Notiziario settimanale n. 562 del 27/11/2015
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Notiziario settimanale n. 562 del 27/11/2015
Notiziario settimanale n. 562 del 27/11/2015 versione stampa Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace "Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri" don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù" Dogliotti, Elena Camino)........................................................................... 9 I pericoli dello "ius culturae" (di Fiorella Farinelli).................................. 11 Obiezione di coscienza e Costituzione (di Federica Grandi)....................11 Casamonica: quello che la stampa non dice Restiamo umani - Un funerale rom e il teatrino razzista della politica (di Marcello Palagi) .....................12 Notizie dal mondo......................................... 13 Ecco perchè l'HDP non ha perso le elezioni in Turchia (di Luigi D'Alife) ................................................................................................................. 13 Recensioni...................................................... 15 L’ultimo dialogo. La mia vita incontro all’Islam – Recensione di Cinzia Picchioni.................................................................................................. 15 Editoriale Non avrete il mio odio (di Gianfranco Bontempi) 27/11/2015: Giornata mondiale del non acquisto. 29/11/2015: Giornata internazionale per i diritti del popolo palestinese. 01/12/2015: Giornata mondiale della lotta contro l'AIDS. 02/12/2015: Anniversario della morte di Ivan Illich avvenuta nel 2002 Il dolore e l'orrore per le stragi di Parigi, e il dolore per tutte le vittime di tutte le uccisioni, l'orrore per tutte le guerre e le stragi che quotidianamente insanguinano il mondo, l'orrore per le vittime causate dalla disuguaglianza economica. Occorre fermare questo massacro. E per fermarlo occorre la pace, il disarmo, la smilitarizzazione. Il terrorismo si può contrastare solo con una politica di pace, di giustizia, di democrazia, di riconoscimento e promozione dei diritti di tutti gli esseri umani. Solo la nonviolenza può salvare l'umanità. Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo Indice generale Editoriale......................................................... 1 Non avrete il mio odio (di Gianfranco Bontempi)...................................... 1 Evidenza...........................................................2 12 Dicembre 2015 - seconda tappa della Marcia degli Scalzi: In cammino verso i luoghi di accoglienza e di non-accoglienza (di AA.VV.)................2 L'argomento della settimana......................... 2 David Peace: «I terroristi non sono mostri invincibili» (di Francesco Cancellato)................................................................................................. 2 Francia: almeno smettiamola con le chiacchere (di Fulvio Scaglione) .......4 I due terrorismi e le alternative della nonviolenza (di Nanni Salio)............5 Serve una guerra contro l'isis ? Chi lo finanzia ? (di Umberto Franchi) .....6 Parigi, note e parole di “resilienza” (di Antonio Vermigli) ......................... 7 Fermiamo la spirale di violenza (di Gerardo Femina)................................ 7 Approfondimenti.............................................8 COP 21: firmato l'appello di cardinali, patriarchi e vescovi di tutto il mondo........................................................................................................ 8 Il Tribunale Permanente dei Popoli a Torino, sulle grandi opere (di Angela 1 “Non avrete il mio odio”. È questo il titolo della lettera aperta scritta da Antoine Leiris, un uomo che ha perso la moglie in uno degli attentati di Parigi venerdì sera. Sono parole diverse, nuove, che non si lasciano contaminare dall’odio o dalla sete illimitata di vendetta con cui l’essere umano tende a rispondere all’altro in questi casi. Nel suo appello, Antoine, aggiunge “Insieme – lui e suo figlio N.d.A. – siamo più forti di tutte le armate del mondo”. Non si lascia schiacciare dalla paura, non incita alla violenza cieca e acefala con cui l’uomo si fa avanti per abbattere la differenza dell’altro: questo è un vero grido di speranza, un nuovo modo di costruire l’orizzonte delle possibilità, un’apertura sul mondo. In questo scenario l’Europa sta trovando la forza di nascere da premesse forcaiole, sta trovando la forza del proprio nome in una coalizione che, per definizione, prevede sempre un nemico abbandonando l’idea di un’alleanza che, al contrario, ha come finalità il progresso e il riconoscimento dell’altro. Questa contemporaneità assomiglia sempre più al quadro “De parabel der blinden” del fiammingo Bruegel dove ciechi guidano altri ciechi lungo una scarpata senza scampo. Questo viviamo: ciechi che guidano altri ciechi. Odio che produce odio. Domande che non producono risposte, grida che non muovono ascolto e tolleranza ma solo altre urla di vendetta. A domande mal poste seguono risposte inadeguate, perciò iniziamo a domandarci: Quanto stiamo investendo per gli armamenti? Quanto per la cultura? Quanto ci stiamo impegnando per promettere un futuro degno alle nuove generazioni? Cosa stiamo lasciando in eredità ai nostri figli? Quali tracce e quali segni gli stiamo depositando? Se è vero che ogni epoca si misura e si ricorda in base all’azione che muove, alla cultura che produce e alla storia che crea allora stiamo piantando un seme che darà frutti amari. Nel suo libro “La morte del prossimo”, Zoja, ci introduce al concetto della perdita della curiosità da ciò che si allontana da noi, da ciò che il nostro contesto non prevede, come se nel nostro tempo si fosse fatta spazio l’idea che il “diverso” sia sempre un pericolo, una minaccia, un’ospite inquietante. Dobbiamo incarnare un altro modo di abitare le relazioni, un altro modo di rapportarci all’altro riscoprendo parole come ascolto, desiderio, differenza, fratellanza, particolarità, amore. Qualche giorno fa un paziente, o meglio “sofferente” come suggerisce Lacan, mi ha posto questa domanda: “Ma non sarebbe meglio se i nostri aerei lasciassero cadere libri e caramelle sulla popolazione siriana invece che dei missili?”. Questa apertura verso una nuova possibilità, che supera la violenza a favore della speranza e della trasmissione del sapere è ciò che porto dentro di me, dove nel mio spazio più intimo riconosco all’altro la possibilità di esistere, anche se diverso da me. Non esistono risposte a certe utopie, l’unica certezza consiste nel continuare a non reagire con una chiusura, dimostrando che l’Europa affonda le proprie radici nei codici di una comunità pacifica e con l’orecchio proteso alla parola dell’altro. “Non avrete il mio odio” scrive Antoine Leiris, ebbene, unendomi a questo appello aggiungo “Non avrete neanche il mio”. Un pensiero di Gianfranco Bontempi, psicologo link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2399 Evidenza 12 Dicembre 2015 - seconda tappa della Marcia degli Scalzi: In cammino verso i luoghi di accoglienza e di non-accoglienza (di AA.VV.) Alcuni dei promotori della prima Marcia delle donne e degli uomini scalzi lanciano un nuovo appello. Lo inviamo qui a tutti coloro che aderirono a settembre, chiedendo di essere pronti a rilanciarlo a partire da lunedì prossimo quando verrà comunicato a livello nazionale. Continua urgente il nostro appello: è oggi quanto mai necessario decidere da che parte stare. Dopo la grande mobilitazione della Marcia degli uomini e delle donne scalze dell'11 settembre scorso, lanciamo l'invito per una giornata dedicata all'incontro con richiedenti asilo e migranti in Italia. Il 12 dicembre invitiamo tutti a mettersi in cammino per visitare i luoghi di accoglienza e di non-accoglienza in Italia. Decine sono i cittadini che lavorano o operano in questi luoghi, ma molti di più sono coloro che non li hanno mai visitati o che non ne conoscono nemmeno l'esistenza. Il tema dell'accoglienza è vissuto e discusso dalla maggior parte della nostra società solo virtualmente, attraverso rappresentazioni mediatiche, slogan e molti pre-giudizi. E' invece importante che la società civile e i rappresentati delle istituzioni conoscano di persona chi vive e come vive nei luoghi di accoglienza e ancora di più nei luoghi dove l'accoglienza non funziona o ancor peggio non esiste. Solo attraverso l'incontro diretto è possibile capire qual è la dimensione reale di un tema di cui troppo spesso si parla per slogan o stereotipi e sul quale c'è pochissima informazione completa. Ci sono in Italia esperienze virtuose di accoglienza, ma anche molte che soffrono per inadeguatezza o per non rispetto dei diritti delle persone. E vi sono anche luoghi in cui richiedenti asilo e migranti sono abbandonati a loro stessi vivendo in condizione al limite della dignità umana. Spesso profughi e migranti vivono in luoghi isolati dalla vita civile di piccole e grandi città, queste distanze vanno percorse fisicamente, dobbiamo camminare verso questi luoghi e portare i nostri corpi e le nostre vite ad incontrare le storie di migrazione, di fuga e di accoglienza. Per aprire dei dialoghi reali tra corpi sociali che non possono rimanere estranei, se crediamo nella costruzione di una società più giusta e degna. Chiediamo a operatori, mediatori culturali, volontari di tutta Italia di invitare amici e conoscenti (soprattutto tra coloro che non hanno mai pensato di farlo) nei centri di accoglienza, nei CARA, nelle case dei progetti SPRAR, negli accampamenti informali, negli alberghi dei cosiddetti centri d’accoglienza straordinari, nelle mense e in altri luoghi ancora. E chiediamo a tutti i cittadini che non hanno mai visitato un luogo di accoglienza di dedicare la giornata del 5 dicembre a questi incontri, indicando la loro disponibilità a partecipare. Abbiamo a questo scopo creato sul sito donneuominiscalzi.blogspot.com due sezioni dove poter inviare le proprie proposte e la propria disponibilità: - la sezione ORGANIZZA UN INCONTRO dove associazioni o singoli operatori possono proporre un luogo da visitare con cui sono in qualche modo in contatto. - la sezione PARTECIPA AD UN INCONTRO dove chiunque può indicare la propria disponibilità a partecipare e far partecipare, segnalando ovviamente la città in cui vuole farlo. 2 Scopo degli incontri sarà la conoscenza, ma anche l'azione e la parola. Chiederemo a chi organizza gli incontri di individuare caso per caso un orizzonte di azione per denunciare le ingiustizie e migliorare le condizioni dell'accoglienza, anche grazie al coinvolgimento di coloro che parteciperanno agli incontri stessi. Contemporaneamente raccoglieremo sul sito i racconti dei partecipanti, che potranno così testimoniare ciò che hanno scoperto, capito o non capito durante gli incontri stessi. In questo modo ci auguriamo che le azioni e le parole che nasceranno dalla seconda tappa della Marcia delle donne e degli uomini scalzi aiutino l'Italia ad affrontare con equità e giustizia la sfida dell'accoglienza, troppo spesso schiacciata tra indifferenza, isolamento, mala gestione o, peggio ancora, clientelismo. Perché, lo ribadiamo ancora, dare asilo a chi scappa dalle guerre, significa ripudiare la guerra e costruire la pace. Dare rifugio a chi scappa dalle discriminazioni religiose, etniche o di genere, significa lottare per i diritti e le libertà di tutte e tutti. Dare accoglienza a chi fugge dalla povertà, significa non accettare le sempre crescenti disuguaglianze economiche e promuovere una maggiore redistribuzione delle ricchezze ed una vera uguaglianza sociale, civile ed economica. Primi firmatari (altre adesioni verranno definite a breve) Gianfranco Bettin Don Albino Bizzotto Loris De Filippi (MSF Italia) Gad Lerner Giulio Marcon Luigi Manconi Filippo Miraglia (ARCI) Maso Notarianni Costanza Quatriglio Andrea Segre Sergio Staino Daniele Vicari Don Armando Zappolini link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2385 L'argomento della settimana... ... Dopo Parigi ... l'alternativa possibile alla guerra David Peace: «I terroristi non sono invincibili» (di Francesco Cancellato) mostri Parla lo scrittore britannico: «L’Europa è impaurita e sta scivolando a destra. Corbyn? Mi piace, l’ho votato, ma non è la soluzione». Premessa: quest'intervista è stata realizzata per uno speciale sulle ossessioni ed è antecedente all'attacco terroristico di Parigi della notte di venerdì 13 novembre. Per un caso del destino, alcuni dei temi affrontati da Davide Peace, toccano da vicino quel che sarebbe successo poco dopo, affrontando il tema del terrorismo islamico e della sua “mostrificazione” Ha raccontato le apocalissi e le paranoie sociali britanniche a cavallo tra la depressione degli anni ’70 e l'inizio dell’era di Margaret Thatcher, le lotte sindacali dei minatori dello Yorkshire, le epopee di due grandi leader allenatori di calcio quantomeno riduttivo, nel loro caso - come Brian Clough e Bill Shankly. E visto che vive a Tokyo dal 1994, pure i lati oscuri degli anni zero del Giappone post bomba. Indicato dalla rivista letteraria Granta come uno dei cinquanta scrittori più influenti della nostra epoca, David Peace è alle prese con un nuovo libro del suo filone giapponese. Nel frattempo, in Italia, la casa editrice Il Saggiatore sta ridando alle stampe il Red Riding Quartet, quadrilogia noir sullo ”Squartatore dello Yorkshire". In queste settimane è il turno di 1980 - gli altri si chiamano 1974, 1977 e 1981 - forse il più cupo, amaro e disilluso dei quattro. Un libro in cui si ritrovano molte delle ossessioni di oggi: «1980 era un libro sulla grande recessione che allora attanagliava l'Inghilterra, che c'è anche ora. Sulla psicosi del terrorismo, in quel caso dell'Ira e oggi dell'Isis. Più in generale, sulla disillusione e sulla paura». A proposito di paura: al centro di 1980 e di tutti i libri del Red Riding Quartet c'è un serial killer, lo squartatore dello Yorkshire, che sevizia e uccide le donne nel nord dell'Inghilterra.. Lo squartatore è una persona realmente esistita. che si chiamava Peter Sutcliffe e ha ucciso quattordici donne nel West Riding Yorkshire. Nel libro lo definisci il re di Leeds. La gente era terrorizzata da quel mostro senza volto… È proprio questo il punto. Peter Sutcliffe era una persona, non un mostro. Lo era diventato, però, perché sono stati i media e la società ad averlo creato. La polizia l'aveva interrogato almeno otto, nove volte, prima di prenderlo. Ma l'aveva lasciato andare perché era troppo normale. Le loro menti erano inquinate dall'immagine del mostro. Azzardiamo: stai dicendo che più del serial killer, il problema era la paura del serial killer? Sto dicendo che lo squartatore dello Yorkshire aveva scelto come terreno di caccia una comunità paranoica, terrorizzata dal futuro, dall'immigrazione, da un ulteriore peggioramento della crisi economica. Era una comunità che stava collassando e che la Thatcher avrebbe avuto gioco facile a distruggere, pochi anni dopo. Ok, allora: ragioniamo. Che ne pensi del referendum sull'uscita del Regno Unito dall'Euro che con ogni probabilità si terrà nel 2017? È una situazione parecchio complicata. Dovrei risponderti non lo so. Coraggio… Ok. Io sono di sinistra. E in Inghilterra, a sinistra, ci sono parecchie persone scettiche sull'Unione Europea. A mio avviso hanno ragione: durante la crisi greca - che sta proseguendo anche se le news se la sono dimenticata - il comportamento di Bruxelles e di molti leader europei è stato pessimo. Fossi stato un Greco, avrei votato no al referendum. Perché è complicata, allora. Mi sembra la tua posizione sia chiara... La questione è più spessa, perché in realtà è evidente che un atteggiamento euroscettico anche da sinistra porta acqua al mulino di movimenti di destra come l'Ukip. A ciò aggiungo il fatto che il sogno di un Europa unita sia un bel sogno e che la Gran Bretagna dovrebbe essere parte attiva affinché quel sogno diventi realtà. Non uscire, insomma, ma essere parte di un cambiamento. Prendi l'11 settembre. Due o tre settimane dopo c'erano già un sacco di romanzieri disperati perché non avevano ancora scritto nulla sull'attacco alle torri gemelle Sembra tu stia parlando dell’Europa di oggi… È molto affascinante e difficile avvicinare due periodi storici. In un libro come 1980 ci sono almeno tre tempi differenti, in realtà. Io ho scritto una storia ambientata nel 1980, ma l'ho scritta nel 1999 e la stiamo usando per interpretare la realtà del 2015. Mi inorgoglisce il fatto che il libro possa avere senso ancora oggi, ma in realtà non ci avevo mai nemmeno sperato che ciò potesse accadere. Come dovrebbe cambiare, l’Europa? Dovrebbe tornare quella che era prima. Negli anni della Thatcher, nel Regno Unito, l'Europa garantiva diritti sociali e politici che la lady di ferro ci avrebbe volentieri tolto. Oggi invece è solo un corpo burocratico che contribuisce a generare povertà, a togliere diritti e benessere. Non condivido la posizione di chi lascia il Labour per votare Farage, o la Le Pen, in Francia. Li capisco, però: la working class oggi si sente aliena, disconnessa dai partiti tradizionali di sinistra. Questo è un fatto innegabile. Però… Però è vero, anche oggi siamo paranoici e terrorizzati e tendiamo a creare mostri per dar corpo alle nostre mille paure. Anche ora che Jeremy Corbyn è diventato leader del partito laburista? Io ho votato per Corbyn, alle ultime elezioni del Labour. Era l'unico candidato socialista che esprimeva il partito, senza nulla togliere agli altri. Ad esempio? Il nostro mostro dello Yorkshire, la nostra ossessione, può essere Al Qaeda o l’Isis. È su di loro che proiettiamo la nostre paure individuali e collettive. Ma anche loro sono persone, in fondo. E se pensiamo che le nostre ossessioni hanno a che fare con delle persone, in fondo, è più facile venirne a capo. Basterà per far vincere le elezioni alla sinistra? Non credo basterà. «Il nostro mostro dello Yorkshire, la nostra ossessione, può essere Al Qaeda o l’Isis. È su di loro che proiettiamo la nostre paure individuali e collettive. Ma anche loro sono persone, in fondo. E se pensiamo che le nostre ossessioni hanno a che fare con delle persone, in fondo, è più facile venirne a capo» Lo scriveresti un libro intitolato 2015? Oggi no. Come mai? Perché è una storia che deve ancora compiersi. È un lavoro dei giornalisti, raccontare il 2015, non mio. Io devo aspettare. A volte gli scrittori non lo capiscono. In che senso? Prendi l'11 settembre. Probabilmente è la più spettacolare e choccante tragedia che ci sia capitato di vedere, perlopiù in diretta tv. Due o tre settimane dopo c'erano già un sacco di romanzieri disperati perché non avevano ancora scritto nulla sull'attacco alle torri gemelle. Solo che la storia dell'11 settembre non è finita l'11 settembre. Anche l'aereo russo che è caduto poche settimane fa in Egitto è in qualche modo parte della storia dell'11 settembre. Lo scrittore dev'essere paziente. Deve avere la giusta prospettiva per scrivere. Deve fare ricerca, deve ragionare su quel che è successo. 3 Come mai? Tutto si sta spostando a destra. Prima con Cameron. Ora con Farage che spinge Cameron ancora più a destra. E più vanno a destra i conservatori, più si sposta a destra anche Farage. Alle ultime elezioni l'Ukip è andato malissimo, ma da questo voto sulla Brexit guadagnerà un enorme centralità. È un rischio enorme quello che si sta prendendo Cameron. Quel che dici vale solo per voi o anche per il resto dell’Europa? La crisi dei profughi in Italia e Germania è stata molto più acuta. Temo che per voi il pericolo di scivolare a destra, di farvi dominare da paure e ossessioni sia ancora maggiore. E se, come temo, ci sarà un altra grossa crisi economica o se la situazione economica europea continuerà a peggiorare, nei prossimi anni, prevedo grossi guai. Lo ammetto: sono pessimista. È per questo che ho scritto ”Red or Dead”… «Temo che per voi il pericolo di scivolare a destra, di farvi dominare da paure e ossessioni sia ancora maggiore. E se, come temo, ci sarà un altra grossa crisi economica o se la situazione economica europea continuerà a peggiorare, nei prossimi anni, prevedo grossi guai. Lo ammetto: sono pessimista» Cosa c'entra con le questioni politiche di oggi un libro sull'allenatore del Liverpool degli anni sessanta? Tutto è politico e il calcio lo è per definizione. Credo che per un Italiano sia più facile da capire: il calcio è un ossessione. È una parte fondamentale della nostra cultura, così come di quella italiana e spagnola. E lo è sempre di più. C'è calcio a ogni ora del giorno. E le storie, gli archi narrativi, i personaggi che il calcio crea sono incredibili. Buona parte del tempo in cui pensiamo al calcio è pura immaginazione. Ci sono novanta minuti e poi c'è una settimana di discussioni, di calcoli, di sogni e di rimpianti. Proprio per questo è un modo fantastico per parlare di altro in un modo che non sia didattico. E di cosa volevi parlare, con Red or Dead? Red or Dead, anche se ho parlato degli anni '60, era un libro sulla Gran Bretagna del 2010. Gordon Brown aveva appena perso le elezioni ed erano tornati al governo i Tories, con David Cameron. L'ho scritto perché non volevo che i miei figli - o i figli di qualcuno che abita in Inghilterra potessero crescervi senza aver mai sentito la parola "socialismo". Mio figlio adora il calcio e io gli parlo di Clough e Shankly come mio padre parlava a me dei giocatore della sua era. Voglio dargli degli esempi di modi migliori in cui vivere. C'è un modo più nobile di quello attuale per fare le cose. In che senso? La gente dello Yorkshire è gente di sinistra, gente che aveva fatto un sacco di manifestazioni sindacali, che aveva combattuto la guerra dei minatori contro la Thatcher nel 1984. Pensavo che quella gente avesse bisogno di un’iniezione di socialismo vecchia maniera, di “old labour”. Quel mondo, per me, era personificato attorno alla figura di Bill Shankly. È quel bisogno, che ho percepito chiaramente, in quei due anni, che ha infine portato Jeremy Corbyn a diventare leader del partito laburista, qualche mese fa. Chi è per the Bill Shankly, quindi? Una specie di Corbyn ante litteram? Io non scrivo di giorni meravigliosi: scrivo di serial killer, di scioperi, di povertà. Non racconto ai miei figli i giorni migliori della nostra storia. Ma ascoltare per due anni la voce di Shankly nelle cassette, leggere di lui è stato come confrontarmi con la vita di un santo. È una delle più belle esperienze che ho mai vissuto. Per me un’epopea come quella di Bill Shankly rappresenta la creazione di un ideale. Prima di lui il Liverpool era un team di seconda divisione. Con lui, in pochi anni, è arrivato a vincere campionato, Fa Cup, coppe europee. Shankly c'è riuscito senza nessuno che aprisse il portafoglio per lui, ma coinvolgendo tutti, i giocatori, i tifosi, chi lavorava per il club. Ha creato un popolo e lo ha fatto andare nella medesima direzione. Ha costruito un utopia e l'ha resa concreta. Ed è l'utopia di un ideale collettivo che si realizza. Tutti sono uguali, in quella storia. Non è tutto un "io, io, io", come oggi. È un "noi, noi, noi". «C'è calcio a ogni ora del giorno. E le storie, gli archi narrativi, i personaggi che il calcio crea sono incredibili. Buona parte del tempo in cui pensiamo al calcio è pura immaginazione. Proprio per questo è un modo fantastico per parlare di altro in un modo che non sia didattico» Red or Dead è un libro molto difficile da leggere. Pieno di ripetizioni, si sviluppa quasi come un mantra, o una preghiera. Come mai questa scelta? Perché volevo fare un ritratto di Shankly usando le parole. E quando leggi di lui, leggi che si allenava tutti i giorni con la squadra, giorno dopo giorno, partita dopo partita, stagione dopo stagione. È stata una specie di epifania: «Tutti i giorni?», mi sono chiesto. Era un lavoro duro e alienante, come quello di un operaio: ripetizione, ripetizione, ripetizione, fino al successo. È l'ossessività di Shankly che ha ispirato lo stile di quel libro. Ci riproviamo: se tra vent'anni volessi scrivere un libro su un allenatore contemporaneo su chi lo scriveresti? Mourinho? Wenger? Ferguson? Ahia, devo stare molto attento a quel che dico. Perché lo scriverò un altro libro sul calcio e non posso dire su chi. Quindi devo risponderti senza rivelare chi sarà. Ti posso dire che mi piacerebbe scrivere di un allenatore che rappresenti la nostra società, un pensiero politico contemporaneo. Wenger è interessante, ma non è quel che cerco. Mourinho? Sicuramente anche Jose Mourinho lo è: comprerei subito un libro sui suoi anni a Madrid, in cui è riuscito a radunare attorno a se tutti i suoi nemici e i suoi demoni. La sua storia però non è ancora finita. 4 Quindi la risposta è Ferguson? Oppure «non lo so»? La verità è che lo so, ma non posso dirtelo. (fonte: Linkiesta) link: http://www.linkiesta.it/it/article/2015/11/14/david-peace-i-terroristi-non-sonomostri-invincibili/28191/ Francia: almeno smettiamola con le chiacchere (di Fulvio Scaglione) Da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l'Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell'aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali. E’ inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto” dall’impronta presa da un dito, l’unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’esplosione della cintura da kamikaze che indossava. Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente. Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’è nulla da scoprire. E’ un movimento terroristico che ha sfruttato le repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla scena: armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima fra tutte l’Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la colpevole indifferenza dell’Europa. Quando l’Isis si è allargato troppo, i suoi mallevadori l’hanno richiamato all’ordine e hanno organizzato la coalizione americo-saudita che, con i bombardamenti, gli ha messo dei paletti: non più in là di tanto in Iraq, mano libera in Siria per far cadere Assad. Il tutto mentre da ogni parte, in Medio Oriente, si levava la richiesta di combatterlo seriamente, di eliminarlo, anche mandando truppe sul terreno. Innumerevoli in questo senso gli appelli dei vescovi e dei patriarchi cristiani, ormai chiamati a confrontarsi con la possibile estinzione delle loro comunità. Abbiamo fatto qualcosa di tutto questo? No. La Nato, ovvero l’alleanza militare che rappresenta l’Occidente, si è mossa? Sì, ma al contrario. Ha assistito senza fiatare alle complicità con l’Isis della Turchia di Erdogan, ma si è indignata quando la Russia è intervenuta a bombardare i ribelli islamisti di Al Nusra e delle altre formazioni. Nel frattempo l’Isis, grazie a Putin finalmente in difficoltà sul terreno, ha esportato il suo terrore. Ha abbattuto sul Sinai un aereo di turisti russi (224 morti, molti più di quelli di Parigi) ma a noi (che adesso diciamo che quelli di Parigi sono attacchi “conto l’umanità”) è importato poco. Ha rivendicato una strage in un mercato di Beirut, in Libano, e ce n’è importato ancor meno. E poi si è rivolto contro la Francia. Abbiamo fatto qualcosa? No. Abbiamo provato a tagliare qualche canale tra l’Isis e i suoi padrini? No. Abbiamo provato a svuotare il Medio Oriente di un po’ di armi? No, al contrario l’abbiamo riempito, con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ai primi posti nell’importazione di armi, vendute (a loro e ad altri) dai cinque Paei che siedono nel Consiglio di Sicurezza (sicurezza?) dell’Onu: Usa, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia. Solo l’altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla di attacco all’umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti presso il regime islamico più integralista, più legato all’Isis e più dedito al sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno, degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come a tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza. Perché la verità è questa: se vogliamo eliminare l’Isis, sappiamo benissimo quello che bisogna fare e a chi bisogna rivolgersi. Facciamoci piuttosto la domanda: vogliamo davvero eliminare l’Isis? E’ la nostra priorità? Poi guardiamoci intorno e diamoci una risposta. Ma che sia sincera, per favore. Di chiacchiere e bugie non se ne può più. (fonte: Famigliacristiana.it) link: http://www.famigliacristiana.it/articolo/francia-almeno-smettiamola-con-lechiacchiere.aspx Oriente. Insieme a loro non dobbiamo dimenticare Israele, che ha fatto della Palestina e di Gaza in particolare il laboratorio per la sperimentazione di ogni sorta di tecnologia di controllo sociale per incutere terrore nella popolazione. Se provocano paura le immagini degli uomini in nero dell’ISIS che brandiscono in una mano un coltello e nell’altra un kalashnikov, suscitano altrettanta paura i robocop, i soldati e i poliziotti trasformati in robot per uccidere. I media ci illustrano con grande dovizia di particolari le violenze inflitte ai nostri concittadini, ma si guardano bene dal riportare ciò che avviene quasi quotidianamanete con gli attacchi dei droni armati, che uccidono migliaia di civili, nel vano tentativo di colpire i responsabili degli atti di terrorismo. Il rapporto tra le vittime provocate dai nostri eserciti e quelle dei gruppi di jihadisti è di 1:1000 o, se si vuole essere generosi, di 1:100. E questi sono solo i dati relativi alla violenza diretta, mentre fingiamo di non vedere quella strutturale, di dimensioni ben maggiori. Scontro di civiltà? I due terrorismi e le alternative della nonviolenza (di Nanni Salio) Occhio per occhio e il mondo diventa cieco (Gandhi) I terrorismi sono due: quello dall’alto, degli stati, che viene chiamato guerra, e il terrorismo dal basso, degli insorti, dei ribelli, di coloro che subiscono gli effetti del primo terrorismo. Nasce prima l’uno o l’altro, l’uovo o la gallina? Hanno bisogno l’uno dell’altro, si autoalimentano, in una spirale di violenza crescente, come vediamo ogni giorno in molte aree del mondo, in particolare nel Medio Oriente, ma non solo. Espressioni “Shock and Awe” (colpisci e terrorizza) e “equilibrio del terrore” (che si riferisce alla minaccia di guerra nucleare) non sono state inventate dagli jihadisti, ma sono il frutto perverso del pensiero strategico delle grandi potenze. E le vittime? Sono i civili, prevalentemente, ma non dimentichiamo anche i soldati, sottoposti allo stress della guerra, della paura, della morte. E i burattinai? Siedono comodamente nei parlamenti, nei consigli di amministrazione delle industrie belliche e delle banche che le finanziano, nei centri di ricerca militari, nelle scuole di guerra, nei servizi segreti, nel Pentagono, nel mondo accademico e scientifico che offre i suoi servizi alla guerra, e così via. Loro la guerra non la fanno, la progettano e la fanno fare alla manovalanza. Dopo ogni strage, come quella di Parigi del 13 novembre scorso, si sentono spesso opinionisti e politici urlare: “dove sono i pacifisti?”. Stranamente, questa volta non è ancora successo. Forse perché hanno avuto un minimo di pudore, se non di vergogna. Infatti, avrebbero dovuto chiedere “dov’è la NATO?” Stava giocando con 35 mila uomini alla battaglia navale nel Mediterraneo e a simulare la guerra prossima ventura non contro l’ISIS, bensì contro la Russia, e in prospettiva anche contro la Cina. E dove erano gli agenti dei servizi segreti, le intelligence poco intelligenti, che fingono di non sapere nulla prima, ma sanno tutto dopo? E’ la “grande scacchiera” del “grande gioco” per controllare l’Eurasia, secondo le elucubrazioni di Brezinski, dove le pedine sono gli eserciti. Non compaiono le vittime, i civili, considerati semplicemente “danni collaterali”, né i burattinai, che operano ben nascosti. Non è quello prefigurato da Samuel Huntington, ma lo scontro tra la civiltà della violenza, del terrore, della barbarie e della guerra e la civiltà dell’amore, della solidarietà reciproca, della felicità e della nonviolenza. Sta a noi scegliere da che parte stare e quale futuro vogliamo costruire per i nostri figli, nipoti e per l’umanità intera. Le alternative della nonviolenza E’ ormai risaputo, ma va sempre ribadito e documentato, che nonviolenza non vuol dire passività, ma azione e progetto politico per la creazione di una società equa e armonica mediante la trasformazione e risoluzione nonviolenta dei conflitti, dal micro al macro, senza ricorrere all’uso della violenza politica. Molto cammino è stato fatto in questa direzione, sebbene quando ci troviamo di fronte a eventi tragici e di estrema violenza, possiamo essere presi dallo sconforto. Ma occorre allargare lo sguardo sia sul piano storico, sia su quello spaziale per vedere le alternative già presenti e quelle future. Abbiamo l’obbligo morale di dimostrare che tutti coloro che sono morti nel corso della violenza esercitata dai due terrorismi “non sono morti invano!” Per rendere concreto questo impegno, possiamo ragionevolmente individuare due principali insiemi di proposte con le quali affrontare le crisi che attualmente lacerano l’umanità: misure non militari da adottare nel breve periodo, immediatamente, e misure nonviolente nel medio e lungo periodo. Misure non militari nel breve periodo Ecco alcune proposte ragionevoli, di buon senso, su cui c’è un accordo piuttosto ampio da parte di soggetti diversi, anche istituzionali, che non necessariamente aderiscono a una visione nonviolenta. 1. 2. Frankestein, il dottor Stranamore e l’ISIS Prima era al Qaeda con Bin Laden, ora è l’ISIS con il califfo. Entrambi sono il risultato degli esperimenti di geopolitica condotti nel laboratoriomondo dai grandi strateghi neocon e del Pentagono. E’ ormai ampiamente risaputo che l’ISIS è una creatura nata dalla politica che gli USA hanno condotto da almeno un quarto di secolo in Medio 5 3. 4. 5. Interrompere il flusso di armi ai belligeranti, come stabilisce il diritto internazionale largamente disatteso. Interrompere i finanziamenti ai gruppi jihadisti, che provengono in larga misura dall’Arabia Saudita, come ben noto, e dal commercio di petrolio e droga. Affrontare con decisione e concretamente i problemi dei rifugiati, migranti, profughi. Offrire valide alternative ai giovani immigrati nei paesi occidentali che vivono in condizioni di degrado e disagio sociale. Avviare processi di negoziato e dialogo con le controparti. Per chi è scettico su questa proposta, ricordiamo che in tutte le principali situazioni precedenti, questo è avvenuto, dapprima con contatti segreti, poi apertamente (Irlanda del Nord, Nepal, Colombia, Paesi Baschi). 6. Affrontare con serietà, impegno e decisione la questione IsraelePalestina, il grande bubbone del Medio Oriente, imponendo al governo israeliano il rispetto del diritto internazionale, con mediatori del conflitto al di sopra delle parti. 7. Istituire una commissione Verità e Riconciliazione per facilitare i negoziati e indagare sulle responsabilità storiche passate e recenti delle grandi potenze occidentali e di molti paesi arabi. 8. Lavorare alla costruzione di una confederazione del Medio Oriente, sulla falsariga di altre confederazioni già esistenti e secondo i suggerimenti dati da personalità come Edgar Morin e Johan Galtung. 9. Coordinare azioni di polizia internazionale, che non sono guerra in senso stretto, per individuare e catturare i responsabili degli attentati e processarli, invece di condannarli a morte o rinchiuderli senza un giusto processo a Guantanamo e Abhu Ghraib. Essi vengono uccisi perché sono testimoni scomodi, come è avvenuto con Bin Laden, Saddam Hussein, Gheddafi. Se fossimo intelletualmente onesti dovremmo anche processare uomini politici come Bush jr. e Tony Blair, responsabili di crimini di guerra contro l’umanità. Ma attualmente questo è chiedere troppo! 10. Avviare processi di ricostruzione partecipata, per rimediare ai gravi danni inflitti alle popolazioni civili con i bombardamenti. Misure nonviolente nel medio e lungo periodo Le misure non militari nel breve periodo si possono avviare subito, se si crea il consenso tra le istituzioni politiche locali e internazionali. Ma l’umanità intera si trova oggi in una fase di profonda trasformazione che dev’essere orientata verso la creazione di una autentica cultura della nonviolenza, se non vogliamo soccombere alle gravi minacce della crisi sistemica globale incombente (economico-finanziaria, alimentare, ecologico-climatica ambientale, sociale-esistenziale-etica-culturale). Occorre pertanto lavorare a progetti concreti di medio e lungo periodo. Eccone alcuni, frutto degli studi avviati da tempo nel campo della ricerca per la pace. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 6 Costituire e addestrare Corpi Civili di Pace con compiti di mediazione, interposizione e prevenzione, ispirandosi alle iniziative ed esperienze in corso da decenni e attuando le proposte presentate nelle principali sedi istituzionali internazionali, dall’Unione Europea alle Nazioni Unite Riconvertire le industrie belliche e l’intero complesso militareindustriale in industrie civili e centri di ricerca per la pace e la sperimentazione di tecniche di risoluzione nonviolenta dei conflitti. Promuovere percorsi di educazione alla pace e alla nonviolenza sia nel mondo della scuola sia nella società in generale, per imparare ad affrontare i conflitti con creatività, concretamente e costruttivamente, senza cadere nella trappola della violenza. Riconversione ecologica e intellettuale dell’economia mondiale verso forme di economia gandhiana nonviolenta ispirate al paradigma della semplicità volontaria e del “partire dagli ultimi”. E’ una ricerca in atto, con sperimentazioni diffuse in ogni angolo del mondo, da cui c’è molto da imparare per superare la ristretta e distruttiva logica del capitalismo finanziario basato sulla crescita illimitata e sul profitto senza scrupoli. Utilizzare al meglio le attuali capacità di comunicazione su scala globale per costruire un “giornalismo di pace” alternativo al “giornalismo di guerra” tuttora dominante e che vediamo in azione a ogni evento luttuoso. Dialogo tra le religioni per riscoprire il comune fondamento basato sulla nonviolenza. Far conoscere in particolare le componenti più coerentemente nonviolente presenti in ciascuna religione, dai Quaccheri ai Sufi, dall’islam nonviolento di Badshah Khan, il “Gandhi musulmano”, alle tradizioni nonviolente della cultura ebraica, il Tikkun (aver cura del mondo), e buddhista. 7. La cultura scientifica e la tecnoscienza svolgono una funzione cruciale nei processi evolutivi dell’umanità, ma occorre orientarle anch’esse, in tutta la loro enorme potenzialità, verso la cultura della nonviolenza. La responsabilità sociale dei tecnoscienziati è un punto nodale della ricerca scientifica. 8. La cultura artistica, in tutte le sue principali manifestazioni, può e deve essere orientata verso lo sviluppo di una creatività che favorisca la ricerca di soluzioni nonviolente ai conflitti umani. Cinema, teatro, pittura, musica, letteratura sono strumenti da utilizzare per facilitare sia la cura dei traumi subiti sia la elaborazione positiva di visioni del mondo più armoniche. 9. Affrontare la grave crisi delle democrazie rappresentative e partitiche occidentali, che nel corso del tempo si sono trasformate prevalentemente in oligarchie finanziarie e populismi di stampo reazionario. Promuovere la partecipazione attiva e diffusa e l’autogoverno della cittadinanza. 10. Considerare i due terrorismi come una malattia mentale, una patologia mortale dell’umanità. Utilizzare il paradigma medico della diagnosi, prognosi e terapia (del passato e del futuro) per curare gli attori sociali dei due terrorismi. Tutte queste azioni possono essere attuate e incrementate dal basso, come è avvenuto altre volte in passato, dai movimenti di base per la pace, l’ambiente, la giustizia sociale. Oggi questi movimenti, pur presenti, sono poco visibili e gli attentati di Parigi sembrano essere stati progettati appositamente per impedire loro di svolgere un ruolo di primo piano nel cambiamento sociale. Gli attentati sono avvenuti proprio a ridosso dell’importante appuntamento del COP 21 sul cambiamento climatico e hanno già contribuito a ridurre l’attenzione a tale conferenza. Per tutte queste misure vale quanto abbiamo già detto: possono essere ampliate e perfezionate ulteriormente. Per far ciò “non basta la vita” di una singola persona, per quanto geniale, creativa, amorevole come quella dei grandi maestri che ci hanno preceduto, da Gandhi a Martin Luther King, da Danilo Dolci ad Aldo Capitini, da Buddha a Gesù. E’ un compito collettivo dell’intera umanità, possibile, doveroso, entusiasmante, per mettere fine alla violenza nella storia e far compiere un salto evolutivo alla natura umana. (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2015/11/20/i-due-terrorismi-e-le-alternative-dellanonviolenza-nanni-salio/ Serve una guerra contro l'isis ? Chi lo finanzia ? (di Umberto Franchi) I terroristi dell'ISIS in poco tempo hanno conquistato territori in Siria ed in Iraq che corrispondono all'incirca ad un'area grande come quella della Gran Bretagna... le spese che devono sostenere sono grandi ed inoltre i circa 30.000 miliziani sono stipendiati (400 euro mensili). Viene spontaneo chiedersi come hanno fatto? con quali mezzi? con quale petrolio? con quali armi? chi li finanzia? E' assodato che i finanziamenti all'Isis provengono dal Kuwait dal Qatar e soprattutto dallArabia Saudita che finanzia ed arma l'ISIS. Inoltre l'IS fornisce il petrolio delle raffinerie presenti nello Stato Islamico alla Turchia. Paesi che da una parte fanno grandi donazioni all'ISIS e dall'altra si schierano a favore della grande coalizione contro l'ISIS guidata dagli USA. Ma sui giornali di oggi appare evidente che ci sono anche altri Paesi interessati alla guerra dell'ISIS ed al suo finanziamento più o meno nascosto: 1. ci sono multinazionali delle auto giapponesi come la Toyota e la Nissan che vendono mezzi di trasporto all'ISIS; 2. inoltre la monarchia Saudita sta per avere un arsenale bellico dagli USA fatto di: 5020 bombe a guida laser, 2013 bombe blu 117, 1500 bombe "penetrator" 10.200 spolette tipo fmu152, un'infinità di ingegneria e mezzi di trasporto, 10 elicotteri armati, 38 missili; 3. ma dopo il recente viaggio di Renzi in Arabia saudita , arriva anche per l'Italia il premio: un cargo pieno di armi è partito da Cagliari per la basa saudita di Taif con la stiva zeppa di bombe MK84. In questo contesto coloro che pensano sia giunto il momento di continuare con la guerra allo Stato Islamico dovrebbero quantomeno domandarsi: a chi e cosa serve? Serve per sconfiggere l'ISIS o per continuare ad armarli tramite i Paesi citati ai quale vendiamo le nostre armi e quelle USA arricchendo le multinazionali che li producono? Non sarebbe meglio ed utile un blocco totale hai Paesi noti per i finanziamenti ed armamenti all'ISIS ? Umberto Franchi link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2396 Parigi, note e parole di “resilienza” (di Antonio Vermigli) In questi giorni le parole più ricorrenti sono terrorismo, Jihad, guerra, attentati, kamikaze, sospetto, paura. Parole che evocano in chi ha qualche anno in più come me, ricordi di esperienze che non si sarebbero più volute vivere. Parole che suscitano impotenza in quelle nuove generazioni, cresciute a pane, videogiochi e film d’azione, che si ritrovano disorientate e confuse in realtà che da “virtuale” si fa drammaticamente “reale”. Se si presta attenzione, però, in mezzo al frastuono delle parole del terrore, ce n’é una che spicca per il suo stile, pacato ma fermo e deciso, e la sua concretezza. E’ una parola bellissima: “resilienza”. La resilienza é la capacità di far fronte ai traumi in maniera vitale. E’ forza di ricostruirsi, restando sensibili alle cose positive che la vita offre. La Francia, colpita a morte dalla follia omicida di un gruppo di fanatici terroristi, ci sta offrendo note e parole di resilienza, che sono un vero e proprio inno alla vita. Sono note di resilienza quelle della marsigliese, che la sera del 13 novembre, in una notte ancora buia e cupa, esce fisicamente dallo stadio di Parigi, dove poche ore prima era risuonata come segno distintivo della nazionale di calcio. A portare fuori da quello stadio quelle note, che da anni siamo soliti ascoltare soprattutto durante le competizioni sportive, sono i francesi che si aggrappano, l’uno accanto all’altro, a quelle parole, a quei ritmi per trovare la forza di continuare a vivere, per non sentirsi soli. Quell’inno -scritto la sera del 25 aprile 1792 da Rouget de Lisle, che divenne ben presto la chiamata alle armi della Rivoluzione francese e in questo contesto assunse proprio il nome di Marsigliese perché cantata nelle strade dai volontari provenienti da Marsiglia al loro arrivo a Parigi- é oggi un segno di resilienza, che riecheggia non solo per le strade di Parigi, ma di tutto il mondo, reale e virtuale. Sono note di resilienza quelle che ha offerto, come riportano le cronache, Davide Martello, sabato mattina, il 14, nei pressi del Bataclan. Ad una manciata di metri dalla sala da concerti dove, poche ore prima , la musica era stata sovrastata dal rumore dei kalashnikov e dal boato delle esplosioni che si sono portate via 89 giovani e innocenti e hanno segnato per sempre quelle centinaia di altri loro coetanei, Martello trascina con la bicicletta una pianola e inizia a suonare “Imagine” di John Lennon. “Dobbiamo tutti vivere insieme, é chiaro che tutto il mondo é una grande famiglia. Ma purtroppo non riusciamo a vivere in pace, e tutto ciò é tragicamente ridicolo”, ha dichiarato ai cronisti di tutto il mondo. Sono parole di resilienza quelle scritte sullo striscione nero sistemato in Place de la Republique: “fluctuat nec mergitur”, la barca oscilla tra le onde ma non affonda. Sono parole di resilienza quelle che Antoine Leiris ha scritto e che hanno fatto il giro del mondo. “Non avrete il mio odio”, scrive, padre di un bimbo di 17 mesi, che proprio al Bataclan ha perso l’amore della sua vita e la madre di suo figlio. 7 Vale la pena leggerle e rileggerle, le parole di Antoine: “Venerdì avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa, Non sarà così.” “L’ho vista stamattina -prosegue Antoine-. Finalmente, dopo notti e giorni di attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio ed io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete ma nemmeno il suo odio”. Antonio Vermigli "Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri" don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù" link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2398 Fermiamo la spirale di violenza (di Gerardo Femina) Di fronte agli attentati terroristici che hanno colpito simultaneamente sette punti nella città di Parigi si rimane con un senso di sgomento e tristezza. Non ci sono mai parole sufficienti per condannare una violenza così brutale. In più proviamo paura e impotenza davanti ad attacchi che colpiscono all’improvviso e colpiscono chiunque, quasi sempre persone innocenti che non hanno nessuna responsabilità rispetto alle mostruosità che accadono nel mondo. Sono molti anni che diciamo che è necessario cambiare urgentemente la direzione degli avvenimenti e nel 2009 lo abbiamo fatto con forza durante la Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza. Il terrorismo è anche l’effetto del disastro prodotto dalla politica occidentale in Medio Oriente. Come ha ammesso lo stesso Tony Blair, uno degli artefici di questo disastro, la guerra in Iraq è stata un errore grandissimo, che tra l’altro ha posto le basi per la nascita e lo sviluppo dell’Isis. Ancora oggi la Francia, gli Usa e altri paesi occidentali e del Medio Oriente appoggiano in Siria gruppi terroristi. Addestrano i cosiddetti ribelli moderati e li riforniscono di armi e mezzi che poi finiscono nelle mani dell’Isis. Dobbiamo a questo punto anche condannare l’ipocrisia con cui vengono presentati e condannati questi attacchi terroristici. Sicuramente qualcuno ne approfitterà per dire che dobbiamo aumentare il controllo, armare gli eserciti, colpire duramente…. ma nessuno dirà che l’unica soluzione è ritirare da tutti i territori occupati gli eserciti stranieri, cominciare una collaborazione e un dialogo con tutti i governi per fermare il terrorismo, bloccare immediatamente la vendita delle armi soprattutto verso il Medio Oriente e in particolare verso l’Arabia Saudita. Tutte le altre reazioni saranno come buttare benzina sul fuoco. Come ha detto Silo “La pace non verrà da un approccio violento alla violenza”. La difesa dal terrorismo è soprattutto un tema di intelligence, non di eserciti. E come dichiarò anche il Parlamento Europeo nel 2001, invece di spiare gli alleati i servizi segreti farebbero meglio a svolgere bene il loro lavoro ed evitare che accadano queste cose. Condanniamo duramente questi attentati, come duramente abbiamo condannato la strage provocata dall’esercito USA nello scorso ottobre in Afghanistan, bombardando un ospedale nel folle obbiettivo di uccidere dei talebani. Non ci facciamo prendere dal terrore, perché in questo modo saremo facilmente manipolabili. Esprimiamo la nostra solidarietà alle famiglie delle vittime, cosi come lo abbiamo fatto quando 224 persone hanno perso la vita nell’attentato terroristico in Egitto contro un aereo russo. Gerardo Femina Mondo senza guerre e senza violenza – Repubblica Ceca (fonte: Pressenza: international press agency) link: http://www.pressenza.com/it/2015/11/fermiamo-la-spirale-di-violenza/ poveri“ (LS 49). Lo sviluppo sostenibile deve includere i poveri Mentre si lamenta il forte impatto del rapido cambiamento climatico sui livelli del mare, sui fenomeni atmosferici estremi, sul deterioramento degli ecosistemi e sulla perdita della biodiversità, la Chiesa è anche testimone di come il cambiamento climatico stia avendo effetti sulle comunità ed i popoli più vulnerabili, soprattutto a loro svantaggio. Papa Francesco richiama la nostra attenzione sulle conseguenze irreparabili di cambiamenti climatici incontrollati in molti paesi in via di sviluppo in tutto il mondo. Inoltre, nel suo discorso alle Nazioni Unite Papa ha detto che l’abuso e la distruzione dell’ambiente sono accompagnati anche da un processo inarrestabile di esclusione. Leader coraggiosi alla ricerca di accordi vincolanti Approfondimenti Ambiente ed energia COP 21: firmato l'appello di cardinali, patriarchi e vescovi di tutto il mondo Cardinali, Patriarchi e Vescovi di tutto il mondo, rappresentanti le istanze continentali delle Conferenze episcopali nazionali, riuniti il 26 ottobre, in conferenza stampa presso la Sala Stampa Vaticana, hanno siglato un appello rivolto a quanti negoziano la COP 21 a Parigi, invitandoli a lavorare per l'approvazione di un accordo sul clima. In rappresentanza della Chiesa cattolica dei cinque continenti, noi Cardinali, Patriarchi e Vescovi ci siamo riuniti per volere del segretario di Stato della Santa Sede per esprimere, da parte nostra e per conto delle persone che abbiamo a cuore, la speranza diffusa che dai negoziati della COP 21 di Parigi emerga un accordo sul clima giusto e giuridicamente vincolante. Avanziamo una proposta politica su dieci punti, formulata sulla base dell’esperienza concreta delle persone attraverso i vari continenti e associando i cambiamenti climatici all’ingiustizia e all’esclusione sociale dei più poveri e dei più vulnerabili dei nostri cittadini. Cambiamenti climatici: sfide ed opportunità Nella sua lettera enciclica, Laudato Si’ (LS), rivolta ad “ogni persona che abita questo pianeta” (LS 3), Papa Francesco afferma che “i cambiamenti climatici costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità” (LS 25). Il clima è un bene comune, condiviso, che appartiene a tutti e destinato a tutti (LS 23). L’ambiente naturale è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti (LS 95). Credenti o non, siamo d’accordo oggi che la terra è essenzialmente un’eredità comune, i cui frutti sono destinati a beneficio di tutti. Per i credenti, questa diventa una questione di fedeltà al Creatore, in quanto Dio ha creato il mondo per tutti. Quindi ogni approccio ecologico deve incorporare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei poveri e dei diseredati (LS 93). Il danno al clima e all’ambiente ha enormi ripercussioni. Il problema sorto a seguito della vertiginosa accelerazione del cambiamento climatico è globale nei suoi effetti e ci sfida a ridefinire le nostre nozioni di crescita e progresso. Rappresenta una questione di stile di vita. A causa delle sue dimensioni e della sua natura globale, l’impatto del clima ci obbliga a trovare una soluzione che sia consensuale e ci invita ad una solidarietà universale, “intergenerazionale” ed “intragenerazionale” (LS 13, 14, 162). Il Papa definisce il mondo come “la nostra casa comune”. Pertanto, nell’amministrarla, dobbiamo tener presente il degrado umano e sociale, che è conseguenza di un ambiente danneggiato. Chiediamo un approccio ecologico integrale, chiediamo giustizia sociale da porre al centro dell’attenzione “per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei 8 Costruire e mantenere una casa comune sostenibile richiede una leadership politica coraggiosa e creativa. Si rende indispensabile creare un sistema normativo che includa limiti e assicuri la protezione degli ecosistemi (LS 53). Prove scientifiche attendibili rivelano che l’accelerazione del cambiamento climatico è in gran parte dovuta all’attività umana sfrenata, che lavora su un modello particolare di progresso e di sviluppo. L’eccessiva dipendenza dai combustibili fossili è la prima responsabile. Il Papa ed altri leader religiosi, sensibili al danno causato, fanno appello ad una drastica riduzione delle emissioni di biossido di carbonio e di altri gas tossici. Ci uniamo al Santo Padre nell’implorare un grande passo avanti a Parigi, per un accordo globale e generatore di un vero cambiamento sostenuto da tutti, basati su principi di solidarietà, di giustizia e di partecipazione. Questo accordo deve porre il bene comune innanzi agli interessi nazionali. È essenziale anche che i negoziati si concludano con un accordo vincolante che protegga la nostra casa comune e tutti i suoi abitanti. Noi, Cardinali, Patriarchi e Vescovi, lanciamo un invito generale e avanziamo dieci proposte politiche specifiche. Chiediamo alla COP 21 di stringere un accordo internazionale per limitare l’aumento della temperatura globale entro i parametri attualmente proposti all’interno della comunità scientifica mondiale al fine di evitare impatti climatici catastrofici, soprattutto sulle comunità più povere e vulnerabili. Siamo d’accordo sul fatto che esiste una responsabilità comune, ma anche differenziata di tutte le nazioni. Vari paesi hanno raggiunto differenti stadi in materia di sviluppo. La necessità di lavorare insieme per uno sforzo comune è imperativa. Le nostre 10 proposte: 1. 2. 3. 4. tenere a mente non solo le dimensioni tecniche, ma soprattutto quelle etiche e morali dei cambiamenti climatici, di cui all’articolo 3 della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). accettare che il clima e l’atmosfera sono beni comuni globali appartenenti a tutti e destinati a tutti. adottare un accordo globale equo, generatore di un vero cambiamento e giuridicamente vincolante sulla base della nostra visione del mondo che riconosce la necessità di vivere in armonia con la natura e di garantire il rispetto dei diritti umani per tutti, compresi quelli dei popoli indigeni, delle donne, dei giovani e dei lavoratori. mantenere l’aumento della temperatura globale e di fissare un obiettivo per la completa decarbonizzazione entro la metà del secolo, al fine di proteggere le comunità che in prima linea soffrono gli impatti dei cambiamenti climatici, come quelle nelle isole del Pacifico e nelle regioni costiere. ◦ garantendo che la soglia della temperatura sia sancita in un accordo globale giuridicamente vincolante, con impegni ambiziosi di attenuazione ed azioni da parte di tutti i paesi che tengano pienamente conto delle loro responsabilità comuni ma differenziate e delle loro rispettive capacità (CBDRRC), sulla base di principi di equità, responsabilità storiche e sul diritto allo sviluppo sostenibile. ◦ per assicurare che le riduzioni delle emissioni dei governi siano in linea con l’obiettivo della decarbonizzazione, i governi devono svolgere dei riesami periodici degli impegni presi e dell’ambizione Affinché questi controlli vadano a buon fine, devono avere basi scientifiche, devono seguire il principio dell’equità e devono essere obbligatori. 5. generare nuovi modelli di sviluppo e stili di vita che siano compatibili con il clima, affrontare la disuguaglianza e portare le persone ad uscire dalla povertà. Fondamentale per questo è porre fine all’era dei combustibili fossili, eliminandone gradualmente le emissioni, comprese le emissioni provenienti da militari, aerei e marittimi, e fornendo a tutti l’accesso affidabile e sicuro alle energie rinnovabili, a prezzi accessibili. 6. garantire l’accesso delle persone all’acqua e alla terra per sistemi alimentari sostenibili e resistenti al clima, che privilegino le soluzioni in favore delle persone piuttosto che dei profitti. 7. garantire, a tutti i livelli del processo decisionale, l’inclusione e la partecipazione dei più poveri, dei più vulnerabili e dei più fortemente influenzati. 8. garantire che l’accordo 2015 offra un approccio di adattamento che risponda adeguatamente ai bisogni immediati delle comunità più vulnerabili e che si basi sulle alternative locali. 9. riconoscere che le esigenze di adattamento sono condizionate dal successo delle misure di attenuazione adottate. I responsabili del cambiamento climatico hanno l’onere di assistere i più vulnerabili nell’adattarsi e nel gestire le perdite e i danni e nel condividere la tecnologia e il know-how necessari. 10. fornire roadmap chiare su come i paesi faranno fronte alla fornitura di impegni finanziari prevedibili, coerenti ed aggiuntivi, garantendo un finanziamento equilibrato delle azioni di attenuazione e delle esigenze di adattamento. Tutto questo richiederebbe una seria consapevolezza e educazione ecologica (LS 202-215). Preghiera per la Terra Dio dell’amore, insegnaci a prenderci cura di questo mondo, che è la nostra casa comune. Ispira i leader di governo quando si riuniranno a Parigi per ascoltare con attenzione il grido della terra e il grido dei poveri ad essere uniti nel cuore e nella mente nel rispondere con coraggio alla ricerca del bene comune e alla protezione del bellissimo giardino terrestre che hai creato per noi, per tutti i nostri fratelli e sorelle, per tutte le generazioni a venire. Amen Fonte: Focsiv.it (fonte: Unimondo newsletter) link: http://www.unimondo.org/Notizie/COP-21-firmato-l-appello-di-cardinalipatriarchi-e-vescovi-di-tutto-il-mondo-153325 Diritti Il Tribunale Permanente dei Popoli a Torino, sulle grandi opere (di Angela Dogliotti, Elena Camino) Dal 5 al 7 novembre si è svolta a Torino, presso la Fabbrica delle E, del Gruppo Abele, la sessione del Tribunale permanente dei popoli “Diritti fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere” , che si è conclusa ad Almese l’8 novembre, con la lettura della sentenza. Davanti ad un folto pubblico di cittadini ha aperto i lavori il segretario generale del Tribunale, Gianni Tognoni, seguito dall’intervento di Livio Pepino (ex-magistrato, del Controsservatorio Valsusa), che ha esposto l’atto di accusa consistente nella “grave e sistematica violazione…di numerosi diritti fondamentali dei cittadini e della comunità della Val Susa…espressione di un modello di sviluppo, diffuso in tutto il pianeta, che produce devastazioni ambientali lesive dei diritti fondamentali dei cittadini attuali e delle generazioni future e che estromette dalle scelte le popolazioni direttamente interessate” (dalla scheda di presentazione). La prima giornata si è poi concentrata su “Il TAV in Val Susa e la partecipazione negata”, con interventi di Ezio Bertock, che ha chiamato a testimoniare, in presenza o in video, alcuni dei protagonisti del movimento di opposizione, tra cui il fondatore di Habitat, Claudio Giorno, Alberto Perino, nonno NO TAV e leader storico del Gruppo valsusino di azione nonviolenta, che ha ripercorso la storia delle lotte di questi 25 anni, mettendo in luce come l’unità sia stata la forza del movimento, ed esperti come il prof. Chiocchia, del Politecnico di Torino . Sulla manipolazione dei dati e delle previsioni è poi intervenuto il secondo rapporteur, Angelo Tartaglia, del Politecnico di Torino, che ha mostrato come siano insostenibili le ragioni addotte a giustificazione dell’opera (un supposto aumento del traffico passeggeri, dai 2000 del 1992 a più di 20.000, e delle merci): lo stesso quaderno n.1 dell’Osservatorio ha riconosciuto che la saturazione della linea storica non è imminente; i dati del 2013 testimoniano che il volume di traffico sulla ferrovia è pari ad un quinto delle capacità della linea storica… Sono poi stati chiamati a testimoniare, oltre a Simone Franchino, che ha confermato questi dati, i professori Claudio Cancelli e Marco Ponti i quali hanno evidenziato l’inconsistenza dell’analisi costi-benefici prodotta dai proponenti l’opera, mentre la prof.ssa Marina Clerico ha messo sotto accusa la legge obiettivo e la procedura dell’appalto integrato, che rinvia l’analisi delle criticità dei progetti. Il dott. Marco Tomalino, infine, medico di base, ha messo in evidenza dati preoccupanti sull’aumento del mesotelioma e delle patologie cardiovascolari e polmonari per cause ambientali in Piemonte. Sull’esclusione dei cittadini e delle istituzioni dai processi decisionali è poi intervenuto Luca Giunti, naturalista e componente della Commissione tecnica Comunità montana Val Susa e Val Sangone, che ha sottolineato, in apertura, l’importanza del principio di precauzione quando si ha a che fare con opere il cui impatto e le cui conseguenze sono difficilmente calcolabili . Ha fatto presente la necessità di avere un consenso e conoscenze “allargate” e non solo pareri tecnici su opere come queste, e l’importanza di rispettare il principio di reversibilità, per poter correggere eventuali errori, come auspica la scienza post-normale. Sono poi state trasmesse le testimonianze videoregistrate di Mario Cavargna e di Stefano Lenzi, presidenti, rispettivamente, di Pro-Natura e del WWF. L’avvocato Massimo Bongiovanni ha poi parlato dell’impatto avuto dalla diffusione delle riprese dello sgombero del presidio di Venaus, in seguito alla quale il generale della Corte dei Conti Bosetti ha aperto un fascicolo contro alcuni dirigenti delle forze dell’ordine , scoprendo irregolarità in verbali sugli espropri. Dopo le testimonianze di Loredana Bellone e Paolo Prieri è stato proiettato un video con la testimonianza di Vittorio Agnoletto. L’ultimo rapporteur della giornata è stato Paolo Mattone, del Controsservatorio Valsusa, che è intervenuto sulla sostituzione del 9 confronto con la repressione ed ha chiamato a testimoniare Guido Fissore, Alessandra Algostino e Claudio Novaro. Sono stati proiettati alcuni video con immagini della militarizzazione del territorio e delle sue conseguenze sulla popolazione. hanno operato in spregio ai criteri di trasparenza e partecipazione che ogni democrazia dovrebbe salvaguardare. La compostezza, la lucidità, la coerenza e il coinvolgimento personale con cui i testimoni si sono espressi è stata una dimostrazione di comportamento dignitoso, fermo e nonviolento di cui non si vede traccia nei dibattiti politici degli ultimi anni. La quarta parte si è conclusa con la testimonianza video di Luca Abbà. Altri testimoni della giornata, comparsi personalmente o in video sono: Luca Anselmo, Giulia Casel, Paolo Chirio, Riccardo Culatti, Nicoletta Dosio, Nilo Durbiano, Gianni Maggi, Monica Montabone, Claudio Novaro, Sandro Plano, Gigi Richetto, Emilio Scalzo, Fulvio Tapparo, Cristina Uran. I componenti della Giuria hanno rivolto numerose domande di approfondimento, cui hanno risposto relatori e testimoni. Venerdì 6 novembre la sessione è proseguita aprendosi all’analisi di altre grandi opere in Italia e nel mondo. A partire dalla mattinata è stata presa in considerazione la situazione italiana, esaminando in particolare il passante e la stazione ferroviaria di Firenze; l’autostrada Orte-Mestre, le trivellazioni nel mare Adriatico e in terraferma; il ponte di Messina, con rapporteur Tiziano Cardosi, del Forum contro le grandi opere inutili e imposte. Armando Danella è intervenuto sul Mose a Venezia, presentando numerosi schemi per illustrare importanti e delicati aspetti ambientali della laguna di Venezia che sono minacciati dai progetti in corso, e per segnalare alcuni dettagli tecnici oggetto di controversia. Sebastiano Papandrea, portavoce del Comitato NOMuos a Niscemi, ha presentato un video con scene di manifestazioni di proteste dei cittadini, blocchi stradali da parte della forza pubblica, interventi della polizia con sgomberi forzati dei manifestanti che si trovavano su suolo pubblico. Ha inoltre elencato una lunga serie di infrazioni commesse dalle Istituzioni in questa vicenda: la più grave è forse quella di aver concesso in passato (e confermato attualmente) la piena disponibilità di un vasto territorio (che ospita la sughereta più grande e antica d’Europa) al governo degli Stati Uniti, che grazie al sistema di antenne satellitari qui installate è in grado di esercitare un controllo globale delle telecomunicazioni, e di progettare e guidare attacchi di guerra senza che il governo italiano ne sia non solo interpellato, ma neppure informato. Sabato mattina è stato previsto uno spazio per la difesa dei proponenti, che tuttavia hanno declinato l’invito. E’ stata quindi la volta della requisitoria finale da parte di Livio Pepino. Poiché non è possibile sintetizzare in poche righe la ricchezza delle argomentazioni sostenute, si fa riferimento direttamente al testo, già presente in versione integrale sul sito del Controsservatorio (http:// www.controsservatoriovalsusa.org) Poi la Giuria si è ritirata per una riflessione finale e per la stesura della sentenza. Domenica 8 novembre , ad Almese, in un teatro gremito, attento e partecipe è stata letta la sentenza, preceduta dal saluto dell’ecologista cilena Sara Larrain, direttrice del programma Chile Sustentable e da alcuni altri interventi. Dopo la lettura, ad opera del Presidente, Philippe Texier, magistrato onorario della Corte suprema di Cassazione e già membro e presidente del Comitato di diritti economici, sociali e culturali dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, è stato affidato il saluto conclusivo a Dora Lucy Arias, coraggiosa avvocata colombiana, componente del Consiglio Diretivo del Colectivo de Abogados Josè Alvear Restrepo. La sentenza, disponibile integralmente nel sito del Controsservatorio Valsusa (http://controsservatoriovalsusa.org/images/materiali/TPP_sessione_Torin o-sentenza-dispositivo.pdf) , è accompagnata da questo commento: “Una sentenza che accoglie l’impianto accusatorio e lo rafforza, che riconosce le violazioni di diritti fondamentali non soltanto in Val di Susa, che denuncia la violazione di convenzioni internazionali da parte degli stati che le hanno sottoscritte, che chiede per la Valsusa la sospensione dei lavori e la cessazione dell’occupazione militare”. Tra le RACCOMANDAZIONI finali si legge: Il TRIBUNALE PERMANENTE DEI POPOLI Per quanto riguarda la situazione europea, Sabine Brautigam, del Forum contro le grandi opere inutile e imposte, ha presentato in particolare le criticità della linea ferroviaria Hs2 nel Regno Unito, della linea ferroviaria AV nei Paesi Baschi spagnoli e francesi, della stazione di Stuttgard 21 in Germania, e della miniera d’oro di Rosia Montana in Romania, con l’aiuto di alcuni testimoni: Genevieve Coiffard-Grosdoy ha presentato il caso dell’aeroporto di Notre Dames Des Landes, sul quale sono intervenuti anche altri testimoni, mentre Daniel Ibanez ha parlato del “debat public” in Francia. La seconda giornata si è conclusa con la terza parte: la situazione delle grandi opere inutili e imposte in America latina, sulle quali è intervenuto Andreas Barreda per il Messico. Raccomanda nel caso Tav Torino Lione, agli stati Italiano e Francese, di procedere a consultazioni serie delle popolazioni interessate e in particolare degli abitanti della Val di Susa per garantire loro la possibilità di esprimersi sulla pertinenza e la opportunità del progetto e far valere i loro diritti alla salute, all’ambiente, e alla protezione dei loro contesti di vita. Queste consultazioni dovranno realizzarsi senza omettere nessun dato tecnico sull’impatto economico, sociale e ambientale del progetto e senza manipolare o deformare l’analisi della sua utilità economica e sociale. Si dovranno esaminare tutte le possibilità senza scartare l’opzione “0”. Finché non si garantisce questa consultazione popolare, seria e completa, la realizzazione dell’opera deve essere sospesa in attesa dei suoi risultati, che devono essere in grado di garantire i diritti fondamentali dei cittadini. E in conclusione raccomanda agli stati Tutti gli interventi potranno essere seguiti in audio sul sito del Controsservatorio (vedi il link più avanti) Un aspetto che ci ha molto colpito nel corso delle due giornate di presentazione delle ragioni dei ‘denuncianti’ è stata la forma che è stata scelta per le esposizioni: i rapporteurs e i testimoni sono stati molto chiari, rendendo facile al pubblico seguire le loro argomentazioni; hanno selezionato e presentato dati e documenti accessibili e rintracciabili a sostegno delle loro ragioni. Hanno individuato e sottolineato numerose somiglianze nelle dinamiche con le quali governi, imprese, istituzioni 10 …..Di dare priorità rispetto alle grandi opere a programmi vasti ed efficaci inerenti i servizi e le opere di interesse vitale quotidiano dei cittadini, quali le opere di contrasto di fenomeni idrologici e idrogeologici e situazioni di degrado e di mancanza di manutenzione dell’edilizia e dei trasporti di pubblico interesse… e ai movimenti sociali, alle associazioni e ai comitati che si battono contro le grandi opere, di far rispettare dagli stati le procedure previste ….nonché di sperimentare ogni legittimo strumento per costringerveli in caso di inadempimento degli obblighi suddetti, in particolare il ricorso al Comitato sull’adempimento della Convenzione di Aarhus 1. 1 Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, adottata in Aarhus il 25 giugno 1998, di cui sono membri 46 stati , tra cui l’Italia dal 13/6/2001 e la Francia , dall’8/7/2002, approvata dall’UE con la decisione 2005/370/CE (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2015/11/16/il-tribunale-permanente-dei-popoli-a-torinosulle-grandi-opere-angela-dogliotti-e-elena-camino/ Immigrazione I pericoli dello "ius culturae" (di Fiorella Farinelli) Le nuove regole di acquisizione della cittadinanza, ora al vaglio del Senato, prevedono che per averne diritto i bambini stranieri nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni debbano avere concluso positivamente un intero ciclo scolastico. In barba al fatto che il 15% dei bambini stranieri, anche tra i nati da noi, è in “ritardo scolastico” fin dalla elementare. Mettiamo che Abdul, seienne pakistano nato in Italia, in una scuola dell’infanzia non ci abbia mai messo piede. Impossibile? Niente affatto, è così per il 25% circa dei figli di genitori stranieri (contro il 3% degli italiani), e per tanti motivi. Perché la materna non è scuola dell’obbligo, perché in certe zone non c’è proprio, perché le scuole pubbliche non bastano e certe private costano troppo, perché il non coordinamento tra scuole comunali, statali, private, a tempo pieno e a metà tempo, con o senza tariffe, disorienta i meno esperti. E poi si sa che per alcune culture la scuola a 3 anni è troppo presto (era così anche per noi, 40 anni fa, e sono almeno 20 che si discute se le materne debbano o no far parte dell’obbligo scolastico). Così quando Abdul arriva in prima elementare il suo italiano è di sicuro poca cosa. A casa sua si parla solo urdu e quello che ha imparato al parco e per strada è appena un po’ di più di quello dei “neoarrivati”, i ragazzi che sei mesi fa erano all’altro capo del mondo e oggi si ritrovano smarriti in una scuola italiana. Se Abdul capita in una scuola “esperta” che sa fare bene quello che serve, il problema non è insormontabile, basta un grappoletto di mesi con i coetanei – italiani e bilingue – per correre insieme. Ma ci sono storie diverse. Il 15% dei bambini stranieri, anche tra i nati da noi, è in “ritardo scolastico” fin dalla elementare ( diventerà, quel ritardo, più del 30% nella scuola media e oltre il 60% nella superiore ). A 7 anni in ritardo sono il 7,4%, a 10 anni il 19%. Ci sono infatti scuole in cui si decide, s’intende a fin di bene, che quelli come Abdul è meglio che ripetano una classe, qualche volta anche due, perché l’italiano non è abbastanza buono per passare alla classe successiva. E non importa se Abdul ha voglia di imparare, se è bravo a disegnare e a suonare il flauto, se coi numeri se la cava alla grande e pure con lo smartphone, se le regole del calcetto anche per lui non hanno più segreti. E neppure se quella bocciatura, quel cambiamento di classe e di compagni, lascerà qualche ferita. Fin qui è una storia, amara quanto si vuole a quasi trent’anni dalle prime presenze straniere nella nostra scuola, e pure pericolosa - per il futuro delle seconde generazioni e anche per il nostro - perché sono ancora troppi i ragazzi stranieri scoraggiati da bocciature e ritardi che abbandonano gli studi prima di concluderli, ma in Italia sono tanti, anche a sinistra, a ritenere che tutto sommato sia normale. Uno scotto da pagare per chi arriva da altri paesi, un fisiologico effetto collaterale. E però d’ora in avanti di effetti collaterali potrebbero essercene anche altri, se il Senato non migliorerà il testo di modifica delle regole di acquisizione della cittadinanza approvato il 13 ottobre scorso dalla Camera. Perché il cosiddetto “ius culturae”, che consente ai bambini stranieri nati da noi o arrivati prima dei 12 anni di accedere alla cittadinanza italiana anche se 11 non hanno un genitore fornito di permesso di soggiorno permanente , stabilisce che per averne il diritto bisogna aver frequentato un intero ciclo scolastico. E che, se il ciclo è quello della scuola elementare, bisogna averlo concluso positivamente, aver ottenuto cioè il via libero per l’iscrizione alla scuola media. Che cosa succederà? Secondo i beati costruttori del riformismo renziano niente di significativo. Secondo i meno beati, che ci sarà un certo numero di Abdul che la domanda di cittadinanza potranno farla solo a 13-14 anni, cioè solo 2-3 anni dopo l’età canonica dell’uscita dalla elementare, e solo 4 anni prima di quanto previsto finora, cioè della maggiore età. Non è granché per una riforma vantata come “epocale”, vera e propria “svolta di civiltà”. Non solo, ci saranno altri ragazzini, per esempio quelli con disabilità che compromettono l’apprendimento, che dello “ius culturae” – cultura, del resto, è in questo contesto una parola davvero grossa - non potranno approfittarne. Le 19 associazioni di “Italia sono anch’io”, la campagna che nel 2012 ha depositato 200mila firme a sostegno di due leggi di iniziativa popolare sulla cittadinanza dei nati in Italia e sul voto amministrativo agli stranieri, ovviamente non applaudono. E, come l’ASGI - l’associazione dei giuristi per l’immigrazione che di battaglie di civiltà ne ha già vinte parecchie in tribunale - avanzano proposte sensate di miglioramento del testo. Vedremo. Il fatto è che il problema è anche di principio. Una cosa è utilizzare la regolare frequenza scolastica come indicatore di stabilità (in linea, del resto, con quanto previsto dall’”accordo di integrazione” di Maroni per il rinnovo del permesso di soggiorno dei genitori di figli in età di obbligo scolastico), un’altra è attribuire alla scuola e agli insegnanti la responsabilità dell’accesso o meno, e a un’età o a un’altra, alla cittadinanza. Ma è questo che accade, quando si pretende che la scuola primaria sia conclusa con successo. Accade quando una norma, a cui pure la maggioranza dell’opinione pubblica guarda con favore, deve essere negoziata con chi un più facile accesso alla cittadinanza degli immigrati extracomunitari, ancorché bambini nati e cresciuti da noi, la vede come il fumo negli occhi. E in un parlamento che su un provvedimento come questo, incontra non solo la fiera opposizione della Lega ma anche l’astensione di quei campioni di democrazia che sono i grillini. I limiti della norma, del resto, non sono solo qui. L’altra via , quella dello “ius soli” cosiddetto “temperato” – cioè privo dell’automatismo in vigore negli USA – che consente l’accesso alla cittadinanza dei bambini con almeno un genitore provvisto del permesso di soggiorno permanente, ha anch’essa le sue malignità. È vero, infatti, che quasi il 60% degli immigrati stabilizzati ne è ormai in possesso, ma si tratta di una “carta” che si può ottenere solo a certe condizioni, tra cui alcune – un certo livello di reddito, una certa tipologia di alloggio – di tipo inequivocabilmente economico. È iniquo, sostengono alcuni, e hanno ragione. Di qui altre proposte di emendamenti, che si aggiungono alla contrarietà per una svolta così epocale da non avere avuto il coraggio di misurarsi con regole nuove e meno restrittive per l’ingresso nella cittadinanza degli adulti, quindi con una legge varata nel lontano 1991, quando della grande immigrazione globale c’erano solo alcuni prodromi. Siamo lontani dalla lungimiranza di Angela Merkel. Sarebbe già bene, comunque, se la legge uscisse dal Senato un bel po’ migliorata rispetto a come vi è entrata. Ma al momento non è affatto detto. La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info. (fonte: Sbilanciamoci Info) link: http://sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/I-pericoli-dello-ius-culturae-31690 Nonviolenza Obiezione di coscienza e Costituzione (di Federica Grandi) Nel diritto costituzionale contemporaneo si assiste al progressivo aumento del numero dei diritti fondamentali e, in particolare, di quelli riferiti alla coscienza, a fronte, peraltro, di una società sempre più multiculturale. L'enfasi mediatica e politica sul preteso diritto costituzionale all'obiezione di coscienza va letta in questo contesto. L’obiezione di coscienza, quale specificazione della libertà di coscienza e/o dell’autodeterminazione - che si ispiri ai valori tradizionali o a quelli nuovi - viene interpretata come lo strumento più efficace per proteggere le coscienze dissenzienti che si confrontano con un ordinamento giuridico che fa fatica a rinnovarsi nelle sedi parlamentari. Il “fatto” dell’obiezione di coscienza, come noto, si verifica nel momento in cui un soggetto rifiuta di obbedire ad una legge sulla base di un convincimento individuale assolutamente inconciliabile con essa. Sebbene la disobbedienza dell’obiettore metta in discussione l’obbligatorietà della legge per tutti, minando un presupposto del vivere insieme, a volte, i legislatori accettano questo rischio perché uno dei connotati fondamentali delle democrazie è dare la possibilità al dissenso di esprimersi in forme legali, così da poter essere integrato con gli altri interessi presenti nella società. Questa integrazione del dissenso è perseguita con diversi strumenti: si pensi alle deroghe negoziate con alcune confessioni religiose che rendono immuni da responsabilità per i comportamenti illeciti prescritti dai canoni confessionali. Quanto alle questioni di coscienza non necessariamente legate ad uno precetto religioso, le soluzioni sono altre. Vi può essere la conversione dell’obbligo a cui si rifiuta l’obbedienza in un obbligo alternativo, come è accaduto quando è stato consentito agli obiettori di prestare il servizio civile in luogo della leva militare ovvero, quando la conversione non è possibile, il trasferimento dell’obbligo gravante sull’obiettore in capo ad un altro soggetto, onde assicurare la continuità e la certezza della prestazione del servizio cui era sotteso il predetto obbligo: come nel caso della partecipazione alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza, nonché a quelle di fecondazione medicalmente assistita, ove è sì consentito di fare obiezione di coscienza, ma con la garanzia che le strutture ospedaliere assicurino la continuità del servizio, attraverso la necessaria presenza di personale non obiettore. Quanto all’obiezione di coscienza nell’ambito delle procedure di interruzione volontaria della gravidanza, in particolare, gli incredibili numeri attestati dalle stime ministeriali (la media nazionale degli obiettori tra i ginecologi si aggira attorno al 70%) pregiudicano la continuità anche territoriale del servizio e testimoniano che questo “vaccino”, predisposto dal legislatore per elaborare consenso attorno ad una scelta politica molto combattuta, non ha funzionato a dovere e, dunque, sembra giunto il momento di modificarne i contenuti. Più esplicitamente - posto che la Corte costituzionale (sent. n. 35 del 1977) ha chiarito che la legge n. 194 del 1978 ha un contenuto costituzionalmente vincolato - la sostanziale assenza di strumenti in grado di valorizzare la sincerità dei convincimenti posti a fondamento della facoltà di fare obiezione fa ritenere opportuno introdurre dei correttivi alla disciplina vigente volti a responsabilizzare il personale obiettore, sì da rendere più ragionevoli i numeri del fenomeno. L’obiezione di coscienza, al di là delle previsioni legislative è, anzitutto, fenomeno sociale. L’obiezione di fatto, al fuori del diritto, è stata impiegata per giustificare il rifiuto a ricevere trattamenti sanitari obbligatori (si pensi alle vaccinazioni obbligatorie o alle trasfusioni di sangue). Quanto poi ai trattamenti non obbligatori, la rilevanza dei convincimenti di coscienza è venuta a intrecciarsi con tutta una serie di questioni sul consenso informato e sull’autodeterminazione alle cure, nel tentativo, tra l’altro, di colmare il vuoto legislativo in tema di fine-vita. Questi impieghi dell’obiezione si incontrano anche nel diverso terreno del dibattito sui simboli religiosi, in funzione di grimaldello delle rivendicazioni per la neutralità dello spazio pubblico. 12 Proprio queste vicende fanno apparire l’obiezione di coscienza come un fenomeno inscrivibile nel più ampio genus della disobbedienza civile. Il rinvio alla libertà di coscienza o all’autodeterminazione come scriminante per ogni illecito compiuto in nome dell’obiezione di coscienza, può però fuorviare se non si considera il contesto democratico e se si mette da parte che la strutturazione dei rapporti tra governanti e governati nella nostra Costituzione ha come presupposto la libertà di coscienza e la tutela delle sue manifestazioni individuali e sociali, sicché non è necessario ricorrere alla disobbedienza civile per provocare dei mutamenti legislativi. Semplicemente ci si deve mobilitare politicamente nelle sedi opportune e tentare la sfida della storia. Riconoscere nell’obiezione un diritto della coscienza che può essere sempre rivendicato per sottrarsi agli obblighi imposti dalla legge, senza una specifica norma che ne definisca le modalità e i limiti, invero, varrebbe a legittimare il diritto indiscriminato all’inosservanza della legge – seppure di coscienza. Ciò non può essere accolto, né sul piano giuridico, perché l’ordinamento ha esigenza di essere effettivo al punto che arriva ad autorizzare l’obiezione proprio per venire incontro alle coscienze nella speranza di evitare il sabotaggio delle norme moralmente controverse; né sul piano politico, perché ciò sancirebbe una vittoria dell’individualismo sul principio solidarista, assolutamente sconfessata dall’art. 2 Cost. in quel mirabile disegno che individua nell’equilibrio tra diritti inviolabili e doveri inderogabili la possibilità di realizzare un progetto di sviluppo pieno della persona, nella libera sintesi tra sociale e individuale. L’obiezione di coscienza, in sintesi, prima di essere accertata da un giudice, va necessariamente regolata dal legislatore poiché va tenuto nel giusto conto quello che è il suo impatto sugli equilibri dell’intera società. (fonte: Zeroviolenza) link: http://www.zeroviolenza.it/editoriali/item/73471-obiezione-di-coscienza-ecostituzione Questioni sociali Casamonica: quello che la stampa non dice Restiamo umani - Un funerale rom e il teatrino razzista della politica (di Marcello Palagi) Non c'è nessuna dichiarazione meno utile di questa, per cercare di capire la vicenda del funerale di Vittorio Casamonica. I fatti, da sè, non parlano; vanno contestualizzati, analizzati e interpretati, dal punto di vista dei rom, non di chi non lo è. Anche perchè poi, di fatti, in questa storia, ne sono stati appurati meno di quanto si creda. Ad esempio, si è detto che a partecipare a questi funerali "oceanici" c'era tutta la Roma "mafiosa" e invece, c'erano quasi solo dei rom abruzzesi (non sinti, come si trova scritto - e tutti hanno ripetuto pedissequamente, senza andare a cercare riscontri -, in Wikipedia). E non mi sembra, almeno stando alle immagini trasmesse dai mass media, che la partecipazione al funerale sia stata così di massa come si vuol far credere: alcune centinaia di persone. Anche una persona di una certa notorietà, da noi, vedrebbe la sua bara seguita da un numero di parenti, amici e conoscenti, egualmente se non più numerosi. Ma l'affermazione iniziale, di un funerale a cui avrebbero assistito tantissimi e tutti mafiosi, è servita e serve ancora per dire che il funerale è stato una prova di forza "che le associazioni mafiose" hanno esibito, "per affermare il mito della loro impunità, per affermare la supremazia della mafia sullo Stato". Se queste sono le prove di forza..! Anche se sono stati Caselli e il prefetto di Roma che l'hanno detto e sostenuto, al seguito, però, di molti altri, si tratta di affermazioni sbagliate e frutto di pregiudizi. Nessuna intenzione di voler sminuire la partecipazione di una parte dei Casamonica alla malavita (lo dicono, se non altro, i processi), ma neanche di prenderla come punto di partenza per valutare questo funerale, perchè in questo contesto non c'entra niente. Il funerale non è stato espressione della cultura mafiosa, ma solo di quella rom e se si pensa di combattere la mafia e Mafia capitale vedendo in questo funerale, chissà cosa, perdiamo tempo, perchè cerchiamo la mafia dove non c'è I Casamonica, oltre tutto, non appartengono alla mafia ed è sbagliato estendere il concetto di mafia a realtà, magari altrettanto malavitose, ma che hanno strutture e organizzazioni, modi di funzionare, assolutamente diversi e che si muovono secondo mentalità e culture di altro genere. Dirò poi quali fraintendimenti ha determinato, nella lettura dei fatti, l'uso della parola mafia. I pochi fatti, se si esclude, pare, il volo dell'elicottero, non sembrano contro legge. Il feretro di un personaggio noto come appartenente a una famiglia considerata malavitosa e ricca, di rom abruzzesi, arriva in chiesa, per le cerimonie funebri, su una lugubre e nera carrozza trainata da sei cavalli (si dice sia la stessa servita per i funerali di Totò) ed è seguito da un lungo corteo di automobili lussuose che, sembra abbia determinato un rallentamento nel traffico e l'intervento dei vigili urbani. Mentre in chiesa si svolgono la messa e i riti dei defunti, fuori, nella piazza, un buon numero di rom attende più o meno "compostamente" l'uscita della cassa. Improvvisamente appare nel cielo un velivolo che sgancia sulla piazza petali di rosa. Che cosa ci sia in questi "fatti" di illegale, salvo, forse, quanto riguarda l'elicottero, non è dato sapere. Se i fatti sono questi e se, dal punto di vista del diritto e della legge italiana, Vittorio Casamonica non era mai stato condannato, anche se più volte denunciato e inquisito, ci si deve domandare non solo perchè non avrebbe dovuto avere questo funerale, ma come, le autorità competenti civili e religiose avrebbero potuto vietarlo. L'articolo continua sul file: http://www.aadp.it/dmdocuments/doc2138.pdf link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2386 Notizie dal mondo Turchia Ecco perchè l'HDP non ha perso le elezioni in Turchia (di Luigi D'Alife) Le elezioni turche hanno consegnato la maggioranza dei seggi all'AKP di Erdogan in un clima di tensione e intimidazioni da parte della polizia. Ma è corretto dire che l'opposizione esce sconfitta dalla competizione elettorale? “Non sono state elezioni regolari. Non abbiamo potuto fare una vera campagna elettorale in quanto abbiamo dovuto proteggere il nostro popolo da un massacro. E' vero, abbiamo perso un milione di voti, ma questa è ancora una grande vitoria perchè abbiamo resistto contro la politica dei massacri e del fascismo.” Con queste parole i co-presidenti del partito dei popoli democratici (HDP) Selhatn Demirtas e Figen Yuksedag hanno chiuso la conferenza stampa al termine della lunga e tesa giornata del 1° Novembre, che ha visto la Turchia tornare al voto dopo neanche 5 mesi dalle elezioni politiche del 7 Giugno e l'HDP riuscire per la seconda volta a superare l'alta soglia di sbarramento (10%) necessaria per sedere nel parlamento di Ankara. I media mainstream di tutto il mondo si sono affannati nel celebrare i risultai del voto parlando di “Trionfo di Erdogan” e “sconfitta per i flocurdi”, ma per avere un quadro obiettivo e completo delle ultime ore, è necessaria un analisi più profonda e che tenga conta di quanto accaduto (e che poco è stato raccontato) degli ultmi mesi in Turchia. Partiamo proprio dalle parole di Demirtas e del perchè quelle del 1° Novembre non possono essere considerate elezioni regolari. 13 Le elezioni del 7 Giugno scorso avevano consegnato una situazione nuova, dopo gli ultimi 13 anni di potere incontrastato da parte del piccolo sultano Erdogan. Il suo partito (AKP) ed il premier fantoccio Ahmet Davutoglu hanno per la prima volta dovuto fare i conti con una grossa perdita di consenso, lascito dei risultati delle urne che, soprattutto grazie allo strabiliante risultato dell'HDP (oltre 6 milioni di voti), hanno scombussolato i piani politci di Erdogan: accentramento dei poteri nelle sue mani e riforma in chiave iper-presidenzialista del sistema politico. Nonostante anche prima del 7 Giugno gli attacchi contro HDP, i suoi membri ed i suoi elettori si erano contati a centinaia con l'apice raggiunto nell'attentato di Diyarbakir (che ha di fato riaperto la “nuova stagione” dello stragismo di piazza), è stato certamente a partire dal 20 Luglio (atentato di Suruc) che il livello di attacco e violenza nei confronti dell'opposizione politica e del “vecchio nemico” curdo, si è alzato vertiginosamente. La brusca interruzione del processo di pace da parte dello Stato Turco è stata ampiamente programmata già prima della bomba che ha ucciso 33 persone a Suruc. Nonostante venga indicato come il momento del ritorno alla lota armata da parte del PKK, erano già settimane che l'aviazione Turca era tornata a bombardare le sue basi nelle zone del Kurdistan iracheno, violando di fatto gli accordi del 2013 e facendo ripiombare la Turchia indietro di 20 anni. Gli ultimi mesi Tre attentati bomba diretti contro HDP che hanno fatto 166 morti e più di 1000 feriti. Oltre 190 sedi del partito attaccate, bruciate, distrutte. Pogrom contro i citadini curdi con pestaggi, accoltellamenti e morti nella prima settimana di Settembre. Quasi 3500 arresti tra cui 500 membri e dirigenti del partto. 22 sindaci arrestat e rimossi dall'incarico. Tre mesi di terrorismo di Stato contro la popolazione Curda nel sud-est del paese con coprifuoco contnuo e 258 civili uccisi dalle forze di sicurezza Turche, tra cui 33 bambini. Sono i numeri terribili della vendeta di Erdogan contro HDP. Sono la “campagna elettorale” dell'AKP ed buona parte dei fatori che hanno prodoto quello scarto di 9 punti percentuali dal 7 Giugno al 1 Novembre. Ignorati dai media mainstream e tollerati da quegli alleat occidentali (Italia compresa) sommessamente impegnati nel tenersi buono il cane da guardia, messo lì a tappare le masse di rifugiati in fuga dalla guerra e dirette in Europa. Questo è stato il clima in cui la Turchia è andata a votare; i carri armati per le strade, i corpi senza vita dei militanti Curdi trascinati nelle vie delle cità dietro i blindati della polizia, le pistole puntate alle tempie dei giornalisti, bambine e bambini uccisi dai militari turchi durante gli atacchi alle città curde, e "conservate" nei freezer in atesa della sepoltura. Queste sono le immagini di quanto accaduto nel Kurdistan Turco negli ultimi mesi. E' impensabile che questo non abbia in nessun modo influito sul voto di qualche giorno fa. Evidentemente lo ha fatto eccome, facendo credere che dopo le elezioni di Giugno fosse urgente tornare “all'uomo solo al comando”, al partito unico, alla governabilità, all'unità nazionale ed alla sicurezza, anche se in cambio dovesse essere ceduta una buona fetta di libertà. L'AKP è stato di fatto l'unico partito a fare campagne eletorale. In particolare, dopo la strage di Ankara che ha colpito la marcia per la pace, l'HDP ha annullato tutti i comizi per salvaguardare la sicurezza dei propri elettori. Nelle televisioni e sui giornali nessuno spazio è stato concesso ai partiti di opposizione, e quei media non ancora allineati alle dirette di partito sono stati leteralmente occupati e “commissionati” dagli uomini di Erdogan. Il giorno delle elezioni Fin qui quanto successo nel periodo pre-elettorale. Ed il giorno delle elezioni? Il quadro generale non è stato per nulla diverso. In particolare nel sud-est del paese il voto si è svolto in un clima da guerra totale. I dintorni dei seggi e delle città sono stati militarizzati da centnaia di mezzi dell'esercito e della polizia. Si sono contati moltissimi episodi di violenza ed intimidazione. La sera del 31 Otobre un atacco aereo è stato condoto nella cità di Sirnak. La mattina del 1° Novembre, fuori e dentro i seggi, uomini delle forze speciali armati fno ai denti hanno minacciato la popolazione, arrestato diverse persone durante le operazioni di voto e preso in custodia membri dell'HDP. In diversi quartieri è stata staccata la corrente elettrica e si è impedito in diversi modi alle persone di raggiungere i luoghi ove si votava. Ad esempio a Lice (roccaforte dell'HDP nei dintorni di Diyarbakir) di prima mattina l'esercito, dopo aver chiuso la strada che conduceva ai seggi eletorali, ha proceduto a renderla inutilizzabile facendola saltare con l'ausilio di mine. Diversi osservatori internazionali sono stati arrestati, portati nelle caserme e/o sequestrat all'interno dei seggi dove avevano riscontrato palesi irregolarità durante il voto. Come già accaduto nelle ultime elezioni di Giugno, nei dintorni dei seggi ed in prossimità delle caserme e delle sedi dell'AKP, si sono palesate auto senza targa, usate “storicamente” il giorno delle elezioni per sotrarre le urne eletorali con i voti una volta terminate le elezioni. Una volta chiuse le votazioni è stato abbastanza sconcertante verificare con che velocità siano stati conteggiati i vot: in poco meno di 3 ore sono stat scrutinati 48 milioni e mezzo di voti (qualche migliaio di schede eletorali al secondo...). Un record niente male considerando che solo 5 mesi prima, alle elezioni del 7 Giugno, le operazioni di scrutnio erano durate in tutto 10 ore. Per chi non ne fosse a conoscenza la normale procedura elettorale in Turchia si svolge così: le persone possono votare fno alle 17, dopodiché si chiudono i seggi, le votazioni vengono ufficialmente dichiarate concluse e si passa al conteggio dei voti. Le schede vengono poi messe in sacchi e portate alle rispettive commissioni eletorali distrettuali. Secondo la legge, voti e rapporto vengono compilati presso la commissione eletorale distrettuale prima di essere portat alla YSK (Suprema Commissione Eletorale Turca). Tutavia la YSK ha annunciato il risultato per molte regioni di Istanbul (tra le più popolose di tuta la Turchia) prima del trasferimento dei documenti elettorali alla commissione distrettuale. Proprio per questo tpo di pratica il quarter generale HDP ha annunciato che secondo i dat raccolt dalla loro sede centrale, i risultati reali sarebbero così distribuit: AKP 44,5% - CHP 25,9% - HDP 14,2% - MHP 11,7. Come se non bastasse sono stati documentati voti sotratti e portati via da diverse auto a Gaziantep, un seggio elettorale addiritura posizionato dentro la casa di un capovillaggio nei dintorni di Urfa, un uomo con due sacchi pieni di voti è stato fotografato su un autobus nella cità di Erzurum, centinaia di schede eletorali sono state ritrovate nell'immondizia a Diyarbakir, a Cizre la polizia ha attaccato con gas lacrimogeni i rappresentanti dell'HDP che scortavano le urne eletorali (per essere nuovamente contate in un unica sede per "ragioni di sicurezza") ed un video ha mostrato un dirigente dell'AKP ad Adiyaman pagare in contanti alcuni elettori in cambio di voti. L'analisi del voto Possibile che i 4 milioni e 800.000 voti presi in più da Erdogan in queste elezioni arrivino tutti da frodi eletorali? Io non credo. Penso sarebbe riduttivo credere che gli ultimi mesi di guerra non abbiano prodotto degli sconvolgiment reali all'interno del paese. Partiamo dai dati ufficiali: rispetto alle elezioni di Giugno, Erdogan ed il suo partito conquistano 9 punti percentuali, ovvero 4 milioni ed 800 000 voti in più. Il partto kemalista (CHP) mantiene sostanzialmente gli stessi voti (+591.915 dal 7 Giugno) mentre è soprattutto il braccio politco dei lupi grigi (il partto nazionalista MHP) ad avere avuto un vero tracollo, facendo segnare un dato negatvo di circa di 1 milione 800.000 voti in meno.Il partito dei popoli democratici (HDP) si attesta sul 10,76% superando nuovamente l'alta soglia di sbarramento, entrando in parlamento, ma perdendo in 5 mesi poco meno di un milione di vot (911.818). E' evidente come gran parte dei voti della destra e dei nazionalisti Turchi, 14 dopo la campagna anticurda degli ultimi mesi, siano confluiti dentro AKP. I lupi grigi pagano probabilmente lo scotto di aver respinto la proposta di coalizione per la formazione di un governo di unità nazionale. D'altra parte AKP si è accaparrato le simpatie dei fascisti con la ripresa delle ostilità con il PKK da un lato, e con le mobilitazioni di piazza che hanno visto diversi appartenent AKP ad essere in prima fla nelle azioni di pogrom contro HDP e cittadini Curdi. Ma facendo due conti è evidente che non possono bastare i voti persi da MHP, né tantomeno quelli di HDP, per far confuire un così alto numero di preferenze verso Erdogan. Allora da dove arrivano tutti questi voti? Un parte molto considerevole arriva da quella galassia di partiti e partitini che in Turchia si presenta sempre molto numerosa alle elezioni politche. Questo agglomerato di partiti avevano raccolto 2.960.057 vot alle elezioni di Giugno, mentre il 1° Novembre ne hanno presi solo 1.299.710, facendo segnare meno 1.660.347 vot, fnit per gran parte al partto di sviluppo e giustzia. In questo senso deve aver raccolto proseliti l'invito fatto da Erdogan a meno di 24 ore dalle elezioni, in cui esortava i Turchi a votare un solo partto (il suo chiaramente), nel segno dell'unità nazionale. Tutti i media hanno parlato di affluenza record. Anche se certamente l'affluenza è stata alta (85,18%) non è stata da record, in quanto ha chiuso con poco più di un punto percentuale in meno rispeto le elezioni del 7 giugno (86,64%). Decisamente sopra la media nazionale è stata l'astensione registrata nel sud-est, ovvero nella regione del Kurdistan Turco. Si va dal 7% in meno ad Agri, 5% in meno del distreto di Hakkari (fortemente colpito dalle dichiarazioni di coprifuoco da parte del governo centrale) e Batman, al 4% in meno di Dersim, Bitlis, Van, Kars, Mus, mentre in altri distret come Diyarbakir (-2%), Mardin (-1%), Sirnak (-1%) la differenza è meno netta. Se consideriamo i soli distretti in cui HDP aveva vinto a Giugno (vittorie confermate anche il 1° Novembre tranne che a Kars ed Ardahan) il partito ha perso circa 270.000 vot, di cui gran parte possono essere imputati all'astensione di un pezzo di quello che è l'elettorato HDP, probabilmente dovuta alla repressione ed alle intimidazioni del governo. Altrettanto vero è che qualche decina di migliaia di voti sono andati da HDP ad Erdogan, ed in parte sicuramente minore anche a CHP (sopratuto a Dersim). In senso opposto nelle zone roccaforti di AKP (Ankara, Konia, Bursa, Duzce ecc.) l'affluenza, anche se di poco, è aumentata, segno di uno sforzo di mobilitazione dell'elettorato chiesto da Erdogan. Questo in Turchia, ma come ha votato la diaspora curda nel Mondo? Sostanzialmente a favore di Erdogan. In Europa HDP vince in Italia (anche se di soli 7 vot), Svizzera, Polonia (di 3 vot su AKP), Regno Unito e Finlandia. Erdogan strappa il grosso dei voti in Germania, Francia, Svezia, Austria ecc. Nel resto del mondo è quasi solo AKP, con ancora una grossa tenuta da parte di CHP che vince negli Stati Uniti, Russia, Spagna, Cina ecc. Il progetto del confederalismo democratico Se è vero che le elezioni del 1° Novembre passeranno alla storia come “il voto della paura” ed il “trionfo di Erdogan” ci sono alcuni dati oggettivi su cui ragionare. Intanto se è vero che Erdogan ha conquistato la maggioranza assoluta, lo è anche il fato che per cambiare la costituzione ed attuare la riforma in chiave presidenzialista deve avere 367 deputat (al momento ne ha 317) o 330 per votarla in parlamento e poi metterla a verifica attraverso un referendum popolare. Parlare di sconfitta di HDP, oltre ad essere ingeneroso, non sta nella realtà dei fatti. Può dichiararsi sconfitto un partito che alla seconda volta che si presentava alle elezioni prende più di 5 milioni di voti? Può dirsi sconfito un partito che è arrivato a queste elezioni tra arresti, minacce, attacchi, bombe in piazza, militanti assassinati e nessuna campagna elettorale? Il dato più interessante di queste elezioni arriva da quelle zone in cui Erdogan ha colpito più duramente. Sono le zone del Kurdistan Turco ad aver sostenuto con un plebiscito l'HDP ed il progetto politico che ci sta dietro, ovvero il confederalismo democratico. Sono i quartieri e le città sottoposte a coprifuoco, attaccate dall'esercito e in cui sono stati fatti veri e propri massacri ad aver urlato forte EDI BESE! (ORA BASTA!). Lì dove le dichiarazioni di autogoverno ed autonomia democratica si sono succedute una dopo l'altra, lì dove il sistema del confederalismo democratico è stato applicato dal basso e dal popolo, dove sono state istituite le comuni (assemblee di quartiere), le commissioni per l'autodifesa, l'istruzione, l'arte, il dirito ecc., sono state create cooperatve economiche e la parità di genere è più vicina che mai, è lì che HDP ha consolidato il proprio consenso. In quelle città, come Lice, Cizre, Nusaybin, Yuksekova, Silvan ecc., l'HDP ha preso percentuali quasi sempre sopra il 90% (aumentando anche rispetto a Giugno), segno tangibile che nè i massacri, nè la repressione più spietata, ne l'orrore di vedere bambini, donne e uomini uccisi, può fermare il cammino di vera democrazia e pace che si è messo in moto in Kurdistan. (fonte: Dinamopress) link: http://www.dinamopress.it/news/ecco-perche-lhdp-non-ha-perso-le-elezioniin-turchia Recensioni Libri L’ultimo dialogo. La mia vita incontro all’Islam – Recensione di Cinzia Picchioni Georges Anawati, L’ultimo dialogo. La mia vita incontro all’Islam, Marcianum Press, Venezia 2010, pp. 124, € 11,00 “Questo libro nasce come trascrizione di un’intervista in più puntate che due professori universitari egiziani fecero a Padre Georges Anawati poco prima che questi morisse”. “Durante una delle nostre visite, nell’autunno del 1992, gli manifestammo il desiderio di pubblicare alcune delle nostre conversazioni, perché credevamo che esse fossero molto importanti dal punto di vista culturale e umano. Infatti le sue esperienze nella società abbracciavano molti luoghi e periodi, costituendo così una porzione viva della storia culturale dell’Egitto contemporaneo. Le sue esperienze personali illuminavano aspetti della vita di un uomo tutto dedito a fare il bene senza perdere il sorriso, di uno studioso alla ricerca della verità, di un religioso convinto della sua fede, di un mistico che aveva fatto suo l’amore per l’umanità. A differenza di quanto temevamo all’inizio, non ci dovemmo sforzare molto per persuaderlo ad accettare la nostra proposta, convinto com’era della necessità di condividere un dialogo umano di ampia portata […]. Gli incontri si svilupparono numerosi per più di un anno e fino agli inizi del 1994, mentre cresceva l’affetto e l’intimità tra noi. Poi tacque e il suo silenzio ci riempie di dolore”, pp. 45-46, nella Prefazione all’edizione araba Di chi stiamo parlando? “Georges Anawati è un personaggio fuori dal comune per almeno tre ragioni: cristiano orientale, ha passato gran parte della sua vita a studiare e far meglio comprendere l’Islam nel mondo cristiano, fatto abbastanza raro, se si considerano le paure e i pregiudizi ereditati dal passato, soprattutto tra i Cristiani d’Oriente. Egli ha dato un grandissimo contributo all’emergere del dibattito sull’Islam e sulle religioni non cristiane al Concilio Vaticano ii, aiutando la Chiesa cattolica a sviluppare una visione più positiva del tema. Infine, Georges Anawati ha capito molto presto che l’incontro con il mondo dell’Islam sarebbe stato facilitato se ci 15 si fosse posti innanzitutto a livello culturale e non sul piano strettamente religioso”. “Allievo” di Maritain “Si unisce al noviziato dei Domenicani in Francia nel gennaio del 1934 – a 29 anni – non senza aver dovuto affrontare forti resistenze familiari. Ma è determinato. Sulla nave che lo conduce da Alessandria a Marsiglia scrive a Jacques Maritain: “Non dirò che Lei mi ha convertito […]. La verità è più semplice ma più concreta: ha reso il mio cattolicesimo coerente e intelligente” (diario del 23 gennaio 1934)””, pp. 19-20. “Anche se molti furono gli interessi di Georges Anawati, senza dubbio il principale fu quello filosofico: discepolo di Maritain e San Tommaso, Anawati si tuffò fin da giovane nello studio del pensiero arabo-islamico medievale: Averroè, al-Ghazâli e, soprattutto, Avicenna sono i nomi che con più frequenza ritornano in questo Ultimo dialogo, come interlocutori vivi con i quali intrattenersi”. Parole e note “Il libro offre così importanti elementi per una storia culturale dell’Egitto novecentesco che rimane a oggi ancora tutta da scrivere. Anche per questo si è ritenuto di corredare il testo di numerose note biografiche, pensate come un primo aiuto in questa direzione”. (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2015/10/30/lultimo-dialogo-la-mia-vita-incontroallislam-recensione-di-cinzia-picchioni/