L`educatore nei laboratori protetti del CARL, quale è il suo ruolo?

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L`educatore nei laboratori protetti del CARL, quale è il suo ruolo?
 L’educatore nei laboratori protetti
del CARL, quale è il suo ruolo?
Indagine qualitativa sulla specificità del ruolo educativo nei laboratori
protetti del CARL
Studente/essa
Kevin Bernasconi
Corso di laurea
Opzione
Lavoro Sociale
Educatore
Progetto
Tesi di Bachelor
Luogo e data di consegna
Manno, settembre 2015
2/38 Un matto, Fabrizio De Andrè, Non al denaro non all'amore né al cielo, 1971
Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro
E sì, anche tu andresti a cercare
le parole sicure per farti ascoltare:
per stupire mezz'ora basta un libro di storia,
io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto,
continuarono gli altri fino a leggermi matto.
E senza sapere a chi dovessi la vita
in un manicomio io l'ho restituita:
qui sulla collina dormo malvolentieri
eppure c'è luce ormai nei miei pensieri,
qui nella penombra ora invento parole
ma rimpiango una luce, la luce del sole.
Le mie ossa regalano ancora alla vita:
le regalano ancora erba fiorita.
Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina
di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina;
di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia
"Una morte pietosa lo strappò alla pazzia".
Voglio ringraziare in particolar modo mia mamma e mio papà che mi hanno sostenuto
dall’inizio alla fine della formazione e la Commissione di tesi che mi ha prontamente
seguito e stimolato durante tutto il percorso.
“L’autore è l’unico responsabile di quanto contenuto nel lavoro” 3/38 INDICE
1. Descrizione del contesto lavorativo ......................................................................................... 5 2. Definizione della problematica ................................................................................................ 8 3. Dissertazione ......................................................................................................................... 10 3.1 Approfondimento teorico ............................................................................................................. 10 3.1.1 L’approccio inclusivo ..................................................................................................................... 11 3.1.2 Il lavoro come strumento di riabilitazione con il disagio psichico ................................................. 13 3.1.3 Ruolo dell’educatore ..................................................................................................................... 16 3.1.4 La progettazione dialogica ............................................................................................................. 17 3.2 Analisi delle interviste .................................................................................................................. 19 3.2.1 La progettualità educativa interna ai laboratori protetti del CARL ............................................... 20 3.2.2 Le modalità di sviluppo dei progetti educativi individuali interni ai laboratori protetti del CARL . 22 3.2.3 Specificità dell’intervento educativo nel quotidiano ..................................................................... 24 3.2.4 Le modalità di collaborazione interprofessionali interne ai laboratori protetti ............................ 27 3.2.5 Le modalità di collaborazione interprofessionale con le figure esterne coinvolte nei progetti educativi degli utenti dei laboratori ....................................................................................................... 30 4. Conclusioni ............................................................................................................................ 32 4.1 Considerazioni della ricerca svolta ................................................................................................ 32 4.2 Trasferibilità dei contenuti del lavoro rispetto al ruolo dell’educatore nella nostra società ........... 34 4.3 Risorse e limiti del lavoro svolto ................................................................................................... 35 4.3.1 Contenuto ...................................................................................................................................... 35 4.3.2 Metodo .......................................................................................................................................... 35 5. Bibliografia ............................................................................................................................ 37 5.1 Testi ............................................................................................................................................. 37 5.2 Dizionari ....................................................................................................................................... 37 5.3 Sitografia ...................................................................................................................................... 37 5.4 Articoli scientifici .......................................................................................................................... 37 5.5 Documenti interni OSC-­‐CARL ........................................................................................................ 38 5.6 Indice degli allegati ....................................................................................................................... 38 4/38 Introduzione
Durante il mio ultimo stage formativo, che ho svolto nei laboratori protetti del CARL, nello
specifico all’interno del laboratorio di legatoria, mi sono confrontato con una realtà
lavorativa piuttosto particolare in quanto il campo lavorativo dell’educatore era condiviso
con due artigiani legatori.
Lavorare con figure professionali diverse non è stato da subito semplice soprattutto nel
capire quale fosse il ruolo dell’educatore in una realtà complessa come quella. Nonostante
i numerosi scambi e confronti, sia con la mia responsabile pratica, che con il coordinatore
dei laboratori protetti, ho capito che sarebbe stato interessante approfondire l’argomento
della specificità del ruolo educativo nei laboratori protetti visto che allo stato attuale non
esiste un documento ufficiale per i laboratori.
Nel corso dello stage mi ha incuriosito il fatto di capire quale fosse il valore aggiunto che la
figura educativa ha portato, nel corso degli anni, all’interno della realtà dei laboratori
protetti e come ogni educatore impiegato nei diversi laboratori del CARL agisce il suo
ruolo nella quotidianità e lo rende specifico.
Non avendo trovato un mansionario per gli educatori dei laboratori protetti, ho voluto
svolgere questo lavoro di ricerca centrando l’attenzione sulla specificità del ruolo
educativo, al fine d’identificare quale sia il compito dell’educatore all’interno di équipe
lavorative interprofessionali composte di figure professionali diverse.
Condividendo da subito la mia idea con la mia responsabile pratica e con il coordinatore
dei laboratori protetti, mi è stato confermato l’interesse anche da parte dell’istituzione
rispetto la tematica che ho scelto di approfondire nel mio lavoro.
I concetti teorici con i quali ho scelto di sostenere e approfondire l’argomento nel mio
lavoro di tesi sono i seguenti:
- concetto di ruolo educativo con persone adulte
- concetto di inclusione sociale
- la progettazione dialogica
- il lavoro come concetto di riabilitazione in psichiatria
In questo lavoro ho cercato di mettere a confronto la realtà lavorativa che ho incontrato
durante questo mio ultimo stage, con i concetti teorici sopra elencati in modo da portare ai
lettori una visione maggiormente chiara della figura educativa all’interno dei laboratori
protetti del CARL.
In breve nel primo capitolo cercherò di descrivere quello che è stato il contesto lavorativo
dell’ultimo stage formativo della SUPSI partendo dalla descrizione macro dell’OSC,
identificando il ruolo e il compito di questa istituzione all’interno della nostra società, per
arrivare alla specificità del CARL che gli permette di distinguersi ed avere un compito ben
preciso all’interno dell’istituzione. Da ultimo cercherò di fare luce brevemente sulla storia
dei laboratori protetti cercando di capire da dove nascono e come sono organizzati oggi.
Nel secondo capitolo identificherò la problematica da me affrontata arrivando poi
all’interrogativo di ricerca individuato per comporre questo lavoro con le rispettive
5/38 domande di ricerca che mi hanno permesso di strutturare le interviste. In questo capitolo
descriverò anche qual è stato il metodo di lavoro da me utilizzato per affrontare il mio
lavoro di tesi, introducendo gli approfondimenti teorici che utilizzerò all’interno del capitolo
della dissertazione, per analizzare e commentare quanto emerso all’interno delle
interviste.
In questo capitolo cercherò di fare parlare i concetti teorici da me selezionati con i punti di
vista delle persone che ho intervistato durante lo stage, in modo da avere un discorso che
sia teorico ma che abbia soprattutto uno sguardo sulla realtà pratica che ho scelto di
analizzare.
1. Descrizione del contesto lavorativo
In questo capitolo, ho descritto il contesto macro dell’OSC, istituzione alla quale sottostà il
CARL, per poi arrivare a definire il contesto dei laboratori protetti, luogo di lavoro
all’interno del quale ho svolto il mio ultimo stage formativo.
“Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale” (OSC) è l’istituzione statale del Canton
Ticino alla quale sottostanno tutte le strutture, sia ospedaliere, sia ambulatoriali pubbliche
aventi lo scopo di occuparsi e prendersi a carico le persone che presentano disturbi di tipo
psichiatrico.
L’OSC nasce da una terza svolta storica della gestione della psichiatria a livello cantonale,
la quale ha, di fatto, segnato la scomparsa dell'ONC (Ospedale Neuropsichiatrico
Cantonale), che dal 1994 si è suddiviso in due strutture distinte a dipendenza della
casistica della quale hanno il mandato di occuparsi: la CPC (Clinica psichiatrica cantonale)
che ha lo scopo di riabilitare e curare i pazienti psichiatrici in fase acuta e il Centro
abitativo, ricreativo e di lavoro (CARL), che ha il compito di gestire gli ospiti definiti cronici
stabilizzati.
Gli utenti che usufruiscono delle prestazioni offerte dal CARL, sono persone che
beneficiano di una rendita AI o che prima dell’età AVS ne hanno beneficiato.
Lo scopo principale del Centro è quello di gestire sia i disturbi del comportamento delle
persone che vi risiedono, ma anche quello di mantenere l’autonomia della persona.
Le due aree di attività del CARL sono le seguenti:
1.
Abitativa (circa 121 posti letto) la cui presa a carico verso l’ospite ha come obiettivo
principale la gestione dei disturbi del comportamento della persona, mantenendo, e
se possibile potenziando, il livello della loro autonomia.
2.
Lavorativa (117 posti di lavoro), strutturata in laboratori protetti, i quali hanno lo
scopo di riattivare le competenze della persona inserendo l’utente in un ciclo
produttivo.
Il CARL è quindi considerato un luogo all’interno del quale le componenti che
compongono l’acronimo ovvero “abitativo, ricreativo e lavoro” lo contraddistinguono,
6/38 mettendo al servizio dell’utenza un luogo protetto che abbia tra gli scopi quello di
soddisfare i bisogni fondamentali di sicurezza e di appartenenza.
In ogni unità abitativa, le équipe sono formate da professionisti con competenze
sociosanitarie e educative specifiche, composte da un coordinatore, educatori, operatori
socio assistenziali, infermieri psichiatrici, aiuto infermieri e assistenti geriatrici.
Nei laboratori protetti gli utenti hanno opportunità di lavoro diverse, con l’obiettivo di
accogliere gli utenti indipendentemente dalla casistica, facendo riferimento al territorio
dell’OSC (utenti del CARL, pazienti della CPC e ospiti provenienti dall’esterno).
All’interno dei laboratori protetti, i professionisti presenti che si occupano della gestione
delle attività sono: educatori, maestri socio professionali, operai e artigiani.
“Nei Laboratori protetti a supporto dell’attività degli operai, con competenze specifiche al tipo di
attività lavorativa, sono presenti dei referenti educativi che supportano il raggiungimento degli
obiettivi riferiti ai singoli piani di sviluppo degli ospiti/utenti.”1
All’interno dei laboratori protetti, l’utente, attraverso l’attività lavorativa, viene integrato in
un processo produttivo che considera sia i limiti che le capacità reali di ogni individuo,
fornendo elementi in grado di aumentare le capacità di ciascuno.
Questo modo di operare permette di realizzare un modello d’integrazione sociale e di
valorizzazione individuale della persona aiutandola a ritrovare la propria identità
permettendole di assumere un ruolo specifico.
Nei laboratori protetti è attraverso l’attività lavorativa che si fanno emergere, valorizzare e
stimolare nella persona le competenze manuali, ma anche le valenze che hanno a che
vedere con la vita relazionale e di scambio con altre persone e con i colleghi di lavoro.
Questo processo è ottenibile attraverso gli obblighi che discendono dal confronto
quotidiano con gli operatori o tra utenti stessi.
All’interno del centro sono inoltre attive due figure di assistenti sociali; un responsabile
delle attività creative e un operatore, il cui compito è quello di occuparsi degli inserimenti
professionali degli utenti. L’animatore del centro ha il ruolo di organizzare momenti di
animazione allo scopo di valorizzare in modo creativo la gestione del tempo libero. Gli
assistenti sociali invece hanno il compito di assicurare l’intervento e la presa a carico
sociale agli utenti del CARL e degli appartamenti protetti, al fine di favorire l’autonomia
dell’individuo.
Per affrontare la sintesi della ricerca documentale in merito al ruolo dell’educatore
all’interno del CARL, farò riferimento nello specifico al manuale di qualità dell’OSC e in
secondo luogo al lavoro di diploma di educatore specializzato di F.Bernardi, ex direttore
della struttura.
L’operatore impiegato nei laboratori ha il ruolo e il compito di trovare e assegnare “lavori”
adeguati alle capacità individuali dell’utente, necessari e utili, sia al laboratorio stesso, ma
1 OSC-CARL,
“Manuale qualità”, Data di emissione 16.07.2008, Data di revisione 14.04.2015
7/38 anche alla persona utente che vi lavora, in modo da permettergli di comprenderli come
indispensabili nel processo produttivo.
Questo percorso che l’operatore ha il compito di seguire e sostenere, ha lo scopo, per
quanto possibile, di permettere all’utente di ricavare una realizzazione maggiore di se
stesso, come anche una maggiore considerazione verso la sua persona.
“Il lavoro protetto può inoltre diventare un’occasione privilegiata e un trampolino di lancio per quei
soggetti di cui si prevede un ritorno a domicilio; questi possono approfittare dell’attività lavorativa
per prendere coscienza dei propri mezzi e acquisire quella sicurezza necessaria per effettuare il
tentativo di reinserimento sociale.”2
Nel lavoro di diploma di P. Bedulli, R.Cavadini, G.Poletti, dal titolo “L’aspetto lavorativo al
CARL”, ho trovato alcuni elementi interessanti per la mia ricerca in merito alla storia dei
laboratori protetti del CARL.
In breve, parte dei laboratori protetti del CARL, iniziano già la loro attività con la nascita
dell’ospedale psichiatrico, allo scopo di offrire un servizio interno alla struttura e al
sostentamento degli ospiti dell’ospedale stesso.
Oggi i laboratori sono ancora legati, in parte, ai lavori di funzionamento delle diverse unità
abitative, come alle diverse esigenze lavorative interne all’OSC.
Nei vari laboratori sono comunque richieste, agli operatori impiegati nei laboratori,
competenze e capacità lavorative e relazionali non comuni.
Le occasioni di lavoro nei laboratori sono multiple, diffuse e diversificate all’interno
dell’intero perimetro del parco di Casvegno a Mendrisio, dove risiede la struttura del
CARL. Oggi i laboratori sono sei: il laboratorio di assemblaggio, la legatoria, il laboratorio
NAOMI, l’Offset, il laboratorio di redazione Agorà e il laboratorio che si occupa della
manutenzione del parco recentemente unito al laboratorio “La serra”.
“Curare, gestire, recuperare gli ospiti con handicap prevalentemente psichici è compito specifico
dell’OSC e in certi suoi aspetti, particolare del CARL che ha assorbito e integrato fra le sue
mansioni quello di occuparsi delle attività lavorative all’interno di Casvegno”3
Tutto sommato posso dedurre che dalla storia dei laboratori all’interno del CARL, vi sia
stata una necessità di inserire piano piano, all’interno delle équipe operative, la figura
educativa allo scopo di garantire una presa a carico individualizzata, aiutando l’utente a
riacquisire la valorizzazione del suo ruolo sociale nella società.
Nell’intervista al direttore del CARL, riesco a comprende il motivo per cui si è cercato, nel
tempo, di inserire e potenziare la presenza educativa all’interno dei laboratori, con la
seguente affermazione: “…Il grosso cambiamento che sta avvenendo oggi è quello di
trasformare il progetto in una struttura di passaggio, con l’idea di un domani di reinserirle nella vita
2
BERNARDI Franco, lavoro di diploma: l’intervento educativo nell’ambito psichiatrico. Il Centro Abitativo
Ricreativo e di Lavoro, Mendrisio, 1996, pagina 36
3
BEDULLI Piercarlo, CAVADINI Riccardo, POLETTI Giovanna, lavoro di diploma: “L’aspetto lavorativo al
CARL”, Mendrisio, 1999, pagina 21
8/38 esterna (foyer, appartamenti,…). Anche i laboratori sono chiamati ad inserirsi in questo progetto
offrendo la possibilità all’utenza di potenziare la propria autonomia.
Per fare questo, stiamo cercando pian pianino di sostituire artigiani con educatori all’interno dei
laboratori, allo scopo di avere almeno una di queste figure all’interno di ognuno dei laboratori.”4
Sempre nel lavoro di diploma di P.Bedulli, R.Cavadini, G.Poletti, ho trovato alcune
interessanti indicazioni in merito a quanto richiesto, come ruolo e mansioni, alle persone
coinvolte nell’attività lavorativa del laboratorio.
“Il lavoro degli operatori, siano essi educatori, maestri socio-professionali, infermieri o altro, deve
poter avere un comune denominatore, delle basi di riferimento accettate e condivise, e delle
modalità operative che conducano al raggiungimento di obiettivi concordati.”5
Avendo come scopo del laboratorio quello educativo e riabilitativo dell’utente che decide
d’intraprendere un’attività lavorativa, tramite l’attivazione della possibilità di cambiamento
delle capacità o del comportamento della persona, la persona dovrebbe riuscire ad
acquisire o mantenere una maggiore autonomia al fine di raggiungere la miglior
integrazione sociale possibile. L’apprendimento delle abilità lavorative e sociali permette
all’utente di ridurre il disagio, come anche il distacco dalla società.
L’atto educativo nel laboratorio, come viene descritto nel testo citato sopra, può essere
riassunto nel cercare di offrire un luogo privilegiato alla persona malata per sviluppare dei
processi, sfruttando l’attività lavorativa come oggetto di mediazione di molti scambi
relazionali.
“L’atto educativo richiede la piena assunzione del ruolo da parte dell’operatore e là dove è
possibile e indicato sarebbe bene poter allestire un percorso formativo con tutta l’équipe,
prevedendo fin dall’inizio le fasi di sviluppo e i momenti valutativi di verifica. Un percorso
educativo-formativo deve avere degli obiettivi realistici e partire dalle potenzialità della persona.”6
In conclusione è importante, nell’azione educativa dell’educatore del laboratorio,
coinvolgere il più possibile la persona direttamente interessata nella costruzione degli
obiettivi che costituiscono il suo progetto.
2. Definizione della problematica
In questo capitolo ho descritto, passo per passo, quello che è stato il percorso di ricerca
sulla tematica scelta per la stesura di questo lavoro di tesi partendo dalla focalizzazione
dell’argomento, arrivando poi a descrivere il metodo di lavoro da me utilizzato.
Come spiegato nell’introduzione, al mio arrivo all’interno dei laboratori protetti del CARL, è
stato difficile capire quale fossero il ruolo e le mansioni educative specifiche dell’educatore
4 Allegato
numero 8, Intervista al direttore del CARL P.Broggi Piercarlo, CAVADINI Riccardo, POLETTI Giovanna, lavoro di diploma: “L’aspetto lavorativo al
CARL”, Mendrisio, 1999, pagina 16 6 Ibidem, pagina 17 5 BEDULLI
9/38 che lavora in questa realtà ed è chiamato a confrontarsi con équipe multidisciplinari
composte da artigiani, educatori e maestri socioprofessionali, che associano al percorso
lavorativo e produttivo dell’utente del laboratorio, una crescita individuale finalizzata
all’emancipazione delle competenze individuali. Questa difficoltà nel trovare documenti
specifici è dovuta al fatto che la figura educativa all’interno dei laboratori del CARL è stata
inserita solo negli ultimi anni, prima vi lavoravano solo artigiani e maestri
socioprofessionali.
Trovandomi confrontato con questa situazione non del tutto chiara e avendo trovato poca
documentazione sulle mansioni educative all’interno dei laboratori, ho pensato di
approfondire, attraverso la mia ricerca, quali fossero le specificità del lavoro educativo
all’interno dei laboratori protetti del CARL.
Visto che la mia intenzione era quella di svolgere un lavoro di ricerca utile anche per il
contesto istituzionale in cui ho lavorato, ho da subito condiviso la mia idea sia con il
coordinatore dei laboratori protetti che con il direttore dell’istituzione.
Il rimando che ho avuto è stato del tutto positivo e, riportando l’idea alla mia commissione
di tesi, sono arrivato alla costruzione del seguente interrogativo di ricerca:
“Quali sono le specificità del ruolo dell’educatore sociale all’interno dei laboratori
protetti di lavoro del CARL?”
Per rispondere a questo interrogativo ho di seguito formulato cinque domande guida che
mi hanno permesso di focalizzare nello specifico le tematiche sulle quali costruire la
ricerca teorica, la ricerca documentale, interna ai documenti dell’OSC e infine per costruire
il canovaccio delle interviste.
Le seguenti domande di approfondimento sono state costruite sulla base delle nozioni
teoriche apprese durante la formazione scolastica, nel corso dei tre anni accademici.
Queste domande fungono da fil rouge per tutto il lavoro e permettono di intrecciare quanto
raccolto presso gli intervistati con apporti di esperti e considerazioni personali.
Le domande nel concreto sono le seguenti:
1.
Quale progettualità educativa è prevista nella presa a carico all’interno dei
laboratori del CARL?
2.
Quali sono le modalità di sviluppo dei progetti educativi individuali per gli utenti dei
laboratori del CARL?
3.
Quali sono le specificità dell’intervento dell’educatore a livello quotidiano?
4.
Quali sono le modalità di collaborazione interprofessionale all’interno dei laboratori?
5.
Quali sono le modalità di collaborazione interprofessionale con le altre figure di
riferimento esterne coinvolte nei progetti di sviluppo individuali degli utenti?
L’approccio da me utilizzato per svolgere questo lavoro di ricerca è stato quello induttivo.
Questo approccio consiste nell’individuare dal contesto di lavoro la problematica da
affrontare, verificandola e confrontandola poi con la realtà e con le teorie di riferimento
specifiche attraverso la formulazione di domande.
10/38 Il metodo di lavoro che ho utilizzato per affrontare questo lavoro di tesi mi ha portato in
primo luogo ad attivarmi in una ricerca documentale interna ai documenti dell’OSC in
merito al ruolo dell’educatore del CARL, le modalità di presa a carico della persona, come
anche alla ricerca di mansionari assegnati alla figura educativa della struttura.
In un secondo momento ho definito quattro approfondimenti teorici che ho ritenuto
interessante utilizzare come punto di riferimento al sostegno del mio lavoro di ricerca. I
concetti sono quelli che già avevo introdotto all’inizio del lavoro, nello specifico:
- concetto di ruolo educativo con persone adulte
- concetto di inclusione sociale
- la progettazione dialogica
- lavoro come concetto di riabilitazione in psichiatria
In seguito all’identificazione della parte teorica del mio lavoro, ho da subito identificato il
target di riferimento da intervistare per avere del materiale concreto e delle risposte alle
mie domande. Nello specifico ho deciso di intervistare tutte le figure educative che
lavorano all’interno dei laboratori, come anche l’ultimo maestro socioprofessionale che è
rimasto all’interno del CARL e che lavora nel laboratorio della “serra”.
Visto che i laboratori hanno anche una figura di riferimento che ha lo scopo di coordinare
le diverse attività dei laboratori facendo da tramite con la direzione, mi è sembrato
necessario intervistare anche questa figura centrale nell’identificazione del ruolo educativo
e, non da ultimo, anche il direttore stesso dell’istituzione in modo da poter avere una
visione ampia del contesto.
Il modello d’intervista da me utilizzato nella raccolta dati è quello semi strutturato. Nel
concreto ho costruito tre tracce d’intervista differenziate per educatori, coordinatore e
direttore della struttura, affrontando l’intervista attraverso domande aperte che lasciassero
raccontare all’intervistato il suo punto di vista e il suo pensiero.
3. Dissertazione
In questo capitolo cercherò di analizzare il materiale empirico raccolto, le interviste, e la
ricerca documentale per quanto concerne il sistema di premesse istituzionale, attraverso
supporti teorici significativi nella specificità del lavoro educativo all’interno dei laboratori
protetti del CARL.
Questo capitolo è strutturato in due parti distinte. La prima parte introdurrà un
inquadramento teorico con quelli che sono i concetti teorici di riferimento per poi entrare
nel cuore dell’analisi delle interviste nella seconda parte.
3.1 Approfondimento teorico
Ritengo utile per il lettore approfondire dapprima i concetti di riferimento, i quali verranno
utilizzati per l’analisi del materiale empirico inerente la dimensione educativa del lavoro
svolto all’interno dei laboratori protetti del CARL. Nell’economia di questo lavoro, ritengo
11/38 che gli apporti esperienziali svolti con persone disabili adulte sono affini al lavoro e alle
problematiche affrontate nell’ambito del disagio psichico. Per questo motivo
nell’approfondimento teorico si troveranno riferimenti a testi che affrontano il tema della
disabilità.
3.1.1 L’approccio inclusivo
Per introdurre questo capitolo, voglio riferirmi ad uno spunto di riflessione interessante da
me trovato nel sito internet della cooperativa sociale ANFFAS Ticino di Somma Lombarda7
dove viene raccolta l’evoluzione che vi è stata negli ultimi anni rispetto alla considerazione
e alla presa a carico delle persone diversamente abili, aventi difficoltà di adattamento di
diverso tipo nella società.
Negli anni settanta, la parola d’ordine per chi operava nei servizi a favore della disabilità
era “inserimento”: “L’obiettivo primario è di permettere l’accesso ai contesti di vita, di relazione e
di informazione senza però mettere in discussione i cardini della loro organizzazione e cultura.”8 E’
solo alla fine degli anni ottanta che si è cominciato a parlare di ”integrazione”:
“Il concetto d’integrazione esige una serie di adattamenti reciproci del soggetto con disabilità ma
anche della scuola e dell’ambiente lavorativo implicato. L’integrazione non è un fenomeno naturale
o spontaneo ma il risultato del processo culturale che non va realizzato ma provocato e
organizzato.”9
Da qualche anno, in particolar modo grazie alla convenzione ONU sui diritti delle persone
con disabilità (2007), la società ha cominciato ad assistere ad un nuovo cambiamento,
dove la nuova parola d’ordine è diventata inclusione. Il concetto d’inclusione ci invita a
trovare nella pratica educativa quotidiana, delle strategie funzionali finalizzate alla
rimozione delle forme di esclusione sociale a cui le persone portatrici di disabilità sono
sottoposte quotidianamente.
Il percorso di vita di una persona con disabilità o che, nel corso della vita, si è confrontata
con situazioni difficili subendo traumi che l’hanno costretta ad una situazione di handicap,
come per esempio l’insorgere di un disagio psichico, il fallimento scolastico o
professionale, spesso si confronta con una difficoltà di accettazione da parte della società
stessa, portando la persona ad una situazione di scarsa partecipazione alle attività sociali,
nell’occupazione del proprio tempo, richiudendo l’individuo in sé stesso o nel suo stretto
nucleo famigliare.
“Percorrere le strade dell’inclusione sociale significa sostanzialmente porre la questione della
disabilità nella dimensione sociale del diritto di cittadinanza, perché riguarda tutti coloro che
partecipano alla vita sociale all’interno di un determinato contesto: includere vuol dire offrire
l’opportunità di essere cittadini a tutti gli effetti.”10
7 http://www.anffasticino.it/disabili/inclusione-sociale-ticino2.html,
Inclusione sociale, visitato il 14.07.2015 Roberto, gruppo di ricerca disability studies Italy, I diritti nella prospettiva dell’inclusione e
dello spazio comune
9 Dizionario delle scienze sociali, Milano, Zanichelli S.P.A, 1998
10http://www.anffasticino.it/disabili/inclusione-sociale-ticino2.html, Inclusione sociale, visitato il 14.07.2015 8 MEDEGHINI
12/38 L’affermazione non nasconde il fatto di dover negare che ogni individuo è diverso e che
all’interno della società vi siano persone che hanno delle disabilità e quindi il diritto di
essere gestite in maniera adeguata.
Quello che il concetto d’inclusione prevede è lo spostamento dell’attenzione nei confronti
della persona disabile focalizzandola, non più unicamente sulla persona con disabilità, ma
anche sul contesto che abita per individuarne gli ostacoli, cercando di trovare delle
strategie atte alla loro rimozione.
“Il fine è promuovere condizioni di vita dignitose e un sistema di relazioni soddisfacenti nei
riguardi di persone che presentano difficoltà nella propria autonomia personale e sociale,
in modo che esse possano sentirsi parte di comunità e di contesti relazionali dove poter
agire, scegliere, giocare e vedere riconosciuto il proprio ruolo e la propria identità.”11
La richiesta in primo luogo che viene fatta ai servizi e alle istituzioni che si confrontano con
le differenze e le disabilità sociali è di sforzarsi nell’acquisizione di un pensiero e di
un’apertura mentale al cambiamento ampliando l’ottica dell’intervento educativo, non
finalizzandola unicamente sulla relazione operatore-utente.
“Agire per la tutela dei diritti umani delle persone con disabilità significa considerare la disabilità
non come una malattia (modello medico), ma come un rapporto sociale tra le caratteristiche delle
persone e l’ambiente (modello bio-psico-sociale). Un modo di pensare sancito prima dall’OMS e
poi dall’ONU nell’ art. 3 della Convenzione, dove tra i principi generali viene posta “la piena ed
effettiva partecipazione e inclusione nella società”.”12
Come è argomentato da Angelo Nuzzo all’interno del testo: “Inclusione sociale e
disabilità”, la nuova prospettiva inclusiva pone i servizi che si occupano della disabilità,
nelle sue varie forme, di fronte ad una scelta esistenziale: continuare il proprio operato
seguendo il modello medico-diagnostico o accettare la sfida proposta dal modello
inclusivo rimettendo in gioco il ruolo degli educatori, le idee e l’approccio verso la disabilità
per rinnovarli nel nuovo concetto inclusivo.
Per poter attuare questo processo è auspicabile avere, all’interno delle istituzioni, una
condivisione di fondo da parte di tutte le figure che vi operano per il raggiungimento
dell’idea inclusiva dove ogni operatore, al suo interno, abbia un ruolo riconosciuto nel
processo di cambiamento.
“Il ruolo di chi gestisce i servizi per la disabilità può essere rivisto in un’ottica ecologica delle
relazioni e dei contesti, per comprendere potenzialità e limiti nei processi di influenzamento degli
attuali equilibri che regolano la vita sociale.”13
Nel testo viene in seguito rilevata l’importanza del saper accogliere le novità, le nuove idee
che partono da chi lavora direttamente a contatto con le persone disabili. Sono proprio le
idee che permettono di ridefinire i problemi, le ipotesi e le scelte su come poi affrontarli
11 http://www.anffasticino.it/disabili/inclusione-sociale-ticino2.html,
Inclusione sociale, visitato il 14.07.2015 12 Ibidem
13 MEDEGHINI
Roberto, VADALÀ Giuseppe, FORNASA Walter e NUZZO Angelo, “Inclusione sociale e
disabilità”, Erickson, 2013, pagina 75 13/38 concretamente nel quotidiano, con l’obiettivo di migliorare la qualità di vita delle persone.
Anche se attuare un processo inclusivo potrebbe indurre l’operatore a dover pensare di
cambiare interamente la struttura stessa in cui lavora, nel testo sopraccitato viene
spiegato che non è necessariamente così.
Nella pratica educativa quotidiana non basta prendersi unicamente cura della persona di
cui abbiamo il compito di occuparci. Sarebbe auspicabile che all’interno del serviziostruttura si ponga attenzione anche al bisogno di appartenenza nella società delle persone
che abitano il contesto. È anche attraverso la partecipazione alla società che la persona si
realizza e si sente valorizzata per quello che è, come parte di un processo.
“…per dare dignità a queste richieste, occorrerebbe iniziare ad interrogarsi su quanto i linguaggi
utilizzati dagli operatori, o le loro modalità per relazionarsi con le persona con disabilità, siano il
frutto di rappresentazioni che rimandano una visione che riconosce l’adultità delle persone con cui
si lavora, aprendosi così alla necessità di operare in senso inclusivo, per consentire loro di vivere
la condizione adulta nelle sue diverse dimensioni.”14
3.1.2 Il lavoro come strumento di riabilitazione con il disagio psichico
Per introdurre questo capitolo, dove ho approfondito il tema dell’importanza del lavoro per
l’individuo nella riabilitazione psichiatrica, ho trovato un primo spunto interessante nel
testo di M.Ghisleni e R.Moscati.
In questo scritto vengono riportate cinque funzioni psicologiche del lavoro definite “latenti”
15
(Jahoda, Lazarsfeld, Zeisel, 1986; Pombeni, 1993, p.267)
Sono le seguenti:
“- il lavoro provvede a una strutturazione del tempo quotidiano;
- il lavoro assicura regolari esperienze significative di interazione sociale al di fuori della famiglia;
- il lavoro permette di rispondere al bisogno di agire sul proprio ambiente;
- il lavoro determina una diretta connessione tra mente individuale e scopi sociali
- il lavoro contribuisce a definire aspetti importanti dello status sociale e dell’identità personale”16
Le connessioni delle funzioni sopra elencate, con le dinamiche della socializzazione, sono
fortissime, infatti il lavoro permette all’individuo coinvolto di essere riconosciuto come
cittadino attivo, partecipe di un processo e quindi incluso in un sistema che lo valorizza per
quello che fa.
Nel testo di Ghisleni e Moscati è spiegato che è soprattutto quando il lavoro viene a
mancare nella vita della persona che si verificano ed emergono aspetti di “deprivazione
psicologica” come la difficoltà ad organizzare il proprio tempo, l’isolamento sociale, la
14 MEDEGHINI Roberto, VADALÀ Giuseppe, FORNASA Walter e NUZZO Angelo, “Inclusione sociale e
disabilità”, Erickson, 2013, pagina 74 15 GHISLENI Maurizio, MOSCATI Roberto, “Che cos’è la socializzazione”, Carocci, le bussole, 2001, pagina
85 14/38 perdita di scopi significativi, l’insicurezza rispetto la propria identità e il proprio status
sociale, producendo stati di apatia.
Come educatore che lavora a contatto con utenti che vivono un momento di disagio
psichico, è importante considerare il lavoro nella possibilità di una loro riabilitazione.
Per capire come poter rendere efficace il lavoro nella riabilitazione psichiatrica, ho trovato
alcuni spunti interessanti nel testo di C.Lepri e E.Montobbio.
“…l’inserimento al lavoro di disabili è un risultato che si ottiene attraverso una operazione di
costruzione o ri-costruzione di condizioni necessarie e indispensabili.”17
La costruzione di queste condizioni prende in considerazione in primo luogo, la persona
disabile, d’altro canto anche il mondo del lavoro deve essere considerato in quanto
protagonista di questo processo. È soltanto facendo comunicare con strategie e in modo
mirato queste due realtà complesse che è possibile ottenere il risultato dell’integrazione.
Come far comunicare queste due realtà risulta essere però un processo piuttosto
complesso; è frequente infatti, nei servizi riabilitativi, trovare “l’inserimento al lavoro” come
una delle attività centrali e concetto chiave all’interno del progetto di vita della persona
disabile.
È importante quindi evidenziare come rischio del reinserimento lavorativo l’insuccesso del
progetto. Quest’ultimo ha inevitabili effetti di ritorno sull’identità della persona inserita,
come anche un effetto alone negativo sugli operatori che hanno seguito il progetto. È per
questo motivo che è molto importante ragionare sulla strutturazione di un progetto
partecipato con le persone di riferimento nella rete in modo da diminuire il rischio
d’insuccesso e suddividere le responsabilità per il raggiungimento dell’obiettivo. Nella
progettazione dell’inserimento lavorativo, è fondamentale, nell’incontro dei due mondi
(persone in difficoltà e lavoro), progettare una vera e propria metodologia dell’inserimento
lavorativo.
Una possibile strategia su come attivare un percorso progettuale di crescita, che tende
verso la relazione d’aiuto piuttosto che la diagnosi clinica dell’utente, l’ho ritrovata in un
articolo scientifico di C. Meyer.18 L’obiettivo dell’autrice, che cercherò di riassumere, ha lo
scopo di attivare un processo d’integrazione della persona avente un disagio psichico
nella società, partendo da un contesto di comunità riabilitativa protetto inteso come
“palestra”.
Il primo importante passo da fare, come educatore, quando si è confrontati con l’utente
psichiatrico, è riflettere sulla diagnosi della persona, cercando di leggerla astenendosi dal
giudizio, evitando di vedere i limiti e le difficoltà della persona unicamente come dei
disturbi, dei sintomi di una malattia, ma piuttosto come dei comportamenti disfunzionali ed
inadeguati messi in atto dall’utente in un momento di difficoltà. La diagnosi viene fatta
sulla persona, è però molto importante non dimenticare che la persona e il suo
17 LEPRI Carlo, MONTOBBIO Enrico, “Lavoro e fasce deboli”, FrancoAngeli, 1993, pagina 40
18 MEIER
Christine, “Le patologie adolescenziali e il loro trattamento nelle comunità terapeutiche”, Centro “al
Dragonato”, Bellinzona 15/38 comportamento sono due cose distinte. L’essere umano ha l’incredibile potenzialità di
riuscire a generare nuove strategie di adattamento modificando i propri comportamenti ed
i propri automatismi confrontandosi con un contesto di riferimento dove prevalga la
relazione d’aiuto da parte di professionisti terapeuti esperti.
Un importante passo da fare, prima di iniziare a costruire un percorso riabilitativo con
l’utente psichiatrico, è riuscire a definire una visione comune della problematica, con le
persone significative coinvolte nella situazione individuale della persona, che vengono
individuate come possibili risorse al cambiamento.
“Le esperienze diverse creano le differenze individuali, mentre una formazione o un orientamento
condivisi potrebbero, attraverso l’uso di una terminologia comune, contribuire a creare delle
concordanze nella percezione della stessa situazione.”19
Secondo il modello costruttivista e il costruzionismo sociale, l’individuo, in quanto
osservatore, ha una percezione soggettiva della realtà, l’atto osservativo non porta quindi
ad una realtà assoluta, bensì alla costruzione di una realtà.
Ecco perché è importante confrontarsi con i diversi punti di vista, allo scopo di condividere
le proprie interpretazioni della realtà e definire quindi una visione della problematica
comune che rappresenta il punto da cui partire per la sua risoluzione.
Il contesto riabilitativo deve quindi rappresentare una sorta di palestra relazionale, di
crescita per l’utente, ovvero “un luogo protetto in cui l’utente può sperimentare le sue strategie
relazionali e competenze tecniche senza subire delle conseguenze definitive se sbaglia.”20 La
palestra ha lo scopo sia di rivalutare le strategie e le capacità relazionali della persona che
di insegnare alla persona le competenze adatte ai vari contesti (lavoro, abitazione e tempo
libero) attraverso la costruzione di obiettivi mirati in una logica progettuale.
Anche il laboratorio protetto viene quindi visto come una palestra socio-riabilitativa che
non sia idealistica, ma che riprenda il funzionamento della realtà esterna.
“Ogni contesto deve rispecchiare il più possibile il contesto reale esterno con l’unica differenza che
se il giovane “sbaglia” non verrà “licenziato” dal posto di lavoro né espulso dalla sua casa.”21
L’allontanamento, l’insuccesso, come visto precedentemente, creano nella persona una
sensazione di scoraggiamento e abbattimento. Si parla, infatti, di gestire gli sbagli sul
posto di lavoro attraverso delle sospensioni temporanee dove si chiede alla persona,
tramite l’incontro in momenti di colloquio definiti di sostegno al progetto, di riflettere sul suo
progetto e sul perseguimento dei suoi obiettivi.
“…si tratta in questo momento di riflessione, di verificare cos’è che non ha funzionato. Non si tratta
di scoprire le cause del suo comportamento inadeguato, quanto di discutere le conseguenze
19 MEIER
Christine, “Le patologie adolescenziali e il loro trattamento nelle comunità terapeutiche”, Centro “al
Dragonato”, Bellinzona, pagina 2
20 Ibidem, pagina 16 21
Ibidem, pagina 19
16/38 relative al raggiungimento dei suoi obiettivi e di incoraggiare delle soluzioni al problema alternative
e più funzionali.”22
In seguito a queste riflessioni la persona ritorna nel laboratorio per mettersi alla prova di
nuovo con altri comportamenti in vista del suo futuro.
Attenersi ad un modello di progettazione dialogica, che ho approfondito nei capitoli
seguenti, è sicuramente uno strumento interessante e necessario per raggiungere dei
risultati soddisfacenti.
3.1.3 Ruolo dell’educatore
Per introdurre questa complessa tematica, ho preso spunto da un pensiero di Angelo
Nuzzo che descrive il complesso ruolo dell’educatore come l’artigiano della relazione.
“Per restare nella metafora, l’educatore artigiano deve ricercare continuamente le formule più
adatte ai bisogni dei clienti, perché ogni volta che interviene deve sfornare lavori su misura, unici e
irripetibili.”23
Parafrasando quanto contenuto nel testo, l’educatore è una figura professionale che deve
continuamente centrare la propria attenzione su come ricalibrare il proprio lavoro, al fine di
soddisfare le attese della persona di cui si sta occupando. Questa pratica lo rende un
lavoro pesante che richiede costantemente, nel quotidiano, spazi di riflessione. In queste
riflessioni non devono mancare riferimenti a metodologie diverse, con riferimenti teorici,
per sostenere quanto si cerca di portare avanti nell’intenzionalità educativa.
Come visto nel corso della formazione, una buona pratica-riflessiva, deve stare alla
base del lavoro educativo perché permette all’operatore di ragionare sugli interventi,
evitando la casualità e finalizzandoli a qualcosa di preciso sapendo dove si vuole arrivare.
Per realizzare una buona pratica educativa, è necessario, per l’educatore, avere in chiaro
le finalità da perseguire nella sua quotidianità lavorativa, sia rispetto alla diversità di utenti
di cui si deve occupare, ma anche rispetto allo svolgimento delle attività quotidiane, sia
lavorative nel caso di un laboratorio protetto, ma anche abitative nel caso di un foyer. In
breve, la finalità del lavoro educativo è rappresentato dalla realizzazione personale nello
sviluppo della personalità della persona di cui si occupa l’educatore.
È attraverso la costruzione di ruoli individuali e sociali che si permette alla persona di
raggiungere la propria autonomia restituendole il potere decisionale e la possibilità di
scegliere. Il compito dell’educatore sociale, nel raggiungimento di questa finalità, è di
ricostruire il senso del proprio agire producendo azioni, relazioni ed eventi che rivestano
un significato utile a fornire gli stimoli necessari per promuovere l’autonomia della
persona, rielaborando le risorse presenti o latenti, al fine di produrre un cambiamento sui
modi di essere, pensare e relazionare dell’utente stesso.
22 MEIER
Christine, “Le patologie adolescenziali e il loro trattamento nelle comunità terapeutiche”,
documentazione interna Centro “al Dragonato”, Bellinzona, pagina 19 23 BRANDANI Walter, ZUFFINETTI Paolo, “Le competenze dell’educatore professionale”, Carocci Faber, Il
servizio sociale, 2004, pagina 40 17/38 L’educatore deve sviluppare una visione di tipo evolutivo rispetto le situazioni che
osserva e dove deve intervenire, fornendo ai soggetti nuove rappresentazioni di sé, al fine
di ridefinire la rappresentazione personale e sociale della persona in modo da rinforzare
l’immagine sociale del soggetto o del gruppo di lavoro in cui opera.
Un passo importante che deve compiere l’educatore nei confronti dell’utente, è quello di
motivarsi, essere incuriosito dalla sua storia di vita, senza entrare nel giudizio, ma
dimostrandosi collaborante e disponibile. Gli interventi educativi devono essere
caratterizzati da intenzionalità, al fine di ridurre al minimo il rischio d’insuccesso; questo
può essere fatto se la costruzione del percorso è stata pensata prima di essere agita.
L’azione educativa comprende due aspetti fondamentali, quello del fare, che racchiude il
momento in cui l’educatore entra in relazione con il soggetto e quello del pensare ovvero
la ricerca di un senso, in merito a quello che succede costantemente, al fine di costruire
percorsi e ricercare regole di funzionamento adatte alla situazione.
Un aspetto interessante del ruolo educativo, l’ho ritrovato nel testo “Viaggiatori inattesi” di
C.Lepri che ci rende attenti sulla differenza di significato e impatto tra educazione ed
assistenza.
“Nell’educazione
l’obiettivo
principale
è
quello
nell’assistenza, quello di impedirne l’involuzione.”
di
favorire
l’evoluzione
della
persona,
24
Da queste parole possiamo quindi confermare l’importanza nel ruolo dell’educatore di
promuovere il cambiamento nella costruzione di un futuro con la persona, favorendo la
sua crescita e rinforzando le sue capacità di autonomia al fine di raggiungere una
partecipazione sociale più intensa e capace di sopportare e riconoscere la persona per
quello che sa fare. Nel testo questo bisogno dell’individuo di essere accettato e
riconosciuto nella società, viene descritto come bisogno di normalità, inteso come
bisogno che accomuna tutti gli esseri umani e a maggior ragione le persone che
percorrono il loro cammino di vita con qualche difficoltà e fragilità in più.
Se la pianificazione del cambiamento, e quindi delle scelte che l’utente deve prendere
nella costruzione del proprio futuro, spetta non solo all’operatore, ma piuttosto all’utente
stesso, come è possibile attivare un percorso educativo di aiuto intenzionale che sia
concreto e prenda in considerazione l’interesse dell’utente e della rete a lui vicina?
Nel prossimo capitolo cercherò di approfondire il modello di “progettazione partecipata”,
una buona risposta a come pianificare percorsi educativi, con i diretti interessati, efficaci e
funzionali.
3.1.4 La progettazione dialogica
Per introdurre questo capitolo prendo spunto dal testo di R. Medeghini, G. Vadalà,
W.Fornasa e A.Nuzzo, “Inclusione sociale e disabilità, dove viene spiegato il motivo per
cui è necessario strutturare, con la persona disabile, una buona progettazione dialogica.
24 LEPRI
Carlo, “Viaggiatori inattesi”, Appunti sull’integrazione sociale delle persone disabili, FrancoAngeli,
2011, pagina 91 18/38 Il testo suggerisce di relativizzare approcci di progettazione lineari, allo scopo di
normalizzare la persona disabile, aprendosi a modelli progettuali che promuovano
l’emancipazione e l’inclusione, rinforzando e attivando le competenze della persona e dei
contesti sociali in cui abita o lavora.
“La sfida inclusiva, in pratica, chiede ai servizi di privilegiare nuove e diverse forme di progettualità,
di tipo dialogico e partecipativo, che prestino attenzione alla promozione di relazioni, all’incontro tra
persone e realtà differenti, privilegiando la ricerca e la costruzione di significati nuovi e condivisi da
trasferire nel rapporto sia tra i singoli, sia tra i contesti, sostenendo le comunità nei processi
inclusivi e valorizzandone le competenze nel costruire esperienze in grado di creare
appartenenze.”25
Nonostante l’individualismo interno alla nostra società e la spersonalizzazione
dell’individuo, con il quale oggi siamo confrontati costantemente, dobbiamo concentrare le
nostre risorse e le nostre capacità di operatori sociali per potenziare la coesione sociale e
il senso di appartenenza alla comunità, rompendo la sensazione di solitudine che le
persone con disabilità e le loro famiglie conoscono molto bene.
“…il processo di progettazione è la risultante di una serie di eventi e azioni in cui il pensare
assume diverse forme: dall’osservare all’ascoltare, dall’attribuire significati alla ricerca di senso,
dall’elaborazione dei dati alla valutazione, dalla riunione di équipe alla supervisione, dalla
formazione continua alla riflessione circa il proprio operato, dal confronto al conflitto con i diversi
attori, dalla programmazione degli interventi alla co-progettazione e altro ancora.”26
La progettazione non è da intendersi unicamente come momento formale legato a
scadenze annuali dove si tirano le somme ridefinendo i programmi per l’anno venturo, il
progetto educativo dovrebbe essere riferito a un lavoro pensante, maggiormente
complesso, composto di azioni quotidiane, ma anche di spazi di riflessività verso quello
che succede giornalmente. Il mestiere educativo è quindi definibile come una pratica
riflessiva.
“L’educatore professionale è, di fatto, quell’operatore che attraverso gli strumenti della
progettazione educativa e soprattutto della relazione interpersonale accompagna l’utente nel suo
percorso di crescita… L’intervento educativo non è semplicemente un servizio per un’altra
persona; esso si identifica di più come un lavorare con l’utente per produrre un cambiamento.”27
Per perseguire quindi questo tipo di obiettivo con la persona, è inevitabile considerare, nel
proprio lavoro, le dimensioni che appartengono alla persona stessa, come la sua
dimensione psicologica o relazionale. L’obiettivo è quello di restituire alla persona una
lettura efficace delle sue difficoltà, che permetta all’utente di avere una visione di
cambiamento rispetto all’obiettivo che vuole raggiungere. In questo senso la signora
25 MEDEGHINI Roberto, VADALÀ Giuseppe, FORNASA Walter e NUZZO Angelo, “Inclusione sociale e
disabilità”, Erickson, 2013, pagina 80 26 BRANDANI Walter, ZUFFINETTI Paolo, “Le competenze dell’educatore professionale”, Carocci Faber, Il
servizio sociale, 2004, pagina 41 27 Ibidem, pagina 16 19/38 C.Meier ci da uno spunto interessante per mettere in pratica questo importante step del
lavoro di progettazione nella definizione degli obiettivi.
“Il definire le sue difficoltà in termini di comportamenti inadeguati o in termini di strategie relazionali
fallite, piuttosto che come manifestazione di una malattia o di un deficit psichico, permette
all’operatore ed all’utente di elencare obiettivi mancati, strategie disfunzionali e comportamenti
alternativi auspicabili e vincenti per il raggiungimento dei suoi desideri.”28
Non bisogna dimenticare nel lavoro con la persona di interagire con gli aspetti legati alla
globalità di ogni soggetto, come il suo contesto di vita o la comunità di appartenenza.
Quando l’educatore ha come focus quello di occuparsi di una singola persona, deve
essere consapevole che il suo intervento apporta, di fatto, delle modifiche nelle relazioni
del soggetto stesso rispetto alla sua famiglia, amici, colleghi,…
Tutte le relazioni interpersonali, come anche il suo ambiente di vita, subiscono dei
cambiamenti inevitabili.
È senz’altro importante nella relazione educativa un giusto equilibrio tra il coinvolgimento
nella situazione dell’utente e il distacco. Non ci si può lasciar prendere dalle situazioni
vissute dalla persona, ma nemmeno distaccarsi eccessivamente correndo il rischio di
mostrarsi disinteressati.
A questo punto sembra doveroso fare riferimento al processo circolare di costruzione di un
progetto dialogico partecipato, mirato e concreto che sia di supporto nella pratica
educativa quotidiana.
Le cinque tappe di cui si compone il progetto, sono strettamente collegate tra loro in modo
circolare. Da ogni tappa è possibile ritornare all’altra in un processo di continua cocostruzione di senso e di scelte, sviluppate coinvolgendo il più possibile tutti gli attori
nell’intero processo di progettazione. Si parte dall’ideazione nella quale si trova l’analisi
della situazione problema, per passare alla fase di attivazione di tutte le risorse e gli attori
in gioco e solo a questo punto si formalizza nero su bianco il progetto, il quale sarà
realizzato nella fase di attuazione e infine valutato. La valutazione permette di fare il
bilancio di quanto sperimentato e in prospettiva riformulare nuovi obiettivi con i quali si
riapre un nuovo ciclo progettuale. 29
3.2 Analisi delle interviste
In questo capitolo verranno riportate le sintesi significative delle interviste le quali verranno
analizzate grazie agli apporti teorici. La struttura dei sotto capitoli riprende le cinque
domande guida formulate a supporto della domanda di ricerca.
La struttura di ogni sotto capitolo comprende la sintesi e l’analisi del materiale raccolto,
seguito da considerazioni che evidenziano gli elementi salienti emersi. L’analisi delle
interviste segue cronologicamente la struttura gerarchica istituzionale; si parte quindi da
28 MEIER
Christine, “Le patologie adolescenziali e il loro trattamento nelle comunità terapeutiche”, Centro “al
Dragonato”, Bellinzona, pagina 16 29
Allegato numero 9, MAIDA Serenella, IGLESIAS Alicia, La progettazione dialogica partecipata,
L’approccio Concertativo, SUPSI DEASS, 2014
20/38 una lettura macro da parte del direttore per poi passare ad aspetti più puntuali emersi
dagli operatori.
3.2.1 La progettualità educativa interna ai laboratori protetti del CARL
•
Sintesi delle risposte e analisi
Nell’intervista al direttore del CARL Patrizio Broggi è emerso che, rispetto alla progettualità
educativa interna all’istituzione, si sta attuando un cambiamento a livello generale. Il CARL
è nato come una struttura avente lo scopo di ospitare i pazienti dell’allora ONC
immaginando che per loro diventasse la casa definitiva. Inizialmente non s’immaginava un
reinserimento nel territorio. L’acronimo CARL significa infatti centro abitativo, ricreativo e
di lavoro ed era quindi chiaro che per l’utente psichiatrico cronico avrebbe rappresentato il
suo futuro luogo di vita. In questo senso anche i laboratori si inserivano in questa
progettualità statica, allo scopo di occupare la giornata all’utente. Il cambiamento che il
CARL sta mettendo in atto attualmente è quello di trasformare il centro in una struttura di
passaggio, con l’idea di reinserire gli utenti nella vita esterna, a seguito di un percorso di
cambiamento.
“Anche i laboratori sono chiamati ad inserirsi in questo progetto, offrendo la possibilità all’utenza di
potenziare la propria autonomia.”30
Il progetto dell’utente è infatti stabilito dal foyer in cui vive la persona, i laboratori prendono
poi parte al progetto adattandone uno, specifico, per l’attività lavorativa.
Per l’educatore del laboratorio è quindi importante andare a capire quale è il progetto
dell’utente stabilito dall’ente inviante che, come detto, può essere un foyer, sia interno che
esterno al CARL, oppure un medico psichiatra, per capirne la finalità.
Lo scopo dei laboratori protetti è quindi quello dell’emancipazione nel mondo del lavoro,
che tenga conto delle capacità individuali degli utenti rispetto alla capacità di assunzione
delle numerose responsabilità richieste dall’attività lavorativa.
“Il lavoro del laboratorio è quello di permettere alla persona di riscoprire le sue capacità, le sue
risorse per entrare nel mondo del lavoro…”31
Oggi i laboratori protetti del CARL offrono dunque la possibilità all’utente di acquisire
l’identità lavorativa, in un contesto di lavoro protetto, dove viene offerta la possibilità di
esercitare un ruolo attivo nella società, valido e funzionale che possa sovrastare quello del
malato.
Rispetto al ruolo educativo, come specificato nel capitolo di approfondimento, e dal testo
“Le competenze dell’educatore professionale”, si capisce che è attraverso la costruzione
di ruoli individuali e sociali che è possibile favorire l’emancipazione dell’autonomia della
persona restituendole il potere decisionale di poter scegliere. In questo senso i laboratori
protetti del CARL contribuiscono alla costruzione identitaria dell’utente che vi lavora
rinforzando e attivando le sue competenze pratiche e relazionali.
30 Allegato
31
Ibidem
numero 8, Intervista al direttore del CARL “P.Broggi 21/38 Infatti, come sostenuto da M.Ghisleni e R.Moscati, il lavoro permette alla persona di
essere riconosciuta come cittadino attivo nella società, partecipe di un processo e quindi
incluso in un sistema che lo valorizza per quello che fa ed è capace a fare.
Mi sembra doveroso precisare che nei laboratori del CARL è comunque previsto un
momento di condivisione e negoziazione in fase di attivazione del progetto. Infatti, come
specificato dal direttore P.Broggi e come già anticipato nell’approfondimento teorico
relativo alla progettazione dialogica, non sarebbe possibile un’emancipazione o un
cambiamento dell’utente, se questi non è coinvolto in modo attivo nel suo cambiamento.
Gli educatori impiegati nei laboratori, intendono la progettualità educativa come un
processo individualizzato, costruito sulla base delle capacità e delle risorse di ogni singolo
utente:
“Lo scopo è quello di andare verso la persona, a seconda delle proprie capacità individuali.”32
Come approfondito nel capitolo relativo alla progettazione dialogica, per attivare un
percorso di emancipazione dell’autonomia individuale, anche interno ai laboratori protetti,
bisogna considerare la soggettività di ogni individuo con le dimensioni che appartengono
alla sua persona come quella psicologica e relazionale.
Le finalità del progetto individuale possono essere di tipo produttivo, professionale, per
implementare delle conoscenze di base della persona o per apprendere qualcosa di
nuovo. Non è comunque esclusa l’importanza della relazione e del potenziamento delle
capacità di socializzazione della persona.
Come esplicitato nel capitolo inerente il contesto lavorativo, il settore lavorativo al CARL,
ha lo scopo di offrire alla persona un ruolo lavorativo di valore e di importanza interno alla
struttura. L’apprendimento delle abilità lavorative e sociali permette all’utente di ridurre il
disagio, come anche il distacco dalla società.
È importante che la scelta del settore lavorativo appartenga alla persona, come esplicitato
dal direttore. L’offerta lavorativa deve però tenere in considerazione la disponibilità dei
posti di lavoro nei laboratori e le macro-finalità del progetto al quale si associa quello dei
laboratori.
Il coordinatore specifica quindi che: “Il progetto è una mediazione tra le necessità della
persona, il progetto che sta già seguendo e la disponibilità del laboratorio.”33
Il concetto di lavoro, come viene inteso all’interno del CARL, si può ricondurre allo scopo
di evitare la “deprivazione psicologica” della persona portatrice di un disagio che decide di
intraprendere un’attività lavorativa nel suo percorso riabilitativo, come viene sostenuto nel
testo di M.Ghisleni e R.Moscati. Questo avviene sempre secondo l’interesse e l’obiettivo
del progetto e della persona.
• Riflessioni personali e considerazioni
Da quanto emerge dall’analisi, si può considerare che la storia del CARL influisce sugli
obiettivi e sul modello progettuale previsto all’interno della struttura e quindi anche nei
32 Allegato
33 Allegato
numero 4, Intervista all’educatrice M. numero 7, intervista al coordinatore dei laboratori protetti C.Maiocchi
22/38 laboratori protetti. Il cambiamento di progetto del CARL è comunque un processo lungo
che va ad influire sul modello di progettazione adottato al suo interno. Per alcuni aspetti
questa istituzione ha ancora molte tracce da ospedale, sia per l’utenza, che in parte ha
vissuto il grande cambiamento, ma anche nel modo di fare di alcune figure professionali,
soprattutto quelle legate maggiormente agli aspetti infermieristici e biomedici della
persona.
Nonostante l’istituzione, nel suo intento di trasformare sempre di più il CARL in un luogo di
passaggio, tenda ad andare verso un modello di progettazione individuale, dialogico e
partecipato con l’utente, in realtà appare evidente la difficoltà di attuare progetti di
cambiamento. Progetti che hanno lo scopo di responsabilizzare l’utente di fronte al suo
futuro permettendogli di scegliere e di riorganizzarsi. Visto che il progetto individuale nei
laboratori si aggancia ad un progetto già esistente, una possibile difficoltà potrebbe essere
rappresentata dal modello di progettazione dell’ente inviante che non per forza è affine a
quello dialogico partecipato.
All’interno dei laboratori risulta comunque di primaria importanza l’ascolto degli interessi e
delle rappresentazioni dell’idea di futuro della persona in modo, per quanto possibile, di
realizzare le aspettative future dell’utenza.
Con il tempo e il cambiamento dell’utenza che usufruisce del servizio offerto nei laboratori
del CARL, cambieranno anche le modalità di progettazione e le finalità nella costruzione
degli obiettivi generali.
3.2.2 Le modalità di sviluppo dei progetti educativi individuali interni ai
laboratori protetti del CARL
• Sintesi delle risposte e analisi
La modalità di sviluppo dei progetti educativi interni ai laboratori protetti del CARL hanno
una linea generale che va a strutturare le diverse tappe della procedura di assunzione
della persona nel laboratorio il più indicato possibile.
Inizialmente arriva una segnalazione da parte dell’inviante, o della persona direttamente
interessata ad iniziare un’attività lavorativa, al coordinatore dei laboratori protetti,
quest’ultimo effettua il primo colloquio di conoscenza con la persona interessata e la sua
persona/ente di riferimento con la quale ha già strutturato un progetto e quindi un
obiettivo, legato al reinserimento nel mondo lavorativo. La persona di riferimento
dell’utente può essere un operatore di riferimento di un foyer o il medico psichiatra
curante.
A seguito della richiesta il coordinatore effettua una prima scelta, in base alle aspettative
della persona, facendo riferimento alla scheda di segnalazione che arriva al momento
della richiesta, ma anche rispetto alle disponibilità dei posti di lavoro dei laboratori.
A seguito del primo colloquio, il coordinatore ha anche il compito di valutare quale
potrebbe essere il percorso futuro della persona. Se non si riesce, per motivi organizzativi,
ad inserire la persona nel laboratorio maggiormente adatto, si può iniziare un percorso
23/38 temporaneo in un’altra realtà lavorativa, aspettando che il contesto ideale abbia
disponibilità di nuove assunzioni.
Il passo successivo è poi rappresentato da un incontro tra gli educatori e gli artigiani di
riferimento del laboratorio con l’utente interessato al fine di conoscersi e di esplicitare le
diverse aspettative, in un processo di negoziazione. “Il progetto però deve poi prevedere
anche una serie di incontri con l’inviante per riuscire a capire gli sviluppi della situazione.”34
Dopo un periodo di prova, dove viene verificato l’interesse della persona, si stipula il
contratto retroattivo che, a dipendenza delle diverse situazioni e dei diversi progetti, può
subire delle modifiche con il passare del tempo.
Sono comunque previsti uno o più momenti di valutazione e verifica di ogni progetto. In
questi momenti si valutano sia gli obiettivi lavorativi e professionali che l’andamento del
progetto educativo, al fine di poter correggere il tiro e poter modificare eventuali obiettivi
del progetto.
“Durante i momenti di valutazione, verifica, cerchiamo di mettere a confronto ed incontrare tutte le
persone che sono attorno alla persona, come il medico, il curatore, l’educatore della casa, per
vedere se il nostro progetto porta beneficio alla persona ed è in linea con quello che ha interesse
di fare.”35
Analizzando la modalità di sviluppo dei progetti interni ai laboratori, sembra sia data
grande importanza ai momenti dialogici di discussione e negoziazione rispetto le diverse
aspettative di cambiamento delle parti della rete coinvolte.
Nel modello della progettazione dialogica, infatti, “…la progettazione diventa la ricerca e la
costruzione condivisa di significati attraverso l’incontro tra persone e sistemi relazionali.”36
Come C.Meier sostiene, è molto importante, prima di iniziare un percorso riabilitativo, in
questo caso nei laboratori, definire una visione della problematica che sia esplicita e il più
possibile condivisa con tutte le figure di riferimento implicate nel progetto. Generalmente
questo importante tassello della progettazione è già approfondito nella fase di attivazione
del progetto, che nei laboratori è demandato inizialmente alla figura del coordinatore e poi
in seguito all’educatore interessato del laboratorio.
Nei laboratori del CARL non sono però richiesti in modo esplicito momenti di condivisione
del progetto con i famigliari o altre persone significative di riferimento dell’utente non
professionali. Questo aspetto è demandato principalmente al settore abitativo o ad altre
figure professionali nella rete che fungono da portavoce.
Nel corso dell’anno, è demandato alla figura educativa del laboratorio il mantenimento dei
contatti con la rete di riferimento, come anche l’organizzazione dei momenti di valutazione
in itinere del progetto.
34 Allegato
numero 8, Intervista al direttore del CARL P.Broggi numero 1, Intervista all’educatore E.
36 BRANDANI Walter, ZUFFINETTI Paolo, “Le competenze dell’educatore professionale”, Carocci Faber, Il
servizio sociale, 2004, pagina 45 35 Allegato
24/38 I momenti di valutazione rappresentano nel processo circolare della progettazione
dialogica un tassello fondamentale nel monitoraggio e aggiustamento degli obiettivi per
dirigere ed orientare la continuità del progetto. Nei laboratori del CARL questi momenti
sono garantiti almeno una volta all’anno per tutti gli utenti che vi lavorano, nel caso
dovessero esserci problemi e si valuta la necessità di intensificare i momenti di
valutazione, gli incontri possono essere anche più frequenti.
L’intervento educativo nei laboratori mira a sensibilizzare l’utente a chiedere aiuto e
supporto alla rete in caso di bisogno. Idealmente l’obiettivo è rendere sempre più
partecipe e attore principale del progetto la persona, aiutandola a comprendere i diversi
ruoli della rete e il sostegno su cui può far riferimento in caso di bisogno. L’obiettivo è
portare la persona a percepire l’insorgere di eventuali momenti di difficoltà dandogli la
possibilità di essere autonoma nella richiesta di aiuto ai membri della rete.
• Riflessioni personali e considerazioni
Come emerge dall’analisi precedente, la modalità di progettazione nei laboratori del CARL
prende in considerazione aspetti importanti quali la negoziazione e la condivisione, che
figurano nel modello di progettazione dialogica. Riflettendo sul parere degli operatori
intervistati, emergono anche le difficoltà del costruire un progetto specifico con un modello
di progettazione partecipato con l’utente e la sua rete di riferimento. Il processo di
negoziazione richiede all’operatore e alla rete un investimento in prima persona e una
rimessa in discussione dei propri valori e delle proprie rappresentazioni. Dai dati emerge
che non è sempre semplice avere queste condizioni ottimali di collaborazione da parte dei
diversi attori coinvolti nella situazione. Dalle interviste emerge comunque lo sforzo, da
parte dei professionisti dei laboratori, nel cercare di coinvolgere in primis l’utente e di
seguito la rete di riferimento per attivare un progetto condiviso e maggiormente
realizzabile. È da evidenziare lo sforzo, da parte dei laboratori, di cercare di favorire, nel
limite del possibile, la possibilità di scelta della persona, verso il suo futuro professionale.
In conclusione trovo comunque che sia limitato demandare gli aspetti di condivisione e
negoziazione del progetto con i famigliari e i sistemi di riferimento informali della persona
ad una figura professionista come l’assistente sociale; sarebbe interessante, al fine di
sviluppare un progetto maggiormente efficace, confrontarsi direttamente con le persone
esterne ritenute una risorsa per l’utente e il suo progetto.
3.2.3 Specificità dell’intervento educativo nel quotidiano
• Sintesi delle risposte e analisi
Partendo dal punto di vista del direttore dell’istituzione, l’educatore del laboratorio è
responsabile degli sviluppi e del monitoraggio del progetto dell’utente poiché ha gli
strumenti professionali sia per costruire che per valutare in itinere un progetto educativo.
L’educatore è stato inserito nei laboratori proprio per questo motivo infatti, nel piccolo
estratto del manuale di qualità, risulta che la figura educativa nel laboratorio ha la funzione
25/38 di supportare il raggiungimento degli obiettivi dei singoli piani di sviluppo individuali degli
utenti.
Nel quotidiano dovrebbe essere in grado di permettere all’artigiano di entrare nel progetto
attribuendovi gli aspetti legati all’apprendimento pratico e produttivo diventando mediatore
tra le competenze tecniche e relazionali all’interno del laboratorio. L’aspettativa nei
confronti del ruolo educativo, da parte dell’istituzione, è quella di sensibilizzare il contesto
lavorativo protetto alla creazione delle condizioni adatte per valorizzare il ruolo dell’utenza,
attraverso la costruzione di ruoli individuali e sociali in linea ai singoli progetti di sviluppo.
Come argomentato dall’ex direttore del CARL F.Bernardi, “…diventa importante il ruolo degli
operatori e la capacità di quest’ultimi di trovare dei “lavori” che l’individuo possa comprendere
come indispensabili, necessari e utili a lui e a tutti gli altri.” 37
“…è nel ruolo dell’educatore quello di prendere in considerazione il pensiero dell’utente, come
anche quello di aiutare l’utente a ragionare rispetto al suo progetto e ai suoi interessi.”38
Come sostenuto da C.Meier, è molto importante definire con gli utenti momenti di
colloquio di sostegno al progetto dove viene chiesto alla persona di ragionare sulla propria
situazione, come anche sul perseguimento dei suoi obiettivi emancipativi.
È infatti compito dell’educatore del laboratorio quello di confrontarsi quotidianamente con
l’utenza, in modo da accertarsi dell’evoluzione dei sentimenti della persona rispetto
l’attività lavorativa.
Rispetto al concetto di pratica riflessiva, l’educatore dovrebbe costantemente mettersi in
discussione di fronte agli interventi che mette in atto a sostegno del progetto, dovrebbe
lavorare in un’ottica di“…, riuscire a fare in modo di non fare quello che l’altro è in grado a fare,
semplicemente aiutare a farlo.”39
È proprio in questo senso che l’operatore artigiano della relazione, ha il compito di
centrare la propria attenzione, nella pratica quotidiana, ricalibrando quotidianamente il
proprio lavoro al fine di soddisfare le attese della persona di cui si sta occupando evitando
di sostituirsi ad essa.
La visione del ruolo educativo degli educatori dei laboratori sembra essere leggermente
diversificata e schierata su due poli che cercherò di descrivere in seguito. Da un lato vi
sono alcuni educatori che intendono la pratica educativa quotidiana come il cercare di
lavorare assieme all’utente fungendo da esempio, cercando di favorire momenti di
discussione e riflessione rispetto le situazioni individuali degli utenti durante l’attività
lavorativa.
“Cerco di trasmettere alla persona un ruolo attivo come educatore. Io cerco nel mio ruolo di
nascondermi come ruolo di educatore cercando di entrare come ruolo attivo di lavoratore,
attraverso l’esempio concreto piuttosto che teorico.”40
37 BERNARDI
Franco, lavoro di diploma: l’intervento educativo nell’ambito psichiatrico. Il Centro Abitativo
Ricreativo e di Lavoro, Mendrisio, 1996, pagina 36
38 Allegato numero 8, Intervista al direttore del CARL P.Broggi 39 Ibidem 40 Allegato numero 6, Intervista all’educatore M. 26/38 Altri invece che distinguono l’aspetto lavorativo da quello educativo assumendo un ruolo
meno influente nello svolgimento dell’attività lavorativa produttiva, occupandosi
unicamente degli aspetti educativi, di sostegno e monitoraggio del progetto.
“Gli educatori dovrebbero lavorare su più laboratori perché non guarda tanto il lavoro ma piuttosto
la casistica. Se l’educatore lo mettiamo a guardare il lavoro, prendo l’operaio e risolvo il
problema.”41
In tutti e due i casi l’educatore cerca di riconoscere la validità del gesto dell’artigiano, sia
direttamente che indirettamente, in modo da diventare mediatore dell’inclusione della
persona all’interno del laboratorio.
• Riflessioni personali e considerazioni
Si evince dal capitolo precedente che è compito dell’educatore quello di garantire un
contatto regolare con la rete degli ospiti allo scopo di avere un costante aggiornamento
rispetto allo svolgimento dei progetti individuali dei singoli utenti.
Oltre a questo emerge che l’educatore è comunque chiamato a riconoscere e a
valorizzare le risorse dell’utente, consapevole delle difficoltà e dei limiti, riadattando
continuamente il suo modo di intervenire di situazione in situazione.
Anche il riconoscimento e la valorizzazione del ruolo dell’artigiano è di fondamentale
importanza per l’educatore del laboratorio, in quanto è proprio la figura dell’artigiano che
rimanda all’utente un contesto di lavoro normalizzante, che delinei il laboratorio protetto
come una palestra riabilitativa, che possa essere in linea al cambiamento che il CARL sta
avendo negli ultimi anni nella trasformazione in una struttura di passaggio.
Dalle interviste agli educatori emerge comunque la difficoltà ad essere riconosciuti nel
proprio ruolo educativo all’interno del contesto lavorativo. Posso dunque considerare che
l’inserimento dell’educatore nel laboratorio, in un contesto che era gestito unicamente da
artigiani, abbia reso più difficile il riconoscimento e la validità della risorsa professionale. È
con il tempo, la negoziazione e la condivisione che sarà possibile valorizzare le
potenzialità di questa ancora nuova figura professionale rendendola operativa affinché si
costruisca lo spazio necessario per agire e dimostrare la validità del lavoro progettuale,
che dall’analisi emerge come uno dei punti forti del lavoro educativo.
Da quanto sostenuto dagli intervistati, i momenti che può sfruttare l’educatore per riflettere
e agire sul contesto lavorativo sono sicuramente i momenti di riunione che da qualche
anno sono stati inseriti settimanalmente, sia in ogni laboratorio che tra tutti i professionisti
dei laboratori.
In conclusione, come sostenuto dagli educatori ritengo che l’educatore all’interno del
laboratorio protetto funga da catalizzatore delle risorse dell’utente rispetto a quello che
offre il contesto in cui lavora, cercando di sostenerlo nello sviluppo della sua autonomia.
41 Allegato
numero 1, intervista all’educatore E.
27/38 3.2.4 Le modalità di collaborazione interprofessionali interne ai laboratori
protetti
• Sintesi delle risposte e analisi
Da un punto di vista macroscopico e strutturale del direttore dell’istituzione CARL, ogni
professionista impiegato nel laboratorio ha una responsabilità precisa. L’educatore
dovrebbe essere quella persona che, all’interno del laboratorio, riesce a valorizzare le
competenze di tutti gli attori coinvolti, sia utenti sia artigiani.
L’inserimento dell’educatore nei laboratori, che con il tempo il direttore ha cercato di
implementare arrivando ad avere in quasi tutti i laboratori almeno una figura educativa di
riferimento, ha avuto lo scopo di aiutare gli artigiani nell’impostazione dell’attività lavorativa
quotidiana prendendo in considerazione i punti di vista di tutti gli attori coinvolti (artigiani e
utenti). In una situazione di collaborazione di questo tipo, il progetto sarebbe più completo
e con maggiore probabilità di riuscita poiché facilitato nella condivisione delle attese
prendendo in considerazione le diverse specificità delle discipline e le competenze
specifiche di ogni professionista.
“L’educatore dovrebbe essere quella persona che riesce a valorizzare le diverse competenze, non
solo dell’utente, ma anche degli artigiani stessi.”42
L’educatore nel laboratorio rappresenta quindi una sorta di canale di comunicazione
rispetto alla complessità del mondo della psichiatria e la realtà lavorativa interna al
laboratorio, in modo da facilitare il processo d’inclusione degli utenti assunti.
L’obiettivo dei laboratori protetti di oggi non è più quello di occupare il tempo, sarebbe
interessante già all’interno dei singoli laboratori “…togliere determinate etichette alle persone
che lavorano nel laboratorio passando il concetto di laboratorio come una “palestra”.”43
Nel concetto di “palestra” relazionale di crescita della comunità terapeutica, come lo
intende C.Meier, è importante che i diversi contesti, che vive l’utente, rappresentino il più
possibile quelli del mondo esterno, riconoscendo l’errore dell’utente come uno sbaglio, un
comportamento disfunzionale, al quale è possibile rimediare in momenti di riflessione al
progetto, offrendo possibilità alla persona di migliorarsi producendo un cambiamento.
In questo senso l’educatore e l’artigiano dovrebbero avere compiti ben distinti, chi nella
gestione del lavoro, chi nel momento di riflessione al progetto.
Nei laboratori protetti del CARL, secondo il coordinatore, “Il ruolo dell’educatore è quello di
essere il filo conduttore nell’introdurre la progettualità della persona, cosa che magari viene fatta
dall’artigiano in maniera naturale. L’artigiano inizierà spontaneamente ad insegnare il lavoro alla
persona, l’educatore dovrebbe riuscire a tenere questo filo conduttore sapendo quello che
abbiamo intenzione di raggiungere con la persona.”44
42 Allegato
numero 8, Intervista al direttore del CARL P.Broggi 43 Ibidem 44 Allegato
numero 7, intervista al coordinatore dei laboratori protetti C.Maiocchi 28/38 Dalle interviste agli educatori emerge che nella diversità delle attività lavorative offerte nei
laboratori del CARL, ogni realtà ha con il tempo affinato il modo in cui gestire la
quotidianità, nella suddivisione dei compiti e delle responsabilità.
È di primaria importanza incentivare la persona a migliorarsi nello sviluppo delle sue
capacità seguendo i consigli dell’artigiano dimostrando a se stesso e agli altri cosa è
capace a fare.
In équipe risulta infatti molto importante il confronto tra i diversi professionisti in modo da
trovare per ogni utente un lavoro adeguato alle sue capacità, in linea al suo progetto di
sviluppo individuale.
Vista la diversità delle capacità, dovuta anche alle età diversificate degli utenti assunti nei
laboratori, risulta difficile per gli operatori fare un discorso generale di intervento. In alcuni
laboratori il progetto di alcuni utenti, soprattutto i più anziani, è ancora legato al vecchio
modello del CARL, quello dell’occupazione del tempo. Per i “nuovi” casi, sempre più
giovani, è invece importante impostare un altro tipo di progettualità lavorativa nel
laboratorio, più in linea con l’idea di “palestra”, dove l’artigiano si occupa di gestire le
mansioni lavorative in un contesto “normalizzante”. A questo proposito il coordinatore
sostiene infatti che all’interno dei laboratori servano maggiormente gli artigiani piuttosto
che gli educatori a gestire il lavoro pratico. “Il mio scopo è di avere questa cultura della figura
educativa, ma che l’educatore non sia così presente nel laboratorio. Nei momenti dei vari bisogni
si chiama l’educatore.”45 In questo senso è come se vi fossero due realtà lavorative distinte, una maggiormente
produttiva e l’altra più occupazionale. “Non posso gestire la parte di esecuzione del lavoro,
questa è una collaborazione, un parere che posso dare ai colleghi artigiani che gestiscono di più la
parte legata al lavoro...”46
Il grosso del lavoro con gli utenti nei laboratori, soprattutto nella parte maggiormente
produttiva, viene svolto dagli artigiani o dalla figura professionale che ha le conoscenze
tecniche del lavoro, l’educatore svolge invece un lavoro di supporto legato alla discussione
in équipe per favorire l’inclusione sociale delle persone maggiormente in difficoltà e
favorire invece la crescita e la possibilità di integrazione dei più giovani. Questo modo di
gestire l’attività lavorativa nei laboratori, tenendo unite la realtà maggiormente
occupazionale a quella più produttiva, rimanda agli utenti del laboratorio l’ipotetico futuro
nel mondo lavorativo esterno lasciando sempre la speranza e la possibilità all’utente di
sorprendere il professionista facendo vedere capacità che nessuno poteva immaginare,
d’altro canto un possibile rischio è quello che il giovane si riconosca nei colleghi che
hanno alle spalle un vissuto psichiatrico più duraturo e intenso scoraggiandosi di fronte
alla quotidianità. Il modo di gestire la quotidianità del laboratorio attualmente in vigore
permette agli educatori di avere una visione di tipo evolutivo della persona, che deve
sempre essere stimolata e disposta al cambiamento.
45 Allegato
46 Allegato
numero 7, intervista al coordinatore dei laboratori protetti C.Maiocchi numero 4, Intervista all’educatrice M. 29/38 Gli educatori, dichiarano di essere in difficoltà nella gestione della realtà lavorativa poiché
complessa e fortemente diversificata.
Nell’agevolare questa realtà lavorativa, una possibile proposta di cambiamento arriva dal
coordinatore:
“Quello che mi piacerebbe ottenere, come cambiamento, è appunto quello che l’educatore viene
interpellato nei momenti di scambio e nei momenti di reale bisogno.”47
In questa proposta di cambiamento l’educatore assume un ruolo itinerante, su più
laboratori, intervenendo unicamente quando richiesto dalle situazioni in modo da
distinguere l’atto educativo riabilitativo da quello lavorativo.
Questo cambiamento sembra però non essere condiviso da tutti gli educatori. Una parte
ritiene che la figura educativa debba essere l’esempio nel laboratorio di fronte allo
svolgimento dell’attività fungendo da motivazione anche per quegli utenti difficili da
coinvolgere e da stimolare.
• Riflessioni personali e considerazioni
Posso considerare dall’analisi soprastante che l’educatore è colui che deve saper
riconoscere e cogliere l’importanza del gesto spontaneo dell’artigiano, maestro d’arte
dell’utente, in quanto è considerata la figura che potrà offrigli i mezzi per apprendere il
lavoro e lo scopo che viene attribuito al prodotto del laboratorio.
Dall’analisi emerge che l’educatore ha la funzione di essere il mediatore dell’attività
lavorativa aiutando l’artigiano, attraverso momenti d’intervisione costanti, nell’attribuzione
di significati più ampi, che sappiano prendere in considerazione più punti di vista rispetto
alle situazioni agite ed osservate. La figura educativa rappresenta un tassello importante
nel contesto lavorativo dei laboratori protetti del CARL, nell’evoluzione che hanno avuto
nel tempo. L’educatore all’interno dell’équipe interprofessionale è responsabile della
gestione individuale della situazione sociale, relazionale e psicologica dell’utente,
indispensabile da monitorare anche nello spazio lavorativo.
Da quanto emerge dalle interviste, si può considerare che non deve essere stato semplice
per le figure educative entrare in una realtà lavorativa consolidata dove questa figura non
era prevista, portando un punto di vista nuovo, meno assistenziale ma con effetto
maggiormente emancipato verso l’autonomia dell’utenza. Nonostante gli sforzi e i
cambiamenti che vi sono stati negli ultimi anni nel rendere le diverse équipe dei laboratori
maggiormente funzionali in linea al cambiamento del CARL, risulta necessario dal punto di
vista degli intervistati il passare del tempo per lasciare alle spalle la visione occupazionale
dell’attività dei laboratori e aspettando che gli utenti che hanno vissuto il cambiamento
vadano in pensione. Emerge dall’analisi dei dati che i professionisti, specialmente gli
artigiani, che hanno vissuto il cambiamento mostrano maggiore difficoltà nel vedere il
laboratorio in un’ottica di “palestra riabilitativa” dove l’attività lavorativa ha lo scopo di
produrre un cambiamento nella persona in vista di un reale inserimento sul territorio.
47 Allegato
numero 7, intervista al coordinatore dei laboratori protetti C.Maiocchi 30/38 In conclusione, gli intervistati, che hanno vissuto direttamente ed indirettamente
l’inserimento lavorativo di un utente del laboratorio assemblaggio in una ditta esterna,
sostengono che questo evento servirà a dare una svolta alla rappresentazione dei
laboratori attribuendovi un percorso maggiormente emancipato e di cambiamento.
L’idea di cambiamento proposta dal coordinatore nell’avere educatori “mobili” su più
laboratori, che non è condivisa da tutti gli attori coinvolti, permetterebbe di scindere
l’attività lavorativa con i momenti di difficoltà della persona.
3.2.5 Le modalità di collaborazione interprofessionale con le figure esterne
coinvolte nei progetti educativi degli utenti dei laboratori
• Sintesi delle risposte e analisi
Sempre partendo da un punto di vista strutturale, dalla visione del direttore del CARL,
l’educatore del laboratorio dovrebbe essere il garante e responsabile del mantenimento
del contatto con la rete di riferimento dell’utente in un’ottica di valutazione continua del
progetto. L’utente deve sempre essere informato di fronte ad ogni azione dell’educatore e,
se possibile, deve essere lui a ritenere necessario un supporto e un sostegno attivando la
rete nel momento del bisogno.
È importante per il laboratorio capire se le persone che stanno attorno all’utente
rappresentano dei possibili aiuti rispetto al progetto e non delle difficoltà. Dal punto di vista
del direttore, i genitori e i parenti non sempre contribuiscono a favorire l’autonomia della
persona nel momento del disagio, delle volte rappresentano, infatti, parte del problema.
In linea al cambiamento previsto all’interno del CARL, si dovrebbe riuscire ,con il tempo,
ad avere maggiori dimissioni dalle strutture abitative, i quali utenti modificheranno il
proprio contratto da “ospite” del CARL ad utente esterno. In questo caso l’educatore del
laboratorio diventerà il regista del progetto, della situazione della persona, in
collaborazione con i professionisti esterni come medici, curatori, assistenti sociali,...
Riprendendo una citazione dal testo “L’aspetto lavorativo al CARL”:
“L’atto educativo richiede la piena assunzione del ruolo da parte dell’operatore e là dove è
possibile e indicato sarebbe bene poter allestire un percorso formativo con tutta l’équipe,
prevedendo fin dall’inizio le fasi di sviluppo e i momenti valutativi di verifica.”48
Già nel 1999 si parlava di allestire percorsi formativi con tutta l’équipe (inteso come rete di
riferimento della persona), in modo da definire un vero e proprio progetto educativo
valutato in itinere. In questo senso il pensiero istituzionale di oggi verso la responsabilità
educativa di lavorare in rete, mette i laboratori nella condizione di avere un contatto
continuo e costante con i punti di riferimento degli utenti in modo da avere continui
aggiornamenti sul progetto e quindi anche una maggiore coerenza negli interventi
interdisciplinari.
48 BEDULLI
Piercarlo, CAVADINI Riccardo, POLETTI Giovanna, lavoro di diploma: “L’aspetto lavorativo al
CARL”, Mendrisio, 1999, pagina 17 31/38 Questo punto di vista istituzionale in merito all’importanza del lavoro di rete, è sostenuta
dal modello progettuale dialogico, il quale sostiene l’importanza del lavoro e della
comunicazione in rete. L’intervento messo in atto con l’utente in un determinato contesto
porta delle modifiche inevitabili in tutte le relazioni del soggetto sia professionali sia
personali. Ecco perché è importante ritagliare, nel corso dell’anno, spazi dialogici
d’incontro tra i membri della rete implicati.
Le modalità di collaborazione e comunicazione in itinere con le figure esterne della rete di
riferimento degli utenti “vengono fatte principalmente per mail o per telefono, alle persone
direttamente interessate…lo scambio tra le diverse figure di riferimento permette di conoscere
diversi aspetti e capacità della persona che emergono dai contesti diversi.”49
Gli educatori in generale riconoscono il valore e il sostegno della rete di riferimento. Dal
loro punto di vista emerge che viene spesso interpellata soprattutto allo scopo di fissare
degli incontri, fissare degli appuntamenti ma anche semplicemente per uno scambio di
informazioni rispetto alle diverse rappresentazioni della situazione della persona.
La rete viene soprattutto interpellata quando vi sono problemi, se invece tutto procede in
modo tranquillo, la comunicazione viene mantenuta in maniera più diluita nel tempo.
E’ solo negli ultimi 3-4 anni che nei laboratori si è cominciato a lavorare in rete. Questo
sicuramente contribuisce a creare delle difficoltà nel raggiungimento del nuovo progetto
del CARL atteso dal direttore. Un buon lavoro di rete si costruisce infatti con il tempo
attraverso la negoziazione e la condivisione.
Alcuni educatori sembrano non essere sempre soddisfatti del tipo di collaborazione che si
instaura con la rete. Una criticità è infatti legata alla poca disponibilità al confronto e alla
poca conoscenza da parte di alcuni membri della rete rispetto il lavoro svolto nei
laboratori.
La collaborazione può sicuramente migliorare se l’educatore aumenta la sua disponibilità
di confronto dando responsabilità all’utente di fronte a questo importante supporto di cui
dispone.
“Ultimamente ho notato che la disponibilità dei membri della rete migliora dal momento in cui
anche io mi rendo disponibile venendo incontro al medico o alle altre persone di riferimento
facendo cioè io il primo passo, o cercando nel concreto di andare io nel suo studio per un
incontro.”50
Come già detto, ogni anno viene svolto almeno un incontro di rete per ogni utente che
lavora all’interno dei laboratori. Questo rappresenta un'altra modalità di collaborazione dei
laboratori, con le reti di riferimento dei diversi attori coinvolti.
“La valutazione diventa per questo modello parte inscindibile della progettazione, perché ne
costituisce il canale di alimentazione. Valutare è ricercare e riconoscere i significati costruiti del
49 Allegato
50 Allegato
numero 7, intervista al coordinatore dei laboratori protetti C.Maiocchi numero 3, Intervista all’educatrice C. 32/38 problema e il senso di ciò che è successo, attraverso il confronto tra le diverse attribuzioni e con la
partecipazione attiva dei diversi attori coinvolti” 51
• Riflessioni personali e considerazioni
Come emerso dall’analisi, il grande sforzo degli educatori dei laboratori nel corso di questi
ultimi anni, è stato quello di essere maggiormente efficaci nella relazione d’aiuto con
l’utente, attivando un lavoro di rete che rappresenta però un processo lungo e complesso.
Emerge dalle analisi che vi sono delle analogie rispetto alla modalità di progettazione
interna al laboratorio e le modalità di collaborazione con le diverse reti di riferimento degli
utenti. Poiché il progetto del laboratorio si allaccia ad un progetto già esistente, lo spazio
di azione all’interno della rete dell’educatore del laboratorio, nelle sue intenzioni integrative
inclusive, risulta essere limitato.
Posso considerare, da quanto emerso dall’analisi, che sarebbe interessante e innovativo
per la struttura del CARL potenziare la visione educativa all’interno delle reti di riferimento
degli utenti. Sarebbe un importante passo da fare nella direzione di valorizzare le risorse
degli utenti piuttosto che i loro limiti. Ritengo questo importante poiché appartiene al
percorso di cambiamento che il CARL sta cercando di attuare in questi ultimi anni.
Dai dati emersi, posso considerare che all’interno dei laboratori protetti del CARL, le
modalità di collaborazione interprofessionale, con la rete di riferimento degli utenti, sono
basate principalmente sul bisogno e la richiesta dell’utente rispetto le sue difficoltà.
4. Conclusioni
4.1 Considerazioni della ricerca svolta
Arrivato alla fine di questo lavoro, provo a sintetizzare i risultati emersi a partire dalla
domanda di ricerca:
“Quali sono le specificità del ruolo dell’educatore sociale all’interno dei laboratori
protetti di lavoro del CARL?”
Rispetto a quanto emerso dai dati raccolti attraverso le interviste, il primo aspetto da
considerare nella risposta alla domanda di ricerca è legato alla storia del CARL, la quale
influisce sul modello progettuale previsto all’interno della struttura e quindi anche nei
laboratori protetti. Concretamente, per quanto riguarda le specificità del ruolo educativo nei laboratori
protetti, risulta di primaria importanza l’ascolto degli interessi e delle rappresentazioni
dell’idea di futuro dell’utente in modo, per quanto possibile, di aiutare la persona a
realizzare le sue aspettative di futuro.
L’istituzione nel suo intento di trasformare il CARL in un luogo di passaggio, sembra
tendere verso un modello di progettazione individuale, dialogico e partecipato con l’utente. 51 BRANDANI
Walter, ZUFFINETTI Paolo, “Le competenze dell’educatore professionale”, Carocci Faber, Il
servizio sociale, 2004, pagina 46 33/38 Il questo senso risulta però complessa l’applicazione del processo di negoziazione
necessario al cambiamento, in quanto richiede all’operatore e alla rete di riferimento che
collabora, una rimessa in discussione dei propri valori e delle proprie rappresentazioni. Dall’analisi emerge che il riconoscimento e la valorizzazione del ruolo dell’artigiano
all’interno del laboratorio, da parte dell’educatore, sono di fondamentale importanza. È la
figura dell’artigiano che rimanda all’utente un contesto di lavoro normalizzante, che
delinea il laboratorio protetto come una palestra riabilitativa, che possa essere in linea al
cambiamento che il CARL sta avendo negli ultimi anni, nella trasformazione in una
struttura di passaggio. Questo processo risulta essere rallentato in quanto gli educatori
sostengono di vivere ancora oggi delle difficoltà nel confronto con gli artigiani.
Aumentando la comunicazione e rendendola più efficace nel confronto in équipe, queste
divergenze tra i diversi punti di vista potrebbero migliorare valorizzando la visione delle
differenze delle specifiche professioni.
Dall’analisi dei dati posso inoltre aggiungere che un altro importante compito demandato
all’educatore nel laboratorio, è quello di garantire un contatto regolare con la rete degli
utenti, allo scopo garantire la continuità nei progetti individuali e un costante
aggiornamento rispetto al loro sviluppo.
Sta inoltre al ruolo educativo riconoscere e valorizzare le risorse dell’utente, consapevole
delle difficoltà e dei limiti, riflettendo continuamente all’interno dell’équipe su come
aggiustare il progetto del laboratorio, rispetto a quanto viene osservato e valutato.
I momenti che può sfruttare l’educatore per portare avanti riflessioni volte al cambiamento
del contesto lavorativo, sono, prima di tutto, i momenti di riunione e di incontro formali
previsti settimanalmente. È nella specificità del ruolo educativo nei laboratori, quello di essere responsabile della
gestione della situazione sociale, relazionale e psicologica dell’utente in quanto ritenuta
importante da monitorare anche nel contesto lavorativo.
Le modalità di progettazione interna ai laboratori e le modalità di collaborazione con la rete
di riferimento, presentano delle analogie. Il progetto del laboratorio del quale è garante e
responsabile l’educatore, si allaccia ad un progetto già esistente. Per questo motivo lo
spazio di azione, dell’educatore del laboratorio, all’interno della rete risulta essere limitato.
Dall’intervista ai diversi educatori emerge che se si riuscisse a potenziare la visione
educativa all’interno delle reti di riferimento degli utenti, si farebbe un passo avanti nel
valorizzare le risorse dell’utente piuttosto che i suoi limiti.
Questo compito spetta sicuramente in primo luogo agli educatori che devono riuscire a
trovare il modo di rendere il loro punto di vista maggiormente valido anche sostenuti da un
mansionario specifico e maggiormente dettagliato che illustri il ruolo dell’educatore in
maniera esplicita all’interno di laboratori protetti.
34/38 4.2 Trasferibilità dei contenuti del lavoro rispetto al ruolo dell’educatore
nella nostra società
Dal mio punto di vista, i contenuti emersi da questo lavoro sono sicuramente estendibili
alle finalità educative verso cui un operatore sociale dovrebbe tendere nella pratica
quotidiana.
In modo particolare, ci tengo a rilevare l’interessante proposta di A.Nuzzo che, in una
visione inclusiva della società, propone alle realtà istituzionali delle strategie di
valorizzazione del ruolo sociale e di partecipazione attiva della persona avente un disagio
psichico nella società.
“La dimensione di soggetto che vive il territorio, ricercando le occasioni promosse da altri soggetti
sociali per parteciparvi, stringendo legami di cooperazione, partecipando alla realizzazione di
iniziative e progetti. Concretamente, per i servizi significa creare occasioni di incontro, confronto,
scambio, conoscenza, condivisione e dialogo, in grado di coinvolgere le realtà del territorio
attraverso proposte che sappiano creare le condizioni ideali per la costruzione di relazioni
positive.”52
In questo senso considero importante, nelle realtà dei laboratori protetti, considerare
continuamente, a livello educativo, delle possibilità di confronto, da parte degli utenti
implicati, con le realtà esterne allo scopo di rompere le barriere psico-sociali di paura ed
etichettamento dei luoghi di cura e riabilitazione.
In questo senso ho trovato interessante l’esperienza del laboratorio “assemblaggio” del
CARL dove per alcuni giorni al mese gli utenti si spostano, presso una delle principali ditte
che commissiona il lavoro, per lavorare direttamente nella fabbrica, dove viene loro
chiesto di fare lo stesso lavoro che fanno in laboratorio.
“Il progetto che era in cantiere l’anno scorso e che ultimamente si sta concretizzando il quale
consiste nel lavorare fuori, in primis ha lo scopo di togliere questa etichetta di malato psichiatrico,
l’altro per cercare di dare a queste persone la possibilità di vedere la ditta esterna, come è, vedere
gli operai che ci lavorano dentro, come anche i ritmi di lavoro. Per gli operai che sono lì, invece,
l’obiettivo è vedere chi sono le persone a cui portano il lavoro in laboratorio, vedere come
lavorano, come si comportano e che ritmi hanno.”53
In questa situazione, è stato il laboratorio che si è spostato in un'altra realtà, allo scopo di
permettere e favorire un confronto, d’altra parte ritengo interessante considerare anche la
possibilità di aprire le porte dei laboratori alla popolazione, in modo da mostrare le
numerose qualità e abilità possedute degli utenti che vi lavorano.
Nel corso del mio ultimo stage formativo che ho avuto occasione di svolgere all’interno del
laboratorio di legatoria, sono riuscito ad imparare, osservando e ascoltando i consigli degli
utenti del laboratorio rispetto le tecniche di rilegatura, una nuova professione, interessante
ed utile in vista del mio futuro.
52 MEDEGHINI
Roberto, VADALÀ Giuseppe, FORNASA Walter e NUZZO Angelo, “Inclusione sociale e
disabilità”, Erickson, 2013, pagina 80 53 Allegato numero 2, Intervista all’educatore U., pagina 4 35/38 Anche il concetto di palestra come comunità riabilitativa lo trovo interessante da estendere
alla figura educativa in generale perché ritengo che ogni individuo, soprattutto se
manifesta dei disturbi psichiatrici, debba avere la possibilità di confrontarsi e sperimentare
le sue capacità socio-relazionali in contesti che riproducano le condizioni lavorative
esterne, ma che dimostrino di essere comunque vicini alla diversità delle situazioni,
ridando alla persona la possibilità di migliorarsi e credere nelle sue capacità.
4.3 Risorse e limiti del lavoro svolto
4.3.1 Contenuto
Ritengo che la risorsa principale di questo lavoro sia quella di aver messo in risalto gran
parte degli aspetti importanti che definiscono la specificità del ruolo educativo all’interno
dei laboratori protetti del CARL, in modo costruttivo e complementare.
Dal mio punto di vista è segno di professionalità quello di riconoscere il valore del gesto
educativo dei colleghi professionisti, il valore della diversità nel vestire il proprio ruolo
professionale. Ritengo che questo modo di affrontare la collaborazione in équipe sia un
buon punto di partenza per affrontare i conflitti e le divergenze che fanno comunque parte
del lavoro educativo quotidiano.
Affrontare questo lavoro d’indagine mi ha anche fatto capire l’importanza del ricordare che
la storia istituzionale influisce sulle modalità di cambiamento della presa a carico della
persona all’interno della struttura in cui si opera. Nel caso del CARL, la componente
infermieristica, legata maggiormente al modello bio-medico rallenta dal mio punto di vista
la visione inclusiva, alla quale la figura educativa fa riferimento, rendendo più difficile e in
alcuni casi anche logorante il lavoro educativo.
È comunque da considerare che dagli aspetti emersi durante le interviste emerge
maggiormente la rappresentazione ideale della persona, piuttosto che la dimensione reale
e applicativa della situazione in sé. Quest’aspetto rappresenta sicuramente un limite del
mio lavoro di tesi che per alcuni aspetti ritengo risulti essere idealistico.
Un altro limite di questo lavoro è sicuramente legato al fatto che i risultati ottenuti sono
limitati al pensiero istituzionale e alle figure educative implicate nei laboratori protetti del
CARL. Sarebbe interessante riflettere, in futuro, sulla percezione della specificità del ruolo
educativo dal punto di vista dell’utenza dei laboratori e degli altri professionisti che vi
lavorano, per avere materiale da confrontare con i miei risultati ottenuti.
Penso comunque di aver raggiunto, come emerge dalle considerazioni sul lavoro svolto,
l’obiettivo che mi ero posto all’inizio del percorso.
4.3.2 Metodo
Questo lavoro di ricerca mi ha permesso, soprattutto attraverso le interviste che ho
sviluppato, di sperimentare in prima persona il valore del confrontarsi, all’interno di
un’istituzione con i propri colleghi di lavoro, come anche con le figure professionali che
rivestono ruoli dirigenziali e di coordinamento. È stato interessante conoscere le diverse
36/38 rappresentazioni del ruolo agito dai vari professionisti per avere un’idea maggiormente
ampia delle attese istituzionali e su come poterle perseguire nella pratica educativa
quotidiana.
Questo lavoro mi ha inoltre confermato l’importanza dell’approfondire la propria pratica
lavorativa quotidiana, attraverso concetti teorici di riferimento specifici, per valorizzare gli
interventi attribuendogli scopi specifici che evitano l’intervento casuale. Si è dimostrata
inoltre una risorsa ricercare all’interno dei documenti ufficiali all’istituzione, riferimenti
specifici sulla funzione educativa, in modo da chiarire gli obiettivi istituzionali. Questa
ricerca si è dimostrata difficile, in quanto i documenti interni hanno pochi riferimenti alle
mansioni educative e alla specificità del ruolo dell’educatore.
Il principale limite del mio lavoro è sicuramente stato il poco tempo a disposizione per
l’elaborazione dei dati raccolti. Per aiutarmi la mia commissione ha saputo darmi gli
elementi di sintesi necessari per rendere la parte della dissertazione maggiormente
scorrevole. Sarebbe stato interessante approfondire, domanda per domanda, ogni aspetto
indagato nelle interviste, magari attraverso qualche approccio teorico di riferimento in più.
Sono comunque contento della metodologia di lavoro che ho deciso di adottare nello
svolgimento della problematica perché permette una lettura strutturata con un senso
logico di tutto il lavoro.
37/38 5. Bibliografia
5.1 Testi
BEDULLI Piercarlo, CAVADINI Riccardo, POLETTI Giovanna, lavoro di diploma:
“L’aspetto lavorativo al CARL”, Mendrisio, 1999
BERNARDI Franco, lavoro di diploma: l’intervento educativo nell’ambito psichiatrico. Il
Centro Abitativo Ricreativo e di Lavoro, Mendrisio, 1996
BRANDANI Walter, ZUFFINETTI Paolo, “Le competenze dell’educatore professionale”,
Carocci Faber, Il servizio sociale, 2004
FORNASA Walter, MEDEGHINI Roberto, VADALÀ Giuseppe, NUZZO Angelo, “Inclusione
sociale e disabilità”, Erickson, 2013
GHISLENI Maurizio, MOSCATI Roberto, “Che cos’è la socializzazione”, Carocci, le
bussole, 2001
JAHODA.M, LAZARSFELD.P.F, ZEISEL.H, I disoccupati di Marienthal, Edizioni lavoro,
Roma, ed.or.1981, 1986
LEPRI Carlo, MONTOBBIO Enrico, “Lavoro e fasce deboli”, FrancoAngeli, 1993
LEPRI Carlo, “Viaggiatori inattesi”, Appunti sull’integrazione sociale delle persone disabili,
FrancoAngeli, 2011
5.2 Dizionari
Dizionario delle scienze sociali, Milano, Zanichelli S.P.A, 1998
5.3 Sitografia
Anffas
Ticino
Onlus
di
Somma
Lombardo,
Inclusione
sociale,
http://www.anffasticino.it/disabili/inclusione-sociale-ticino2.html, visitato il 14.07.2015
Sito ufficiale OSC, http://www4.ti.ch/dss/dsp/osc/chi-siamo/presentazione-osc/, visitato il
11.08.2015
5.4 Articoli scientifici
MEDEGHINI Roberto, gruppo di ricerca disability studies Italy, I diritti nella prospettiva
dell’inclusione e dello spazio comune
MEIER Christine, “Le patologie adolescenziali e il loro trattamento nelle comunità
terapeutiche”, Centro “al Dragonato”, Bellinzona
38/38 5.5 Documenti interni OSC-CARL
OSC-CARL, “Manuale qualità”, Data di emissione 16.07.2008, Data di revisione
14.04.2015
Centro abitativo, ricreativo e di lavoro, Concetto generale, Versione 09.2002
5.6 Indice degli allegati
Allegato numero 1: Intervista educatore E.
Allegato numero 2: Intervista educatore U.
Allegato numero 3: Intervista educatrice C.
Allegato numero 4: Intervista educatrice M.
Allegato numero 5: Intervista educatrice M.
Allegato numero 6: Intervista educatrice M.
Allegato numero 7: Intervista coordinatore laboratori protetti Claudio Maiocchi
Allegato numero 8: Intervista direttore CARL Patrizio Broggi
Allegato numero 9: MAIDA Serenella, IGLESIAS Alicia, La progettazione dialogica
partecipata, L’approccio Concertativo, SUPSI DEASS, 2014
Allegato numero 10: Tracce d’intervista al direttore, coordinatore e agli educatori dei
laboratori protetti