Val Susa e Val Sangone, che ha sottolineato, in
apertura, l’importanza del principio di precauzione quando si ha a che fare
con opere il cui impatto e le cui conseguenze sono difficilmente calcolabili
. Ha fatto presente la necessità di avere un consenso e conoscenze
“allargate” e non solo pareri tecnici su opere come queste, e l’importanza
di rispettare il principio di reversibilità, per poter correggere eventuali
errori, come auspica la scienza post-normale. Sono poi state trasmesse le
testimonianze videoregistrate di Mario Cavargna e di Stefano Lenzi,
presidenti, rispettivamente, di Pro-Natura e del WWF. L’avvocato
Massimo Bongiovanni ha poi parlato dell’impatto avuto dalla diffusione
delle riprese dello sgombero del presidio di Venaus, in seguito alla quale il
generale della Corte dei Conti Bosetti ha aperto un fascicolo contro alcuni
dirigenti delle forze dell’ordine , scoprendo irregolarità in verbali sugli
espropri. Dopo le testimonianze di Loredana Bellone e Paolo Prieri è stato
proiettato un video con la testimonianza di Vittorio Agnoletto.
L’ultimo rapporteur della giornata è stato Paolo Mattone, del
Controsservatorio Valsusa, che è intervenuto sulla sostituzione del
9
confronto con la repressione ed ha chiamato a testimoniare Guido Fissore,
Alessandra Algostino e Claudio Novaro.
Sono stati proiettati alcuni video con immagini della militarizzazione del
territorio e delle sue conseguenze sulla popolazione.
hanno operato in spregio ai criteri di trasparenza e partecipazione che ogni
democrazia dovrebbe salvaguardare. La compostezza, la lucidità, la
coerenza e il coinvolgimento personale con cui i testimoni si sono espressi
è stata una dimostrazione di comportamento dignitoso, fermo e
nonviolento di cui non si vede traccia nei dibattiti politici degli ultimi
anni.
La quarta parte si è conclusa con la testimonianza video di Luca Abbà.
Altri testimoni della giornata, comparsi personalmente o in video sono:
Luca Anselmo, Giulia Casel, Paolo Chirio, Riccardo Culatti, Nicoletta
Dosio, Nilo Durbiano, Gianni Maggi, Monica Montabone, Claudio
Novaro, Sandro Plano, Gigi Richetto, Emilio Scalzo, Fulvio Tapparo,
Cristina Uran.
I componenti della Giuria hanno rivolto numerose domande di
approfondimento, cui hanno risposto relatori e testimoni.
Venerdì 6 novembre la sessione è proseguita aprendosi all’analisi di altre
grandi opere in Italia e nel mondo.
A partire dalla mattinata è stata presa in considerazione la situazione
italiana, esaminando in particolare il passante e la stazione ferroviaria di
Firenze; l’autostrada Orte-Mestre, le trivellazioni nel mare Adriatico e in
terraferma; il ponte di Messina, con rapporteur Tiziano Cardosi, del Forum
contro le grandi opere inutili e imposte.
Armando Danella è intervenuto sul Mose a Venezia, presentando numerosi
schemi per illustrare importanti e delicati aspetti ambientali della laguna di
Venezia che sono minacciati dai progetti in corso, e per segnalare alcuni
dettagli tecnici oggetto di controversia. Sebastiano Papandrea, portavoce
del Comitato NOMuos a Niscemi, ha presentato un video con scene di
manifestazioni di proteste dei cittadini, blocchi stradali da parte della forza
pubblica, interventi della polizia con sgomberi forzati dei manifestanti che
si trovavano su suolo pubblico. Ha inoltre elencato una lunga serie di
infrazioni commesse dalle Istituzioni in questa vicenda: la più grave è
forse quella di aver concesso in passato (e confermato attualmente) la
piena disponibilità di un vasto territorio (che ospita la sughereta più
grande e antica d’Europa) al governo degli Stati Uniti, che grazie al
sistema di antenne satellitari qui installate è in grado di esercitare un
controllo globale delle telecomunicazioni, e di progettare e guidare
attacchi di guerra senza che il governo italiano ne sia non solo interpellato,
ma neppure informato.
Sabato mattina è stato previsto uno spazio per la difesa dei proponenti, che
tuttavia hanno declinato l’invito.
E’ stata quindi la volta della requisitoria finale da parte di Livio Pepino.
Poiché non è possibile sintetizzare in poche righe la ricchezza delle
argomentazioni sostenute, si fa riferimento direttamente al testo, già
presente in versione integrale sul sito del Controsservatorio (http://
www.controsservatoriovalsusa.org)
Poi la Giuria si è ritirata per una riflessione finale e per la stesura della
sentenza.
Domenica 8 novembre , ad Almese, in un teatro gremito, attento e
partecipe è stata letta la sentenza, preceduta dal saluto dell’ecologista
cilena Sara Larrain, direttrice del programma Chile Sustentable e da alcuni
altri interventi. Dopo la lettura, ad opera del Presidente, Philippe Texier,
magistrato onorario della Corte suprema di Cassazione e già membro e
presidente del Comitato di diritti economici, sociali e culturali dell’Ufficio
dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, è stato affidato il saluto
conclusivo a Dora Lucy Arias, coraggiosa avvocata colombiana,
componente del Consiglio Diretivo del Colectivo de Abogados Josè
Alvear Restrepo.
La sentenza, disponibile integralmente nel sito del Controsservatorio
Valsusa
(http://controsservatoriovalsusa.org/images/materiali/TPP_sessione_Torin
o-sentenza-dispositivo.pdf) , è accompagnata da questo commento: “Una
sentenza che accoglie l’impianto accusatorio e lo rafforza, che riconosce le
violazioni di diritti fondamentali non soltanto in Val di Susa, che denuncia
la violazione di convenzioni internazionali da parte degli stati che le hanno
sottoscritte, che chiede per la Valsusa la sospensione dei lavori e la
cessazione dell’occupazione militare”.
Tra le RACCOMANDAZIONI finali si legge:
Il TRIBUNALE PERMANENTE DEI POPOLI
Per quanto riguarda la situazione europea, Sabine Brautigam, del Forum
contro le grandi opere inutile e imposte, ha presentato in particolare le
criticità della linea ferroviaria Hs2 nel Regno Unito, della linea ferroviaria
AV nei Paesi Baschi spagnoli e francesi, della stazione di Stuttgard 21 in
Germania, e della miniera d’oro di Rosia Montana in Romania, con l’aiuto
di alcuni testimoni:
Genevieve Coiffard-Grosdoy ha presentato il caso dell’aeroporto di Notre
Dames Des Landes, sul quale sono intervenuti anche altri testimoni,
mentre Daniel Ibanez ha parlato del “debat public” in Francia.
La seconda giornata si è conclusa con la terza parte: la situazione delle
grandi opere inutili e imposte in America latina, sulle quali è intervenuto
Andreas Barreda per il Messico.
Raccomanda nel caso Tav Torino Lione, agli stati Italiano e Francese, di
procedere a consultazioni serie delle popolazioni interessate e in
particolare degli abitanti della Val di Susa per garantire loro la possibilità
di esprimersi sulla pertinenza e la opportunità del progetto e far valere i
loro diritti alla salute, all’ambiente, e alla protezione dei loro contesti di
vita. Queste consultazioni dovranno realizzarsi senza omettere nessun dato
tecnico sull’impatto economico, sociale e ambientale del progetto e senza
manipolare o deformare l’analisi della sua utilità economica e sociale. Si
dovranno esaminare tutte le possibilità senza scartare l’opzione “0”.
Finché non si garantisce questa consultazione popolare, seria e completa,
la realizzazione dell’opera deve essere sospesa in attesa dei suoi risultati,
che devono essere in grado di garantire i diritti fondamentali dei cittadini.
E in conclusione raccomanda agli stati
Tutti gli interventi potranno essere seguiti in audio sul sito del
Controsservatorio (vedi il link più avanti)
Un aspetto che ci ha molto colpito nel corso delle due giornate di
presentazione delle ragioni dei ‘denuncianti’ è stata la forma che è stata
scelta per le esposizioni: i rapporteurs e i testimoni sono stati molto chiari,
rendendo facile al pubblico seguire le loro argomentazioni; hanno
selezionato e presentato dati e documenti accessibili e rintracciabili a
sostegno delle loro ragioni. Hanno individuato e sottolineato numerose
somiglianze nelle dinamiche con le quali governi, imprese, istituzioni
10
…..Di dare priorità rispetto alle grandi opere a programmi vasti ed efficaci
inerenti i servizi e le opere di interesse vitale quotidiano dei cittadini, quali
le opere di contrasto di fenomeni idrologici e idrogeologici e situazioni di
degrado e di mancanza di manutenzione dell’edilizia e dei trasporti di
pubblico interesse…
e ai movimenti sociali, alle associazioni e ai comitati che si battono contro
le grandi opere, di far rispettare dagli stati le procedure previste
….nonché di sperimentare ogni legittimo strumento per costringerveli in
caso di inadempimento degli obblighi suddetti, in particolare il ricorso al
Comitato sull’adempimento della Convenzione di Aarhus 1.
1 Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del
pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia
ambientale, adottata in Aarhus il 25 giugno 1998, di cui sono membri 46
stati , tra cui l’Italia dal 13/6/2001 e la Francia , dall’8/7/2002, approvata
dall’UE con la decisione 2005/370/CE
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://serenoregis.org/2015/11/16/il-tribunale-permanente-dei-popoli-a-torinosulle-grandi-opere-angela-dogliotti-e-elena-camino/
Immigrazione
I pericoli dello "ius culturae" (di Fiorella Farinelli)
Le nuove regole di acquisizione della cittadinanza, ora al vaglio del
Senato, prevedono che per averne diritto i bambini stranieri nati in Italia o
arrivati prima dei 12 anni debbano avere concluso positivamente un intero
ciclo scolastico. In barba al fatto che il 15% dei bambini stranieri, anche
tra i nati da noi, è in “ritardo scolastico” fin dalla elementare.
Mettiamo che Abdul, seienne pakistano nato in Italia, in una scuola
dell’infanzia non ci abbia mai messo piede. Impossibile? Niente affatto, è
così per il 25% circa dei figli di genitori stranieri (contro il 3% degli
italiani), e per tanti motivi. Perché la materna non è scuola dell’obbligo,
perché in certe zone non c’è proprio, perché le scuole pubbliche non
bastano e certe private costano troppo, perché il non coordinamento tra
scuole comunali, statali, private, a tempo pieno e a metà tempo, con o
senza tariffe, disorienta i meno esperti. E poi si sa che per alcune culture la
scuola a 3 anni è troppo presto (era così anche per noi, 40 anni fa, e sono
almeno 20 che si discute se le materne debbano o no far parte dell’obbligo
scolastico).
Così quando Abdul arriva in prima elementare il suo italiano è di sicuro
poca cosa. A casa sua si parla solo urdu e quello che ha imparato al parco
e per strada è appena un po’ di più di quello dei “neoarrivati”, i ragazzi
che sei mesi fa erano all’altro capo del mondo e oggi si ritrovano smarriti
in una scuola italiana. Se Abdul capita in una scuola “esperta” che sa fare
bene quello che serve, il problema non è insormontabile, basta un
grappoletto di mesi con i coetanei – italiani e bilingue – per correre
insieme. Ma ci sono storie diverse. Il 15% dei bambini stranieri, anche tra
i nati da noi, è in “ritardo scolastico” fin dalla elementare ( diventerà, quel
ritardo, più del 30% nella scuola media e oltre il 60% nella superiore ). A
7 anni in ritardo sono il 7,4%, a 10 anni il 19%. Ci sono infatti scuole in
cui si decide, s’intende a fin di bene, che quelli come Abdul è meglio che
ripetano una classe, qualche volta anche due, perché l’italiano non è
abbastanza buono per passare alla classe successiva. E non importa se
Abdul ha voglia di imparare, se è bravo a disegnare e a suonare il flauto,
se coi numeri se la cava alla grande e pure con lo smartphone, se le regole
del calcetto anche per lui non hanno più segreti. E neppure se quella
bocciatura, quel cambiamento di classe e di compagni, lascerà qualche
ferita.
Fin qui è una storia, amara quanto si vuole a quasi trent’anni dalle prime
presenze straniere nella nostra scuola, e pure pericolosa - per il futuro
delle seconde generazioni e anche per il nostro - perché sono ancora troppi
i ragazzi stranieri scoraggiati da bocciature e ritardi che abbandonano gli
studi prima di concluderli, ma in Italia sono tanti, anche a sinistra, a
ritenere che tutto sommato sia normale. Uno scotto da pagare per chi
arriva da altri paesi, un fisiologico effetto collaterale. E però d’ora in
avanti di effetti collaterali potrebbero essercene anche altri, se il Senato
non migliorerà il testo di modifica delle regole di acquisizione della
cittadinanza approvato il 13 ottobre scorso dalla Camera. Perché il
cosiddetto “ius culturae”, che consente ai bambini stranieri nati da noi o
arrivati prima dei 12 anni di accedere alla cittadinanza italiana anche se
11
non hanno un genitore fornito di permesso di soggiorno permanente ,
stabilisce che per averne il diritto bisogna aver frequentato un intero ciclo
scolastico. E che, se il ciclo è quello della scuola elementare, bisogna
averlo concluso positivamente, aver ottenuto cioè il via libero per
l’iscrizione alla scuola media. Che cosa succederà? Secondo i beati
costruttori del riformismo renziano niente di significativo. Secondo i meno
beati, che ci sarà un certo numero di Abdul che la domanda di cittadinanza
potranno farla solo a 13-14 anni, cioè solo 2-3 anni dopo l’età canonica
dell’uscita dalla elementare, e solo 4 anni prima di quanto previsto finora,
cioè della maggiore età. Non è granché per una riforma vantata come
“epocale”, vera e propria “svolta di civiltà”. Non solo, ci saranno altri
ragazzini, per esempio quelli con disabilità che compromettono
l’apprendimento, che dello “ius culturae” – cultura, del resto, è in questo
contesto una parola davvero grossa - non potranno approfittarne. Le 19
associazioni di “Italia sono anch’io”, la campagna che nel 2012 ha
depositato 200mila firme a sostegno di due leggi di iniziativa popolare
sulla cittadinanza dei nati in Italia e sul voto amministrativo agli stranieri,
ovviamente non applaudono. E, come l’ASGI - l’associazione dei giuristi
per l’immigrazione che di battaglie di civiltà ne ha già vinte parecchie in
tribunale - avanzano proposte sensate di miglioramento del testo.
Vedremo.
Il fatto è che il problema è anche di principio. Una cosa è utilizzare la
regolare frequenza scolastica come indicatore di stabilità (in linea, del
resto, con quanto previsto dall’”accordo di integrazione” di Maroni per il
rinnovo del permesso di soggiorno dei genitori di figli in età di obbligo
scolastico), un’altra è attribuire alla scuola e agli insegnanti la
responsabilità dell’accesso o meno, e a un’età o a un’altra, alla
cittadinanza. Ma è questo che accade, quando si pretende che la scuola
primaria sia conclusa con successo. Accade quando una norma, a cui pure
la maggioranza dell’opinione pubblica guarda con favore, deve essere
negoziata con chi un più facile accesso alla cittadinanza degli immigrati
extracomunitari, ancorché bambini nati e cresciuti da noi, la vede come il
fumo negli occhi. E in un parlamento che su un provvedimento come
questo, incontra non solo la fiera opposizione della Lega ma anche
l’astensione di quei campioni di democrazia che sono i grillini.
I limiti della norma, del resto, non sono solo qui. L’altra via , quella dello
“ius soli” cosiddetto “temperato” – cioè privo dell’automatismo in vigore
negli USA – che consente l’accesso alla cittadinanza dei bambini con
almeno un genitore provvisto del permesso di soggiorno permanente, ha
anch’essa le sue malignità. È vero, infatti, che quasi il 60% degli
immigrati stabilizzati ne è ormai in possesso, ma si tratta di una “carta”
che si può ottenere solo a certe condizioni, tra cui alcune – un certo livello
di reddito, una certa tipologia di alloggio – di tipo inequivocabilmente
economico. È iniquo, sostengono alcuni, e hanno ragione. Di qui altre
proposte di emendamenti, che si aggiungono alla contrarietà per una
svolta così epocale da non avere avuto il coraggio di misurarsi con regole
nuove e meno restrittive per l’ingresso nella cittadinanza degli adulti,
quindi con una legge varata nel lontano 1991, quando della grande
immigrazione globale c’erano solo alcuni prodromi. Siamo lontani dalla
lungimiranza di Angela Merkel. Sarebbe già bene, comunque, se la legge
uscisse dal Senato un bel po’ migliorata rispetto a come vi è entrata. Ma al
momento non è affatto detto.
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata
la fonte: www.sbilanciamoci.info.
(fonte: Sbilanciamoci Info)
link: http://sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/I-pericoli-dello-ius-culturae-31690
Nonviolenza
Obiezione di coscienza e Costituzione (di Federica
Grandi)
Nel diritto costituzionale contemporaneo si assiste al progressivo aumento
del numero dei diritti fondamentali e, in particolare, di quelli riferiti alla
coscienza, a fronte, peraltro, di una società sempre più multiculturale.
L'enfasi mediatica e politica sul preteso diritto costituzionale all'obiezione
di coscienza va letta in questo contesto.
L’obiezione di coscienza, quale specificazione della libertà di coscienza
e/o dell’autodeterminazione - che si ispiri ai valori tradizionali o a quelli
nuovi - viene interpretata come lo strumento più efficace per proteggere le
coscienze dissenzienti che si confrontano con un ordinamento giuridico
che fa fatica a rinnovarsi nelle sedi parlamentari.
Il “fatto” dell’obiezione di coscienza, come noto, si verifica nel momento
in cui un soggetto rifiuta di obbedire ad una legge sulla base di un
convincimento individuale assolutamente inconciliabile con essa. Sebbene
la disobbedienza dell’obiettore metta in discussione l’obbligatorietà della
legge per tutti, minando un presupposto del vivere insieme, a volte, i
legislatori accettano questo rischio perché uno dei connotati fondamentali
delle democrazie è dare la possibilità al dissenso di esprimersi in forme
legali, così da poter essere integrato con gli altri interessi presenti nella
società.
Questa integrazione del dissenso è perseguita con diversi strumenti: si
pensi alle deroghe negoziate con alcune confessioni religiose che rendono
immuni da responsabilità per i comportamenti illeciti prescritti dai canoni
confessionali. Quanto alle questioni di coscienza non necessariamente
legate ad uno precetto religioso, le soluzioni sono altre.
Vi può essere la conversione dell’obbligo a cui si rifiuta l’obbedienza in
un obbligo alternativo, come è accaduto quando è stato consentito agli
obiettori di prestare il servizio civile in luogo della leva militare ovvero,
quando la conversione non è possibile, il trasferimento dell’obbligo
gravante sull’obiettore in capo ad un altro soggetto, onde assicurare la
continuità e la certezza della prestazione del servizio cui era sotteso il
predetto obbligo: come nel caso della partecipazione alle tecniche di
interruzione volontaria della gravidanza, nonché a quelle di fecondazione
medicalmente assistita, ove è sì consentito di fare obiezione di coscienza,
ma con la garanzia che le strutture ospedaliere assicurino la continuità del
servizio, attraverso la necessaria presenza di personale non obiettore.
Quanto all’obiezione di coscienza nell’ambito delle procedure di
interruzione volontaria della gravidanza, in particolare, gli incredibili
numeri attestati dalle stime ministeriali (la media nazionale degli obiettori
tra i ginecologi si aggira attorno al 70%) pregiudicano la continuità anche
territoriale del servizio e testimoniano che questo “vaccino”, predisposto
dal legislatore per elaborare consenso attorno ad una scelta politica molto
combattuta, non ha funzionato a dovere e, dunque, sembra giunto il
momento di modificarne i contenuti.
Più esplicitamente - posto che la Corte costituzionale (sent. n. 35 del
1977) ha chiarito che la legge n. 194 del 1978 ha un contenuto
costituzionalmente vincolato - la sostanziale assenza di strumenti in grado
di valorizzare la sincerità dei convincimenti posti a fondamento della
facoltà di fare obiezione fa ritenere opportuno introdurre dei correttivi alla
disciplina vigente volti a responsabilizzare il personale obiettore, sì da
rendere più ragionevoli i numeri del fenomeno.
L’obiezione di coscienza, al di là delle previsioni legislative è, anzitutto,
fenomeno sociale. L’obiezione di fatto, al fuori del diritto, è stata
impiegata per giustificare il rifiuto a ricevere trattamenti sanitari
obbligatori (si pensi alle vaccinazioni obbligatorie o alle trasfusioni di
sangue).
Quanto poi ai trattamenti non obbligatori, la rilevanza dei convincimenti
di coscienza è venuta a intrecciarsi con tutta una serie di questioni sul
consenso informato e sull’autodeterminazione alle cure, nel tentativo, tra
l’altro, di colmare il vuoto legislativo in tema di fine-vita. Questi impieghi
dell’obiezione si incontrano anche nel diverso terreno del dibattito sui
simboli religiosi, in funzione di grimaldello delle rivendicazioni per la
neutralità dello spazio pubblico.
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Proprio queste vicende fanno apparire l’obiezione di coscienza come un
fenomeno inscrivibile nel più ampio genus della disobbedienza civile.
Il rinvio alla libertà di coscienza o all’autodeterminazione come
scriminante per ogni illecito compiuto in nome dell’obiezione di
coscienza, può però fuorviare se non si considera il contesto democratico e
se si mette da parte che la strutturazione dei rapporti tra governanti e
governati nella nostra Costituzione ha come presupposto la libertà di
coscienza e la tutela delle sue manifestazioni individuali e sociali, sicché
non è necessario ricorrere alla disobbedienza civile per provocare dei
mutamenti legislativi. Semplicemente ci si deve mobilitare politicamente
nelle sedi opportune e tentare la sfida della storia.
Riconoscere nell’obiezione un diritto della coscienza che può essere
sempre rivendicato per sottrarsi agli obblighi imposti dalla legge, senza
una specifica norma che ne definisca le modalità e i limiti, invero,
varrebbe a legittimare il diritto indiscriminato all’inosservanza della legge
– seppure di coscienza.
Ciò non può essere accolto, né sul piano giuridico, perché l’ordinamento
ha esigenza di essere effettivo al punto che arriva ad autorizzare
l’obiezione proprio per venire incontro alle coscienze nella speranza di
evitare il sabotaggio delle norme moralmente controverse; né sul piano
politico, perché ciò sancirebbe una vittoria dell’individualismo sul
principio solidarista, assolutamente sconfessata dall’art. 2 Cost. in quel
mirabile disegno che individua nell’equilibrio tra diritti inviolabili e
doveri inderogabili la possibilità di realizzare un progetto di sviluppo
pieno della persona, nella libera sintesi tra sociale e individuale.
L’obiezione di coscienza, in sintesi, prima di essere accertata da un
giudice, va necessariamente regolata dal legislatore poiché va tenuto nel
giusto conto quello che è il suo impatto sugli equilibri dell’intera società.
(fonte: Zeroviolenza)
link:
http://www.zeroviolenza.it/editoriali/item/73471-obiezione-di-coscienza-ecostituzione
Questioni sociali
Casamonica: quello che la stampa non dice
Restiamo umani - Un funerale rom e il teatrino
razzista della politica (di Marcello Palagi)
Non c'è nessuna dichiarazione meno utile di questa, per cercare di capire
la vicenda del funerale di Vittorio Casamonica. I fatti, da sè, non parlano;
vanno contestualizzati, analizzati e interpretati, dal punto di vista dei rom,
non di chi non lo è.
Anche perchè poi, di fatti, in questa storia, ne sono stati appurati meno di
quanto si creda. Ad esempio, si è detto che a partecipare a questi funerali
"oceanici" c'era tutta la Roma "mafiosa" e invece, c'erano quasi solo dei
rom abruzzesi (non sinti, come si trova scritto - e tutti hanno ripetuto
pedissequamente, senza andare a cercare riscontri -, in Wikipedia). E non
mi sembra, almeno stando alle immagini trasmesse dai mass media, che la
partecipazione al funerale sia stata così di massa come si vuol far credere:
alcune centinaia di persone.
Anche una persona di una certa notorietà, da noi, vedrebbe la sua bara
seguita da un numero di parenti, amici e conoscenti, egualmente se non
più numerosi. Ma l'affermazione iniziale, di un funerale a cui avrebbero
assistito tantissimi e tutti mafiosi, è servita e serve ancora per dire che il
funerale è stato una prova di forza "che le associazioni mafiose" hanno
esibito, "per affermare il mito della loro impunità, per affermare la
supremazia della mafia sullo Stato". Se queste sono le prove di forza..!
Anche se sono stati Caselli e il prefetto di Roma che l'hanno detto e
sostenuto, al seguito, però, di molti altri, si tratta di affermazioni sbagliate
e frutto di pregiudizi. Nessuna intenzione di voler sminuire la
partecipazione di una parte dei Casamonica alla malavita (lo dicono, se
non altro, i processi), ma neanche di prenderla come punto di partenza per
valutare questo funerale, perchè in questo contesto non c'entra niente. Il
funerale non è stato espressione della cultura mafiosa, ma solo di quella
rom e se si pensa di combattere la mafia e Mafia capitale vedendo in
questo funerale, chissà cosa, perdiamo tempo, perchè cerchiamo la mafia
dove non c'è
I Casamonica, oltre tutto, non appartengono alla mafia ed è sbagliato
estendere il concetto di mafia a realtà, magari altrettanto malavitose, ma
che hanno strutture e organizzazioni, modi di funzionare, assolutamente
diversi e che si muovono secondo mentalità e culture di altro genere. Dirò
poi quali fraintendimenti ha determinato, nella lettura dei fatti, l'uso della
parola mafia.
I pochi fatti, se si esclude, pare, il volo dell'elicottero, non sembrano
contro legge. Il feretro di un personaggio noto come appartenente a una
famiglia considerata malavitosa e ricca, di rom abruzzesi, arriva in chiesa,
per le cerimonie funebri, su una lugubre e nera carrozza trainata da sei
cavalli (si dice sia la stessa servita per i funerali di Totò) ed è seguito da
un lungo corteo di automobili lussuose che, sembra abbia determinato un
rallentamento nel traffico e l'intervento dei vigili urbani.
Mentre in chiesa si svolgono la messa e i riti dei defunti, fuori, nella
piazza, un buon numero di rom attende più o meno "compostamente"
l'uscita della cassa.
Improvvisamente appare nel cielo un velivolo che sgancia sulla piazza
petali di rosa. Che cosa ci sia in questi "fatti" di illegale, salvo, forse,
quanto riguarda l'elicottero, non è dato sapere.
Se i fatti sono questi e se, dal punto di vista del diritto e della legge
italiana, Vittorio Casamonica non era mai stato condannato, anche se più
volte denunciato e inquisito, ci si deve domandare non solo perchè non
avrebbe dovuto avere questo funerale, ma come, le autorità competenti
civili e religiose avrebbero potuto vietarlo.
L'articolo continua sul file: http://www.aadp.it/dmdocuments/doc2138.pdf
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2386
Notizie dal mondo
Turchia
Ecco perchè l'HDP non ha perso le elezioni in
Turchia (di Luigi D'Alife)
Le elezioni turche hanno consegnato la maggioranza dei seggi all'AKP di
Erdogan in un clima di tensione e intimidazioni da parte della polizia. Ma
è corretto dire che l'opposizione esce sconfitta dalla competizione
elettorale?
“Non sono state elezioni regolari. Non abbiamo potuto fare una vera
campagna elettorale in quanto abbiamo dovuto proteggere il nostro popolo
da un massacro. E' vero, abbiamo perso un milione di voti, ma questa è
ancora una grande vitoria perchè abbiamo resistto contro la politica dei
massacri e del fascismo.”
Con queste parole i co-presidenti del partito dei popoli democratici (HDP)
Selhatn Demirtas e Figen Yuksedag hanno chiuso la conferenza stampa al
termine della lunga e tesa giornata del 1° Novembre, che ha visto la
Turchia tornare al voto dopo neanche 5 mesi dalle elezioni politiche del 7
Giugno e l'HDP riuscire per la seconda volta a superare l'alta soglia di
sbarramento (10%) necessaria per sedere nel parlamento di Ankara.
I media mainstream di tutto il mondo si sono affannati nel celebrare i
risultai del voto parlando di “Trionfo di Erdogan” e “sconfitta per i flocurdi”, ma per avere un quadro obiettivo e completo delle ultime ore, è
necessaria un analisi più profonda e che tenga conta di quanto accaduto (e
che poco è stato raccontato) degli ultmi mesi in Turchia.
Partiamo proprio dalle parole di Demirtas e del perchè quelle del 1°
Novembre non possono essere considerate elezioni regolari.
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Le elezioni del 7 Giugno scorso avevano consegnato una situazione
nuova, dopo gli ultimi 13 anni di potere incontrastato da parte del piccolo
sultano Erdogan. Il suo partito (AKP) ed il premier fantoccio Ahmet
Davutoglu hanno per la prima volta dovuto fare i conti con una grossa
perdita di consenso, lascito dei risultati delle urne che, soprattutto grazie
allo strabiliante risultato dell'HDP (oltre 6 milioni di voti), hanno
scombussolato i piani politci di Erdogan: accentramento dei poteri nelle
sue mani e riforma in chiave iper-presidenzialista del sistema politico.
Nonostante anche prima del 7 Giugno gli attacchi contro HDP, i suoi
membri ed i suoi elettori si erano contati a centinaia con l'apice raggiunto
nell'attentato di Diyarbakir (che ha di fato riaperto la “nuova stagione”
dello stragismo di piazza), è stato certamente a partire dal 20 Luglio
(atentato di Suruc) che il livello di attacco e violenza nei confronti
dell'opposizione politica e del “vecchio nemico” curdo, si è alzato
vertiginosamente.
La brusca interruzione del processo di pace da parte dello Stato Turco è
stata ampiamente programmata già prima della bomba che ha ucciso 33
persone a Suruc. Nonostante venga indicato come il momento del ritorno
alla lota armata da parte del PKK, erano già settimane che l'aviazione
Turca era tornata a bombardare le sue basi nelle zone del Kurdistan
iracheno, violando di fatto gli accordi del 2013 e facendo ripiombare la
Turchia indietro di 20 anni.
Gli ultimi mesi
Tre attentati bomba diretti contro HDP che hanno fatto 166 morti e più di
1000 feriti. Oltre 190 sedi del partito attaccate, bruciate, distrutte. Pogrom
contro i citadini curdi con pestaggi, accoltellamenti e morti nella prima
settimana di Settembre. Quasi 3500 arresti tra cui 500 membri e dirigenti
del partto. 22 sindaci arrestat e rimossi dall'incarico. Tre mesi di
terrorismo di Stato contro la popolazione Curda nel sud-est del paese con
coprifuoco contnuo e 258 civili uccisi dalle forze di sicurezza Turche, tra
cui 33 bambini. Sono i numeri terribili della vendeta di Erdogan contro
HDP. Sono la “campagna elettorale” dell'AKP ed buona parte dei fatori
che hanno prodoto quello scarto di 9 punti percentuali dal 7 Giugno al 1
Novembre. Ignorati dai media mainstream e tollerati da quegli alleat
occidentali (Italia compresa) sommessamente impegnati nel tenersi buono
il cane da guardia, messo lì a tappare le masse di rifugiati in fuga dalla
guerra e dirette in Europa.
Questo è stato il clima in cui la Turchia è andata a votare; i carri armati per
le strade, i corpi senza vita dei militanti Curdi trascinati nelle vie delle cità
dietro i blindati della polizia, le pistole puntate alle tempie dei giornalisti,
bambine e bambini uccisi dai militari turchi durante gli atacchi alle città
curde, e "conservate" nei freezer in atesa della sepoltura.
Queste sono le immagini di quanto accaduto nel Kurdistan Turco negli
ultimi mesi. E' impensabile che questo non abbia in nessun modo influito
sul voto di qualche giorno fa. Evidentemente lo ha fatto eccome, facendo
credere che dopo le elezioni di Giugno fosse urgente tornare “all'uomo
solo al comando”, al partito unico, alla governabilità, all'unità nazionale
ed alla sicurezza, anche se in cambio dovesse essere ceduta una buona
fetta di libertà.
L'AKP è stato di fatto l'unico partito a fare campagne eletorale. In
particolare, dopo la strage di Ankara che ha colpito la marcia per la pace,
l'HDP ha annullato tutti i comizi per salvaguardare la sicurezza dei propri
elettori. Nelle televisioni e sui giornali nessuno spazio è stato concesso ai
partiti di opposizione, e quei media non ancora allineati alle dirette di
partito sono stati leteralmente occupati e “commissionati” dagli uomini di
Erdogan.
Il giorno delle elezioni
Fin qui quanto successo nel periodo pre-elettorale. Ed il giorno delle
elezioni? Il quadro generale non è stato per nulla diverso. In particolare
nel sud-est del paese il voto si è svolto in un clima da guerra totale. I
dintorni dei seggi e delle città sono stati militarizzati da centnaia di mezzi
dell'esercito e della polizia. Si sono contati moltissimi episodi di violenza
ed intimidazione. La sera del 31 Otobre un atacco aereo è stato condoto
nella cità di Sirnak. La mattina del 1° Novembre, fuori e dentro i seggi,
uomini delle forze speciali armati fno ai denti hanno minacciato la
popolazione, arrestato diverse persone durante le operazioni di voto e
preso in custodia membri dell'HDP.
In diversi quartieri è stata staccata la corrente elettrica e si è impedito in
diversi modi alle persone di raggiungere i luoghi ove si votava. Ad
esempio a Lice (roccaforte dell'HDP nei dintorni di Diyarbakir) di prima
mattina l'esercito, dopo aver chiuso la strada che conduceva ai seggi
eletorali, ha proceduto a renderla inutilizzabile facendola saltare con
l'ausilio di mine. Diversi osservatori internazionali sono stati arrestati,
portati nelle caserme e/o sequestrat all'interno dei seggi dove avevano
riscontrato palesi irregolarità durante il voto.
Come già accaduto nelle ultime elezioni di Giugno, nei dintorni dei seggi
ed in prossimità delle caserme e delle sedi dell'AKP, si sono palesate auto
senza targa, usate “storicamente” il giorno delle elezioni per sotrarre le
urne eletorali con i voti una volta terminate le elezioni. Una volta chiuse le
votazioni è stato abbastanza sconcertante verificare con che velocità siano
stati conteggiati i vot: in poco meno di 3 ore sono stat scrutinati 48 milioni
e mezzo di voti (qualche migliaio di schede eletorali al secondo...). Un
record niente male considerando che solo 5 mesi prima, alle elezioni del 7
Giugno, le operazioni di scrutnio erano durate in tutto 10 ore.
Per chi non ne fosse a conoscenza la normale procedura elettorale in
Turchia si svolge così: le persone possono votare fno alle 17, dopodiché si
chiudono i seggi, le votazioni vengono ufficialmente dichiarate concluse e
si passa al conteggio dei voti. Le schede vengono poi messe in sacchi e
portate alle rispettive commissioni eletorali distrettuali. Secondo la legge,
voti e rapporto vengono compilati presso la commissione eletorale
distrettuale prima di essere portat alla YSK (Suprema Commissione
Eletorale Turca). Tutavia la YSK ha annunciato il risultato per molte
regioni di Istanbul (tra le più popolose di tuta la Turchia) prima del
trasferimento dei documenti elettorali alla commissione distrettuale.
Proprio per questo tpo di pratica il quarter generale HDP ha annunciato
che secondo i dat raccolt dalla loro sede centrale, i risultati reali sarebbero
così distribuit: AKP 44,5% - CHP 25,9% - HDP 14,2% - MHP 11,7.
Come se non bastasse sono stati documentati voti sotratti e portati via da
diverse auto a Gaziantep, un seggio elettorale addiritura posizionato
dentro la casa di un capovillaggio nei dintorni di Urfa, un uomo con due
sacchi pieni di voti è stato fotografato su un autobus nella cità di Erzurum,
centinaia di schede eletorali sono state ritrovate nell'immondizia a
Diyarbakir, a Cizre la polizia ha attaccato con gas lacrimogeni i
rappresentanti dell'HDP che scortavano le urne eletorali (per essere
nuovamente contate in un unica sede per "ragioni di sicurezza") ed un
video ha mostrato un dirigente dell'AKP ad Adiyaman pagare in contanti
alcuni elettori in cambio di voti.
L'analisi del voto
Possibile che i 4 milioni e 800.000 voti presi in più da Erdogan in queste
elezioni arrivino tutti da frodi eletorali? Io non credo. Penso sarebbe
riduttivo credere che gli ultimi mesi di guerra non abbiano prodotto degli
sconvolgiment reali all'interno del paese.
Partiamo dai dati ufficiali: rispetto alle elezioni di Giugno, Erdogan ed il
suo partito conquistano 9 punti percentuali, ovvero 4 milioni ed 800 000
voti in più. Il partto kemalista (CHP) mantiene sostanzialmente gli stessi
voti (+591.915 dal 7 Giugno) mentre è soprattutto il braccio politco dei
lupi grigi (il partto nazionalista MHP) ad avere avuto un vero tracollo,
facendo segnare un dato negatvo di circa di 1 milione 800.000 voti in
meno.Il partito dei popoli democratici (HDP) si attesta sul 10,76%
superando nuovamente l'alta soglia di sbarramento, entrando in
parlamento, ma perdendo in 5 mesi poco meno di un milione di vot (911.818).
E' evidente come gran parte dei voti della destra e dei nazionalisti Turchi,
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dopo la campagna anticurda degli ultimi mesi, siano confluiti dentro AKP.
I lupi grigi pagano probabilmente lo scotto di aver respinto la proposta di
coalizione per la formazione di un governo di unità nazionale. D'altra
parte AKP si è accaparrato le simpatie dei fascisti con la ripresa delle
ostilità con il PKK da un lato, e con le mobilitazioni di piazza che hanno
visto diversi appartenent AKP ad essere in prima fla nelle azioni di
pogrom contro HDP e cittadini Curdi.
Ma facendo due conti è evidente che non possono bastare i voti persi da
MHP, né tantomeno quelli di HDP, per far confuire un così alto numero di
preferenze verso Erdogan. Allora da dove arrivano tutti questi voti? Un
parte molto considerevole arriva da quella galassia di partiti e partitini che
in Turchia si presenta sempre molto numerosa alle elezioni politche.
Questo agglomerato di partiti avevano raccolto 2.960.057 vot alle elezioni
di Giugno, mentre il 1° Novembre ne hanno presi solo 1.299.710, facendo
segnare meno 1.660.347 vot, fnit per gran parte al partto di sviluppo e
giustzia.
In questo senso deve aver raccolto proseliti l'invito fatto da Erdogan a
meno di 24 ore dalle elezioni, in cui esortava i Turchi a votare un solo
partto (il suo chiaramente), nel segno dell'unità nazionale.
Tutti i media hanno parlato di affluenza record. Anche se certamente
l'affluenza è stata alta (85,18%) non è stata da record, in quanto ha chiuso
con poco più di un punto percentuale in meno rispeto le elezioni del 7
giugno (86,64%). Decisamente sopra la media nazionale è stata
l'astensione registrata nel sud-est, ovvero nella regione del Kurdistan
Turco. Si va dal 7% in meno ad Agri, 5% in meno del distreto di Hakkari
(fortemente colpito dalle dichiarazioni di coprifuoco da parte del governo
centrale) e Batman, al 4% in meno di Dersim, Bitlis, Van, Kars, Mus,
mentre in altri distret come Diyarbakir (-2%), Mardin (-1%), Sirnak (-1%)
la differenza è meno netta. Se consideriamo i soli distretti in cui HDP
aveva vinto a Giugno (vittorie confermate anche il 1° Novembre tranne
che a Kars ed Ardahan) il partito ha perso circa 270.000 vot, di cui gran
parte possono essere imputati all'astensione di un pezzo di quello che è
l'elettorato HDP, probabilmente dovuta alla repressione ed alle
intimidazioni del governo.
Altrettanto vero è che qualche decina di migliaia di voti sono andati da
HDP ad Erdogan, ed in parte sicuramente minore anche a CHP (sopratuto
a Dersim). In senso opposto nelle zone roccaforti di AKP (Ankara, Konia,
Bursa, Duzce ecc.) l'affluenza, anche se di poco, è aumentata, segno di
uno sforzo di mobilitazione dell'elettorato chiesto da Erdogan.
Questo in Turchia, ma come ha votato la diaspora curda nel Mondo?
Sostanzialmente a favore di Erdogan. In Europa HDP vince in Italia
(anche se di soli 7 vot), Svizzera, Polonia (di 3 vot su AKP), Regno Unito
e Finlandia. Erdogan strappa il grosso dei voti in Germania, Francia,
Svezia, Austria ecc. Nel resto del mondo è quasi solo AKP, con ancora una
grossa tenuta da parte di CHP che vince negli Stati Uniti, Russia, Spagna,
Cina ecc.
Il progetto del confederalismo democratico
Se è vero che le elezioni del 1° Novembre passeranno alla storia come “il
voto della paura” ed il “trionfo di Erdogan” ci sono alcuni dati oggettivi su
cui ragionare. Intanto se è vero che Erdogan ha conquistato la
maggioranza assoluta, lo è anche il fato che per cambiare la costituzione
ed attuare la riforma in chiave presidenzialista deve avere 367 deputat (al
momento ne ha 317) o 330 per votarla in parlamento e poi metterla a
verifica attraverso un referendum popolare.
Parlare di sconfitta di HDP, oltre ad essere ingeneroso, non sta nella realtà
dei fatti. Può dichiararsi sconfitto un partito che alla seconda volta che si
presentava alle elezioni prende più di 5 milioni di voti?
Può dirsi sconfito un partito che è arrivato a queste elezioni tra arresti,
minacce, attacchi, bombe in piazza, militanti assassinati e nessuna
campagna elettorale? Il dato più interessante di queste elezioni arriva da
quelle zone in cui Erdogan ha colpito più duramente. Sono le zone del
Kurdistan Turco ad aver sostenuto con un plebiscito l'HDP ed il progetto
politico che ci sta dietro, ovvero il confederalismo democratico. Sono i
quartieri e le città sottoposte a coprifuoco, attaccate dall'esercito e in cui
sono stati fatti veri e propri massacri ad aver urlato forte EDI BESE!
(ORA BASTA!).
Lì dove le dichiarazioni di autogoverno ed autonomia democratica si sono
succedute una dopo l'altra, lì dove il sistema del confederalismo
democratico è stato applicato dal basso e dal popolo, dove sono state
istituite le comuni (assemblee di quartiere), le commissioni per
l'autodifesa, l'istruzione, l'arte, il dirito ecc., sono state create cooperatve
economiche e la parità di genere è più vicina che mai, è lì che HDP ha
consolidato il proprio consenso.
In quelle città, come Lice, Cizre, Nusaybin, Yuksekova, Silvan ecc., l'HDP
ha preso percentuali quasi sempre sopra il 90% (aumentando anche
rispetto a Giugno), segno tangibile che nè i massacri, nè la repressione più
spietata, ne l'orrore di vedere bambini, donne e uomini uccisi, può fermare
il cammino di vera democrazia e pace che si è messo in moto in
Kurdistan.
(fonte: Dinamopress)
link: http://www.dinamopress.it/news/ecco-perche-lhdp-non-ha-perso-le-elezioniin-turchia
Recensioni
Libri
L’ultimo dialogo. La mia vita incontro all’Islam –
Recensione di Cinzia Picchioni
Georges Anawati, L’ultimo dialogo. La mia vita incontro all’Islam,
Marcianum Press, Venezia 2010, pp. 124, € 11,00
“Questo libro nasce come trascrizione di un’intervista in più puntate che
due professori universitari egiziani fecero a Padre Georges Anawati poco
prima che questi morisse”.
“Durante una delle nostre visite, nell’autunno del 1992, gli manifestammo
il desiderio di pubblicare alcune delle nostre conversazioni, perché
credevamo che esse fossero molto importanti dal punto di vista culturale e
umano. Infatti le sue esperienze nella società abbracciavano molti luoghi e
periodi, costituendo così una porzione viva della storia culturale
dell’Egitto contemporaneo. Le sue esperienze personali illuminavano
aspetti della vita di un uomo tutto dedito a fare il bene senza perdere il
sorriso, di uno studioso alla ricerca della verità, di un religioso convinto
della sua fede, di un mistico che aveva fatto suo l’amore per l’umanità. A
differenza di quanto temevamo all’inizio, non ci dovemmo sforzare molto
per persuaderlo ad accettare la nostra proposta, convinto com’era della
necessità di condividere un dialogo umano di ampia portata […]. Gli
incontri si svilupparono numerosi per più di un anno e fino agli inizi del
1994, mentre cresceva l’affetto e l’intimità tra noi.
Poi tacque e il suo silenzio ci riempie di dolore”, pp. 45-46, nella
Prefazione all’edizione araba
Di chi stiamo parlando?
“Georges Anawati è un personaggio fuori dal comune per almeno tre
ragioni: cristiano orientale, ha passato gran parte della sua vita a studiare e
far meglio comprendere l’Islam nel mondo cristiano, fatto abbastanza
raro, se si considerano le paure e i pregiudizi ereditati dal passato,
soprattutto tra i Cristiani d’Oriente. Egli ha dato un grandissimo
contributo all’emergere del dibattito sull’Islam e sulle religioni non
cristiane al Concilio Vaticano ii, aiutando la Chiesa cattolica a sviluppare
una visione più positiva del tema. Infine, Georges Anawati ha capito molto
presto che l’incontro con il mondo dell’Islam sarebbe stato facilitato se ci
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si fosse posti innanzitutto a livello culturale e non sul piano strettamente
religioso”.
“Allievo” di Maritain
“Si unisce al noviziato dei Domenicani in Francia nel gennaio del 1934 –
a 29 anni – non senza aver dovuto affrontare forti resistenze familiari. Ma
è determinato. Sulla nave che lo conduce da Alessandria a Marsiglia scrive
a Jacques Maritain: “Non dirò che Lei mi ha convertito […]. La verità è
più semplice ma più concreta: ha reso il mio cattolicesimo coerente e
intelligente” (diario del 23 gennaio 1934)””, pp. 19-20.
“Anche se molti furono gli interessi di Georges Anawati, senza dubbio il
principale fu quello filosofico: discepolo di Maritain e San Tommaso,
Anawati si tuffò fin da giovane nello studio del pensiero arabo-islamico
medievale: Averroè, al-Ghazâli e, soprattutto, Avicenna sono i nomi che
con più frequenza ritornano in questo Ultimo dialogo, come interlocutori
vivi con i quali intrattenersi”.
Parole e note
“Il libro offre così importanti elementi per una storia culturale dell’Egitto
novecentesco che rimane a oggi ancora tutta da scrivere. Anche per questo
si è ritenuto di corredare il testo di numerose note biografiche, pensate
come un primo aiuto in questa direzione”.
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2015/10/30/lultimo-dialogo-la-mia-vita-incontroallislam-recensione-di-cinzia-picchioni/