Clicca qui - C`era una volta l`«America

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NEWSLETTER DEL
CISPEA SUMMER SCHOOL NETWORK
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NUMERO 3 ~ PRIMAVERA 2012
Questo numero è stato curato da: Matteo Battistini, Alberto Benvenuti,
Cristina Bon, Francesca Cadeddu, Andrea Casati, Michele Cento,
Chiara Corazziari, Paola Cordisco, Lorenzo Costaguta, Matteo Fornaciari,
Angela Santese, Andrea Saviolo
Per iscriversi alla newsletter:
http://cispeanetwork.hosted.phplist.com/lists/
Indice
Presentazione del numero 3 della newsletter p. 2
La corsa repubblicana verso la Casa Bianca p. 3
Il conservatorismo americano e la modernità europea (Tiziano Bonazzi) p. 7
I repubblicani e lo stato sociale (Maurizio Vaudagna) p. 24
Occupy Wall Street and the Tea Party (Ronald P. Formisano) p. 29
Contraception at the Tea Party: The American right-wing travels even further to
the right (Linda Gordon) p. 31
Recensione de “Gli spot elettorali nelle campagne presidenziali americane: forme,
immagini, strategie” (Chiara Corazziari) p. 41
VIII Summer School CISPEA p. 46
Gli abstract e i curricula del Terzo seminario per giovani americanisti sono
consultabili nella versione html della newsletter, all’indirizzo: http://www.cispea.
org/allegati/newsletter/newsletter3.html.
Presentazione del
numero 3 della
newsletter
I
l tema cardine attorno cui ruotano i contributi di questo terzo numero della
newsletter è quello del conservatorismo americano e delle sue diverse decli­
nazioni storico-politiche. La questione è evidentemente di estrema attualità, dato
che, almeno dall’elezione di Obama al seggio presidenziale nel novembre 2008– e
complice la crisi economico finanziaria mondiale – gli Stati Uniti hanno assistito
al progressivo emergere di campagne e mobilitazioni politiche che non potrebbero definirsi altro se non conservatrici. Accanto ad una rinnovata diffidenza nei
confronti della classe politica federale e della spesa pubblica centrale, soprattutto
in materia di welfare, i nuovi movimenti conservatori riesumano problemi ormai
dati per risolti almeno dagli anni Settanta, come la questione del birth control, tornata sotto i riflettori della stampa nazionale proprio in occasione della presente
campagna presidenziale.
Dopo un nostro breve articolo che ripercorre i temi salienti della primarie repubblicane, pubblichiamo quattro contributi di autorevoli studiosi, italiani ed internazionali. Tiziano Bonazzi (Università di Bologna), Maurizio Vaudagna (Università del Piemonte Orientale), Ronald Formisano (University of Kentucky) e Linda
Gordon (New York University), ci aiutano a dipanare la matassa aggrovigliata del
pensiero conservatore, evidenziandone gli elementi peculiari e, a volte, contraddittori. Nel primo dei contributi qui pubblicati, Tiziano Bonazzi si interroga sulle
origini, gli sviluppi e le sfide attuali del “conservatorismo” americano e della sua
base socialmente trasversale.
Il discorso storico-teorico del prof. Bonazzi costituisce la perfetta premessa per
inquadrare i due contributi seguenti, che dimostrano una recente riaffermazio­ne
delle posizioni conservatrici sui temi rispettivamente del welfare (M. Vaudagna) e
del birth control (L. Gordon), responsabile di aver rimesso in discussione alcune
fondamentali conquiste politico-sociali degli ultimi sessant’anni. Chiude la riflessione l’articolo di Ronald Formisano, che delinea l’eccezionalità del movimento
Occupy, riuscito nell’impresa di strappare al Tea Party e alle ali più estreme del conservatorismo repubblicano, il monopolio della protesta contro la crisi economica.
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La corsa
repubblicana
verso la Casa
Bianca
D
opo il ritiro del candidato conservatore Rick Santorum, le primarie repubblicane sono arrivate a un punto di svolta, con Mitt Romney ormai sicuro
vincitore della nomination del Grand Old Party. In questi mesi di campagna elettorale sono stati molti i temi che hanno animato il dibattito politico repubblicano,
talvolta causando forti spaccature all’interno del partito stesso.
Lo scorso gennaio, alla vigilia delle primarie in South Carolina, la questione
religiosa ha catalizzato l’attenzione dei media durante la campagna elettorale.
Nella culla del fondamentalismo protestante, il mormone Mitt Romney ha dovu-
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Vignetta pubblicata sul Daily Telegraph che rappresenta l’elefante del GOP esausto
ancora prima di iniziare le primarie. L’abbiamo scelta come immagine del nostro
profilo Facebook: https://www.facebook.com/ceraunavolta.lamerica.
to affrontare due sfidanti cattolici con posizioni decisamente conservatrici su
tematiche come famiglia, aborto, omosessualità. Nonostante la vittoria di Newt
Gingrich, non sembra che la fede religiosa abbia avuto un ruolo determinante alle
urne. È il definitivo declino della Christian Right? Per approfondire: https://www.
facebook.com/note.php?note_id=125137150939796.
Conquistare i voti dell’elettorato ispanico è stato uno degli obiettivi dei candidati in occasione delle primarie in Florida, uno degli stati maggiormente rappresentativi delle diversità etniche degli Stati Uniti. Qui i repubblicani hanno cercato
di disfarsi dell’etichetta di partito anti-immigrazione snocciolando promesse in favore degli elettori di origine latinoamericana nel caso fossero diventati presidenti.
Ma chi sono questi latinos? Come hanno votato? Quale potrebbe essere l’impatto
del loro voto a livello nazionale? Per approfondire: https://www.facebook.com/
note.php?note_id=132091256911052.
A metà febbraio si è tenuta la Conservative Political Action Conference, la conferenza che ogni anno riunisce gli attivisti, i politici e gli intellettuali di spicco del
movimento conservatore per cercare di influenzare le politiche del partito repubblicano. Nel tentativo di rappresentare al meglio gli ideali del movimento conservatore, i candidati hanno spostato a destra la loro retorica politica facendo e­spliciti
riferimenti a due simboli del conservatorismo statunitense, Ronald Reagan e
Barry Goldwater. Per approfondire: https://www.facebook.com/note.php?note_
id=146249405495237.
Economia e immigrazione hanno invece caratterizzato il dibattito elettorale
in Michigan e Arizona. La retorica anti-labor e anti-welfare dei candidati è stata
il denominatore comune delle primarie in questi due stati. In Michigan tale retorica è stata funzionale alla proposta di una politica di rilancio per quest’area, ora
economicamente depressa, che un tempo fu il motore trainante della Rust Belt.
Nel dibattito in Arizona, per contrastare l’immigrazione illegale, i candidati hanno
invece proposto di ridurre al minimo il sistema di welfare così da scoraggiare gli
i­spanici ad emigrare negli Stati Uniti. Per approfondire: https://www.facebook.
com/note.php?note_id=155231271263717.
A marzo il Super Tuesday è stato uno spartiacque nella corsa alla nomination
e, come spesso era accaduto in precedenza, Romney ha vinto senza stravincere.
È stata la tornata elettorale in cui le differenze tra lui e la coppia preferita dai conservatori Gingrich-Santorum si sono delineate con maggior decisione, arrivando
talvolta ad uno scontro frontale che potrebbe aver danneggiato il partito repubblicano in vista delle presidenziali. Obama ringrazia. Ma quali sono le ragioni che
rendono il Super Tuesday così importante? Quando venne deciso di utilizzare
un’unica data per le primarie in più stati contemporaneamente? Per approfondire:
https://www.facebook.com/note.php?note_id=157075594412618.
Concentrati a fornire ricette per uscire dalla crisi statunitense, i candidati
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repubblicani non hanno dedicato molto spazio alla politica estera. Nonostante
questo, i rapporti con l’America Latina, la delicata questione nucleare iraniana e
la questione siriana hanno permesso un confronto tra i candidati che potrebbe
darci una prospettiva della futura politica estera degli Stati Uniti nel caso in cui un
GOP venisse eletto. Per approfondire: https://www.facebook.com/note.php?note_
id=160177954102382.
Negli ultimi mesi si è rinvigorito lo scontro tra l’amministrazione Obama e
la Conferenza Episcopale statunitense sugli aspetti applicativi della riforma sanitaria promossa dal presidente. In particolare, i vescovi condannano tutta la parte
riguardante il birth control, nella misura in cui ritengono violato l’esercizio libero
della loro religione. Quali sono i termini del confronto e le incognite che le posizioni della Chiesa lasciano in sospeso? Per approfondire: https://www.facebook.
com/note.php?note_id=163709817082529.
Con le elezioni in Alabama, Mississippi, Illinois e Louisiana Mitt Romney ha
affrontato gli elettori di tre stati del Deep South, nei quali Gingrich e Santorum speravano di poter attirare molti voti, e ha fatto i conti con quelli dell’Illinois, nel cuore
dello stato dove Obama è stato senatore e dove tutt’ora il suo indice di gradimento
è molto alto. Nonostante le evidenti difficoltà incontrate, questa tornata elettorale
è stata importante perché ha lanciato definitivamente Romney verso la candidatura repubblicana. Per approfondire: https://www.facebook.com/note.php?note_
id=169471223173055.
Le prime elezioni dopo il ritiro di Rick Santorum, ufficialmente per motivi familiari, hanno visto Mitt Romney gareggiare contro sé stesso in Delaware, New
York, Connecticut, Pennsylvania e Rhode Island. Più che da un punto di vista elettorale, le elezioni in questi stati sono state importanti per testare la credibilità del
candidato repubblicano alla Casa Bianca a livello nazionale. Utilizzando una decisa retorica anti-Obama, nel tentativo di convincere anche l’ala più conservatrice
del partito, Mitt Romney ha ufficialmente iniziato la campagna elettorale per le
presidenziali di novembre. Per approfondire: https://www.facebook.com/note.
php?note_id=192575640862613.
La crisi economica ha riproposto gli aspetti problematici della questione
dell’intervento dello stato nell’economia. Per uscire dalla recessione, riemergono
tra l’opinione pubblica e sui giornali modelli di azione economica consolidati in
momenti storici e in fasi economiche profondamente diversi dal nostro, in particolare Keynes e Hayek negli anni Trenta e Quaranta, generando l’idea che le elezioni del prossimo novembre siano decisive per la scelta di un preciso modello economico e culturale. Quali settori della società beneficeranno della distribuzio­ne
delle risorse pubbliche? Riuscirà Obama a rispettare gli impegni presi nello ‘State
of the Union’ e risollevare la fiducia degli elettori nel governo dopo 30 anni di conservatorismo reaganiano e liberalismo clintoniano? Per approfondire: https://
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www.facebook.com/note.php?note_id=196809313772579.
Il birth control è sempre stato una questione politica dai risvolti etici ampiamente dibattuta negli Stati Uniti. In particolare negli ultimi mesi, da quando il
controllo delle nascite è stato inserito tra i servizi previsti dal piano di sanità pubblica di Obama, i repubblicani si sono opposti con decisione al provvedimento,
portando il dibattito su un vero e proprio scontro ideologico con i democratici.
Ma quando è iniziata la battaglia sul birth control? Quali sono state le prime atti­
viste che tra Otto e Novecento hanno iniziato questa coraggiosa campagna verso
l’emancipazione femminile? Per approfondire: https://www.facebook.com/note.
php?note_id=203967673056743.
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lcuni siti di giornali, blog e di istituti di ricerca sull’opinione pubblica per te­
nersi aggiornati sulla corsa alla Casa Bianca di quest’anno:
http://www.nytimes.com,
http://www.politico.com,
http://www.washingtonpost.com,
http://www.thenation.com,
http://www.huffingtonpost.com,
http://www.washingtontimes.com,
http://www.chicagotribune.com,
http://bostonglobe.com,
http://www.bostonherald.com,
http://www.latimes.com,
http://www.thenation.com,
http://www.commentarymagazine.com,
http://www.tnr.com,
http://www.realclearpolitics.com,
http://www.sfgate.com,
http://www.caffeamerica.com,
http://www.gallup.com/poll/election.aspx,
http://pewresearch.org/topics/election’12.
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Il conservatorismo
americano e la
modernità europea
Tiziano Bonazzi (Università di Bologna)
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N
egli Stati Uniti il conservatorismo gode di ottima salute e nessuno che si senta conservatore si vergogna a gridare il proprio orgoglio. Anni fa ricordo un
collega di ottime rendite che, tornato dal suo primo viaggio oltreatlantico, con aria
sognante mi diceva che finalmente aveva trovato un paese dove nessuno si vergognava a dirsi ricco. Oggi vale lo stesso per i conservatori: vale là, perché in Italia
tutti si dichiarano almeno liberali. Però è anche vero che neppure in America il
termine conservatorismo è sempre stato di moda. Nell’Ottocento e fin dentro il
Novecento non ci si fregiava di un termine che era considerato estraneo al vocabolario e alla realtà di un paese libero. Conservatrice era l’Europa nemica della
libertà; tanto è vero che un Partito Conservatore poté nascere in Inghilterra già
nella prima metà dell’Ottocento, ma mai negli Stati Uniti. Oltreatlantico per sentire
di un movimento che si autodefinisce conservatore dobbiamo aspettare gli anni
Cinquanta del Novecento e solo dagli anni Settanta l’orgoglio conservatore si è
consolidato e i conservatori si trovano dappertutto.
C’è il milionario, che non ha più il sigaro, pancia e cilindro delle vignette anti-capitaliste perché non son più di moda, però lo riconosci lo stesso, non per il
look da fitness center e la candida dentatura perfettamente rifatta che condivide
con qualunque upper class liberal, ma per il disprezzo scattante verso tutto e tutti
tranne se stesso che emana da ogni suo movimento. E in tante small town trovi
pure la classica coppia anziana del quadro di Grant Wood – solo che invece del
forcone hanno il tagliaerba –, lo sguardo assente e la bocca tirata, che anche senza
parlare ti apostrofano: “Chi sei straniero?”, sottintendendo che sei un peccatore irredento. O la loro controparte urbana, le donne in jeans rosa straboccanti di grasso,
un I love America in lustrini rossi e blu cucito sulla T-shirt che trasuda mammelle,
Mountain Dew in una mano e chipster al chili nell’altra. O ancora lo yuppie, figura
un po’ sbiadita ma classica, in abito sartoriale, che con mobile phone e computer
insegue titoli di borsa come fossero farfalle. O il marine tutto patria e onore dalla
mascella quadra oppure il poliziotto happy trigger e mena-negri. O un signore di
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buone letture, ottimo conoscitore di musica, che ti porta in un ristorante italiano
di Buffalo o Minneapolis e fa di tutto per metterti a tuo agio ricordando con geografica precisione quella volta che vide il Tevere a Roma, l’Arno a Firenze, il Canal
Grande a Venezia e sorvola sull’intrinseca e inarrivabile superiorità americana. O
i “Guidos” italo-americani, come il palestrato ethnic di Brooklyn con Gesù tatuato
su un braccio e lo Stivale sull’altro che ti osserva schifato e pensa chiaramente che
sei un italiano fasullo perché sei rimasto in quel comunistaio dell’Italia. E gli ope­
rai delle officine d’auto che hanno sudato trent’anni per mantenere la famiglia e
non vogliono che quegli smidollati di intellettuali che non hanno mai “prodotto”
niente gli dicano cosa debbono fare solo perché sono in combutta con the government ed è colpa loro se la casa per cui si è lavorato tanto sta per essere pignorata.
E i venditori d’auto alla Danny De Vito, minimal self-made man che non vogliono
tasse a rubargli i soldi che rubano ai clienti. O anche i massicci specialisti da think
tank, parallelepipedi umani senza traccia di humour, cravattina stretta e parlata
rabbiosa. È uno zoo di tipi umani vario e per nulla noioso quello conservatore, che
proprio la sua varietà invita a esplorare per coglierne le origini e le idee.
Subito, però sorge un problema, dobbiamo analizzare soltanto gli individui e
i gruppi che si definiscono conservatori oppure bisogna cercare una definizione
oggettiva che vada al di là delle autoidentificazioni? Nel “Manifesto del partito
comunista” Marx ed Engels, attaccando le varie forme di socialismo utopistico,
definirono socialismo conservatore ovvero borghese quello di Proudhon: “conservatore ovvero borghese”. Conservatore da allora in poi divenne il termine con
cui definire ogni forma di teoria e di azione politica o sociale che si muove, consciamente o meno, nell’interesse della borghesia capitalista e contro il proletaria­
to. Una definizione forte e oggettiva che ha avuto peso per oltre un secolo, finché
hanno retto o hanno potuto in qualche modo essere considerate plausibili le condizioni sociali ed economiche in cui il Manifesto era stato scritto.
Gli storici americani, che da una ventina d’anni si sono accorti, bontà loro,
che c’è un mondo fuori dall’accademia e che lì i conservatori sono a bizzeffe, hanno preso a esplorare con l’agguerrito scientismo e lo spirito imprenditoriale che
li caratterizza i movimenti che si definiscono conservatori a partire dal secondo
dopoguerra, vale a dire le due generazioni degli old e dei new conservatives, scoprendo la grande varietà delle loro idee. Ciò che li ha davvero sconvolti, però, è
stato accorgersi del radicamento, spessore organizzativo e capacità di attrazione
dei conservatori. Non basta. Gli storici, si sa, amano le origini e i miti delle origini
– non per nulla sono nati ricostruendo a ritroso dinastie reali fino a Dei o eroi
fondatori –, per cui non si sono accontentati di cercare negli ultimi sessant’anni;
ma hanno cominciato a risalire oltre, al New Deal, agli anni Venti e ancora più indietro, anche se qui, vista la scarsità di self-styled conservatives, si sono scontrati
con la necessità di dare una qualche definizione oggettiva al termine. La mag-
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gioranza, ad esempio Patrick Allitt (2009), noto studioso di storia religiosa, si accontenta di parlare del conservatorismo americano dai Federalisti a oggi come di
un “atteggiamento” di fronte al mutamento politico e sociale che preferisce ciò
che si è sviluppato ed è stato testato nel tempo ai tentativi di modificare la realtà sociale con strumenti razionali e scientifici. Allan J. Lichtman (2008), invece,
definisce conservatore chi è fedele a un’idea di nazione americana legata agli imperativi della Bibbia, alla tradizione dell’autodisciplina e del duro lavoro, al principio dell’uguaglianza nelle possibilità e non nei risultati sviluppati dai coloni bianchi protestanti fin dal Settecento. Non per nulla nel suo libro egli tratta della
“destra moderna”, a partire dagli anni Venti del Novecento, quando un’America
urbana popolata di immigrati e di neri, legata a una cultura scientista e umanista
e ai consumi di massa, cominciò a mettere in forse gli antichi ideali americani, a
costruire una società “artificiale” e aprì la strada alla reazione conservatrice contro
una simile degenerazione. La storia di Lichtman è sostantiva e del tutto americana; quella di Allitt, invece, è procedurale, non dà definizioni sostanziali, ma parla
di una attitude applicabile anche al di fuori degli Stati Uniti.
L’atteggiamento “procedurale” o, se si vuole, “situazionale” è seguito anche da
molti studiosi del conservatorismo dei paesi europei, che solo trattandolo sub specie di una reazione temperamentale, ideologica o politica nei confronti del rapido
mutamento che ha caratterizzato la storia europea dal Settecento in poi, riescono a
dare una qualche unità a un fenomeno estremamente vario e mutevole. D’accordo;
ma temo sia un po’ poco.
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D
al momento che non ho né la forza intellettuale, né le conoscenze per scrivere
un nuovo “Manifesto”, mi limiterò a fornire una traccia, non solo malsicura,
ma limitata nei contenuti, per gettare uno sguardo sul significato culturale e politico del conservatorismo americano come parte, sia pure originale, di un fenomeno più vasto proprio dell’età moderna.
Prendo le mosse da un’osservazione compiuta, ma non sviluppata, da Zeev
Sternhell, in un massiccio, farraginoso libro (Sternhell 2007 [2006]) in cui esamina un gran numero di autori che, a partire da Edmund Burke e Johann Gottfried
Herder nel Settecento, hanno combattuto l’universalismo dei Lumi sostenendo
un’interpretazione delle vicende umane fondata non sui diritti e su proposizioni
universali, ma sulla storia, sulla tradizione e i costumi, sul particolarismo, sulla
centralità delle specificità culturali, da cui la sfiducia in ogni cultura politica che
creda “nella capacità e nel diritto della ragione di plasmare la vita degli uomini”
(ibid., 22). È questo “l’antiilluminismo”, che Sternhell non condivide affatto, ma del
quale parla non come di una “contromodernità”, bensì come di “un’altra modernità” (ibid., 19), opposta a quella illuminista. Il punto è interessante, perché se la
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storia della modernità non si fonda su un pilastro solo, ma su due, anche se fra loro
contrapposti, il conservatorismo, che in parte si sovrappone all’antiilluminismo,
può essere visto in una luce diversa. Non più solo nemico del nuovo, della ragione
e della libertà che si dispiegano nella storia; ma parte integrante della modernità
anche quando la critica e vi si oppone. Il conservatorismo, insomma, è moderno
anch’esso.
Se si intende sostenere che il conservatorismo non si contrappone alla modernità; ma è una delle sue facce – e questo non solo perché la sua storia si svolge
all’interno dell’età moderna e da essa è strutturata, bensì in quanto ha un proprio
modello di modernità –, allora bisogna almeno accennare a una distinzione fra
conservatorismo e reazione. I due termini vengono spesso intesi come due momenti, uno moderato e uno radicale, dello stesso fenomeno; ma, anche se la realtà storica è spesso complessa e difficile da interpretare, a livello di estrapolazione
teorica ritengo che possiamo parlare di due fenomeni diversi. L’importante è tener
presente cosa si sta facendo, perché, ad esempio, l’analisi storica di un fenomeno
circoscritto e un tentativo di interpretazione generale hanno scopi diversi e individuano ognuno fenomeni
parziali. Né l’una, né l’altro
svelano il vero; ma entrambe ipotizzano “oggetti utili”
che se, così come ipotizzati, hanno sufficienti ri­
scontri empirici sono usa­
bili finché risultano utili.
Su questa base possiamo
valutare quelli che spesso
sono considerati i due padri del conservatorismo,
Burke e Renée de Chateaubriand, al quale ultimo si fa
spesso risalire il primo uso
del termine, a partire dal
giornale Le conservateur
che contribuì a fondare nel
1820. Burke, infatti, accetta la Gloriosa rivoluzione del 1688 e le sue conseguenze politiche, per cui è un fautore della novità storica di una Camera dei Comuni
diventata nel Settecento perno di quel complesso equilibrio istituzionale fra re,
Camera dei Lord e Camera dei Comuni che costituisce in senso tecnico il Parlamento inglese – anche se rifiuta, ideologicamente, di considerarla qualcosa di
diverso dalla tradizione – e teorizza il partito politico, vera, grande innovazione
della politica. Allo stesso modo accetta in pieno la rivoluzione commerciale del
Settecento di cui l’Inghilterra è punta di lancia e la conseguenza di questa, la colonizzazione dell’India, che costituisce l’exemplum di quell’aspetto intrinseco alla
modernità che è l’espansione coloniale europea. In tutti questi sensi è un costruttore della modernità nel momento stesso in cui, in nome della tradizione inglese,
è un nemico della Rivoluzione e dell’universalismo francesi. Burke è un conservatore. Chateaubriand si colloca, invece, su un piano diverso. Rifiuta, infatti, la
modernità che si è venuta delineando a tutti i livelli con la Rivoluzione francese e
con la razionalizzazione napoleonica dello stato. Il suo proposito è tornare indie­
Il conservatorismo non si
contrappone
alla
modernità; ma è una
delle sue facce
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tro, ricostituire il passato prerivoluzionario, proporlo come eternamente valido in
quanto fondato su due presupposti che egli considera molto più certi del razionali­
smo astratto degli illuministi, l’ordine sovrannaturale rivelato e il sentimento, che
è in grado di penetrare fino al fondo più vero dell’animo umano. Chateaubriand è
un reazionario.
L’operazione appena compiuta, “general-generica” come chiunque può facilmente definirla, consente di dare un senso altrettanto general-generico al termine
conservatorismo. Il che non mi è di grande consolazione; ma è quanto mi trovo
fra le mani. Un senso che, a mio avviso, va studiato nell’intreccio fra lo sviluppo
della struttura socio-economica del capitalismo, che con le sue contraddizioni,
fratture e vittorie caratterizza la modernità, e la cultura politica che ha consentito di parlarne, di interpretarla, di combatterla o sostenerla, insomma, di agirla.
Al che, tuttavia, occorre aggiungere che del conservatorismo occorre studiare le
manifestazioni concrete nei singoli paesi o, meglio, nei singoli stati-nazione che
si formarono col nascere della modernità capitalista e che l’hanno accompagnata
lungo la sua storia fino a un ieri che in parte non indifferente è ancora un oggi.
Nei singoli stati-nazione o, meglio, in quello che a mio avviso è il sistema degli stati-nazione della Grande Europa euro-americana che forma il quadro istituzionale
in cui la modernità si è data, quest’ultima è sorta in modi specifici e differenti, ma
tutti sistemicamente uniti in un modello unico di civilizzazione.
3
P
arlare di uno specifico conservatorismo americano, quindi, è possibile anche
al di là dei movimenti politici che negli ultimi sessant’anni negli Stati Uniti si
sono definiti conservatori. Anzi, visto che la modernità capitalista ha trovato negli
Stati Uniti il luogo per eccellenza del suo affermarsi, studiare il conservatorismo
americano non è cosa di poco conto.
Fino agli anni Sessanta del Novecento non sembrava che oltreatlantico potessero fiorire dei conservatori, a meno che non si facesse parte di un altro gruppo
di peccatori antiamericani, i marxisti, per i quali, però, tutta l’America era conservatrice. Né gli uni, né gli altri, in ogni caso, avevano spazio politico e culturale
nel paese del pluralismo, della democrazia e del benessere, insomma, della li­bertà.
Non per nulla il grande storico liberal Richard Hofstadter definì i conservatori
americani un gruppo di disadattati dai tratti paranoidi affetti da status anxiety in
quanto incapaci di vivere in una società aperta e in continuo mutamento come
quella americana (Hofstadter 1964). Un gruppo, poca gente, e in effetti negli anni
Cinquanta i self-styled conservatori raccolti attorno a William Buckley jr. e alla
National Review o gli intellettuali alla Russell Kirk o alla Richard Weaver non trovavano spazio nella politica nazionale, tanto da essere tenuti ai margini anche
dall’Amministrazione Repubblicana di Dwight Eisenhower, che a loro volta essi
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non consideravano conservatrice. La tesi di Hofstadter, tuttavia, ci dice assai di più
sulla cultura psicologizzante e sociologica – tutto sommato positivista – degli Stati
Uniti di quegli anni che sui conservatori. Ci dice assai di più anche sul modo in cui
la cultura e il capitalismo statunitensi uscirono dal nodo scorsoio della durissima
lotta di classe di fine Ottocento (sì, la lotta di classe non è stata solo europea, checché ne dica una vulgata stantia) e poi ancora dal buco nero della crisi del 1929.
Con la speranza di cogliere qualcosa della questione pur ipergeneralizzando,
ritengo si possa dire che gli Stati Uniti attenuarono la lotta di classe e la resero
gestibile a causa della radicalità del capitalismo americano. A fine Ottocento le
classi dirigenti economiche, rese insicure dall’assenza di rendite di posizione sociali, come era ad esempio il caso in Inghilterra, da una concorrenza accanita e
spesso distruttiva e da una situazione sociale pericolosamente instabile, si affidarono si alla repressione, ma diedero spazio anche all’opera di una new middle
class (Wiebe 1967) di tecnici e di scienziati cresciuti in un’anglo-tedesca cultura
scientista e organizzativista sostenuta da una rigorosa etica protestante del lavoro
e della responsabilità. Da qui il riformismo sociale efficientista dell’Età progressista
fra Otto e Novecento, che partì dalle città e dagli stati e con il Presidente Theodore Roosevelt raggiunse il livello federale. Accanto a ciò non dobbiamo, tuttavia, dimenticare la scoperta che, in una società che si avvicinava ai cento milioni
di abitanti sparsi su un territorio immenso, con molti nuclei di rapidissima urbanizzazione e un mercato che ferrovie e telegrafo avevano reso continentale, la
produzione di massa di beni di discreta qualità e poco prezzo, per i quali anche
un profitto unitario minimo era bilanciato dalle enormi quantità vendute, spinse
l’intero sistema economico a puntare su quella che in pieno Novecento sarebbe
diventata la società dei consumi. Il risultato fu duplice, lo spazio economico per
i produttori si ampliò rassicurandoli e l’antagonismo sociale prese a essere recuperato con l’aumentare del benessere. Il crescente ruolo politico del governo, le
politiche economiche di tipo keynesiano, il primo sorgere di un sistema di welfare
dopo il 1932 e successivamente la spinta nazionalista di una guerra combattuta per
la libertà nel mondo, portarono nel dopo guerra il paese a ritenere di aver risolto
i grandi problemi otto-novecenteschi della povertà, dell’ingiustizia, della lotta di
classe. Nell’America trionfante i conservatori non potevano essere che dei devianti
inconsciamente nemici della libertà e del paese, così come i comunisti lo erano
consciamente.
I conservatori, tuttavia, esistevano e, per quanto politicamente marginali, erano radicati nella società americana e agivano non solo con i loro intellettuali, ma
attraverso associazioni politiche e di vicinato, case editrici, chiese, gruppi universitari. Lasciato Hofstadter a dormire in uno di quei palchetti nascosti delle biblioteche da cui si alzano nuvolette di polvere per il gran russare che fanno i libri non
letti – anche se varie sue cose, ad esempio sull’ossessione cospiratoria dei con-
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servatori dell’epoca, sono corrette –, proviamo a capire come e perché il conservatorismo, all’insegna del “neoconservatorismo”, negli anni Settanta riuscì a conquistare il Partito repubblicano, a salvarlo dalla débacle delle dimissioni di Richard
Nixon nel 1974 e a portarlo alla vittoria nel 1980 con Ronald Reagan.
Da un punto di vista politico ed elettorale la cosa si manifestò con il progressivo sfaldarsi, a partire dalle presidenziali del 1968, della cosiddetta “coalizione
newdealista” del Partito Democratico che aveva dominato la politica americana dal
1932 anche quando alla presidenza vi era il Repubblicano Dwight Eisenhower. Una
coalizione composita e anche contraddittoria, che si fondava su un patto neocorporativo fra big government, big business e big union all’insegna del growth, della
crescita economica che nutriva la società dei consumi, da privilegiare su ogni altra
questione. Ne facevano parte la middle class urbana riformatrice di ascendenza
progressista; gli operai soprattutto della grande industria in cui forti erano i sindacati; gli impiegati pubblici che nell’accresciuto ruolo del governo trovavano pre­
stigio e possibilità di carriera; gli insegnanti e il mondo accademico e della cultura
indispensabili allo sviluppo della modernità; molti manager e industriali certi della
bontà della concertazione sociale e del keynesismo per attivare la crescita; il mondo delle chiese progressiste più o meno vicine al movimento del Social Gospel; i
gruppi etnici dell’immigrazione di fine Ottocento come gli italiani, i polacchi, gli
ebrei che il Partito Democratico aveva integrato nella società americana; gli agricoltori bisognosi del sostegno pubblico, nonché il Sud, Democratico fin da prima
della Guerra civile e felice anch’esso degli investimenti pubblici in un contesto
economico di scarso benessere. Una coalizione eterogenea e anche contraddittoria che viveva dell’idea di un’America in cui la lotta di classe non era mai esistita
e che muoveva verso la sconfitta della povertà, unita attorno ai valori della libertà
e dell’anticomunismo, del rispetto del prossimo e dei doveri verso Dio e la patria:
un’America ecumenica e senza fratture che si riconosceva nelle molte, ma piccole
13
varianti di un’indiscussa e unificante ideologia liberale, come scriveva lo storico
Louis Hartz (1960 [1955]).
La coalizione prese a perdere colpi quando le trasformazioni sociali e culturali
paradossalmente – o dialetticamente – innescate dalla stessa modernità presero a
mettere in mora il tessuto culturale e ideologico su cui essa si reggeva, a cominciare negli anni Cinquanta dalla segregazione e dalla discriminazione razziale. La
resistenza sudista alle leggi e alle politiche federali in materia divenne paura di
fronte al dilagare del radicalismo del Black power negli anni Sessanta e alla fine
del decennio ciò spinse il Sud nelle braccia dei repubblicani. Una scelta rafforzata
dal tradizionale attaccamento sudista ai diritti degli stati contro ogni ingerenza
federale e a un orgoglioso antistatalismo di matrice protestante evangelica, forte
anche quando la popolazione più povera aveva bisogno dell’intervento economico federale. Questo terremoto politico lo si può considerare una sorta di cartellino
giallo che gettava luce sulla profonda, radicata e sottovalutata costante anti-nera
che era una componente ineludibile di buona parte dell’americanismo progressista del mondo bianco.
Negli anni Settanta il cartellino giallo divenne rosso con le radicali trasformazio­
ni economiche e sociali che segnarono il tramonto del capitalismo fordista della
grande impresa manifatturiera e del keynesismo economico. La classe operaia del
Nord-est e del Middle West – in cui numerosissimi erano gli ethnic italiani, polacchi, cechi, ucraini, slavi balcanici –, di religione cattolica, ortodossa, ebraica o
appartenente a chiese protestanti mainstream come quelle presbiteriana, lutera­
na, episcopaliana, resa insicura dalla crisi economica alla quale il sindacato e il
Partito Democratico, che per decenni aveva avuto il loro voto, non trovavano un
rimedio, sconvolti dalla rivoluzione culturale in corso nel paese che metteva in
forse la famiglia patriarcale che aveva dato certezza alle loro vite, dal rude impat­
to del Black power e dalla rivoluzione politico-sessuale di femministe e gay, rifluì in un’alta percentuale nella rassicurante ideologia neoconservatrice che stava
conquistando il Partito Repubblicano. In questo caso siamo davanti a un gruppo
socia­le che da un paio di generazioni soltanto aveva conquistato sicurezza economica e che leggeva l’improvvisa crisi di cui era vittima come il portato di una
caduta dei valori che lo avevano sostenuto nel duro percorso di conquista di una
piena cittadinanza. Lo stesso, tuttavia, non può dirsi di altri gruppi che si riconobbero nel neoconservatorismo. È questo il caso dei professionisti e dei tecnici delle
città del sunbelt, le aree del Sud est che entravano al galoppo nell’economia dei
servizi, dai trasporti ai media alla sanità – si veda il caso di Atlanta, che era già Coca
Cola e stava per diventare UPS, poi CNN e uno dei massimi hub aerei del paese –,
e il Sud ovest californiano che iniziava l’avventura nel campo high tech, a cui occorre aggiungere la sempre più sofisticata industria legata agli armamenti che nel
sunbelt aveva il suo fulcro. Individualisti e rampanti in quanto operavano in un
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ambiente innovativo ed estremamente competitivo, lontani dal mondo dei sindacati, nemici della regolamentazione pubblica dell’economia che intralciava la
crescita dei settori in cui operavano, essi videro nel movimento neoconservatore
il pila­stro, a mio avviso culturale prima ancora che ideologico, del loro modo di vivere. Non siamo in questo caso davanti a un gruppo sociale sulla difensiva oppure
culturalmente e socialmente marginale, ma colto e innovativo che si identificava
con un’America ottimista, dinamica e pro-attiva. Almeno all’apparenza marginali
erano, invece, i protestanti evangelici, che seguivano una pratica religiosa centrata
sull’accettazione del tutto individuale dell’offerta di sé che Gesù ci propone. Da qui
la “rinascita”, un fenomeno spirituale che non ha bisogno di architetture dogma­
tiche o di disciplina ecclesiastica, ma di una fede assoluta e personale che trova la
sua ispirazione nella lettera dell’Antico e del Nuovo Testamento. Gli evangelici, che
avevano costituito il fulcro del protestantesimo ottocentesco, erano stati culturalmente marginalizzati dalla rivoluzione urbana e scientifica dell’America di inizio
Novecento ed erano scomparsi per mezzo secolo dall’orizzonte del paese, ridicolizzati dalla cultura modernizzante, tecnocratica e vieppiù laica del ventesimo secolo. In realtà si erano radicati nell’immensa provincia
americana, nel Bible belt
che dal profondo Sud della
Georgia e dell’Alabama si
estende a nord lungo il
Mississippi fino al Middle
West e alle Grandi pianure,
lo Iowa, i Dakota, il Nebra­
ska, dove avevano costituito un vastissimo network di i­stituti biblici, case
editrici, stazioni radio e
televisive, gruppi musicali,
scuole e università legati
a un pulviscolo di chiese
evangeliche battiste, metodiste, congregazionaliste,
pentecostali, indipendenti. Una sorta di controcultura rispetto al resto dell’America.
Negli anni Settanta gli evangelici, che poco si erano in precedenza interessati di
elezioni, posti davanti a una rampante scristianizzazione che a loro avviso indicava che il paese era nelle mani del Demonio e rischiava l’ira divina, trovarono nel
nascente neoconservatorismo e nel Partito Repubblicano un approdo sia culturale
che politico.
Il neoconservatorismo che da quarant’anni è protagonista della scena politica
ha, pertanto, radici sociali e culturali estremamente varie e addirittura contraddittorie e altre ancora se ne potrebbero esaminare, ad esempio nella piccola borghesia degli impiegati homeowner che temevano la perdita di valore della loro casa
per la crisi sociale ed economica, fra le madri che nell’unità della famiglia e nella
religione cercavano un rimedio ai pericoli che i loro figli correvano nella “giungla
d’asfalto” delle grandi città ovvero fra i cattolici, ormai più del 20% della popolazio­
ne, la cui critica al crasso individualismo e materialismo di tanta parte della vita
americana si articolava attorno al crollo dei valori morali.
Il neoconservatorismo ha
radici estremamente
varie
e
addirittura
contraddittorie
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Un terremoto sociale, quindi, che divenne terremoto politico e allontanò molti
americani dai lidi ritenuti ormai insicuri del liberalism per approdare al Partito
Repubblicano trasformato dal neoconservatorismo, così come nei quarant’anni
precedenti molti gruppi sociali – ad esempio i neri le cui origini politiche erano
nel partito di Lincoln, quello Repubblicano, ovvero gli operai sindacalizzati – erano passati non tanto ai Democratici, ma al liberalism di quel partito. Con questo
intendo dire che, contrariamente a una comune percezione, non è vero che gli
Stati Uniti sono una nazione ideologicamente compatta. Compatto da un secolo
e mezzo è il sistema politico bipartitico, che si è imposto in quanto è quello che
meglio consente, attraverso il sistema elettorale uninominale secco e la struttura
partitica decentrata legata al territorio, di rappresentare molteplici e variabili realtà
sociali e culturali locali e di riportarle a unità a livello federale. Le fratture politiche
e sociali, pertanto, continuamente presenti, si riflettono nel sistema bipartitico e
mutano il core ideale e il programma dei partiti nel momento stesso in cui questi si
avvicendano al potere. Negli anni Settanta si verificò una di queste trasformazioni
e il Partito Repubblicano vinse perché venne conquistato da quella che era stata in
precedenza una minoranza conservatrice al suo interno; ma anche perché quella
stessa minoranza mutò, non per nulla ribattezzandosi neoconservatrice, e consentì al partito di intercettare gruppi sociali e culturali allo sbando per lo sfaldarsi
della coalizione newdealista.
4
N
on farò agli alumni della Summer school l’affronto di spiegare i contenuti del
neoconservatorismo (e poi Wikipedia che ci sta a fare?); ma seguirò una strada indiretta tornando allo sfaldarsi della coalizione newdealista. Abbiamo visto le
forze sociali del progresso tecnologico che un secolo fa si schieravano spesso col
fronte progressista schierarsi negli ultimi decenni con i neoconservatori; operai
soprattutto ethnic mollare il liberalism, al pari di un Sud sempre più identitario e
rancoroso; una lower middle class rivoltarsi contro quello stesso governo federale
che le aveva dato un sostegno concreto tutt’altro che indifferente; gli evangelici tornare rabbiosamente sulla scena pubblica da cui erano stati cacciati mezzo
secol­o prima. Su quali basi culturali e intellettuali è avvenuto tutto questo?
Da qualche anno è diventato di moda parlare degli Stati Uniti come di un paese
dal forte populismo, cosa che ai tempi di Hofstadter nessuno avrebbe ammesso. Al
di là della moda c’è molta verità in questa affermazione; ma bisogna intendersi sui
contenuti. Il populismo americano non ha nulla a che vedere, ad esempio, con il
peronismo o con il populismo russo ottocentesco. Non è legato al leaderismo plebiscitario del primo e neppure all’idea del secondo di comunità chiuse e tradizionali che un governo autocratico è chiamato a difendere contro il tarlo occidentale
del liberalismo. Nasce, invece, nella lotta per la democratizzazione del paese degli
16
anni Venti e Trenta dell’Ottocento all’insegna del diritto del popolo, inteso come
insieme dei cittadini individui, di autogovernarsi: il self-rule. Il suo primo obiettivo non era, quindi, l’uguaglianza sociale, ma il diritto di voto, visto come diritto
di ognuno di esprimere la propria, autonoma volontà nelle faccende pubbliche
(e su questa base le donne nel 1848, con la Dichiarazione dei Seneca Falls, presero a chiedere il voto), nonché lo home rule, cioè l’autogoverno delle comunità
locali. Il movimento democratico americano aveva una componente sociale ed
economica; ma intendeva soprattutto liberare il popolo da tutte le élite che volevano guidare i singoli dall’alto di una qualche speciale competenza o status (Wiebe
2009 [1995], il cui titolo inglese è proprio: Self-rule) e in questo senso specifico era
populista. In primis voleva liberarlo dalle “aristocrazie”, le élite politiche eredi della
rivoluzione del 1776 che dominavano la scena nazionale vantando una superiore
saggezza e cultura; ma l’obiettivo non era sostituirle con altre élite, bensì smontare
il meccanismo che consentiva loro di reggere il paese, cioè un governo nazionale
forte. Con il potere politico, controllato dal suffragio, disseminato negli stati e nelle
comunità locali il diritto dei singoli a essere padroni di se stessi sarebbe stato assicurato. La furia anti élitaria
investì anche la sia pur piccola burocrazia federale,
che venne spazzata via
dallo spoils system inaugurato dal Presidente Andrew Jackson dopo la sua
elezione nel 1828 per avvicinare l’amministrazione
al popolo, e si allargò in
ogni direzione attaccando,
ad esempio, il “monopolio”
delle professioni mediche e
legali riservato a chi aveva
una laurea fino a ottenere la
libertà per tutti di accedervi (non si dimentichi che il
giovane Abraham Lincoln
divenne un avvocato di successo semplicemente mettendosi a esercitare, senza
neppure avere quello che noi chiameremmo un diploma di scuola elementare). I
monopoli divennero l’obiettivo della furia democratica del popolo e questo portò
alla completa trasformazione del sistema economico, con l’eliminazione delle barriere giuridiche alla creazione di imprese manifatturiere, commerciali e bancarie,
il che garantì un laissez faire propugnato dal basso e la nascita di centinaia di piccole banche locali, tanto finanziariamente deboli quanto fortemente volute dalle
singole comunità. Allo stesso modo dalle comunità locali e dagli stati nacquero i
partiti politici, a cominciare da quello Democratico, che si fecero espressione in
Congresso della volontà popolare. Una caratteristica presente in tutti i populismi,
cioè il comunitarismo, divenne in questo caso particolarmente evidente, perché
i partiti si organizzavano e agivano come associazioni fraterne e quindi agivano
con manifestazioni pubbliche di massa e votavano in gruppo (all’epoca il voto non
era segreto). Le cose sono enormemente cambiate rispetto a quasi due secoli fa; ma
la cultura politica che si impose allora è continuata, trasformandosi e mantenendo
Da
qualche
anno è di moda
parlare degli
USA come di
un paese dal
forte populismo
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intatte molte sue caratteristiche di base, a partire dal sospetto nei confronti di ogni
autorità e soprattutto dei governanti, ritenuti sempre e necessariamente assetati di
potere. Tale sospetto ha un’origine che precede gli anni della democratizzazione
politica per risalire, sia pure sotto altre forme, alla Rivoluzione del 1776 e, prima
ancora, all’importazione nelle colonie del pensiero politico dei cosiddetti “repubblicani” inglesi del Settecento. Una tradizione antica, quindi, che nell’ambiente sociale e culturale americano della prima metà dell’Ottocento divenne potente strumento di affermazione dal basso della volontà popolare.
Il fenomeno di cui ho appena parlato non è, tuttavia, spiegabile se non facendo
riferimento anche alla storia religiosa, intesa primariamente come storia della cultura e del disciplinamento sociale degli Stati Uniti. Contemporaneamente alla democratizzazione, infatti, e sotto la spinta di quello che gli storici chiamano “Secondo grande risveglio” religioso, che aveva avuto inizio sulla frontiera nei primissimi
anni del secolo per investire poi l’intero paese, il già plurale protestantesimo ame­
ricano venne trasformato da una spinta “evangelica” che penetrò trasversalmente
tutte le chiese e fece della salvezza eterna un compito e una vicenda individuali in
cui le chiese medesime avevano un compito soltanto di supporto. Non erano esse,
infatti, a mediare l’offerta salvifica di Cristo, perché Cristo si rivolge direttamente
ai singoli e sono questi che liberamente la accettano o la respingono. Se capaci di
vera fede, armati della sola Bibbia che li accompagna quotidianamente, gli individui, infatti, dopo una sincera ricerca interiore vengono presi dallo Spirito Santo,
portati a Cristo e “rinascono” in lui perdonati e salvi. L’evangelicalismo cristia­nizzò
a fondo il popolo americano e non è un caso se proprio negli Stati Uniti per tutto
l’Ottocento sono apparsi profeti e pastori che hanno fondato nuove chiese, da Joseph Smith fondatore della Chiesa dei Santi dell’Ultimo Giorno, i Mormoni, a William Miller, dal cui insegnamento millenarista sorse la Chiesa Avventista del Settimo Giorno, a Charles Taze Russell padre dei Testimoni di Geova, alla Christian
Science di Mary Baker Eddy, al pastore nero William Seymour iniziatore a partire
dal 1906 delle chiese pentecostali.
Il tragitto del tutto personale che ho appena descritto è un tragitto di entusiasmo e di ottimismo non solo spirituale, perché i born again divengono anche
capaci di vivere rettamente per sé e per il prossimo, di essere fratelli utili agli altri
fratelli, capaci di costruire una società migliore. Il self-rule sociale e politico di
cui ho parlato in precedenza aveva, pertanto, il suo fondamento per moltissimi
americani nel fatto che tutti e ognuno possiedono la capacità di giungere a Cristo
e diventarne fratelli. Se, infatti, da soli si può adempiere al compito in assoluto più
importante, la salvezza, perché non si deve aver diritto al voto e perché vi debbono
essere alcuni, gli “aristocratici”, che hanno diritti che altri non possono avere? La
libertà spirituale che Cristo offre a tutti non può non riflettersi in un’altrettanto universale libertà politica, economica, sociale da cui ognuno trarrà profitto a se­conda
18
delle proprie capacità. E se, di conseguenza, gli Stati Uniti sono la nazione in cui la
libertà religiosa nutre la libertà politica e ogni altra libertà, essi diventano il paese
prediletto da Dio, destinato a spargere la libertà nel mondo. Qui è il fondamento
culturale sia del populismo che del nazionalismo americani, entrambi saldamente
ancorati all’idea che il popolo deve controllare dal basso il processo politico e che
quest’ultimo non deve consentire un’eccessiva concentrazione del potere di go­
verno. Populismo e nazionalismo, quindi, hanno radici non nel cristia­nesimo in
astratto, ma nello specifico, storico cristianesimo americano e in uno specifico,
storico documento politico, la Costituzione, eretta a testo sacro della vita politica e
sociale in quanto ritenuta dai più sovrapponibile a quel tipo di cristianesimo, anche se dalla fede essa non dipende affatto.
Quanto detto finora non va inteso come una descrizione dei contenuti e dei
principi del conservatorismo americano odierno e neppure come il suo ascendente diretto. Non c’è un rapporto di causa ed effetto fra gli anni Venti dell’Ottocento
e gli anni Settanta del Novecento. Troppa acqua passa sotto i ponti, turbinosa e
spesso lercia; ma il nodo culturale che ho schizzato è diventato il terreno comune
che ha determinato ciò che negli Stati Uniti è stato “politicamente dicibile”, il modo
necessario, il modello mentale, per esprimere la propria volontà politica o, se si
preferisce un termine di moda, la propria agency.
5
I
n tutto ciò di conservatore pare esservi poco, a meno che non siamo fedeli alla
vecchia, cara immagine della religione oppio dei popoli; ma visto che i derivati dell’oppio sono ormai vicenda consacrata dal quotidiano meglio non entrare
nella questione. E neppure in quella della democrazia borghese come democrazia
soltanto formale, visto che al di fuori di quella “formalità” restiamo con pochino fra
le mani.
In effetti le origini del populismo americano si trovano nel trionfo della
democrazia e del nazionalismo democratico americani e nel tempo molte sue
espressioni sono state legati a movimenti progressisti o con forti accenti sociali;
ma, pur non abbandonando mai la fede nella democrazia e nella Costituzione, i
movimenti populisti sono anche stati politicamente conservatori fin quasi dalle
origini. È questo, ad esempio, il caso dello American Party degli anni Cinquanta
dell’Ottocento, un partito nativista e xenofobo, nemico degli immigrati cattolici
irlandesi e tedeschi, in quanto i suoi elettori, detti “know nothing”, ritenevano che
i cattolici, costretti dalla loro religione a obbedire al Papa piuttosto che alla propria coscienza, fossero impossibilitati a essere liberi e quindi pericolosi per il paese
della libertà, quando non erano addirittura agenti del Vaticano mandati a sovvertire i fondamenti degli Stati Uniti (Formisano 2008). I know nothing non vedevano
alcuna contraddizione fra l’universalismo dei diritti della Dichiarazione di Indi­
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pendenza e la volontà di escludere o discriminare i cattolici ed erano del tutto fedeli al self-rule democratico trionfante nel paese, così come al progresso.
I movimenti populisti e il loro discorso politico, di conseguenza, sono una delle
principali espressioni della modernità negli Stati Uniti, sia per le ragioni e il modo
in cui sono nati, sia per i contenuti, congrui con l’espansione della agency politica,
dell’uguaglianza fra i cittadini, dell’idea di nazione, del pluralismo religioso, del
capitalismo, del benessere economico, della scienza e della tecnica. Il che non toglie, in base a quanto detto all’inizio, che tale modernità possa essere virata tanto
in senso liberal, quanto conservatore. Possiamo considerarla una eterogenesi dei
fini o, se si preferisce, un moto dialettico della storia oppure la meritata punizione
per lo storico progressista che vorrebbe tutto fosse rosso o nero o, infine, un esempio della mia amata serendipity (ancora Wikipedia! Oppure Robert Merton); ma è
un fatto che modernità e populismo americani vanno a braccetto e con progressismo e conservatorismo ballano la quadriglia.
Ecco allora che possiamo tornare agli anni Settanta del Novecento e allo sfaldarsi della coalizione newdealista e dell’ideologia liberal, che iniziò immediatamente a ridosso del suo ultimo trionfo, la war on poverty e la costruzione della Great
society da parte del Presidente Johnson. Gli intellettuali che in quegli anni presero
a fregiarsi del nome neoconservative, laici se mai ve ne furono e spesso ebrei e cattolici, si muovevano, di massima senza accorgersene, sul tradizionale terreno religioso del protestantesimo, in particolare evangelico, quando individua­vano in una
generale crisi di autorità la ragione della crisi politica ed economica che il paese
stava attraversando – dalla sconfitta in Vietnam alla stagflazione. Una crisi nata, a
loro avviso, dal fatto che il liberalism aveva abbandonato la nozione di li­bertà come
20
In alto: Bandiera dell’American Party.
scelta personale e individuale fra bene e male – per cui essa ha un limite preciso in
prescrizioni assolute perché divine – a favore di un’idea soltanto umana di libertà
come diritto del singolo di auto-creare la propria vita in base ai propri desideri. Da
self-rule a self-creation. Una libertà senza limiti che ha dato luogo al proliferare
senza fine dei “diritti” di cui si chiede protezione pubblica e a una adversary culture (il termine venne coniato da Gertrude Himmelfarb) tanto immorale, quanto
anti-americana. Da qui l’abbandono del tradizionale sospetto nei confronti del potere e la richiesta crescente di intervento governativo che, affermavano i neoconservatori, ha portato a un overload, a un sovraccarico di domande per rispondere
alle quali il governo federale sta entrando finanziariamente in crisi nel momento
stesso in cui accresce i suoi poteri a spese degli americani, che perdono così il loro
self-rule e da cittadini diventano clientes – nel senso classico del termine – del
potere pubblico.
Gli intellettuali neoconservatori hanno costruito un edificio intellettuale che,
burkeianamente, è al tempo stesso moderno e conservatore. Non attaccano né la
democrazia, né il pluralismo, né l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini (donne
e neri compresi), né l’individualismo, né il welfare ereditato dal New Deal, né la
socie­tà dei consumi, né la scienza e la tecnica: insomma, non attaccano il progresso e tengono in vita l’antica avversione populista al big government, anche se
in questo è più facile vedere la protezione di specifici interessi economici, come
nella loro rigida difesa del libero mercato. Tuttavia, avvolgono la loro costruzione
nell’idea che questi principi, che sono valori, hanno un “limite”, un vero e proprio
limes invalicabile, costituito da un altro e superiore gruppo di valori, quelli assoluti legati alla morale di origine divina che vieta all’uomo di essere il creatore di se
stesso. La mela di Eva è sempre di moda.
La costruzione neoconservatrice è brillante e tutt’altro che stupida; ma avrebbe
potuto rimanere marginale al pari di quella conservatrice degli anni Cinquanta –
che pure ha aspetti in comune con la successiva, ad esempio per quanto riguarda le
idee di libertà e di progresso (la scoperta di Burke è di quel periodo), pur discostandosene per la critica alla società di massa, per il razzismo più o meno esplicito, per
l’ossessione cospiratoria. Se ciò non è avvenuto la ragione consiste nel fatto che,
contrariamente agli anni Cinquanta, essa ha incrociato la crisi e la rabbia o i biso­
gni settoriali di gruppi importanti della società americana. Gli evangelici vennero
attirati nella lotta politica perché sentivano intaccato dalle lotte femministe e gay
e da una scienza che soprattutto in campo biologico stava ridisegnando la vita e
la morte quel senso del limite di cui ho parlato sopra. Non per nulla la loro azione
pubblica iniziò con campagne locali contro la pornografia, l’omosessualità, l’aborto
prima di confluire nel Partito Repubblicano. Similmente gli operai del Middle West
interpretarono la crisi, che li stava privando delle sicurezze economiche e sociali
(il sentirsi parte della middle class) duramente conquistate, come il frutto di una
21
volontà di onnipotenza pianificatrice e redistributrice del governo federale divenuta oppressione fiscale e centralizzazione antipopolare del potere, il tutto strettamente legato alle questioni morali della distruzione dell’ordine naturale della famiglia patriarcale, della rivolta giovanile contro la fede religiosa e i suoi valori e di un
generale abbandono della tradizione. Nel caso delle élite professionali del Sun belt,
giocavano piuttosto, invece, l’eredità ottocentesca dell’individualismo economico
fonte di autonomia, nonché l’etica del lavoro e della responsabilità trasformata in
volontà di scalata sociale e di full immersion nella società dei consumi, quello che
fu chiamato yuppismo, che in una situazione di grandi possibilità di carriera portava al totale rifiuto di ogni intervento pubblico: un populismo settoriale a suo
modo avvicinabile alla lotta di primo Ottocento contro il potere pubblico e le ari­
stocrazie fasulle.
Non credo, però, che lo sfaldarsi della coalizione newdealista e del pensiero
liberal possa essere attribuita a cause tutte americane, quanto piuttosto all’inizio
del tramonto della modernità di cui gli Stati Uniti, al pari dei paesi europei, si
erano nutriti a partire
dall’Illuminismo. Il progressismo liberal era, infatti, nato ed era vissuto
all’interno di quelle stesse
coordinate culturali eticoreligiose che il neoconservatorismo intese riproporre, così come all’interno
di quelle del nazionalismo
democratico e del capitali­
smo dei consumi propri
degli Stati Uniti, tutti elementi travalicati e messi in
crisi dalle dinamiche economiche e culturali degli
anni del ventennio fra la
metà degli anni Cinquanta
e quella degli anni Settanta
che gli Stati Uniti condividevano – da egemoni
– con la parte occidentale
della Grande Europa. La modernità progressista dei Democratici esplose, infatti, in
direzioni inusitate nel momento stesso in cui l’egemonia politico-economica statunitense veniva messa a dura prova. Sia che se ne trovino le ragioni in una tarda
modernità non più capace di costruire un proprio, stabile ordine culturale, sia che
le si individui nei primi vagiti di una globalizzazione che poneva gravi interrogativi all’egemonia americana nel mondo, il risultato rimane lo stesso: il liberalism
perse sia il sostegno dei giovani e dei gruppi sociali che intendevano andare oltre
la modernità, sia quello di coloro che nella crisi della modernità vedevano il crollo
di un’intera civiltà nonché degli Stati Uniti che, costruendola, avevano costruito la
propria grandezza.
Il neoconservatorismo è stato una brillante e vincente risposta a questa situa­
zione. Esso non ha negato, bensì riproposto la modernità, puntando su alcuni degli elementi fondamentali di quello che ho detto essere dai primi dell’Ottocento il
“dicibile” politico americano, vale a dire l’avversione per il potere lontano e incon-
Il neoconservatorismo è stato
una
risposta
vincente allo
sfaldarsi della
coalizione
newdealista
22
trollato dei governanti, l’etica della responsabilità personale che di quel potere non
vuol diventare cliens al fine di mantenere la propria auto-nomia, la certezza dei
valori ancorati nella tradizione e un progresso che si nutre di tradizione, non di un
attacco al cielo. Su queste basi il neoconservatorismo ha vinto nel 1980 e ha alterato
a fondo il quadro politico americano, isolando il radicalismo e costringendo il Partito Democratico a spostarsi nella sua direzione. Resterebbe da porsi l’interrogativo
se questa vittoria, che a mio avviso ha riproposto a fine Novecento una versione
legittima della modernità – in quanto, mi si scusi la ripetizione, il conservatorismo
è moderno –, non sia avvenuta fuori tempo massimo, quando, cioè, la modernità
si stava ormai consumando. Se così fosse, e vari eventi degli anni delle due Amministrazioni Bush potrebbero essere letti in questo senso, il neoconservatorismo
si troverebbe a nuotare in acque sconosciute, tanto da correre il rischio di dover
essere etichettato come reazionario e non più come conservatore.
Bibliografia:
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New Haven, Yale University Press, 2010.
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Hartz L., La tradizione liberale in America: interpretazione del pensiero politico
americano dopo la rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1960.
Hofstadter R., The Paranoid Style in American Politics and other Essays, New York,
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Lichtman A. J., White Protestant Nation: The Rise of the American Conservative
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Sternhell Z., Contro l’illuminismo: dal XVIII secolo alla guerra fredda, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007.
Wiebe R. H., La democrazia americana, Bologna, il Mulino, 2009.
Wiebe R. H., The Search for Order: 1877-1920, New York, Hill and Wang, 1967.
23
I repubblicani e lo
stato sociale
Maurizio Vaudagna (Università del Piemonte Orientale)
P
er comprendere le posizioni repubblicane rispetto alle già ristrette tutele sociali del welfare americano, in particolare la loro drastica opposizione alla riforma sanitaria di Obama, bisogna anzitutto sottolineare come i fondamenti stessi
dello stato sociale novecentesco siano contrastanti con la maggior parte delle credenze di base della tradizione repubblicana americana. Negli Stati Uniti in sostanza non esiste un conservatorismo a base statalista, paternalista e gerarchica come
esiste ed è esistito in Europa. Se nella politica estera la destra americana ha principi di nazionalismo patriottico e nell’area comportamentale ha forti tentazioni di
“legiferare la virtù,” in campo economico-sociale il repubblicanesimo americano
è stato fondamentalmente individualista e di mercato, seppure in varie sfumature.
Quindi i principi stessi su cui si è costruito lo stato sociale, modificazione degli
automatismi di mercato, responsabilità e solidarietà collettiva della società organizzata politicamente, talvolta (ma solo talvolta) vocazioni egualitarie e redistributive, sono tutti profondamente ripugnanti alla visione repubblicana dello spazio
socio-economico. Quando non si tratta di una pulsione alla difesa degli abbienti,
cosa che spesso avviene senza complicazioni intellettuali, la tradizione repubblicana accetta la legittimità e la fondatezza della selezione di mercato, e non ha mai
sottoscritto l’idea che la modernità delle grandi dimensioni rende l’individuo impotente e quindi sposta le responsabilità ad enti collettivi. I repubblicani ritengono che le qualità dell’individuo siano le basi delle sue fortune, che, come ha detto
Milton Friedman, è responsabile verso se stesso, collocandolo semmai in contesti
comunitari. Un ente collettivo “società” è scarsamente tematizzato e l’individuo è il
soggetto cardine del vivere associato, le cui libertà e discrezionalità la politica deve
difendere e promuovere. Lo stato si deve perciò limitare a quelle funzioni di servizio, di sicurezza, e più di recente, cioè dalla “rivoluzione comportamentale” degli
anni Sessanta, di promozione di comportamenti ortodossi nella vita personale e
familiare a cui per vari motivi il mondo privato non può rispondere.
Questa visione, che spesso si rifà a concezioni etiche e religiose della legittimità dell’arricchimento, è lontanissima dai fondamenti del welfare state nella sua
versione “alla Beveridge” focalizzata sulla sicurezza sociale (nella sua versione “alla
Keynes” fondata su politiche economiche di stimolo alla crescita e all’occupazione
24
il discorso sarebbe più complesso). Il repubblicanesimo americano post-Theodore
Roosevelt non ha partecipato, come è stato il caso dei partiti democratico-cristiani
dell’Europa continentale, alla costruzione del ristretto stato sociale statunitense.
Inoltre l’accettazione da parte dei repubblicani dell’eredità del New Deal e della
Great Society di Johnson, i due momenti fondativi delle tutele sociali dagli anni
Trenta ad oggi, è stata molto più marginale di quanto lo sia stato, ad esempio,
l’adattarsi dei conservatori inglesi, almeno fino agli anni Settanta, all’eredità dello
stato sociale liberal-laburista. La politica cosiddetta del “me-tooism” praticata in
Gran Bretagna e fondata sull’idea che i conservatori accettavano le politiche di
sicurezza sociale ma le avrebbero gestite meglio, in America ha avuto episodi importanti ma complessivamente secondari: soprattutto il periodo di Eisenhower, e
alcuni momenti dell’amministrazione Nixon. Quella che ha prevalso e che ancora
oggi domina il campo repubblicano è stata semmai l’eredità dei grandi leader conservatori degli anni Trenta e Quaranta, come l’ex presidente Herbert Hoover e il
senatore Robert Taft, che davano voce a tradizionali obiezioni alle tutele sociali,
soprattutto se di natura pubblica e federale: la tutela generava dipendenza, spe­
gneva la creatività individuale, moltiplicava illegittimamente i compiti dello stato
centrale e ne sprecava le risorse, sottolineava il valore passivizzante della sicurezza
rispetto a quello dinamicizzante della crescita e dell’inventività: si ricorda una frase di Eisenhower, pure il presidente repubblicano più conciliante con la tradizione
newdealista, che sosteneva che se tutto quello che gli Americani volevano era la
sicurezza, allora potevano serenamente trasferirsi in galera.
Ma i “conciliatori” ebbero breve vita e fin dall’inizio degli anni Sessanta il conservatorismo anti-welfare e anti-newdealista rinacque nella figura del candidato
Barry Goldwater che poi sfociò nell’“impossibile” vittoria presidenziale di Ronald
Reagan, che contraddiceva tutte le credenze dei liberals americani su quali erano i
fondamenti ideali e istituzionali di un sistema politico moderno, e nella prevalenza
per almeno un ventennio dei neo-conservatori. Se visto nello sfondo dei “grandi
rischi” che contrassegnano la storia dello stato sociale novecentesco, secondo i
repubblicani individuo e mercato se ne possono fare largamente carico, riducendo i casi intrattabili a una “rete di sicurezza” (non necessariamente pubblica, ma
magari comunitaria e/o familiare) estremamente ridotta. La disoccupazione non
si cura con il sussidio ma con un’economia privata che crei posti di lavoro (di qui
il ruolo centrale dei ceti imprenditoriali e del profitto), la vecchiaia con le capacità
di risparmio di individui e famiglie (vedi la recente proposta di dirottare le trattenute previdenziali su conti bancari individuali ad hoc, dove i singoli accumulano
risorse per la vecchiaia ma da cui possono anche ritirarle in tutto o in parte in caso
di necessità, rischiando di restare scoperti negli anni avanzati); neppure la malattia viene, dopo l’esplosione dell’ambientalismo, concepita come variabile esterna,
ma si sottolinea la responsabilità dell’individuo di tenere stili di vita salutari, così
25
da ridurre il bisogno di assistenza medica (su quest’ultimo punto, in certa misura
convengono anche i democratici). Nella mentalità repubblicana, a differenza di
quanti sottolineano un principio di responsabilità sociale della collettività e del
governo per il benessere generale, (i democratici hanno da lungo tempo abbandonato l’idea di diritti sociali o addirittura umani di cittadinanza) prevale una concezione in cui si trova ancora l’eredità plurisecolare della distinzione tra poveri
“meritevoli” (quelli che si trovano in condizioni di bisogno senza propria colpa o
responsabilità, come tipicamente le vedove, ancor più se di guerra) o “immeritevoli”, i cui problemi sono visti come il frutto della propria deficienza di volontà e/o di
qualità. Un’economia fiorente permetterebbe di acquistare i servizi sociali sul mercato come tanti altri beni, dalle prestazioni mediche ai nidi infantili, alla scuola, al
trasporto, oppure attraverso assicurazioni private volontarie, la cui volontarie­tà è
tuttavia cardine in questa visione: ad esempio, nell’opposizione alla riforma sanitaria di Obama, rispetto a cui non si sa quale sarà il comportamento della Corte
Suprema, una delle principali obiezioni è che essa obbliga il “consumatore” ad acquistare un bene sul mercato (l’assicurazione malattia), violando così la sua libertà
di decisione, i repubblicani sostengono che questa è un’intrusione macroscopica
del potere pubblico nell’autonomia dell’individuo sul mercato. (Ma l’assicurazione
obbligatoria automobilistica, allora? La risposta è: ma uno può decidere di non
avere la macchina, il che, dati gli usi e costumi dell’America attuale, sa moltissimo
di lana caprina).
Come reazione alla rivoluzione comportamentale, familiare, di razza e di
genere emersa dagli anni Sessanta-Settanta, nella concezione repubblicana
26
“Public assistance: Why bother working for a living?”; gioco in
scatola inventato nel 1980 in polemica con lo stato sociale.
dell’assistenza e previdenza è emerso un nuovo fattore: in contrasto con la rivendicazione di libertà individuale e di mercato rappresentata in forma estrema da
Ron Paul, si chiede alla legge e al potere pubblico di “legiferare la virtù”; le misure
assistenziali devono cioè essere congegnate in modo da incentivare (o imporre)
comportamenti tradizionali razzializzati e antifemminili, soprattutto in materia di
lavoro e di assetti familiari, di cui Rick Santorum e i Tea Party sono i propugnatori più infuocati, proponendo il conformismo intollerante e la limitazione legale
di comportamenti considerati non ortodossi e pluralisti. Le normative che hanno
subordinato la prestazione del servizio alla ricostituzione della famiglia nucleare
patriarcale, che hanno obbligato le madri sole a rientrare nel mercato del lavoro,
che hanno combattuto i figli nati fuori del matrimonio e le ragazze madri adole­
scenti (senza incentivare l’aborto) sono i terreni su cui si è drasticamente ridotto il
sostegno alle famiglie povere “irregolari”, più numerose nei ghetti urbani, quindi
con una implicazione discriminatoria verso neri e latinos, soprattutto donne.
Nel concreto dagli anni Sessanta ad oggi il comportamento repubblicano
rispetto allo stato sociale è stato contraddittorio e molteplice: da una parte, dopo
l’inizio della cosiddetta “crisi dello stato sociale” negli anni Settanta e la riduzione
della crescita economica, che è essenziale a un sistema di sicurezza sostenibile,
i temi della responsabilità individuale, della riduzione della spesa sociale (non di
quella militare), della limitazione temporale dei sussidi ai bisognosi (soprattutto
alle madri sole) hanno sicuramente dominato il campo. E con essi i piani di cosiddetto “welfare to work” che hanno rimandato al lavoro parecchi poveri (soprattutto
donne), hanno allargato la diseguaglianza salariale e i ranghi dei cosiddetti “working poor”, lavoratori e lavoratrici con impiego ma reddito sotto la soglia di povertà.
Tuttavia accanto ai numerosi tagli programmatici delle amministrazioni Reagan e Bush, il piano di riorganizzazione (e riduzione) della sicurezza sociale più
significativo non è stato fatto da un repubblicano, ma da un presidente democratico, cioè Bill Clinton, nella sua “welfare reform” del 1996, che attribuiva agli
stati la competenza di vincolare il sussidio di povertà delle madri all’età e allo stato
maritale, eliminando la titolarità all’assistenza federale che era stata stabilita nel
Social Security Act del 1935. Era un sintomo dell’egemonia del discorso conservatore sullo stato sociale che tuttavia si andava diffondendo anche nelle riforme in
corso in Europa.
D’altra parte i repubblicani si sono scontrati nei decenni recenti con due ostacoli: da una parte le misure fondamentali di tutela sociale hanno un forte sostegno negli elettorati e nelle opinioni pubbliche di tutti i paesi industriali avanzati. Quando Reagan negli anni Ottanta ha cercato di toccare la social security e
il sistema delle pensioni, ha preso una scoppola politico-elettorale che ha inchiodato nella mente dei politici repubblicani il principio che alcune misure di base
dell’assistenza sociale non si possono toccare senza prezzi politici esorbitanti. Il
27
secondo ostacolo è la crisi scoppiata nel 2008 con una grave caduta del benessere
e dovuta alle politiche di deregulation e privatizzazione realizzate dai neo-conservatori, che ancora una volta, hanno dimostrato che un capitalismo, adesso altamente finanziarizzato, non è in grado di darsi un equilibrio autonomo e crea meccanismi anarchici e speculativi che impongono drammatici costi alla società. Di
fronte a questa crisi, le politiche e le concezioni del “fai da te”, delle riduzioni delle
tutele, e del governo “micro” hanno subito una sconfitta drastica.
Su questo terreno gli attuali candidati repubblicani si fanno tutti portatori
della concezione appena descritta che tendono a caratterizzare come “essenza”
dell’americanità: in contrasto quindi con una “europeizzazione” che si suppone
caratterizzata da larghe tutele pubbliche e ampio ruolo delle iniziative governative
nel benessere generale. Poi ciascun candidato interpreta quei principi con una
radicalità diversa. Da una parte sta l’estremismo individualistico di Ron Paul (un
atteggiamento tutt’altro che assente nella vita americana) che ritiene che il sistema
di sicurezza sociale sia incostituzionale e le tutele vadano restituite ai risparmi privati e alla famiglia. Sia Romney che Santorum vogliono alzare l’età pensionabile,
allargare i libretti privati di tutela, uscendo in tutto o in parte dal sistema della
Social Security, tagliare le spese di Medicaid e Medicare e cancellare la riforma
sanitaria di Obama. Romney sottolinea di più come queste misure sposterebbero
risorse verso l’economia privata e quindi la crescita, Santorum focalizza maggiormente il tema della privatizzazione, della responsabilità individuale, dei comportamenti socialmente ortodossi. È pensabile che questi temi abbiano una notevole
importanza nella campagna elettorale, soprattutto nel momento in cui i candidati
debbano mobilitare il voto ideologico e religioso repubblicano di destra.
28
Occupy
Wall Street
and the
Tea Party
Ronald P. Formisano
(University of
Kentucky)
T
he reactionary right defenders of plutocracy have many reasons to fear and
loathe Occupy Wall Street, but a major motive results from OWS having broken the Right’s monopoly on economic protest that recently held center stage for
too long. OWS also has illuminated the galloping economic inequality that has
made the U.S. more unequal than almost all developed countries. And one of the
last things that right-wing media such as television’s Fox (Faux) News and the
Rush Limbaughs of bloviating radio want to discuss is the obscene accumulation
of wealth – aided by tax avoidance and corporate welfare – among the 1 percent.
Hence the right’s smears of OWS.
The Tea Parties did indeed exploit outrage over Wall Street bailouts, but guided
by inclination at the grassroots as well as from above by behind the scenes billionaires, such as the petrochemical industrialists and financiers Charles and David
Koch, they redirected popular anger away from reckless financiers and against the
federal government. The fury of the Tea Parties hardly singed The Masters of the
Universe. On the contrary, the Tea Party has ignored CEO malfeasance and greed,
while convulsed with paroxysms of wrath against President Barack Obama. But
OWS – unlike both the Tea Parties and, ironically, President Obama – has been
willing to hold responsible those who wrecked our economy and made enormous
profits doing so.
“We are the 99 percent” harkens back to the progressive populists of the 19th
century who spoke in non-Marxist terms of a broad producing class. In the 1880s
the Knights of Labor and in the 1890s the People’s Party – the latter gave us the
term “populist” – appealed to a huge swath of the population across occupational, class, ethnic, religious, gender and even racial lines to denounce concentrated
29
Above: Bloomberg Businessweek cover, October 31, 2011. The
Guy Fawkes mask is considered one of the symbols of OWS.
wealth. They may not have seen themselves as the “99 percent,” but did believe
they spoke for the great majority of “the American people.”
Indeed “99 percent” connects – more authentically than the Tea Party – to the
political culture of the American Revolution and the early republic. The town of
Boston’s 1773 Tea Party was an act of “the whole body of the people,” a people who
believed not only in individual liberty but also in collective rights and individual
responsibility to the public good.
During the imperial crisis leading up to the revolution (1765–1776) colonial
resistance in the form of crowd actions, economic boycotts, and popular rebellions cut across classes, occupations and even gender. For decades after independence, similar local insurgencies broke out routinely against policies enacted by
the new federal or state governments, but perceived by many citizens as unjust.
These popular mobilizations saw themselves replicating revolutionary era popular protests to keep government close to the mass of ordinary people. Occupy Wall
Street thus reenacts demonstrations of people peacefully assembling to remind
governing elites of the people’s sovereignty and their right to petition for fairness
and justice.
30
Contraception at
the Tea Party
The American
right-wing travels
even further to the right
Linda Gordon (New York University)
T
he political fight that has broken out in the US about funding for contraception must seem to Europeans both shocking and at the same time quintessentially American. It is both, but at the same time it is part of a global trend in several
respects: as an expression of wrath at the radical transformation of the gender system, and as a form of moral panic1 in which extremist views escalate themselves
in a dangerous rising spiral of fanatical beliefs. It contains also elements of racism
and of corporate exploitation and incitement of hysterical intolerance – to the extent that many old-fashioned conservatives wish it would go away.
The background
merican controversies about reproduction control go back at least 175 years,
when the many states of the USA began to criminalize abortion. At the time,
abortion was the main method of reproduction control in use and it had traditionally been treated as a regrettable necessity. In most of the world and in almost all
religions, abortion before “quickening” – the moment when a pregnant woman
could feel a fetus stir – was a respectable, traditional practice.
The first anti-abortion campaign, at its peak in the 1870s, was led by Protestant ministers in both US and Europe; Catholic priests were then the followers,
not the leaders, of this reform. At this time people made little if any distinction
between abortion and contraception, and opponents condemned any attempts
to control reproduction except through sexual abstinence. Their arguments did
not focus on protecting fetuses, as they do today, but on the dangers of allowing
women to evade their allegedly God-and-Nature-ordained role as mothers. The
anti-abortion movement was in large part a backlash, a fearful response to changing possibilities and aspirations among women.2 Industry had brought many poor
A
31
women into factory employment, which in turn increased their independence.
More privileged women were clamoring for education and were venturing into
public political debate, particularly in the anti-slavery movement. In 1848 the first
women’s-rights advocates issued the famed Seneca Falls Declaration of Sentiments, which, cleverly, copied the US Declaration of Independence – thus the very
form and voice of the document was threatening. Moreover it was sharply critical
of men. In it the signers accused men of withholding, usurping, and monopolizing rights that should belong to women: “because women do feel themselves aggrieved, oppressed, and fraudulently deprived of their most sacred rights, we insist
that they have immediate admission to all the rights and privileges which belong
to them as citizens of the United States.”
At the same time “regular” or allopathic physicians had their own reasons for
joining the anti-abortion campaign. Abortions had been traditionally performed
by midwives or practitioners of traditional healing and obstetrics, and physicians
used the campaign to render them disreputable and to establish their own control
over obstetrics.3
The peak victory of
this movement came in
1873 when, for the first
time, federal legislation
outlawed all reproduction
control practices throughout the USA, labeling them
obscene. Abortion did not
disappear, of course, but
went underground. Moreover a class double standard became more visible:
prosperous women who
could command the services of private physicians
could persuade them to
perform legal abortions in
the guise of treatments for
medical problems, with privacy and impunity.
By the end of the 19th century the birth-control situation changed, at both
supply and demand ends of the market. Contraceptive cervical pessaries and vaginal diaphragms were being distributed in some European clinics, and wealthy
Americans traveled there to get them. Others smuggled them into the USA. Meanwhile urbanization, the need to educate children, and the increasing employment
of women intensified the need for smaller families. Shortly before World War I, a
large social movement for birth control developed, with organized groups in cities
and towns throughout the country demanding the legalization of birth control.
Gradually a new distinction allowed the creation of a compromise: distinguishing
contraception from abortion, the movement pushed for legalization of the former
while accepted the continued prohibition on the latter. State after state decriminalized contraception. This did not happen easily, and the Catholic Church refused
the compromise and continued to ban contraception; the last state to legalize contraception – Massachusetts, a state with significant Catholic political power – did
American
controversies about reproduction
go back at
least 175 years
32
not end the prohibition until 1965.
Despite the laggard states, by at least 1930 most Americans considered legal
contraception a permanent fixture of modern society. Moreover, by the 1960s, a
new coalition was pushing for abortion rights as well. Civil libertarians and physicians in particular argued that prohibiting abortion was a violation of individual freedom and of independent medical discretion. They were responding to
increased pressure from women, especially those for whom contraception had
failed. In response, during the 1940s and 1950s hospitals were establishing abortion review boards to grant medical exemptions from the prohibition and thereby
to take the pressure off individual doctors.4 In 1962 an epidemic of rubella (which
can cause deformities in fetuses) increased popular demand for abortion. In the
same year the case of Sherri Finkbine, a TV actress, became an international cause
célèbre: having taken the drug thalidomide, she learned that she was likely carrying a deformed fetus; denied an abortion in Arizona she flew to Sweden to get it
done.
These influences led to a wave of state legislation repealing or liberalizing
their anti-abortion laws. Eighteen states had done so by the time the US Supreme
Court found that bans on abortion were unconstitutional in 1973, in Roe v. Wade.
At this time the issue seemed settled. In the legalization of abortion it was unnecessary even to mention the now established consensus on contraception as not
only standard practice, but one that responsible sexual partners were expected to
use.
Enter the women’s movement
hat has happened in the ensuing forty years is a fascinating historical example of how political cultures change the meanings of common practices. The women’s liberation movement took up the cause of reproductive rights.
This new identification produced a virulent backlash, expressing intense anxieties
about gender transformation, then exploited by a renascent conservatism.
Feminists were not the major actors in legalizing abortion but they became
its standard bearers. Previously abortion and contraception were treated in public
discourse primarily as marital economic and social strategies for smaller families,
which had become the national ideal. The New Left, of which the women’s liberation movement was a part, began to popularize the notion that birth control was
also a matter of sexual rights, rights not confined to marriage. In actuality, there
was not that much more non-marital sexual activity during the 1960s and 1970s,
but it became more open; the young were no longer hiding their sexual affairs. For
feminists in particular sexual rights meant claiming equality with men.
The Catholic Church had begun an anti-abortion campaign – the second in
US history – in the 1960s, as soon as states began legalizing abortion. But even
W
33
the Church hierarchy found it politically impossible to argue openly that women
should not defy their “destiny” as mothers of innumerable children, or that spouses
should limit their sexual activity to times when they wished to conceive. The society was simply too modern for that kind of discourse to be acceptable. In a brilliant
form of spin, the issue got reframed as one of protecting embryos and fetuses.
The greatest achievement of the anti-abortion campaign was the invention of the
“Right-to-Life” slogan. I do not mean to suggest that people who oppose abortion
because they consider it a form of murder are insincere. But by avoiding explicit
disapproval of women’s employment, higher education, political activity, etc., the
movement could harness anxieties about gender change to a discourse that featured helpless “unborn children.”
The movement quickly gained support from a new revivalism among
evangelical Protestants.
Then the anti-abortion campaign was consciously and quite
cynically exploited by a “New Right”
conservative strategy. The strategy
was to break the Democratic Party
electoral majority through de-emphasizing traditional Republican
issues – conservative economic
policy and anti-Communism – and
focusing on “social” issues including race but primarily gender and
sexual matters, including sex education, out-of-wedlock pregnancy, and birth control. Prior to 1976
these strategists rarely mentioned
abortion.5 Afterward they threw
enormous resources into the antiabortion movement. Their successes were great: hedging in abortion
by a variety of burdensome restrictions and, most effectively, prohibiting the use of public funds for
abortion and drastically reducing
the number of abortion providers.
The last phenomenon was the direct result of a true moral panic that
34
One of the “Wanted” posters, circulated in 1995
by the American coalition of Life Activists.
the anti-abortion campaign built quite consciously. The American coalition of Life
Activists circulated “Wanted” posters – mimicking official police placards identifying suspected criminals – with the photographs and, often, home addresses
of physicians who performed abortions, identifying them as “war criminals” and,
recalling the Nuremberg laws, guilty of “crimes against humanity.”6 These resulted
in a terrifying wave of violence against abortion personnel. From 1977 through
2001, assailants in this campaign murdered three doctors, two clinic employees,
one clinic escort and one security guard; attempted 71 other murders; executed
41 bombings, 165 arson attacks, 82 attempted bombings and 372 clinic invasions;
caused $8.5 million in damage.7 This was enough to drive even staunch supporters of reproductive rights out of the practice and those who remained were heroes
indeed. (However, “Operation Save America” has begun posting “Wanted” placards
again in North Carolina.8)
Public revulsion brought this violence to an end, happily. Pressure against
abortion continued unabated, however, and in the new century came to focus particularly on Planned Parenthood.
Obama and Economic Depression
he current attack on contraception and Planned Parenthood cannot be understood without registering that it is a part of a general conservative attack
detonated by rage at the election of Barack Obama. Just as no one predicted the
backlash against Roe v. Wade, no one predicted the virulence of the hatred for
Obama. Much of it is racial, compounded by his rational, considered, intellectual
style – an aspect of long-standing American anti-intellectualism. With a moral
panic escalating since his election in 2008, even traditionally Right-wing Republicans are shocked and nervous about the excesses of the “tea party” movement and
its extremism.
Journalists have covered the tea-party movement extensively – indeed, excessively, for media coverage has both exaggerated its size and helped to expand
it. Probably beginning as a grassroots explosion of fury toward related enemies
– secularism, multi-culturalism, liberalism, regulation, “big government” – it was
quickly seized, funded and controlled from the top, much as the original antiabortion movement had been. Contrary to some popular views that imagine it a
movement of “have-nots,” its average member is a wealthy, well educated white
man over 45.9 It has been the beneficiary of multi-million-dollar donations, notably from the extremely conservative billionaire brothers David and Charles Koch
through various PACs (political action groups). This right-wing populism is an
American tradition: using populism “little guy” rhetoric to advance economic policy that redistributes wealth upward to the very rich. The $ millions went into election campaigns and moved the Congress further to the Right.
T
35
Immediately after the 2008 financial collapse, the general public condemned
the financial establishment, and identified them as predators who profited obscenely at the expense of the rest of us. The tea-party movement has fought to reverse that identification, charging that it is taxes (rather low and extremely regressive in the US as compared to those in European countries) that are responsible for
poverty and unemployment; and that the “predators” are government employees
(such as schoolteachers and social workers) and unionized workers who are responsible for these high taxes. In other words, just as Obama made mild efforts to
stimulate the economy and reduce unemployment and the loss of homes to banks,
he was confronted by a Congress determined to obstruct anything he proposed.
The assault on Planned Parenthood was integrated into the overall attack on
big government, but this too was a cooptation of a much earlier initiative. It began
decades ago as part of the anti-abortion movement, which also included opposition to sex education, the ERA, etc. It remained coded as anti-abortion until a decade ago – although those who watched it closely saw that it contained a strong
anti-contraception stream from the beginning. At the federal level the current attack has focused on Title X of the Family Planning Services and Population Research act of 1970, passed under President Nixon. (The conservatives of that era,
such as Nixon, Goldwater, etc., are now liberals when compared to today’s Republican Congress.) Title X funded birth-control clinics provide gynecological health
services and birth control, but were always prohibited from using public funds for
abortion. The most visible of these clinics are operated by Planned Parenthood, a
descendant of the early 20th-century campaign to legalize contraception. Antiabortion groups argue that providing any funds to such clinics frees up other, private, money for abortions. They have fought at both state and federal level, in three
ways:
1. to require elaborate separation of abortion from birth control services–such as
requiring separate buildings;
2. to defund the clinics altogether;
3. and, most recently, to stop the new public medical insurance program and
specifically to allow insurance companies not to pay for contraception and allow medical workers and pharmacists not to provide it.
It is important to note that today’s opponents of contraceptive services also oppose the entire medical-insurance program. Ironically, the new medical insurance
program will reduce access to abortion because it includes millions more in publicly-funded health insurance which is not allowed to pay for abortions. (As I write,
Americans are waiting for the extremely conservative Supreme Court to respond
to tea-party and big-business claims that the whole medical-insurance program
is unconstitutional.)
Some supporters of these initiatives rely on anti-big government, anti-tax
36
rhetoric, arguing “why should we pay for other people’s birth control?”. Some rely
on a claim that it would violate religious freedom to make contraception a required service. Some rely on explicitly misogynist rhetoric, assuming that married
women should not need birth control and that unmarried women who want it
are “sluts”. Some depend on the old claim that birth control creates sexual immorality. Planned Parenthood was “stung” by traps set up to prove that it supported
immorality: its opponents sent people to the clinics asking for help under false
pretenses – pretending to be pimps wanting abortions for child prostitutes, racists
seeking to earmark donations for black women to abort. Some of Planned Parenthood’s approximately 27,000 workers, taken in by the deceptions, offered to help,
thus embarrassing the organization (the unfortunate few who responded helpfully
were fired).
The USA has a legacy of African American suspicion of birth control because
some in the early-20th-century campaign for contraception garnered support
from eugenists. For decades the Right has mounted a misleading use of that suspicion by claiming that abortion or birth control in general is a racist plot. There are
billboards in black and Latina neighborhoods, showing images of babies or tots,
with the accompanying text, “The most dangerous place for an African American
baby is in the womb.” [“El lugar mas peligroso para un latino es el vientre de su
madre.”] In fact, the vast majority of African-American women support and use
37
contraception, as do all progressive and anti-racist African-American politicians
and organizations.
Moreover, African-Americans and Latinas use abortion proportionally more
than white Americans. The reasons are their disproportionate lack of access to
contraception, worse health overall, victimization by sexual violence, and poverty
and lack of resources to support children.
The current situation
s often happens when much of the action has hinged on complex legislative
and legal maneuvers, often hidden inside irrelevant bills, it took some time
for these extreme anti-contraception positions to become legible to a mass public.
Now that they have, a mass defense of Planned Parenthood and contraception has
arisen, labeling the Republican campaign a “war against women.”
Let me review briefly what these publicly-funded clinics do. There are about
7,000 in the US, and they serve approximately 6.6 million women annually, primarily the very poor. One-quarter of all poor women who get birth control get it at one
of these clinics and for many, they are the first entry point into any adult health
care. At most clinics, initial visits are free and fees for further services depend on
income – for the poor, typically $20. The majority of clinics provide women with
postpartum and prenatal care, well-baby care, immunizations, and physical exams. More than 40 percent provide primary health care and many also provide
genetic screening, mammograms, infertility counseling and mental health care.
Approximately three percent of Planned Parenthood clinic resources go to abortions. Planned Parenthood claims that its services avoided 973,000 unplanned
pregnancies in 2008 alone, which prevented many abortions – figures based on
their studies of typical consequences of unprotected sex.10
These clinics are usually the only source of reproductive health care for the
most marginalized groups: drug abusers, prison inmates, the disabled and the
homeless. Moreover they serve men as well as women, providing HIV testing and
referrals, safe sex instruction, and prostate and testicular cancer screening.11
Although the Supreme Court is not ruling on funding for Planned Parenthood’s birth-control clinics, its decision regarding the medical insurance law will
exert great impact on the fight about contraception. Adding fuel to the already-hot
fire, the Obama administration recently ruled that if religious institutions do not
want to fund contraception in their insurance plans for employees, the insurance
companies much independently offer those employees to provide it. Many Americans imagine that the court – that probably stole the presidential election from Al
Gore in 2000 – would not risk its legitimacy by overturning such a widely supported program and condemning tens of millions to remain without the ability
to pay for medical care. But the majority of the nine judges are deeply ideological
A
38
conservatives and dependent on the right-wing sponsors who put them in power.
If they do reject the Obama health care plan, they will embolden those who deny
that health care, reproduction control and sexual freedom are human rights. Even
in that eventuality, however, birth control and abortion will not go away. They are
necessities for men and women alike; the vast majority understands that the way
to reduce abortion is through contraception; and no one in the USA will accept the
notion that people should engage in sex only when they want to have babies.
Notes:
1. Stanley Cohen, the creator of the term, defined it as a response to a threat to
prevailing social or cultural values, started by those he labels “moral entrepreneurs”; Folk Devils and Moral Panics (1972). Stuart Hall theorized that moral
panics were often ignited by these entrepreneurs to create the illusion of a
crisis which could then evoke public support for heavier policing; Policing the
Crisis: Mugging, the State, and Law and Order (1978).
2. Linda Gordon, The Moral Property of Women: A History of Birth Control Politics in America (Chicago; University of Illinois Press, 2002).
3. James Mohr, Abortion in America (New York: Oxford University Press, 1978),
chapter 6.
4. Leslie Reagan, When Abortion Was a Crime: Women, Medicine, and Law in the
United States, 1867–1973 (Berkeley: University of California Press, 1997).
5. Gary Clabaugh does not mention abortion in his Thunder on the Right: The
Protestant Fundamentalists (Burnham 1974). Tim and Beverly LaHaye, who
became leading spokespeople for anti-feminism, were tolerant of abortion in
their The Act of Marriage (Zondervan 1976). Thanks to Allen Hunter’s research
on this point.
6. Eugene Volokh, UCLA School of Law, “Menacing Speech, Today and During
the Civil Rights Movement,” Wall Street Journal, April 3, 2001, on line at http://
www2.law.ucla.edu/volokh/nurember.htm, accessed 3.30.12. A 9th Circuit
Court of Appeals decision finally shut the site down in 2002 after a prolonged
debate. The Nuremberg Files case, which is officially titled Planned Parenthood v. American Coalition of Life Activists, is available online at http://laws.
findlaw.com/9th/9935320.html.
7. Data from National Abortion Foundation, available at http://www.prochoice.
org/about abortion/violence/violence statistics.html, accessed 3.30.12.
8. http://videocafe.crooksandliars.com/david/abortion-docs-say-wanted-posters-are-bait-th, accessed 3.30.12.
9. NYTimes/CBS poll of April 2010 on line at http://documents.nytimes.
com/new-york-timescbs-news-poll-national-survey-of-tea-party-
39
supporters?ref=politics, accessed 3.30.12.
10. Susan Cohen, loc. Cit.
11. Jennifer Frost and Michele Bolzan, “The Provision of Public Sector Services
by Family Planning Agencies,” Family Planning Perspectives, 29 #1, Jan./Feb.
1997, online at http://www.guttmacher.org/pubs/journals/2900697.html; Susan Cohen, “The Numbers Tell the Story,” in Guttmacher Policy Review, 14 #2,
spring 2011, online at http://www.guttmacher.org/pubs/gpr/14/2/gpr140220.
html.
40
Recensione de
“Gli spot elettorali nelle
campagne presidenziali
americane: forme,
immagini, strategie”
Chiara Corazziari
I
l volume di Marco Morini è il
risultato della rielaborazione e
pubblicazione della tesi di dottorato dell’autore stesso.1 Il brillante
lavoro di analisi dell’uso e del valore
degli spot elettorali nelle elezioni
americane è sa­
pientemente sintetizzato in un libro dalla massima
fruibilità. Il testo ha il duplice pregio di approfondire una tematica
in Italia poco studiata e di farlo con
estre­ma semplicità. È così un utilissimo strumento per leggere e interpretare il messaggio politico che
viene veicolato attraverso un mezzo, lo spot, estremamente flessibile e largamente impiegato sia
nella fase delle primarie che nella
fase successiva del vero e proprio
confronto-scontro della campagna
presidenziale americana.
Il libro è diviso in due parti, di
cui la prima si occupa di presentare
lo spot, la sua storia, l’origine e la
sua evoluzione dalla seconda metà
41
del Novecento ad oggi. Esamina gli aspetti formali e contenutistici dello spot: ovvero come venga confezionato il messaggio (subliminale e non) attraverso l’uso
del linguaggio, dei colori, del suono, delle immagini.2
La seconda parte è quella più prettamente analitica e sperimentale; l’autore
esamina raggruppandoli a seconda del contenuto tutti gli spot della campagna
presidenziale (primarie incluse) del 2008.
Il lettore viene così lentamente immerso all’interno del mondo degli spot dalla sua introduzione nel lontano 1952,3 ad alcuni dei più celebri spot (ad esempio
“Daisy”, realizzato durante la campagna presidenziali di Johnson nel 1964), fino
all’avvento del web e alla campagna di Obama del 2008.
Lo spot che potrebbe essere definito come un semplice messaggio di pochi
secondi (normalmente 30) ci viene raccontato da Morini come uno strumento poliedrico e dalle varie funzioni. L’autore, che interpreta lo spot come “messaggio
politico il cui stile e contenuto sia sotto il totale controllo del suo produttore e che
sia trasmesso attraverso l’utilizzo di un mezzo di comunicazione di massa”,4 ne
mette in luce proprio la complessità e varietà, facendo risaltare come il messaggio
venga trasmesso attraverso l’intreccio di più tecniche e sovrapponendo spesso più
di una tematica. Gli spot sono quindi una specie di creazione artistica, denotati da
un grandissimo valore comunicativo e impiegati come uno strumento diretto di
comunicazione tra il candidato e l’elettorato e contemporaneamente come mezzo
di comunicazione e confronto tra i candidati stessi.
Lo spot deve definire e distinguere il candidato, farne emergere i punti di forza
sottolineando le debolezze dell’avversario; deve raccontare chi è il candidato, quale
sia il suo programma. Esso può essere positivo, in questa categoria ad esempio
rientrano tutti gli spot che tratteggiano i caratteri biografici, le qualità, il programma del candidato che lo sta producendo, o negativo. Il negative campaigning è una
caratteristica peculiare, e per un europeo generalmente insolita, di fare politica; si
compone di accuse più o meno velate o allusioni riguardanti l’avversario: normalmente si tende ad evidenziare la mancanza di leadership, l’inefficienza, l’amoralità
dello sfidante. Morini sottolinea come gli spot televisivi siano il mezzo privilegiato del negative campaigning che ha un notevole peso nella campagna elettorale.5
Un’altra interessante categoria analizzata è l’endorsement, in cui un personaggio
noto al pubblico americano, o anche un amico o un parente, dichiara di sostenere
il candidato e ne elogia le virtù politiche e non.
Lo spot è un vero e proprio linguaggio codificato e cifrato, interpretabile su
vari livelli. È pensato per raggiungere target diversi, in alcuni casi i candidati scelgono addirittura di farne di specifici per determinati stati; gli spot usano diversi
toni, possono essere seri quanto divertenti, usare l’humour quanto essere emotivamente coinvolgenti. Ma essi si differenziano anche in base al mezzo di comunicazione attraverso il quale sono trasmessi. Vengono quindi prodotti sia per
42
la televisione che per internet. Questi ultimi in genere sono quelli con il più alto
contenuto informativo, dedicati ad un elettorato più attento e attivo. Internet ha
permesso la proliferazione di spot “indipendenti”, che non hanno quindi un legame con il candidato o con gruppi organizzati al fine di fare campagna elettorale;
questo ovviamente aumenta la partecipazione dell’elettore, che da semplice utente
e fruitore si trasforma in soggetto attivo della campagna elettorale.
La seconda parte del volume, quella che l’autore giustamente chiama “la ricerca empirica”, analizza nel dettaglio singoli spot della campagna elettorale del
2008 e più in generale il messaggio politico ad essi sotteso. La metodologia di
raccolta ed elaborazione dei dati è piuttosto rigorosa. Vengono presi in esami gli
spot di tutta la campagna elettorale dei candidati Barack Obama, Hillary Clinton,
John McCain, Mike Hunckabee e da gruppi terzi. Lo scopo dichiarato “è quello di
verificare le strategie comunicative messe in atto negli spot elettorali della campagna elettorale 2008, quali le caratteristiche degli spot, le differenze tra primarie
e contesto generale in uno stesso candidato, le differenze tra gli spot televisivi e
quelli realizzati per il web e il comportamento di gruppi terzi in televisione e in
internet”.6 Ma in effetti il panorama che emerge dall’analisi è ben più articolato.
È interessante come Morini sia in grado attraverso la descrizione dei singoli spot
di far emergere gli aspetti salienti della campagna nella sua complessità. Gli spot
diventano un efficacissimo mezzo di comunicazione e strumento per seguire e
interpretare la campagna dei vari candidati. Essi vengono prodotti e trasmessi a
ritmo piuttosto serrato, spesso in un botta e risposta tra i due candidati, creando
una vera e propria narrazione, anche cronologicamente caratterizzata. L’autore si
sofferma spesso a considerare anche la disponibilità economica dei singoli candidati e come ciò caratterizzi la strategia di un candidato anche nel produrre spot.
Ad esempio l’immenso budget a disposizione di Obama nel 2008 gli ha permesso di fare campagna elettorale non solo in tutti gli stati, ma di produrre spot appositamente per alcuni stati, e più in generale di poter produrre e trasmettere più
spot. Un interessante aspetto evidenziato dall’autore è quello di usare gli spot di
negative campaigning per disperdere le energie e le risorse dell’avversario, tecnica
proficuamente utilizzata dal candidato democratico nel 2008.7 Inoltre attraverso
l’analisi del contenuto degli spot (che l’autore divide in sei macro-categorie: contenuti depoliticizzati, curriculum di governo, valori, issues, negative campaigning, menzione al presidente uscente o di altri leader del passato) l’autore riesce
a tratteggiare alcune dinamiche politiche, come ad esempio: la connessione tra
presidente uscente e il candidato dello stesso partito; come esistano alcune figu­
re politiche che vengano utilizzate nelle campagne elettorali come simboli stessi
della nazione; l’ambigua relazione tra partito, Congresso e candidato (soprattutto
nel passaggio dalle primarie alla campagna presidenziale dopo l’investitura nelle
convention). L’analisi dei sondaggi diventa lo specchio della campagna elettorale:
43
la rilevanza delle tematiche e quanto queste varino da zona a zona;8 quanto un
candidato democratico investa di più in alcune issue e un repubblicano in altre;
come le caratteristiche personali dei candidati influiscano sul discorso politico
complessivo; la persistenza di leitmotiv durante tutta la campagna di cui spesso
entrambi i candidati si fanno portavoce, ad esempio il cambiamento. Alla “retorica
del change” di Obama e all’etichetta di maverick della politica da parte di McCain è
dedicata particolare attenzione in vari punti nel testo, e specificatamente nei capitoli dedicate alla campagna elettorale rispettivamente di Obama e McCain.
Uno sguardo significativo alla politica americana deriva anche dall’analisi fatta delle primarie, in cui McCain e Obama cercano di emergere come leader del
proprio partito. La lotta serrata tra Obama e la Clinton è analizzata con particolare
acume.
In conclusione, Morini è riuscito a ridare un quadro complessivo delle elezioni
del 2008 attraverso l’analisi degli spot; allo stesso tempo il libro è ricco di spunti
e interpretazione e può essere un valido strumento per comprendere i messaggi
politici e del linguaggio politico adottato nelle campagne elettorali americane sia
passate che future.
Note:
1. M. Morini, Gli spot elettorali della campagna presidenziale 2008, Otto Editore,
Torino 2011. Il libro ha vinto la XIII edizione del Premio “Celso Ghini” per il
biennio 2009–2010.
2. Agli aspetti peculiari dello spot e alla sua narrazione Morini dedica due capitoli, il quarto e il quinto.
3. La campagna presidenziale del 1952 (Eisenhower v. Stevenson) è effettivamente la prima in cui ci si avvale dello spot, precedentemente impiegato dal
democratico William Burnett Benton nella campagna per il Senato del 1950 in
Connecticut.
4. Vedi p. 56.
5. La rilevanza del negative campaigning è evidenziata in più punti nel libro; in
particolare l’autore gli dedica il terzo capitolo. Uno dei motivi per cui la propaganda negativa sarebbe particolarmente usata data la tradizionale disinformazione dell’elettorato americano.
6. Vedi p. 86.
7. A questo proposito le somme investite in spot (in milioni di $): Obama, 236;
McCain, 135,5. Vedi tabella 7 p. 89.
8. Le tematiche principali sono essenzialmente tre: l’economia, l’Iraq e l’energia
rinnovabile. Ovviamente ci sono tantissime altre questioni affrontate: l’aborto,
la corruzione, l’immigrazione, la sanità, il terrorismo, le tasse, il riscaldamento
44
globale, la limitazione delle armi, la scuola e la formazione, la politica estera,
la difesa, il lavoro, le pensioni, la previdenza sociale, il trasporto, il commercio.
Per ognuna di esse l’autore non si limita solo a mostrare quanti spot sono stati
realizzati per ogni candidato e con quale spesa ma esamina i messaggi politici
allegati ad ogni specifica issue.
45
VIII Summer
School CISPEA
“Età dorate”: Economia,
politica, società
negli Stati Uniti delle
due “fine secolo”
1880-1901 / 1980-2001
1–5 luglio 2012
Seminario dell’Abbazia Matildica di Marola
Carpineti – Reggio Emilia
Il tema
I
l passaggio fra Otto e Novecento costituì la fase di decollo dell’economia e della potenza americana. Gli anni Ottanta, l’età dorata del capitalismo americano,
segnarono l’avvio di una riflessione sui mutamenti epocali che trasformarono il
volto della politica, dell’economia e della società americana. Da società “orizzontale” gli Stati Uniti si trasformarono in un paese “verticale”, all’insegna dei processi
di modernizzazione e di concentrazione del potere economico e politico. Anche
gli anni che vanno dal 1980 al 2001 cominciano a essere riconosciuti come anni
di svolta. Una apparente nuova età dorata, segnata dagli interrogativi sulla capaci­
tà egemonica della potenza americana, sulla sostenibilità della sua economia, sui
processi di trasformazione del suo sistema politico e sociale. Entrambi risultano
essere periodi di grande accumulazione della ricchezza e di ampliamento del divario e della disuguaglianza sociale. Molti appaiono gli elementi che inducono a
riflettere sulle due fine secolo, su quella che avvia il cosiddetto “ciclo americano”
dello sviluppo capitalistico e quella che apparentemente ne segna il declino o la
46
trasformazione legata ai nuovi processi di globalizzazione economica e ai cambiamenti del post-guerra fredda.
Programma
1 luglio 2012
Arrivo dei partecipanti
Ore 17,30 – Introduzione del direttore della Scuola, prof. Tiziano Bonazzi
Ferdinando Fasce, Università di Genova, “Capitani coraggiosi e Robber Barons:
capitalismo e impresa fra Otto e Novecento”
2 luglio 2012
I sessione – 1880–1901
Ore 9,30 – Arnaldo Testi, Università di Pisa, “ ‘La politica non è noccioline’: politica
ed economia nella prima Età dorata”
Ore 11 – Discussione
Ore 15,30 – Raffaella Baritono, Università di Bologna, “ ‘Civilizing Capitalism’: capi­
talismo e democrazia nella riflessione intellettuale fra Otto e Novecento”
Ore 17 – Discussione
3 luglio 2012
Ore 9,30 – Lavoro di gruppo
Ore 11 – Discussione generale
II Sessione – 1980–2001
Ore 15,30 – Duccio Basosi, Università di Venezia, “La nuova ‘età dorata’: il capitali­
smo americano nella nuova economia globale”
Ore 17 – Discussione
4 luglio 2012
Ore 9,30 – Federico Romero, Istituto Universitario Europeo, “Tra egemonia e impero: gli Stati Uniti e le sfide della globalizzazione”
Ore 11 – Discussione
Ore 15,30 – Maurizio Vaudagna, Università del Piemonte Orientale, “Il più instabile
dei diritti: diritti sociali e cittadinanza negli Stati Uniti contemporanei”
Ore 17 – Discussione
5 luglio 2012
Ore 9,30 – Sessione di discussione fra gli allievi e le allieve della Scuola
Ore 11 – Conferenza conclusiva
Per informazioni sulla Summer School:
Prof. Tiziano Bonazzi – [email protected]
Prof.ssa Raffaella Baritono – [email protected]
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www.cispea.org