Itinerario di comunione Il Castello Interiore di
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Itinerario di comunione Il Castello Interiore di
Itinerario di comunione Il Castello Interiore di Teresa di Gesù Giovanni Moioli Itinerario di comunione Il Castello Interiore di Teresa di Gesù a cura delle Carmelitane Scalze Monastero di Sassuolo (MO) Edizioni OCD In copertina: icona di Santa Teresa di Gesù realizzata e venerata nel monastero delle Carmelitane Scalze di Sassuolo (MO) Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-7229-412-3 © Edizioni OCD - Anno 2008 Via Anagnina 662/b - 00118 ROMA MORENA Tel. 06.79.89.08.1 - Fax 06.79.89.08.40 [email protected] - www.edizioniocd.it Presentazione Parlare di Teresa di Gesù, più comunemente conosciuta come Teresa d’Avila o la “grande Teresa” o come la “Santa Madre”, secondo la consuetudine del Carmelo, è parlare di una donna, di una santa, le cui doti singolari si impongono ancora oggi: maestra spirituale, riformatrice dell’ordine carmelitano femminile, maestra di preghiera, mistica … Bisognerebbe ripercorrere questi suoi “titoli”, che la definiscono in profondità. E bisognerebbe rileggere la storia del suo tempo: perché Teresa è donna del suo tempo, non estranea, quindi, alle situazioni difficili del secolo XVI, capace di coglierne le contraddizioni, le stanchezze, le agonie… e di reagirvi senza mezzi termini. Ma non è di questo che le riflessioni-meditazioni di Giovanni Moioli parlano. Piuttosto egli intende cogliere, e proporre alle Carmelitane di Sassuolo, cui si rivolge con la consueta familiarità e sintonia, la profondità della Santa, innamorata di Dio, di Cristo, «l’Assoluto della vita, l’Unico Bene», al quale parla con una grande effusione del cuore, raggiungendo con Lui l’intimità di una comunione, pienamente assunta in una esperienza singolare. Esperienza non Itinerario di comunione rinchiusa, non trattenuta per sé, ma proposta alle «monache carmelitane scalze, sue sorelle e figliole», come lei stessa scrive all’inizio del trattato, detto Castello Interiore. L’autore indugia nell’accompagnare le parole di Teresa, nel suo proporre la dimora nel Castello, al cui centro sta il Re, che è il Signore. Nel ribadire «l’idea della presenza di Dio nell’anima per essenza e per potenza», come afferma la Santa, ne mette in luce la peculiarità di un vissuto non dissociato dalla riflessione teologica e biblica, nel suo rimando alla “dimora” giovannea, secondo il dettato del capitolo quattordicesimo del Vangelo. Don Moioli, in queste pagine, scrupolosamente conservate nella registrazione e riprodotte dalle monache, ci prende per mano e ci fa penetrare nel «castello di cristallo delle sette dimore» per farcene assaporare la bellezza, per sottolineare che, proprio nel centro dell’anima, è possibile l’incontro con Colui che è “il centro” assoluto, la cui iniziativa è di farci gravitare verso di sé, verso quell’unione trasformante, cui ciascuno di noi deve tendere. Proprio a partire di qui è possibile comprendere in profondità il simbolismo, di cui è gravida l’opera teresiana. Il simbolo, o i simboli, lasciano infatti intravedere la loro forza evocativa, nel rimando ai contenuti essenziali della fede, all’autenticità della contemplazione cristiana, all’itinerario di conversione e di trasformazione che non solo è di chi ha abbracciato la vocazione carmelitana, ma è di ogni credente. Sembra essere questo l’intento fondamentale dell’Autore, il quale, proprio attraverso un commento puntuale e fedele al Trattato di Teresa, richiama i punti Presentazione nodali della fede cristiana, indugiando sull’umanità di Cristo, che Teresa intuisce e comprende come luogo della piena rivelazione di Dio, della divinità del Figlio in rapporto con il Padre e con lo Spirito Santo. Nel riproporre questa fondamentale acquisizione di Teresa, ne dimostra la pregnanza anche sul piano del cammino spirituale, che non può prescindere dal riferimento cristologico e trinitario. Qui si colloca il cammino dell’unione, i cui registri, presenti nel Castello, sono la “sequela” e l’“orazione”: registri che si compongono, senza dialettica. Don Moioli vi insiste, esplicitando con chiarezza il messaggio universale di Teresa: messaggio, cioè, rivolto a tutti. Così, pur parlando con trasparenza a Carmelitane, di cui conosce e apprezza il vissuto, dichiarando «normale per una vocazione come la vostra» l’assimilazione di questi due registri, si augura che proprio la comprensione della vocazione carmelitana possa consentire a tutti di assimilare la struttura dell’esperienza cristiana, qualunque sia la propria condizione di vita. Una conclusione, dunque, che apre a una grande lezione per ogni credente: chiamato a riconoscere la verità e la grandezza dell’uomo nell’umano di Gesù Cristo, nella fondamentale disponibilità a ritrovarlo anche attraverso «lo scavo dell’orazione». Dora Castenetto Nota Redazionale La relazione è stata svolta da Giovanni Moioli presso il Carmelo di Sassuolo, presumibilmente nell’arco di tempo che va dal 1978 al 1983. Il testo, rivolto alla comunità delle Carmelitane Scalze, è tratto dalla registrazione e mantiene volutamente la forma del parlato. Le edizioni cui il relatore si riferisce per il commento ai testi di Teresa d’Avila sono: Santa Teresa di Gesù, Opere, Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1968 (versione del testo originale spagnolo eseguita da padre Egidio di Gesù e tratta dall’edizione di padre Saverio di S. Teresa, Edizioni Monte Carmelo, Burgos 1954). Santa Teresa di Gesù, Lettere, Postulazione Generale OCD, Roma 1970 (traduzione di padre Egidio di Gesù). Attualmente le traduzioni italiane più recenti sono: 10 Itinerario di comunione Teresa d’Avila, Opere Complete, Edizioni San Paolo, Milano 1998 (nuova versione riveduta della traduzione italiana di L. Falzone, condotta sulla settima edizione critica di T. Alvarez, con aggiunta del Cammino di Perfezione - Codice dell’Escorial - a cura di Giovanna della Croce). Santa Teresa di Gesù, Epistolario, a cura di T. Alvarez, traduzione italiana di L. Falzone e F. Puttini, Roma 1982. Si ringrazia la professoressa Dora Castenetto per la preziosa collaborazione. profilo della Santa* Teresa nasce ad Avila il 28 marzo 1515 da don Alonso de Cepeda e da donna Beatriz de Ahumada; è la sesta di dodici figli. Verso i sei anni legge con il fratello Rodrigo il Flos Sanctorum e, affascinata dal concetto di eternità, organizza una fuga in cerca del martirio, ma i due vengono scoperti e ricondotti a casa. Con l’adolescenza Teresa, fortemente influenzata dalla lettura di romanzi cavallereschi, inizia a intrecciare i primi rapporti sentimentali fuori dalla famiglia con un giovane cugino, mentre la sua attrazione per la dimensione spirituale va affievolendosi. A quattordici anni perde la mamma e il padre la affida alle Agostiniane della città dove la giovane rimane come educanda per un anno e mezzo. In questo clima di preghiera riemergono il fascino di Dio e il pensiero per la vita religiosa, ma una malattia la costringe ad abbandonare il collegio. A casa dello zio Pedro Sánchez de Cepeda, dove viene condotta per le cure necessarie, legge le Lettere di san Girolamo e, * Liberamente tratto dalla presentazione di L. Borriello in Teresa d’Avila, Opere complete, Edizioni Paoline, Milano 1998. 12 Itinerario di comunione dopo tre mesi di lotta interiore, prende la decisione di entrare in convento nonostante l’opposizione del padre: verrà accolta tra le Carmelitane nel monastero dell’Incarnazione ad Avila. Veste l’abito religioso il 2 novembre 1536 e fa la professione solenne il 3 novembre dell’anno successivo. Poco dopo, uno strano male la costringe a lasciare il monastero e suo padre la conduce a Becedas dove si sottopone a cure intensissime che la sfibrano fisicamente e moralmente. Tornata nel monastero di Avila, dove chiede di essere riportata, vi rimane semi-paralizzata per tre anni, fino al 1543, quando, per un miracolo da lei attribuito a san Giuseppe, riesce a rialzarsi e a camminare. Durante la quaresima del 1554 ottiene la cosiddetta grazia della “conversione”: la vista di una statua dell’Ecce Homo la colpisce profondamente al punto da segnare l’inizio del secondo periodo del suo cammino spirituale, caratterizzato da grazie mistiche e da intensa attività apostolica. Verso la fine del 1560 coltiva il progetto di un nuovo monastero che prevede l’aggregazione di poche donne, dodici al massimo, del tutto dedite alla vita di orazione, alla carità e alla solitudine, secondo la Regola primitiva e l’esempio dei primi Padri del Carmelo. Nonostante le opposizioni, sia da parte delle monache del monastero dell’Incarnazione che della città, nel 1562 giunge da Roma l’autorizzazione ad intraprendere la fondazione e nello stesso anno si inaugura ad Avila il primo Carmelo riformato, intitolato a san Giuseppe. Nel 1567 incontra fra’ Giovanni della Croce e lo convince ad abbracciare il nuovo stile di vita carme- Profilo della Santa 13 litana: nell’anno seguente viene fondato a Duruelo il primo convento della Riforma maschile. Nascono diciotto monasteri riformati in Castiglia e in Andalusia, ma, in seguito alle difficoltà e alla decisione del generale dell’Ordine, Teresa è obbligata a rinchiudersi nel monastero di Toledo e a rinunciare a nuove fondazioni, mentre Giovanni della Croce viene incarcerato a Toledo. Nel 1581 viene definitivamente riconosciuta la Riforma inaugurata da Teresa, che muore ad Alma de Tormes il 4 ottobre 1582, dopo un lungo e faticoso viaggio verso Burgos per l’ultima fondazione. Tra le sue opere maggiori: il Castello Interiore, il Cammino di Perfezione, la Vita, le Fondazioni e numerose Lettere. Legenda Per comodità si riportano le abbreviazioni delle opere di Teresa d’Avila citate dal relatore: V R C M L P Vita Relazioni spirituali Cammino di Perfezione Castello Interiore o Mansioni Lettere Pensieri sull’Amore di Dio Premessa Queste le parole con cui comincia l’epilogo del Castello Interiore: Vorrei fare un augurio a tutte voi, pensando alla vostra stretta clausura, ai pochi motivi di intrattenimento che avete, mi pare che vi debba essere un conforto potervi ricreare in questo castello interiore, nel quale vi è lecito entrare e passeggiare in qualunque ora, senza il permesso della priora (M, Epilogo, 1). Vorrei dividere in quattro blocchi il discorso. Per introdurci faremo delle considerazioni di carattere generale, andando dall’esterno verso l’interno: stamattina volevo semplicemente fermarmi su alcune osservazioni di introduzione al discorso; un secondo blocco dovrebbe portarci verso la natura di questo libro che è un trattato – la Santa stessa lo definisce tale nella soprascritta del suo autografo – e così chiederci che senso può avere questo trattato per Teresa d’Avila che è sempre rifuggita da questo genere; il passo più difficile sarà quello di entrare nella struttura simbolica, cioè nei simboli fondamentali che reggono tutto questo quadro e ci permettono di 18 Itinerario di comunione avvicinarci a capire la struttura logica e quella dottrinale; il quarto blocco sarà la conclusione. Più che una lettura – anche se per forza leggeremo qualche testo, qua e là – è un tentativo di fornire una chiave di lettura, cioè delle prospettive che aiutino a percepire un pochino di più il senso di questa opera che è certamente il capolavoro di Teresa d’Avila. Osservazioni introduttive Le osservazioni di introduzione sono quattro. La prima, sulla data di composizione; la seconda riguarda la natura di questo trattato: se è una riedizione della vita oppure un’elaborazione sistematica del discorso sulla vita spirituale, sulla contemplazione, sull’unione con Dio; poi vi è il problema dei destinatari, quelli immediati e quelli in prospettiva; e, infine, l’intuizione fondamentale, ossia l’idea del castello e le sue premesse di carattere ambientale o di altro genere. Vedete che si tratta di un discorso un po’ esterno, ma è importante, credo, come tutti i discorsi di cornice, perché determina lo spazio nel quale sta il quadro, anche se non è il quadro stesso. Il momento della composizione Non è tanto la data di composizione del Castello che ci interessa, perché questa è chiarissima: la dice Teresa stessa, sia all’inizio, sia alla fine (l’ha cominciato il 2 giugno 1577, Festa della SS. Trinità, e l’ha finito il 29 novembre 1577). Il tempo è abbastanza 20 Itinerario di comunione breve, ma è ancora più breve se teniamo conto che c’è stata un’interruzione di tre mesi e mezzo: quindi l’ha scritto abbastanza di getto. Questo aspetto ci interessa meno; l’aspetto più interessante è cogliere il momento, il tempo vissuto. L’aspetto più interessante non è tanto la cronologia, cioè stabilire la data, ma stabilire il momento spirituale della composizione. Sarebbe interessante fare un discorso un pochino analitico, ma non abbiamo il tempo di collocare il testo nell’intero cammino spirituale di Teresa d’Avila, però a grandi tratti si può dire questo: nella Relazione del 1581, indirizzata al Vescovo di Palencia, Teresa riassume tutto il suo cammino, ma poi descrive anche il clima nel quale vive, con quella pace, quel senso abituale della presenza della Trinità, di Cristo nella sua vita, nella sua realtà, nella sua personalità, che corrisponde esattamente al clima della “settima dimora”. Si può dire così che questa splendida ultima relazione di coscienza, scritta un anno prima della morte, testimonia il clima spirituale fondamentale in cui Teresa è vissuta dal 1577 al 1581. Quando Teresa scrive la “settima dimora” non ha quindi in sostanza un mutamento ulteriore nel suo sviluppo, perché questo resta lo sviluppo ultimo. Invece, come è noto, se si rapporta al testo della Vita, dell’autobiografia, dovremmo dire che nel testo del Castello, come lei stessa dice, aveva più esperienza; del resto la Vita è del 1565 e l’altro è del 1576: dodici anni non sono passati invano. Il clima descritto nei capitoli ultimi, nel capitolo ventiduesimo della Vita, dove parla delle quattro forme di preghiera, corrisponde di fatto alla “sesta dimora”. Questo significa che, se dovessimo collocare il Castello nel cammino spirituale, quindi Osservazioni introduttive 21 individuare il momento spirituale, potremmo dire che Teresa ha superato il momento che pareva culminante nella Vita, quando esprime cioè, nel capitolo quarantesimo della Vita, l’intuizione che Dio è Verità e la considera la grazia più grande, così che sembra far supporre che basti e che da lì in poi non ci sia più nulla. In realtà, quando leggiamo il Castello, vediamo che nella “settima dimora” ha superato questa fase; lei stessa dice: «Questa è una fase ulteriore». Allora il cammino descritto nell’autobiografia arriva fino a un certo punto; il cammino della “settima dimora” mette in evidenza un passo in avanti; e, a giudicare dalla Relazione ultima del 1581, sembra che questo sia lo stadio definitivo, in cui Teresa va incontro alla morte. Se dobbiamo individuare il momento spirituale a cui si aggancia il testo del Castello, dovremmo collocarlo oltre la Vita, al di là, superando l’esperienza della Vita che corrisponde alla “sesta dimora”, entrando in una fase più pacata e profonda, che è precisamente quella del matrimonio spirituale – come viene chiamata nel Castello e che la Relazione del 1581 ancora conferma. Questo per quanto riguarda una prima individuazione: dove collocare il testo, non tanto nella cronologia, nella storia, ma nel momento spirituale cui questo testo corrisponde. La natura del trattato Passiamo al secondo punto di questa introduzione, cioè alla caratteristica di questo testo che si presenta come un “trattato”. Ho già detto che la soprascritta di questo libro, fatta proprio da Teresa, dice: 22 Itinerario di comunione Questo trattato, detto Castello Interiore, scrisse Teresa di Gesù per le monache Carmelitane Scalze, sue sorelle e figlie. Merita che venga colta con attenzione questa parola: trattato. Per interpretare questo termine ci aiuta sempre l’ambientazione, come per le altre opere di Teresa d’Avila. A prima vista sembrerebbe non voler essere che una semplice riedizione della Vita. Teresa non aveva più la Vita, perché era nelle mani dell’Inquisizione che non gliela ridava mai; a un certo punto sembra che lei volesse scriverne una riedizione. Interessante è la testimonianza del padre Gracián, il quale cerca di spiegare come è avvenuta la redazione di questo libro: si trovava a Toledo e parlava con Teresa di problemi suoi spirituali in una specie di incontro di coscienza; ad un certo punto Teresa avrebbe esclamato: «Così come questo sta scritto bene nel libro della mia vita che sta nelle mani dell’Inquisizione!». Allora il padre Gracián prese l’occasione per dirle, dal momento che non si poteva riavere la Vita, di ricordare tutto quello che aveva scritto là e altre cose e scrivere un altro libro, esponendo la dottrina in generale, non l’autobiografia che, in fondo, era piuttosto una lunga relazione di coscienza. In questo senso si parla di trattato: si tratta cioè di un discorso al di là dell’esperienza singola, per dire in generale cos’è il cammino di orazione, così che diventi in qualche modo un discorso quasi teorico, per quanto Teresa potesse avere una preparazione per fare un discorso teorico di questo genere; dire, in generale, senza nominare colei a cui era accaduto Osservazioni introduttive 23 questo o quello. In realtà Teresa non riesce, perché quando dice: «conosco una persona», tutti capiscono che è lei. È un modo per tenere il segreto. Questo scrivere in generale, tenendo le distanze da quello che è capitato a lei, questo darebbe un po’ il senso del trattato. D’altra parte però Teresa non si vuole mai staccare dal senso della Vita, anche se nel Castello esprime meglio i concetti presenti altrove. La lettera che scrive al padre Salazar, il 7 dicembre 1577 – celebre lettera in cui la santa parla del suo mal di testa – fa riferimento al suo “gioiello”, con un linguaggio cifrato in cui non vuol dire di cosa si tratta, anche se la scelta delle parole è molto espressiva: Si sa di certo che il gioiello [il libro della Vita] è ancora in mano del medesimo personaggio [cardinal Quiroga, inquisitore] e lo stima molto, perciò non lo darà se non prima di averlo goduto a suo agio. Ha detto appunto di volerlo esaminare con comodo. Tuttavia, se il signor Carillo [lo stesso padre Salazar] verrà qui, ne potrà vedere un altro più prezioso del primo, che, secondo lei, è molto migliore, perché non vi si vede che Dio [allude al Castello Interiore]. È adorno di smalti e di lavori più delicati: prima l’orefice [la santa stessa] non era così bravo come ora. L’oro è di qualità più eccellente, benché non lasci così scoperte, come nel primo, le pietre preziose di cui è tempestato [appunto perché non le descrive]. È stato eseguito Poiché il commento del relatore si inserisce all’interno della citazione durante la lettura del testo, è parso opportuno lasciarlo nel corpo stesso della citazione, collocandolo nella parentesi quadra. Tale modalità sarà mantenuta anche per le citazioni successive. 24 Itinerario di comunione per ordine del gioielliere [il padre Gracián] come del resto ben si vede, a giudizio di tutti. Non so perché la incarico di tutto questo, sono sempre stata famosa a seccare la gente, sia pure a mie spese. Ma siccome Carillo è suo amico, credo che non si dispiacerà di queste commissioni (L 207 al P. Gaspare de Salazar, 7 - 8). È questo medesimo senso di gioia quello che appare nell’epilogo: Fra le cose impostemi dall’obbedienza, ben poche mi sono state così difficili come questa, di mettermi ora a scrivere dell’orazione. Come ho detto in principio, quando cominciai a scrivere queste pagine, lo feci con grande ripugnanza, ma ora che ho finito sono molto contenta e ne ritengo per ben impiegata la fatica, del resto, non molto grande (M, Epilogo, 1). Si meravigliava lei stessa dell’opera che ne era venuta. Qui si trattava di fare una specie di introduzione generale al problema dell’unione con Dio nell’orazione, qualcosa di simile a ciò che fanno i dotti, mentre lei continua a dire che non aveva una preparazione tecnica per affrontare un argomento simile. La grande difficoltà sarebbe questa: per Teresa d’Avila lo scrivere non è faticoso quando è una lettera, cioè quando lo scrivere è un parlare; mentre qui si trattava di scrivere, ed è una cosa diversa scrivere per scrivere o scrivere per parlare. In realtà Teresa ha scritto sempre parlando, perché si è rivolta sempre alle sue monache. L’opera assomiglia ad un trattato Osservazioni introduttive 25 perché si sofferma sui principi in generale che riguardano la preghiera e l’unione con Dio, ma in realtà non si discosta da ciò che Teresa ha sempre fatto: anche questa è una lettera. All’inizio c’è un impianto abbastanza logico e coerente, in cui viene svolto in generale il discorso, che, a giudicare dal prologo e dall’epilogo, sembra ancora avere come oggetto adeguato l’orazione. Nel Cammino di Perfezione la cosa appare molto più chiaramente: è un cammino di orazione, in realtà; si tratterà di vedere se l’orazione nel Castello è la prospettiva e anche la porta d’ingresso o se questo discorso sull’orazione è inglobato in uno più ampio che è quello dell’unione con Dio. In questo senso si avvicinerebbe di più, pur mantenendo la diversità tra i due, al discorso di Giovanni della Croce, nella Fiamma d’amor viva, dove il problema dell’orazione è certamente presente, ma si tratta di contemplazione, dove la contemplazione è la trasformazione in Dio. Si può dire dunque che è un trattato nel quale rimane importante l’orazione, anche se il suo oggetto potrà essere precisato ulteriormente; d’altra parte, non è neanche un’opera di teologia, nel senso tecnico della parola: manca a Teresa tutta la preparazione, la strumentazione. Vi si esprime piuttosto un senso della fede ancorato ad un’esperienza nella quale si arrivano ad enunciare quasi in forma di principio alcune affermazioni. Fare una teologia invece vorrebbe dire riflettere sul senso della fede; alcune pagine – come quelle in cui parla dell’umanità di Cristo – si avvicinano ad un discorso riflesso di carattere teologico perché Teresa cerca le sue giustificazioni, risponde alle obiezioni. Il discorso di una fede che cerca di rispondere agli interrogativi, che riflette per 26 Itinerario di comunione capire che rapporto ha con l’esistenza dell’uomo, con la realtà di Dio, non appare immediatamente in Teresa d’Avila; in questo senso è diversa da Giovanni della Croce. Egli infatti cerca di fare dei discorsi sistematici, come nella Salita al Monte Carmelo, in cui c’è tutta una struttura di carattere scolastico – ad esempio le analisi dell’uomo – che in Teresa d’Avila immediatamente non c’è, anche se ci sono delle meditazioni profondissime. Il Castello, per un certo verso, è un grande inno all’animo umano, alla immensità e alla meraviglia che suscita la scoperta dell’anima; ma sarebbe solo il punto di partenza per una teologia che non c’è, in quanto immediatamente predomina l’esperienza, che consiste nell’aver scoperto che dentro di sé c’è un mondo. Questa scoperta è supportata dalla dottrina di sant’Agostino. Tale dato esperienziale dell’anima umana viene espresso come se fosse una sinfonia di motivi che s’intrecciano, per cui tutto concorre a dare il senso della grandezza dell’anima umana. Ma il non far diventare Teresa una teologa, nel senso tecnico della parola, non nuoce al fatto che ella sia Dottore della Chiesa, proprio perché insegna la fede con una sicurezza e con una capacità di discernimento da farla diventare una guida e un punto di riferimento sicuramente singolare. Anche Teresa di Lisieux lo è: vi sono delle percezioni, per esempio, sul fatto che l’opera fondamentale dell’uomo è la fede e l’amore nelle piccole cose: è l’intuizione della “piccola via”, una soluzione personale a cui arriva, non una soluzione piccola nel senso di meschina, ma grande perché riconduce ad una prospettiva più ampia che è quella della predestinazione in Cristo. Pur non venendo dal mondo teologico, tali intuizioni Osservazioni introduttive 27 della fede – come quella dell’inabitazione trinitaria – rappresentano di fatto una specie di anticipo alla teologia: e ciò non vuol dire che i teologi non debbano imparare dai santi e dai mistici che cos’è la fede, perché le esperienze spirituali così profonde fanno parte del mondo della Chiesa. I destinatari del trattato Gracián voleva che si facesse un libro in generale, Teresa sembra che voglia soltanto parlare con le sue suore. Dice per esempio: Quegli che mi comandò di scrivere mi disse che le monache di questi monasteri di Nostra Signora del Carmine avevano bisogno di qualche spiegazione intorno a certi dubbi di orazione. E siccome le donne tra di loro se ne intendono meglio, mi è sembrato che se fossi riuscita a dirne qualcosa sarei stata di qualche loro vantaggio, specialmente per l’amore che mi portano. Perciò in questo scritto non mi rivolgerò che a loro, tanto più che sarebbe follia illudermi di essere utile ad altri. Grande grazia me ne farebbe il Signore se alcuna se ne giovasse per lodarlo un po’ di più e sa bene Sua Maestà se io desideri altra cosa. Se riuscirò a dire alcunché di buono, esse vedranno che io essendo tanto incapace non posso esserne l’autrice, a meno che abbiano così poca intelligenza, come io ad umiltà, se il Signore con la sua misericordia non mi viene in aiuto (M, Prologo, 4). Questo numero 4 del prologo, e anche l’epilogo che abbiamo letto nella premessa, non sembrano la- 28 Itinerario di comunione sciare dubbi in proposito: Teresa d’Avila, pur dovendo fare un trattato, per ubbidienza per lo meno, si rivolge alle monache del Carmelo. Sembrerebbe allora che i punti di collegamento siano, da un lato, la propria esperienza e, dall’altro, le monache. Il discorso però va prendendo un tono grande e universale che sembra staccarsi dalla situazione concreta di persone che devono costruire la loro vita nel Carmelo facendo perno sull’orazione, che sembra allargarsi e andare al di là. Si può ricordare, oltre quella già citata a Salazar, la lettera al padre Gracián in cui Teresa dice: Il libro di cui il P. Medina ha fatto fare una copia dev’essere il più grosso, quello della mia vita. Vostra paternità mi faccia sapere cosa se ne dice e non si dimentichi. Avrei molto piacere che detta copia non andasse perduta, perché non vi è altro esemplare che quello in mano agli Angeli [che sono quelli dell’Inquisizione]. Però quello che ho scritto dopo mi sembra più bello, nonostante il parere contrario del P. Domenico Bañez. Quando l’ho composto avevo maggiore esperienza (L 301 al P. Girolamo Gracián ad Alcalà, 11). E così nella lettera del 14 gennaio 1580 e nella lettera del 28 novembre 1581: Mi ha fatto un gran favore nel rimandarmi il libro, che non so come ringraziarla, le bacio ripetutamente le mani promettendo di mantenere la mia parola come Sua Eccellenza desidera; tuttavia, non sapendo se il libro sarà al sicuro durante il lungo viaggio di Vostra Eccellenza, lo terrò presso di me fino al suo ri- Osservazioni introduttive 29 torno ad Alba se così le piace (L 389, a Donna Maria Enriquéz Duchessa d’Alba, 1). Tale affermazione sembra mettere in evidenza una preoccupazione di dare a questo libro un valore maggiore di quello che hanno potuto avere altre opere che pure sono dedicate alle religiose del Monte Carmelo. Sembra dunque che Teresa avverta di avere adempiuto così il senso universale della sua missione: cioè lo stesso libro, ai suoi occhi, mentre è rivolto alle monache, sembra diventare il libro più universale che potesse scrivere. In questo senso potremmo dire che, mentre lo scrive e dopo averlo scritto, Teresa ha il senso di aver adempiuto ad una missione universale e che lo dimostri, sia pure senza i toni espliciti che appaiono in Teresa di Lisieux, la quale matura, soprattutto nella fase finale, la consapevolezza esplicita di avere una missione da compiere. Credo che potremmo richiamare una di quelle parole celesti del 1575 quando Teresa torna sulla questione dello scrivere: Sai bene che di quando in quando ti parlo, non lasciare di scrivere quello che ti dico perché se a te le mie parole non sono utili, lo possono essere ad altri (R 73). È suggestivo pensare dunque all’universalità di questo libro, nel suo contenuto e nella sua esposizione; per questo assume il senso di una missione compiuta. 30 Itinerario di comunione L’intuizione fondamentale dell’opera Teresa d’Avila ci richiama l’intuizione fondamentale della “prima dimora”: Oggi stavo supplicando il Signore di parlare in luogo mio perché non sapevo cosa dire né come cominciare ad obbedire al comando che mi è stato imposto, ed ecco quello che avvenne in me: mi servirà di fondamento a quanto dirò. Possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto d’un sol diamante di tersissimo cristallo nel quale vi siano molte mansioni come molte ve ne sono in cielo… E allora come sarà la stanza dove si diletta un Re così potente? (M I, 1, 1). Questa è l’intuizione fondamentale: quella di un castello di cristallo, un diamante unico ma con tutte queste dimore e con un centro dove sta il Re, che è il Signore. Tale intuizione non è una novità integrale, perché ne aveva già parlato nel libro della Vita. Infatti il primo testo si trova nel capitolo 40, dove Teresa racconta la visione del Signore che si riflette come in uno specchio: Una volta, mentre recitavo le ore con la comunità, l’anima mia si sentì improvvisamente raccolta e parve trasformarsi in uno specchio tersissimo luminoso in ogni parte, al rovescio, ai lati, in alto, in basso. Nel suo centro mi apparve Nostro Signore Gesù Cristo nel modo che sono solita vederlo [cioè Cristo Risorto] e mi parve di vederlo in ogni parte della mia anima come per riflesso e intanto lo specchio si rifletteva tutto nel Signore per una comunicazione amorosissima… In un’anima in peccato mortale lo specchio si copre e diventa nero, così che Dio non vi può più apparire né lasciarsi vedere (V, 40, 5). Osservazioni introduttive 31 Qui si può sviluppare l’idea della presenza di Dio nell’anima per essenza e per potenza, come dicevano gli Scolastici. Per essenza, vuol dire che noi siamo una partecipazione divina, come se fossimo qualcosa che Dio comunica di sé; per potenza, perché Dio opera nella creatura. Dio è presente perché conosce, perché sa, come si legge nel Salmo 138 che recita: «Tu mi scruti e mi conosci». Allora il discorso di Cristo Risorto che si riflette nello specchio viene unito alla questione più ampia sulla struttura dell’anima e sul rapporto tra creatura e Creatore. Notate la diversità tra questo modo di percepire Cristo al centro dell’anima e il modo in cui ne parlerà nelle dimore o anche nel Cammino di Perfezione: è come se fossero due persone una fuori dall’altra, come se Cristo fosse al di fuori e si riflettesse dentro. È ancora un modo relativamente esteriore rispetto al passo avanti fatto nel capitolo 28 del Cammino di Perfezione: l’immagine dello specchio viene ancora evocata nella “settima dimora”, ma notate la profondità maggiore, in riferimento al concetto di mutua permanenza nel Vangelo di Giovanni: Oh come sono vere queste parole, come le intende e le esperimenta bene l’anima in questa orazione! Anche noi le intenderemmo, se non fosse per nostra colpa, perché le parole di Gesù Cristo Nostro Signore non possono mancare. Ma siccome manchiamo noi non disponendoci e allontanandoci da quanto può intercettare questa luce, così non riusciamo a vederci in questo specchio nel quale la nostra immagine è pure impressa (M VII, 2, 8). In Cristo siamo noi, l’uomo vede se stesso in Cristo, c’è impressa la nostra immagine. Quello di Gio- 32 Itinerario di comunione vanni è un testo molto importante: vuol dire che la definizione dell’uomo non si può dare a prescindere dal riferimento a Cristo. Se io capissi bene le parole del Vangelo, non solo con la testa, allora riuscirei a vedermi in Lui che è a mia immagine e io ci sono dentro: è un passaggio verso l’interiorità del rapporto, tra noi e Cristo. Il testo che fa da sommario sta nel capitolo 28 del Cammino: Dio è dovunque, ma dove sta il Re, ivi è la sua corte. Sappiate dunque che dove sta la Maestà di Dio, qui è tutta la gloria. Ricordate ciò che dice s. Agostino: dopo aver cercato Dio in molti luoghi, lo trovò finalmente in se stesso. Ora, credete che importi poco per un’anima soggetta a distrazioni comprendere questa verità e conoscere che per parlare con il suo Padre Celeste [sta infatti commentando il Padre nostro, ma poi ritorna a Gesù Cristo, queste sono oscillazioni interessanti] e godere della sua compagnia, non ha bisogno di salire al cielo né di alzare la voce? Per molto basso che parli, Egli che le è vicino l’ascolta sempre. E per cercarlo non ha bisogno di ali perché basta che si ritiri in solitudine [quindi non è uscire da sé] e lo contempli in se stessa. Immaginate dunque che dentro di voi vi sia un palazzo immensamente ricco fatto di oro e di pietre preziose [vedete che è un inno continuo all’anima dell’uomo] degno di un gran monarca e pensate inoltre che voi concorrete alla magnificenza che ha. Questo palazzo è l’anima vostra: quando essa è pura e adorna di virtù, non v’è palazzo più bello che possa competere con lei. Più le virtù sono elevate, più le pietre preziose risplendono. Immaginate ora che in questo palazzo abiti il Gran Re che nella sua misericordia si Osservazioni introduttive 33 è degnato di farsi vostro Padre assiso sopra un trono di altissimo pregio: il vostro cuore. Alcune forse rideranno di me e diranno che la cosa è assai chiara e hanno ragione, eppure per me non è sempre stato così: sapevo benissimo di avere un’anima, ma non ne capivo il valore, né chi l’abitava, perché le vanità della vita mi avevano bendato gli occhi per non lasciarmi vedere. Se avessi inteso come ora che nel piccolo albergo dell’anima mia abita un Re così grande, mi sembra che non l’avrei lasciato tanto solo, ma che di quando in quando Gli avrei tenuto compagnia e che sarei stata più diligente nel conservarmi senza macchie. Nulla di più meraviglioso nel vedere che Colui che con la sua grandezza può riempire mille e mille più mondi, rinchiudersi in una cosa tanto piccola. Egli è il Signore del mondo, libero di fare quel che vuole e perciò, nell’amore che ci porta, si accomoda alla nostra misura. Quando un’anima comincia a battere questa via vedendosi destinata, piccola com’è, ad accogliere Colui che è tanto grande, potrebbe forse impaurirsi, per cui il Signore via via che si fa conoscere la va poco a poco dilatando [qui si capisce che il Carmelo ha un umanesimo grandissimo, non lo distrugge!], proporzionalmente alla quantità delle ricchezze che le vuole donare. Per questo ho detto che può fare quel che vuole, perché volendo può ingrandire a piacere il palazzo dell’anima. L’importante per noi è sgomberarlo di ogni cosa, acciocché egli possa aggiungere e togliere come vuole come una sua proprietà, del resto ne ha tutto il diritto, e guardiamoci bene dal contestarglielo! Se non sforza nessuno ed accetta quanto gli si dà, non si dà del tutto se non a coloro che del 34 Itinerario di comunione tutto si danno a Lui. Questo è fuori dubbio e lo ripeto tante volte perché è tanto importante. Il Signore ha voluto l’Ordine e non agisce nell’anima se non per dare forma alla vita sua, in caso contrario non so in che modo possa agire. Se riempissimo il palazzo di gente bassa e di ogni tipo di bagatelle, in che modo il Signore potrebbe stabilirsi con la sua corte? Sarebbe già troppo, se fra tanto strepito, si trattenesse solo per alcuni istanti (C, 2, 9. 11. 12). Si vede allora come questa idea non è arrivata di getto, come se dall’alto lo Spirito Santo le avesse detto: «Guarda che l’anima è un castello!», ma è qualcosa che Teresa è andata maturando; è un’immagine che via via si perfeziona, a partire dallo specchio che è il Signore stesso, per cui noi ci vediamo dentro di Lui; qui invece il senso dell’anima umana è come una cosa immensa che è dentro di noi e che ha un centro, la dimora dove abita il Signore. Quali agganci si possono trovare dal punto di vista biblico? In Teresa appare esplicita la teologia dell’inabitazione del Vangelo di Giovanni, nel richiamo alle molte dimore nella casa del Padre, per cui il cielo non è fuori di noi, ma il cielo siamo noi, dove abita Dio. In particolare il riferimento è al capitolo 14 di Giovanni che si può richiamare al capitolo 21 dell’Apocalisse dove è descritta la città santa di Dio che scende dal cielo, anche se qui il trasferimento sarebbe dalla Chiesa all’anima, cosa che appare normale perché la storia d’Israele e l’anima sono sempre in continuità. Dal Cantico dei Cantici in poi è diventato una sorta di luogo comune nella spiritualità cristiana. Altro aggancio possibile dal punto di vista biblico è pro- Osservazioni introduttive 35 prio il Cantico dei Cantici quando Teresa, nella “quinta dimora”, parla della cella vinaria dove il Signore introduce l’anima. Dal punto di visto culturale, possiamo ritrovare un trasferimento dell’umano nell’ambito divino, come, ad esempio, una canzone d’amore riferita al divino: in Giovanni della Croce, ad esempio, nella poesia El Pastorcito, la prima parte potrebbe essere una canzone d’amore, però poi il pastorello viene assimilato al Signore. Ovviamente tutto è fortemente contestualizzato nella Spagna di Filippo II, per questo troviamo termini che fanno riferimento alle corti, ai castelli, ai signori. La struttura simbolica Dopo la parte introduttiva, occorre considerare la struttura del trattato. Ci sono tre livelli: il primo è simbolico, cioè riguarda i simboli fondamentali (il castello, il baco da seta, lo sposo e la sposa) attraverso cui Teresa d’Avila si esprime (cosa che fa anche Giovanni della Croce nelle sue poesie). Questo linguaggio utilizza immagini che evocano contenuti; ciò è importante per capire se un libro è costruito utilizzando delle chiavi simboliche. C’è poi un secondo livello che è quello della logica e fa riferimento all’impianto del discorso: dice qual è l’indice di tutto l’impianto. Un ulteriore livello è dottrinale, dice cioè quali sono i nuclei dottrinali, che sono tre o quattro. In questo modo riusciamo ad avere una specie di chiave di lettura del testo in cui Teresa non dà solamente dei consigli o parla della sua esperienza, ma fa un trattato. Il castello Che risonanze deve suscitare in noi il simbolo del castello con tutta la sua capacità evocativa così come la usa Teresa? 38 Itinerario di comunione Innanzitutto esso evoca la preziosità e l’ampiezza di una dimora che si dispone in modo più vario: ci sono sette locali prima di arrivare al centro, anche se poi non sono solo sette, ma sono milioni, disposti un po’ sotto e un po’ sopra. Si potrebbe pensare un cerchio con un suo centro, che è il più interno e importante. Da questa partenza Teresa muove ad un secondo passaggio: questa dimora è un’abitazione spesso non vissuta, cioè di fatto non abitata come tale; l’anima sta fuori, l’uomo sta alla superficie senza entrare in se stesso. Questa dimora inoltre non è abitazione solo per l’anima, ma è anche dimora del Signore e per il Signore del castello: l’anima ha sì il suo centro, ma il suo centro è eccentrico, cioè per il Signore. È strana la situazione in cui si trova il centro dell’anima: è tanto più centro di me quanto più è centro e abitazione del Signore. Questa prospettiva ha una valenza di richiamo per il mondo di oggi, per l’affermazione dell’uomo che diventa totale e dice: io sono grande abbastanza; invece la prospettiva cristiana dice: l’uomo deve sempre percepirsi in rapporto con Dio, è fatto per concepirsi in comunione con questa realtà, che non è me e tuttavia non è fuori di me. Il padrone del castello spesso è rifiutato e non riconosciuto per la condizione del peccato che oscura l’anima. Bisognerebbe abitare dentro questa dimora per incontrarne il Re, il centro che è Dio; in realtà si può anche non abitare nel castello. Il terzo passaggio è dalla dimora al dimorare: bisogna fare in modo che questa abitazione sia davvero il luogo del dimorare, cioè fare un cammino di rientro La struttura simbolica 39 verso il centro, un po’ come la tartaruga che si ritira dentro di sé, dove il ritrovamento di se stessi non è solamente del Signore, ma ritrovamento di se stessi con il Signore. Allora, quarto passaggio, il castello non è solamente un ambiente in cui due protagonisti – l’anima e il suo Signore – si incontrano; piuttosto il castello è il soggetto umano nel suo movimento verso il centro, per cui tutto il castello si muove verso il centro e il Signore dal centro chiama a rientrare in sé. Il movimento allora è reciproco, dinamico, solo apparentemente è una cosa statica. Il simbolo del castello diventa una gravitazione verso l’incontro e verso l’unione, e determina il Pax Vobis, questa pacificazione interiore data da questo accordo profondo tra il Signore e il castello, cioè ognuno di noi che tende al centro. Il baco da seta Il secondo simbolo è quello della morte e vita del baco da seta, di cui Teresa comincia a parlare nella “quinta dimora”, al secondo capitolo, che ha un suo antecedente nel libro della Vita: Al pari della fenice, che come ho detto rinasce dalle sue ceneri dopo che il fuoco l’ha bruciata, così si trasforma l’anima per uscirne con nuovi desideri e con più grande coraggio, non sembra più quella di prima, ma comincia con nuova purezza a battere il cammino di Dio (V, 39, 23). Invece nella “quinta dimora”, Teresa dice: 40 Itinerario di comunione Avrete già sentito parlare delle meraviglie che Dio opera nella produzione della seta, invenzione di cui Egli solo poteva essere l’autore: si tratta di piccoli semi, simili a granellini di pepe, che io non ho mai veduto ma di cui ho sentito parlare, per cui se faccio qualche inesattezza la colpa non è mia. Al sopraggiungere dell’estate quando i gelsi si coprono di foglie, questi semi cominciano a prendere vita: prima che spuntino quelle foglie di cui si devono nutrire, stanno là come morti, a poco a poco si sviluppano, finché, fatti più grandi, salgono su alcuni ramoscelli e ivi, con la loro piccola bocca, filano la seta che cavano dal loro interno fabbricandosi certi bozzoli molto densi nei quali ognuno di quegli insetti, che sono brutti e grossi, si ritira e muore. Ma poco a poco esce dal bozzolo una piccola farfalla bianca molto graziosa. Se questo fenomeno non accadesse sotto gli occhi, ma ci fosse raccontato come cosa d’altri tempi, nessuno lo crederebbe; infatti come potremmo credere che un verme o un’ape, esseri privi di ragione, siano tanto diligenti e industriosi da lavorare per noi fino a rimetterci la vita come il povero bacolino nel suo lavoro? (M V, 2, 2). Vedete l’atteggiamento contemplativo: è il modo di vedere la natura come un simbolo che rimanda a qualcosa d’altro, atteggiamento che ritroviamo abbondantemente anche in Teresa di Lisieux, che è un temperamento interrogativo e cerca le risposte ai problemi che via via sorgono nei due libri principali: la Parola di Dio e l’osservazione del mondo. Ecco un buon soggetto, sorelle, per intrattenervi a lungo in meditazione senza nient’altro aggiungere, bastando questo solo per farvi considerare le meraviglie La struttura simbolica 41 e la sapienza del nostro Dio. Oh, se conoscessimo la proprietà delle cose, come sarebbe vantaggioso meditare su queste meraviglie, compiacendoci di essere le spose di un Re così grande e sapiente! Tornando ora al nostro argomento, l’anima di cui quel verme è l’immagine comincia a prendere vita quando per il calore dello Spirito Santo comincia [l’uomo spirituale che nasce] a valersi dei soccorsi generali che Dio accorda ad ognuno e a servirsi dei rimedi che Egli ha lasciato nella sua Chiesa. Quando questo verme si è fatto grande, come abbiamo visto in principio di questo scritto, comincia a lavorare la seta e a fabbricarsi la casa nella quale dovrà morire. Questa casa, come vorrei far intendere, è il nostro Signore Gesù Cristo. Mi pare d’aver letto in qualche parte, o di aver udito, che la nostra vita è nascosta in Cristo, ovvero in Dio, che è poi lo stesso, oppure che Cristo è la nostra vita. Che il testo sia o non sia così, per il mio intento, poco importa. Osservate qui, figliole mie, quello che con l’aiuto di Dio possiamo fare: che Sua Maestà diventi nostra dimora fabbricata da noi stessi, come lo è in questa orazione di unione. Dicendo che Dio è nostra dimora, e che questa dimora possiamo fabbricarcela da noi stessi per prendervi alloggio, sembra quasi che voglia dire di poter noi aggiungere o togliere a Dio qualche cosa. E lo possiamo benissimo, ma non già aggiungendo o togliendo a Dio, bensì aggiungendo o togliendo a noi, come quei piccoli vermi, perché non avremo ancora ultimato quanto sarà in nostro potere che Egli verrà, e unendo alla sua grandezza la nostra lieve fatica, che è un nulla, le conferirà un valore così eccelso da meritare che Egli si costituisca in nostra stessa ricompensa. Non contento di aver sostenute le spese maggiori, vorrà pure unire le nostre piccole 42 Itinerario di comunione pene alle molto grandi che Egli un giorno ha sofferto per non farne che una cosa sola (M V, 2, 2 - 5). Che cosa evoca questo simbolo? Direttamente, com’è il caso della fenice che abbiamo ricordato prima, vuole tradurre con un’immagine l’affermazione paolina sull’esistenza in Cristo. Qui il maestro è san Paolo: la vita del cristiano è accettazione della morte e risurrezione di Cristo e allo stesso modo l’esperienza dell’incontro e della comunione col Signore del castello è quella dell’anima che ha trovato il suo centro. L’esperienza di questa realtà costituisce ogni esperienza cristiana, che è la partecipazione alla morte e alla resurrezione del Signore. Comunque questa immagine ritraduce l’affermazione di Paolo sull’esistenza in Cristo come associazione alla sua morte e alla sua resurrezione e, nel caso particolare del simbolo, questo richiamo unisce all’idea che la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio, quindi esprime l’idea di una vita che si nasconde dentro l’altra. Difatti la casa è Cristo, ma questa casa la costruiamo noi. La forza evocativa del simbolo si trova anche nella “settima dimora”: Ciò forse intendeva San Paolo quando disse: chi si accosta e si unisce a Dio si fa un solo spirito con Lui, accennando a questo sublime matrimonio nel quale si presuppone che Dio si sia già avvicinato all’anima mediante l’unione. Dice ancora l’Apostolo: Mihi vivere Christus est et mori lucrum – per me vivere è Cristo e morire un guadagno. Così mi pare che possa dire pur l’anima, perché qui la farfalletta muore con suo grandissimo gaudio, essendo Cristo la sua vita (M VII, 2, 5). La struttura simbolica 43 E ancora, al terzo capitolo: Abbiamo detto che la farfalletta è morta, felicissima d’aver trovato il suo riposo, e che Cristo vive in lei. Vediamo ora come vive e se la sua vita attuale differisca da quella di prima (M VII, 3, 1). Vedete come questo simbolo è sempre presente fino alla “settima dimora”; la Santa lo conserva fino alla fine del libro. La forza evocativa del simbolo, stando a quanto abbiamo finora letto, si può presentare così: primo, il verme e la farfalla, cioè il medesimo soggetto – l’anima – è considerato in due stadi diversi come due forme e due modelli di esistenza; ha luogo una trasformazione, cioè un cambiamento di forma, di configurazione che comporta un cambiamento di giudicare, di praticare la virtù, di percepire la realtà di Dio, dell’uomo e delle cose. Tutto questo costituisce un quadro di un nuovo modo di esistere rispetto a quello precedente. Secondo passaggio: la trasformazione avviene mediante una nuova vita, è un morire singolare per attrazione o conversione a Colui che è la vita della propria vita, avvertito in modo esperienziale; diventa come un seppellimento che approfondisce quello già iniziato dalla via comune (quella dello Spirito Santo attraverso le prediche, gli avvenimenti…), ma che è tipico dell’orazione di raccoglimento. Il terzo passaggio riguarda la farfalletta che esce come nuova creatura da una certa agitazione del desiderio – importantissimo nella vita carmelitana – che via via viene suscitato da Dio e purificato dall’assenza di Dio, come ci ricorda Giovanni della Croce. Questo 44 Itinerario di comunione viene detto subito, nella “quinta dimora”: si potrebbe dire che la quarta, la quinta e la sesta sono le dimore del desiderio, fino a quando esso troverà pace; giunge poi alla perfezione della pace e del riposo, che Teresa ama definire come il Pax Vobis giovanneo. Ed Egli lo fa quando entra nel centro dell’anima nostra. Qui, per meglio mostrare le sue meraviglie, vuole che altro non facciamo che assoggettargli la volontà, guardandoci bene dall’aprir le porte dei sensi e delle potenze che giacciono addormentati, perché intende entrare nel centro dell’anima senza passare per alcuna porta, come entrò dai suoi discepoli quando disse: Pax Vobis, e come uscì dal sepolcro senza smuovere la pietra. Più avanti vorrà che l’anima lo goda nel centro di se stessa ben più intensamente che non qui; ma sarà nell’ultima mansione (M V, 1, 12). Nell’ultima mansione, ritorna questo richiamo: Il Signore appare nel centro dell’anima – non per visione immaginaria ma intellettuale – in un modo più delicato che non in quello già detto, come apparve agli apostoli senza passare per la porta quando disse loro: Pax Vobis. Ma a quel modo che non si può avere alcun getto d’acqua senza un principio che la muova, così nel nostro interno quanto alle operazioni che ho detto: vi dev’essere qualcuno che scagli quelle saette e che dia vita a quella vita, un sole fortemente luminoso che dall’interiore dell’anima diffonda luce per tutte le potenze. Ciò nonostante, l’anima non si muove dal suo centro, né perde la sua pace. Colui che dette la sua pace agli apostoli quando stavano insieme, può darla anche a lei. La struttura simbolica 45 Penso che questo saluto del Signore, non meno delle parole con cui mandò in pace la gloriosa Maddalena, dovettero operare più di quello che suonavano, perché in noi le parole di Dio sono parole ed opere. In quelle anime ben disposte dovevano operare in tal modo da spogliarle di ogni cosa corporea (M VII, 2, 3. 6. 7). Pare che tutto il discorso del simbolo della farfalla poggi su un desiderio che viene via via condotto alla sua pace. Sembrerebbe un po’ incongruente, a prima vista, il discorso della casa che l’anima si costruisce per morirvi e per rinascere. Questa dimora – dice Teresa – è Cristo, nel quale siamo invitati a nasconderci morendo con Lui. Sua Maestà – abbiamo letto anche questo – diventa nostra dimora fabbricata da noi stessi, e insieme c’è la reciprocità della dimora: noi ci facciamo dimora in Lui quando troviamo pienamente Lui. Teresa racconta di aver avuto l’impressione di essere come una spugna che l’acqua imbeve di se stessa: c’è quindi questa reciprocità, per cui, da un lato, noi costruiamo la casa a Sua Maestà, dall’altro, è più vero che Sua Maestà diventa questa dimora nella quale si abita in un’abitazione reciproca. La costruzione della casa equivale al morire del baco da seta, morire della morte di Cristo in vista di una vita nuova che viene dal Risorto, in rapporto alla quale Teresa vuole spiegare cos’è questa esperienza profonda dell’unione che essa ha vissuto e che vuole raccontare nelle ultime dimore del Castello. 46 Itinerario di comunione Lo Sposo e la sposa Questo simbolo ritorna di frequente nell’opera di Teresa, specialmente nelle ultime dimore, a partire dalla quinta. Vi sono due radici di questo simbolo nella letteratura spirituale cristiana: quella biblica e quella socio-culturale. La radice biblica viene esposta da Teresa nel commento al Cantico dei Cantici: poiché Dio si dimostra così, come uno Sposo, anche noi possiamo comportarci con Lui a questo modo. Non significa che il bisogno di affetto che io ho costruisce l’oggetto; c’è una saggezza e una profondità grandissima: io non mi permetterei mai di usare con Dio questo linguaggio sponsale, se non fosse Lui per primo ad usarlo con me; allora anch’io reciprocamente posso usarlo con Lui. Significa rispettare Dio così com’è; io non lo costruisco mai. Non è una sublimazione personale di uno Sposo che sarebbe Dio: notate quanto è saggia questa intuizione! È a partire da come Lui è e da come Lui si dimostra che io posso desumere come comportarmi con Lui, così che Lui resta sempre quello che è e mai quello che io invento; non è il desiderio che afferra l’altro e lo mette alla sua proporzione, ma lo rispetta così come lo trova, senza immaginarlo. È molto importante il commento al Cantico dei Cantici, specialmente il primo capitolo, perché sviluppa questo criterio metodologico, che è appropriarsi di un linguaggio di questo tipo nel rapporto con Gesù Cristo. Il Cantico dei Cantici diventa la radice biblica più importante di questo discorso e credo sia importante, sia per il riferimento al Pax Vobis che, come l’esperienza del bacio nel Cantico dei Cantici, riassume questa esperienza della La struttura simbolica 47 pace (accordatura perfetta tra l’anima e Dio percepita come una realtà sempre presente), sia per il riferimento al capitolo 17 di Giovanni. È come nella “settima dimora”, in cui continua il discorso sulla pace: In quelle anime ben disposte (le parole: Pace a voi) dovevano operare in tal modo da spogliarle di ogni cosa corporea, lasciandole nello stato di puri spiriti, acciocché potessero congiungersi, mediante questa unione celeste, con lo Spirito increato, essendo ormai fuor di dubbio che tanto più egli ci riempie di sé, quanto più ci vuotiamo di ogni cosa creata, distaccandocene per amor suo. Per questo Gesù Cristo Signor Nostro pregando una volta per i suoi apostoli, domandò – non so bene in quale circostanza – che fossero una cosa sola col Padre e con Lui, come Egli, Gesù Cristo Signor Nostro, è nel Padre e il Padre è in Lui. Non so se possa darsi maggior amore! Anche noi vi siamo comprese, perché il Signore disse: Non prego soltanto per essi, ma anche per coloro che crederanno in me. Aggiunse inoltre: io sono in essi (M VII, 2, 7). Il richiamo al capitolo 17 di Giovanni è importante come radice biblica di questo discorso sulla comunione sponsale: la tensione resta tra il simbolo della sposa e quello del figlio; il Signore è Colui che dice: quello che è tuo è mio e quello che è mio è tuo ed è il linguaggio della reciprocità perfetta. Vedete come un simbolo passa nell’altro, come sono due simboli intercambiabili e l’uno confluisce nell’altro. Gesù Cristo è lo Sposo in quanto Figlio di Dio che ci fa figli. Per quanto riguarda invece la radice socio-culturale, Teresa si riferisce al processo matrimoniale 48 Itinerario di comunione secondo i costumi del suo tempo: si incomincia a valutare se l’accordo fondamentale c’è; poi segue las vistas, cioè l’incontro, quando si permette allo sposo di incontrare la sposa; in seguito c’è il desposorio, ovvero il fidanzamento ufficiale; e poi finalmente il matrimonio. Non dobbiamo dimenticare che c’è una progressività di un fatto pubblico con delle tappe, che la santa cerca poi di riprodurre: la “quinta dimora” sono las vistas, la sesta il desposorio e la settima il matrimonio. Il riferimento culturale permette questa successione. Possiamo leggere nel testo come le cose vengono formulate: Avrete spesso sentito dire che Dio si sposa spiritualmente con le anime. Sia benedetta la sua misericordia per tanta umiliazione [non siamo noi che inventiamo lo Sposo, ma è Lui che si inventa come Sposo]! Si tratta di un paragone grossolano; eppure non trovo nulla che faccia meglio intendere queste cose come il sacramento del matrimonio. Certo che la differenza è molto grande, perché nell’alleanza di cui parliamo non vi è nulla che non sia spirituale: quella corporea ne rimane molto lontana, e lontane le mille miglia [vedete con che libertà lei parla di queste cose!] dai gusti e dalle consolazioni spirituali che qui il Signore concede sono pure le soddisfazioni di chi contrae matrimonio. È l’amore che si unisce all’amore, e si hanno operazioni così pure, delicate e soavi da non aver parole per esprimersi. Ma il Signore sa farle sentire benissimo. Benché l’unione non arrivi ancora ad essere fidanzamento spirituale [qui fa riferimento all’orazione, alla preghiera di unione], tuttavia vi succede come nel mondo, quando due devono fidanzarsi: si esamina se uno conviene all’altro e se desiderano unirsi, poi si La struttura simbolica 49 permette che si vedano [las vistas], affinché ne siano entrambi soddisfatti. Supponiamo nel caso nostro che il contratto sia già stipulato, che l’anima sia ben informata di quanto quell’unione le convenga, e sia decisa a sottomettersi in tutto alla volontà dello Sposo, non tralasciando nulla di quanto vedrà di suo gradimento. Intanto il Signore, vedendo che l’anima è proprio in queste disposizioni, si dichiara contento di lei e, volendo farsi meglio conoscere, le concede la grazia di venire, come suol dirsi, a un incontro [qui la traduzione è imprecisa, il temine tecnico è proprio las vistas], per poi unirla a sé. E tutto questo, in un brevissimo spazio di tempo, non essendovi di mezzo più alcun contratto, ma soltanto uno sguardo, mediante il quale l’anima vede - e in maniera molto misteriosa - chi sia lo Sposo che deve prendere, riportandone una tale conoscenza, quale non potrebbe acquistare neppure in mille anni con l’esercizio dei sensi e delle potenze. Con quel semplice sguardo lo Sposo, essendo Quegli che è, fa l’anima più degna di andare a dargli la mano, mentre l’anima ne rimane talmente rapita da far poi tutto il possibile per realizzare il fidanzamento. Ma se invece si trascura sino a porre le sue affezioni sopra altro oggetto che non sia Lui, perde ogni cosa, e con perdita tanto più grave quanto più eccelse sono le grazie che Egli le terrebbe riserbate: insomma, una perdita da non potersi descrivere (M V, 4, 3 - 4). Se volete, in riferimento alle usanze del matrimonio, potete anche leggere, nella “sesta dimora”, il quarto capitolo al numero 1. Nella “settima dimora” (capitolo secondo, numeri dal 2 al 5) è interessante l’ultima parte del numero 4 50 Itinerario di comunione dove il linguaggio simbolico è strumento principale nell’espressione di Teresa: Possiamo paragonare l’unione [qui fa riferimento all’esperienza dell’unione] a due candele di cera unita insieme così perfettamente da formare una sola fiamma, oppure come se il lucignolo, la fiamma e la cera non siano che una cosa sola. Nondimeno le candele si possono separare, ricavandone due candele distinte, così pure il lucignolo dalla cera. Ma nel caso nostro è come l’acqua del cielo che cade in un fiume o in una fonte, dove si confonde in tal modo da non sapere più distinguere quella del fiume da quella del cielo; oppure come un piccolo ruscello che va a finire nel mare, da cui non è possibile separarlo; o come una gran luce che entra in una stanza per due finestre: vi entra divisa, e dentro si fa tutt’uno (M VII, 2, 4). Questa è l’esperienza del matrimonio spirituale: c’è questa comunione totale. L’utilizzo del simbolo iniziale suppone dunque l’accondiscendenza divina e non una partenza psicologica e sublimatrice, perché Lui è così: Lui dirige effettivamente l’amore, l’affettività, la tenerezza nella direzione di un rapporto interpersonale di comunione profonda col Cristo della croce e della risurrezione; l’unione è innanzitutto obiettivamente ed esperienzialmente offerta e non mai conquistata. È una specie di aiuto a interpretare: il desiderio è insieme qualcosa che forma dirigendo verso il suo oggetto proprio e conducendo all’essenzialità nel rapporto con Dio. L’uomo viene assunto sempre come desiderio, non come volontà di conquista, ma come desiderio che si lascia formare e obbedisce; il desiderio è povero, è nella povertà e nella disponibilità. La struttura simbolica 51 Possiamo farvi considerare alcuni criteri interpretativi contenuti nei paragrafi di commento al Cantico dei Cantici che mi sembrano particolarmente importanti. Leggiamo dai Pensieri sull’amore di Dio: Oh, Signor mio, come ci serviamo male dei vostri benefici! Per farci conoscer l’amore che ci portate, ricorrete ad ogni sorta di mezzi e di invenzioni; e noi, nella nostra scarsa esperienza del vostro amore, ne facciamo poco conto. Male abituati a questo esercizio, lasciamo che i nostri pensieri vadano dove sono soliti andare, senza curarci di approfondire i grandi misteri che lo Spirito Santo ha racchiuso nelle sue parole. Non dovrebbe forse bastare ad accenderci d’amore il pensiero che di questo linguaggio si è servito Dio stesso, e che ciò non dev’essere senza una profonda ragione? (P, 1, 4). Poi continua: Termino con questo consiglio. Quando nelle sacre Scritture o nei misteri di nostra fede vi imbattete in cose che non intendete, non fermatevi in esse più di quello che vi ho detto, guardandovi poi dal meravigliarvi se v’incontrate in parole di tenerezza circa i rapporti che passano tra Dio e l’anima. Io mi meraviglio assai di più, quasi ad uscire di me, nel considerare l’amore che Dio ci ha portato e ci porta, nonostante quel che siamo. Esso è tanto più grande che le parole con cui Egli lo manifesta non mi sembrano affatto esagerate, avendocelo già dimostrato assai più ardente con le opere. Arrivate a questo punto, prego, per amor mio, di fermarvi un poco. Pensate all’amore che il Signore ci ha mostrato e a quanto ha fatto per noi, e comprenderete chiaramente che un amore così 52 Itinerario di comunione potente e forte com’è quello che l’ha spinto a soffrire tante pene, non poteva essere manifestato che con parole sorprendenti (P, 1, 7). E ancora: Nel testo citato in principio, mi sembra che la sposa parli a una terza persona, e questa è la medesima di cui parla. Con ciò dà a intendere che in Cristo vi sono due nature, una divina e l’altra umana. Ma in questo non mi fermo, perché mia intenzione è di parlare soltanto di quello che può essere utile a noi che pratichiamo l’orazione, benché un’anima che ama sinceramente il Signore possa trovare in tutto di che incoraggiarsi e ammirare. Sua Maestà lo sa bene: sia che di qualcuna di queste parole io abbia intesa alle volte la spiegazione, o che questa mi è stata data dietro mia domanda, fatto è che questo mi è avvenuto assai di rado, senza poi dire che presentemente con la mia poca memoria non ricordo più nulla. Così non potrò dire se non quello che il Signore si degnerà di insegnarmi, e vedrò convenire al mio argomento. Mi baci col bacio della sua bocca. O mio Signore e mio Dio! Che parole queste per esser dette da un verme al suo Creatore! Siate Voi benedetto, Signore, che in tanti modi ci istruite! Ma chi mai, o mio re, oserà dire una tal cosa se non gliene date Voi la licenza? Sono parole così sorprendenti che se io consigliassi di pronunciarle, se ne farebbero le meraviglie. Si direbbe che sono una ignorante, che tali parole non vogliono dire così, che han molti altri significati, che non dobbiamo rivolgerle a Dio, e che dai semplici non si dovrebbero neppur leggere. La struttura simbolica 53 Ne convengo: tali parole han molti significati. Ma l’anima, arsa da un amore che la trae fuor di sé, non ne riconosce alcun altro e non fa che pronunciarle, contenta solo che il Signore non glielo proibisca. Del resto, perché meravigliarcene? Non è forse più ammirabile la realtà? Non ci accostiamo noi al SS. Sacramento? Mi sono infatti domandata se qui la sposa chieda appunto questa grazia, che Cristo ci ha fatto soltanto più tardi [l’Eucaristia]. Ho anche pensato che ella domandasse quella strettissima unione che Dio ha attuato col farsi uomo: cioè l’amicizia da lui contratta col genere umano [l’Incarnazione], dato che il bacio è un chiaro segno di pace e di grande amicizia fra due persone. Ma ci aiuti il Signore, a ben comprendere le molte e varie qualità di paci che vi sono! (P, 1, 9 - 10). Struttura logica e dottrinale Abbiamo visto i simboli fondamentali – il castello, il baco da seta, lo sposo e la sposa – cercando di individuare che cosa ognuno evocasse. Adesso consideriamo la struttura logica del Castello, cioè l’impianto, come viene organizzato il materiale, per capire com’è costruita l’opera. Nonostante l’apparenza, non è la gradualità settenaria delle sette dimore – il fatto che da una dimora si passi all’altra – che dà la struttura logica di questo discorso. È interessante notare come Teresa non segua lo schema delle tre vie: purgativa, illuminativa, unitiva. La gradualità settenaria ha due precedenti nella storia della spiritualità: gli itinerari mistici del secolo decimoquarto hanno nelle loro costruzioni questa sorta di schema settenario, come sette gradini; anche Giovanni della Croce ne parla nel commento al secondo libro della Salita al Monte Carmelo, capitolo 11, quando dice che le septe mansiones sono i sette gradi di amore; così anche all’interno del Cantico Spirituale, alla strofa 26. Ma questo è soltanto l’apparente; in realtà, la divisione logica, che Teresa stessa introduce, è quella che appare dal trattato, cioè le prime tre dimore – il “naturale” teresiano – sono distinte dalle altre quattro – il “soprannaturale” teresiano. 56 Itinerario di comunione Naturale e soprannaturale Teresa usa il termine “soprannaturale” in un senso particolare, intendendo cioè qualcosa che è gratuito, che si riceve e accoglie, che non si può costruire con la propria industria e col proprio sforzo. Di fatto questa distinzione appare già nel libro della Vita, ma è molto chiara nel Castello alla “quarta dimora”, già nel primo paragrafo, quando dice: Per parlare delle quarte mansioni devo raccomandarmi, come già ho fatto, allo Spirito Santo e supplicarlo che parli in luogo mio, non altrimenti che per poter dire e far capire qualcosa delle mansioni che rimangono. Qui comincia il soprannaturale, parlar del quale è assai molto difficile, a meno che non mi aiuti Sua Maestà (M IV, 1, 1). La stessa cosa si ritrova più avanti in questa “quarta dimora”, dove, distinguendo tra le esperienze della fase precedente, quelle dei contentos, e dei gusti, dice: Se i primi non sono cattivi, i secondi sono più nobili, perché cominciano da noi e finiscono in Dio, mentre i gusti cominciano da Dio e si fanno sentire dalla natura, procurandoci tanto piacere quanto i contenti di poco prima, e assai più (M IV, 1, 4). La presentazione è molto chiara: la prima è l’esperienza di uno che va da sé a Dio, la seconda è l’esperienza di qualcosa che da Dio viene a sé, quindi implica la libertà di Dio: il primo è il “naturale” teresiano e il secondo il “soprannaturale”, cioè la condizione di Struttura logica e dottrinale 57 passività nei confronti di un’iniziativa che è gratuita, viene da Dio e non si può catturare. La distinzione più logica riguarda quindi i due tempi della vita spirituale: si potrebbe dire il primo “ascetico” e il secondo “mistico”, cioè naturale e soprannaturale. Bisogna guardare come la marcatura tra ognuna delle soglie delle ultime quattro dimore del Castello - l’anima è questo castello che entra in un castello, dunque è un movimento - è più netta e forte che non nel caso delle prime tre, che esprimono un discorso abbastanza globale. Le ultime quattro soglie sono invece molto distinte. Le prime tre caratterizzano un momento solo e abbastanza omogeneo, che riguarda ciò che è in nostro potere, cioè impegnarsi a seguire il Signore per la via dell’orazione; in seguito si tratta sempre di una sequela, ma qui è il Signore a prendere l’iniziativa, anche se la sequela ha sempre la medesima struttura fondamentale di partecipazione alla morte e resurrezione di Cristo. Che questa divisione corrisponda all’esperienza di Teresa pare molto plausibile e facile da documentare, come appare nella Vita, che consente un raffronto col Castello fino alla “sesta dimora”. Se collochiamo nel 1554 – Teresa aveva circa quarant’anni – la data di esperienza forte di fronte al Cristo piagato, che è un momento culmine nel cammino di ripresa dell’orazione, la cosiddetta terza conversione della santa, qui si conclude l’epoca delle tre dimore e incomincia l’ingresso nelle restanti. Leggiamo infatti al capitolo nono della Vita: Ormai la mia povera anima si sentiva stanca e voleva riposare, ma le sue perverse inclinazioni glielo impedivano. Entrando un giorno in oratorio, i miei occhi 58 Itinerario di comunione caddero su una statua che vi era stata messa, in attesa di una solennità che si doveva celebrare in monastero, e per la quale era stata procurata. Raffigurava nostro Signore coperto di piaghe, tanto devota che nel vederla mi sentii tutta commuovere perché rappresentava al vivo quanto Egli aveva sofferto per noi: ebbi tal dolore a tal pensiero dell’ingratitudine con cui rispondevo a quelle piaghe, che parve mi si spezzasse il cuore. Mi gettai ai suoi piedi in un profluvio di lacrime, supplicandolo di darmi forza per non offenderlo più. Ero molto devota di santa Maria Maddalena, e pensavo spesso alla sua conversione, specie quando mi comunicavo. Sapendo che il Signore stava allora con me, mi gettavo ai suoi piedi immaginandomi che le mie lacrime non meritassero di essere del tutto disprezzate. Non sapevo quello che dicevo, facendo Egli già molto con acconsentire che io le spargessi per Lui, giacché i miei sentimenti si dileguavano quasi subito. Intanto mi raccomandavo a questa santa gloriosa affinché mi ottenesse perdono. Ma nulla mi fu più utile che di prostrarmi innanzi alla statua che ho detto. Allora diffidavo molto di me e mettevo ogni fiducia in Dio. E mi pare che gli dicessi che non mi sarei alzata dai suoi piedi, se non mi avesse concesso quello di cui lo pregavo. Certamente Egli mi deve avere ascoltata, perché da allora in poi mi andai molto migliorando. Questo era il mio metodo di orazione. Non potendo discorrere con l’intelletto, procuravo di rappresentarmi Gesù Cristo nel mio interno, specialmente in quei tratti della sua vita in cui lo vedevo più solo, e mi pareva di trovarmi meglio. Mi sembrava che, essendo Egli solo ed afflitto, mi avrebbe accolta più facilmente, come persona bisognosa d’aiuto. Di simili ingenuità ne avevo Struttura logica e dottrinale 59 parecchie. Mi trovavo molto bene con l’ ”orazione dell’orto” dove gli tenevo compagnia. Pensavo al sudore e all’afflizione che vi aveva sofferto, e desideravo asciugargli quel sudore così penoso. Ma ripensando ai miei gravi peccati, ricordo che non ne avevo il coraggio. Me ne stavo con lui fino a quando i miei pensieri lo permettevano, perché mi disturbavano assai (V, 9, 1 - 3). Dopo incomincia l’altra fase. C’è un intermezzo sulla preghiera fino al capitolo 22, e da lì in avanti riprende il racconto della vita, ma ormai siamo alla “sesta dimora”. Questo per quanto riguarda il cammino di Teresa come il libro della Vita ci permette di comprenderlo, quasi come un supporto alla trattazione più generale del Castello. Giungiamo ora alla struttura dottrinale, cioè all’individuazione dei cardini della dottrina spirituale esposta in questo trattato per cercare di penetrare fino in fondo il pensiero spirituale di Teresa. I nuclei centrali del pensiero mi pare siano quattro: il Signore del castello, l’anima dell’uomo, l’unione e il suo significato, il cammino dell’unione. Il Signore del castello Per quanto riguarda il primo, vediamo chi è il signore del castello: a prima vista non è così facile individuare chi sia questo re che dimora nel centro. Teresa sembra oscillare tra Dio, la cui presenza non è solo – secondo l’analisi della Scolastica – essenza, potenza, presenza (essenza: noi siamo una partecipazione di Dio, come se Egli si esprimesse fuori di 60 Itinerario di comunione sé creando qualcosa di distinto; potenza: Dio opera nella sua creatura, quindi non ci possiamo pensare staccati da Lui quando operiamo e anche la nostra libertà va pensata dentro; presenza: Dio ci conosce), ma anche inabitazione trinitaria. Si può richiamare ad esempio il capitolo 18 della Vita: Mi pareva che Dio mi stesse molto vicino, e siccome da principio non sapevo che Egli è in ogni cosa, il fatto mi sembrava assai strano. Eppure lo vedevo così chiaro da non essermi possibile di credere diversamente. Quelli che non avevano studiato mi dicevano che era soltanto con la sua grazia [qui intende la grazia attuale, transitoria di Dio, non tanto abituale: è una terminologia diversa rispetto a quella che siamo abituati noi ad usare]. Ma io non mi potevo convincere, perché, come dico, mi pareva che lo fosse realmente, e me ne rimanevo con pena. Mi venne a togliere da questo dubbio un dottissimo religioso di San Domenico, il quale mi disse che Dio è realmente presente, e mi spiegò come si comunica alle anime, per cui rimasi molto consolata. Giova notare e ben comprendere che quest’acqua di cielo, cioè questo gran favore di Dio, arricchisce l’anima di grandi tesori, come passo ad esporre (V, 18, 15). La stessa cosa viene ricordata alla “quinta dimora”: Conosco una persona che non sapeva che Dio si trova in ogni cosa per presenza, per potenza e per essenza. Ma lo intese chiaramente dopo un favore di questo genere ricevuto dal Signore. Avendo interrogato uno di quei semidotti di cui ho parlato più sopra sul come Dio sia in noi, egli che ne sapeva quanto lei prima di questa illustrazione, le rispose che vi sta soltanto per la grazia; ma ella era talmente fissa nella verità, che non Struttura logica e dottrinale 61 gli credette. In seguito, interrogò altre persone che le dissero la cosa come stava, e ne rimase molto consolata (M V, 1, 10). Sembrerebbe che Teresa, quando si riferisce a Dio, voglia significare la scoperta di una presenza che è strutturata secondo un’esigenza metafisica del rapporto tra la creatura e il Creatore; invece, per esempio nella “settima dimora” e ancora nella redazione sesta del 1581, sembra che si tratti formalmente della Trinità. Nel primo capitolo della “settima dimora” si parla della presenza della Trinità, mentre nel secondo capitolo si parla della visione dell’umanità di Gesù Cristo: Una volta introdotta in questa mansione, le si scoprono, in visione intellettuale, le tre Persone della santissima Trinità, come in una rappresentazione della verità, in mezzo ad un incendio, simile ad una nube risplendentissima che viene nel suo spirito. Le tre Persone si vedono distintamente, e l’anima, per una nozione ammirabile di cui viene favorita, conosce con certezza assoluta che tutte e tre sono una sola sostanza, una sola potenza, una sola sapienza, un solo Dio. Ciò che crediamo per fede, ella lo conosce quasi per vista, benché non con gli occhi del corpo, né con quelli dell’anima, non essendo visione immaginaria. Qui le tre Persone si comunicano con lei, le parlano e le fanno intendere le parole con cui il Signore disse nel Vangelo che Egli col Padre e con lo Spirito Santo scende ad abitare nell’anima che lo ama e osserva i suoi comandamenti (M VII, 1, 6). Ma, al secondo capitolo, sembra che questa visione sia quella che ha superato ormai l’umanità di Cristo, perché dice: 62 Itinerario di comunione La prima volta che l’accorda, il Signore si compiace di mostrarsi all’anima nella sua Umanità sacratissima mediante una visione immaginaria affinché ella lo conosca e comprenda il gran dono che sta per farle. Forse ad altre persone si mostrò in altra forma; ma a quella di cui parliamo si presentò appena fatta la comunione, circonfuso di grande splendore, e le disse di esser tempo che ella si curasse delle cose di Lui come fossero sue proprie, mentre Egli s’interesserebbe delle sue. Ed aggiunse altre parole che sono più da sentire che da dire (M VII, 2, 1). Continua tuttavia a parlare del matrimonio spirituale, dove è messo in evidenza l’apparire al centro dell’anima dell’umanità di Gesù Cristo che dice Pax Vobis; sembrerebbe che questo sia solo il primo passo, mentre il passo definivo è quello della visione della Trinità. Per cui, quando si chiede chi è il Signore del castello, la risposta è in quest’ultimo senso. Giudicando dalla Vita e dal Cammino di Perfezione (capitolo 28), anche e soprattutto nelle ultime tre dimore – con il simbolo del baco da seta che muore in Cristo, il simbolo dello Sposo, la difesa appassionata dell’umanità di Cristo (“sesta dimora”), il Pax Vobis – parrebbe che il Signore del castello, il Dio presente e operante, sia innanzitutto e sempre Cristo: il Cristo uomo-Dio, risorto e glorificato, rinvia permanentemente, da una parte, alla Trinità, dall’altra, alla sua passione. Questa specie di oscillazione non è in realtà un’oscillazione, perché il Figlio è Colui che rimanda al Padre, è Colui che consegna l’anima di Teresa al Padre; d’altra parte, il Figlio che viene nella comunione, quel Figlio che si è incarnato, permette al Padre di avere la gioia. Struttura logica e dottrinale 63 Tutto questo mette in evidenza che noi non abbiamo la rivelazione della Trinità e poi Gesù Cristo, ma è nel comprendere chi è Gesù Cristo che noi arriviamo alla Trinità: Gesù Cristo non può essere pensato se non come Colui che ha il suo riferimento ultimo al Padre e al dono dello Spirito Santo. Nel Nuovo Testamento la parola Trinità non si trova perché è una parola del vocabolario cristiano; si trova invece il fatto che, per esprimere la realtà di Gesù Cristo, si deve includere, da una parte, il suo riferimento al Padre, dall’altra, il suo riferimento allo Spirito Santo: sono tre presenze distinte. In questo modo di farsi presente e di interessarsi a noi, questo Dio è uno, ma non alla maniera in cui noi pensiamo il numero uno aritmetico. L’unità di Dio è molto più ricca di quanto il concetto di “uno” riesca a dire: è l’unità singolare di Colui che dice: «Io Sono Colui che Sono», cioè: «Saprete chi sono da quello che farò». È un’unità aperta. Allora bisogna dire sì che Dio è uno, ma il concetto di unità di Dio non è un concetto al quale si aggiunge quello di Trinità, perché implica anche la Trinità; non è uno uguale a tre: questa è un’operazione aritmetica sbagliata! Invece il concetto è come l’unità di Dio implichi questa comunione singolarissima di tre Persone che noi non conosciamo se non andando al Figlio che rimanda al Padre e questi al Figlio. Nel discorso teresiano è molto chiaro questo senso di Cristo che non può mai essere isolato dal suo riferimento fondamentale: Cristo glorioso è Cristo-Dio perché è Colui che è riferito al Padre e dal quale viene lo Spirito Santo. Allora il Signore del castello è, in primo piano, il Cristo della Risurrezione ed è collocato sullo sfondo 64 Itinerario di comunione della Trinità, è il principio dello Spirito Santo insieme al Padre. Il Cristo uomo-Dio glorificato permette di aprire al mistero profondo che è la sua Divinità, cioè la sua umanità come la nostra è nella Trinità. Per sempre la nostra umanità, nell’umanità di Cristo, esprime umanamente la divinità di Dio e la esprime perché questa umanità è nella Trinità. Quando Teresa parla dell’umanità di Cristo, intende sempre tutto questo: riconosce un’umanità vera, glorificata, che esprime la divinità, in quanto la divinità del Figlio è in rapporto al Padre e allo Spirito Santo. C’è questo senso della maestà, dell’adorabilità di questa umanità che diventa la rivelazione della Divinità del Figlio in rapporto con il Padre e lo Spirito santo. Le oscillazioni di linguaggio che troviamo in Teresa – Dio, Trinità, Cristo – quando parla del signore del castello, sarebbero dovute, se volete, ad una certa mancanza di rigore, ma possono essere una forma sintetica per esprimere l’umanità di Cristo intesa come luogo della rivelazione piena di Dio, della divinità del Figlio in rapporto con il Padre e con lo Spirito Santo. Dire l’umanità di Cristo sarebbe un po’ come dire quello che noi diciamo quando diciamo “Dio” parlando di Cristo. Tale impostazione, recentemente indicata e teorizzata da Secondino Castro, mi pare essere finalmente la più coerente con il cammino spirituale proprio di Teresa e giustifica le sue appassionate difese del valore permanente dell’umanità di Cristo, del fatto cioè che non si può mai metterla da parte né prescindere da essa. È il Cristo della Passione, della Risurrezione e dell’Eucaristia, legate insieme. Per quanto riguarda il legame tra il Cristo della Passione e quello della Struttura logica e dottrinale 65 Risurrezione, mi pare molto suggestivo l’accostamento alla Seconda Lettera ai Corinti di san Paolo: Dio che fa brillare la luce nelle tenebre ha fatto brillare la gloria che risplende sul volto di Cristo (cfr. 2Cor 4,6). D’altra parte, c’è anche tutto il discorso che fa riferimento alla croce di Cristo, che diventa la croce dell’apostolo: la salita sulla montagna della trasfigurazione è insieme la salita sulla montagna del Calvario, perché non si possono separare i due registri. Pensate alla “sesta dimora” quando c’è quel lungo capitolo iniziale in cui Teresa cerca di persuadere: immaginate che qui inizi la Passione di Cristo. C’è stata una riscoperta della risurrezione di Cristo, che pareva un po’ messa da parte perché sembrava che tutto fosse la croce, e la risurrezione solo la conferma e una prova della divinità di Cristo, senza nessun rapporto con la nostra salvezza; ma la riscoperta del valore di salvezza della risurrezione ha determinato, per contraccolpo, che si parli solo di Cristo Risorto, per cui l’Eucaristia è il banchetto col Cristo Risorto, come se la Passione di Cristo fosse un momento transitorio che non avesse più niente da dire. Pensate se l’Eucaristia fosse soltanto la celebrazione del mistero di Cristo Risorto, cosa potrebbe dire alla nostra vita? Ma noi partecipiamo sì alla risurrezione di Cristo, ma siamo sul versante di quelli che vanno verso la morte! Allora l’associazione che Cristo ci dona nell’Eucaristia è sì il Cristo glorioso che ce la dà, ma lasciandoci su questo versante, non portandoci automaticamente sull’altro: resta il memoriale della morte e della risurrezione del Signore, il suo corpo dato e il suo sangue sparso per noi; e resta il valore permanente della Passione di Cristo. Il 66 Itinerario di comunione pensiero teresiano è partito dalla sconvolgente ispirazione del Cristo piagato, è arrivato a vedere che il Signore del castello è l’umanità di Cristo, cioè il Cristo glorioso, ma non per questo Teresa ha dimenticato il valore permanente della Passione di Cristo e dell’associazione alla passione. L’intuizione della fede di Teresa si può riassumere così: il Signore è il Cristo nella sua umanità, l’umanità del Cristo glorioso è penetrata di Divinità, quindi portata nella Trinità e insieme inseparabile dal riferimento alla Passione e all’Eucaristia. L’anima dell’uomo Passando al discorso sull’anima dell’uomo, questo trattato è come un grande inno alla grandezza dell’anima umana. Esso si svolge su tre livelli: il primo è quello di una specie di dittico tra l’anima in grazia di Dio e l’anima in peccato mortale (basta ricordare come cominciano le dimore e come Teresa è colpita da questo fatto). Il secondo è quello della strana situazione in cui l’anima può vivere, di essere cioè estranea a sé, uno stare fuori di casa, che è una della possibilità dell’uomo che va dalla superficialità all’estraneità del peccato, per cui l’anima, pur abitando in sé, vive come se quel castello che è lei stessa non fosse la sua dimora, quindi rimane fuori. Si contrappone così al primo dittico questo secondo dittico che fa riferimento all’interiorità e all’esteriorità dell’uomo: è la contraddizione tra la consapevolezza dell’abitare dentro e la possibilità che l’uomo Struttura logica e dottrinale 67 ha dell’abitare fuori, non accorgendosi della preziosità della sua anima. Il terzo livello riguarda l’analisi e la struttura dell’anima, analisi che non è tanto rigorosa e scolastica, ma più intuitiva e immediata: quest’anima non ha parti, eppure non è semplicemente le sue potenze – la sensibilità, l’affettività, l’intelligenza, il pensiero, gli atti di volontà –, ma qualcosa di molto più unitario e globale; non è semplicemente lo spirito dell’uomo e ha un centro. Per il primo livello si può vedere nella “prima dimora” il primo capitolo, numeri 1 e 2 e secondo capitolo, numeri 1, 2, 3, 8, 12; un secondo gruppo di testi potrebbero essere nella “quarta dimora”, al secondo capitolo, numeri 2, 4, 6 e terzo capitolo, numero 2; nella “settima dimora” il primo capitolo, numeri 3 e 11, il secondo capitolo, numeri 6, 9 e 10; infine, nell’epilogo, i numeri 1 e 3. L’inno all’anima dell’uomo è tale che la mantiene orientata al suo cuore che è l’umanità del Cristo glorioso, il quale è dentro di lei principio di movimento nel cammino e di attrazione verso l’interno. Abbiamo visto al primo capitolo il paragone dell’anima al castello, con un suo centro che è il Centro, cioè quel Dio ad immagine del quale siamo stati creati. Al secondo capitolo dice: Ma credo che non arriveremo mai a conoscerci, se insieme non procureremo di conoscere Dio. Contemplando la sua grandezza, scopriremo la nostra miseria; considerando la sua purezza riconosceremo la nostra sozzura; e innanzi alla sua umiltà vedremo quanto ne siamo lontani (M I, 2, 9). 68 Itinerario di comunione Notate questa sintonia della conoscenza di Dio e dell’uomo che stanno insieme. L’unione con Dio Cerchiamo ora il significato dell’unione con Dio. Quando Teresa parla della realtà dell’unione che si esprime col simbolo del matrimonio, esprime un’esperienza omogenea che rispetta le linee di struttura non solo del mistero dell’alleanza – Dio si dona a noi –, ma anche dell’esperienza generale dell’interiorizzazione del cristianesimo o della sequela di Cristo. Questa esperienza non è una cosa diversa dal seguire Cristo. Tuttavia non possiamo ridurre Cristo all’esperienza mistica di Teresa, perché le esperienze mistiche sono tante e di tanti tipi e perché il Signore non chiama tutti per questa strada. In definitiva, ciò che misura la perfezione di un uomo è la carità, che resta un mistero sperimentabile in tanti modi, non necessariamente in un modello come è quello di Teresa. Non si può far consistere nel modello di Teresa il modello assoluto di ogni esperienza cristiana: lei stessa sa che la struttura fondamentale di una personalità cristiana, anche di una carmelitana, non necessariamente coincide con l’esperienza che lei vive, pur omogenea con l’esperienza cristiana. Questo può far ritrovare anche là le linee fondamentali del cristiano come chi partecipa alla morte e risurrezione del Signore, come chi è umile, ubbidiente, povero, e non ama soltanto Dio lasciando da parte il prossimo. Le linee di struttura del mistero dell’alleanza tra Dio e l’uomo noi le crediamo, al di là dell’esperienza; è perché il Signore dice Struttura logica e dottrinale 69 che è così che io dico che la vita cristiana è una trasformazione in Cristo e un’associazione alla sua morte e risurrezione, indipendentemente dall’esperienza che io faccio. Poi questo può diventare un’esperienza e, a un certo livello, lo diventa sempre; man mano che il cristianesimo diventa una mentalità che lavora nella vita, che cambia la vita e i giudizi di valore, che crea inquietudine di coscienza, vuol dire che il cristianesimo entra nella vita. Però è tutto diverso se uno entra con la modalità che Teresa descrive quando arriva alla “settima dimora”. Magari non avremo la visione dell’umanità di Cristo come Teresa, ma sappiamo che Dio è in noi e noi siamo in Lui e la Parola di Dio ci basta per poter costruire una vita in cui questa parola ci diventa familiare, diventa forza e dirige le nostre scelte, orienta i nostri giudizi di coscienza, ci aiuta a vedere le cose in maniera diversa da altri che si muovono in un’altra prospettiva. Il pensiero che Cristo sia il tutto e l’assoluto lo percepite come normale per una vocazione come la vostra (che non è semplicemente la vocazione cristiana in generale, pur omogenea con essa); ma pensate a quanta gente non capisce e percepisce questa vocazione come una cosa assolutamente incomprensibile. Si vede così la distanza tra i valori cristiani, cioè un cristianesimo assimilato e interiorizzato, e un cristianesimo che rimane assolutamente incomprensibile, magari anche non rifiutato, ma giudicato non una sapienza ma una stoltezza. Questo discorso di Teresa d’Avila tuttavia non significa che è sulla base mistica che si afferma, ad esempio, che il Cristo è in noi e che noi siamo in Lui, che Dio ci ha voluti e pensati in Cristo; questo è sulla 70 Itinerario di comunione base della rivelazione di Dio: anche se io non sperimentassi nulla, dovrei leggere san Paolo e ugualmente credere che io sono in Cristo e che Cristo è in me, fino a far diventare questa realtà una cosa familiare nella mia vita e quindi interiorizzarla. Ci sono dunque livelli diversi di interiorizzazione: quello che risponde alle prime tre dimore – che tutti certamente dobbiamo cercare di vivere – e quello che invece risponde alle altre dimore, dove dobbiamo aspettare il fischio del pastore per entrare! Ma questa è un’altra maniera, diversa da quella comune che è alla portata di tutti e secondo la quale il Signore ci misura: il Signore non ci misura sull’esperienza mistica che abbiamo o no, ma su questa interiorizzazione del cristianesimo, per cui la Parola del Signore viene accolta come qualcosa a cui si obbedisce e secondo cui si cammina. Questo è anche il senso del vangelo di stamattina in cui Gesù dice a Pietro, secondo l’originale greco: «mettiti dietro a me», cioè non davanti a me come colui che insegna o che mi è di inciampo, ma dietro di me: ecco la condizione del discepolo (cfr. Mt 16,23). Questa unione dunque di cui Teresa parla nelle ultime dimore è un’esperienza di sequela di Cristo, le cui condizioni e grandi forze sono, da una parte, l’orazione e, dall’altra, la conformità della propria volontà alla volontà di Dio. Eppure, per quanto si tratti di un’esperienza singolare, omogenea ai fondamenti cristiani, non si può dire se non che si arriva là perché c’è un elemento di libertà di Colui che chiama, e bisogna lasciarglielo. Tale esperienza non è nella linea del progresso lineare, come fosse una sorta di moto uniformemente accelerato, proprio perché c’è questa Struttura logica e dottrinale 71 libertà. Possiamo leggere a proposito il testo della “quarta dimora”, al terzo capitolo: Coloro che ne trattano, dicono che l’anima rientra in se stessa e alle volte sale sopra se stessa. Ma se io mi servo di questo linguaggio, non riesco a dir nulla. Io ho questo di cattivo: di pensare che voi intendiate le espressioni che mi fabbrico io, le quali forse non saranno intese che da me. Immaginiamoci dunque che i sensi e le potenze [che, secondo il paragone adottato, sono gli abitanti del castello] siano fuggiti fuori e vivano da giorni ed anni con gente straniera, nemica del bene del castello. Riconoscendo finalmente il loro torto, ritornano, si avvicinano al castello, ma non si decidono ad entrarvi per la tirannia della cattiva abitudine contratta. Tuttavia, girano intorno e non tradiscono più. Il gran Monarca che risiede nel castello, vedendo la loro buona volontà, si lascia impietosire e nella sua grande misericordia decide di chiamarli a sé. A guisa di buon pastore, emette un fischio tanto soave da non esser quasi percepito, ma con il quale fa loro conoscere la sua voce, acciocché lasciata la via della perdizione, rientrino nel castello [il buon pastore che fa conoscere la sua voce viene applicato all’anima: vediamo sempre il solito schema Israele-Chiesa-anima. Quello che nel Vangelo di Giovanni viene applicato alla Chiesa, qui viene applicato al mondo interiore]. E ciò fanno immediatamente, perché quel fischio è di così grande efficacia da districarli da tutte le cose esteriori fra le quali vivevano. [Ecco il dittico esterno - interno, per cui l’anima, portata a vivere fuori di sé, viene richiamata a vivere in sé. Il Pastore richiama all’unità tutte le varie pecorelle che compongono l’interno dell’anima]. 72 Itinerario di comunione Mi sembra di non essermi mai spiegata così bene come in questo momento. Quando il Signore accorda questa grazia, si ha un aiuto particolare per cercare Dio in noi stessi. Qui lo si trova meglio e con maggior profitto che non nelle creature, e qui afferma d’averlo trovato anche S. Agostino dopo averlo cercato altrove (M IV, 3, 2). In questo Teresa è discepola di Agostino: l’anima è il luogo dove Dio si trova e questo Dio è concretamente Gesù Cristo. Così ancora nell’epilogo del Castello, al secondo paragrafo, si richiama questa libertà di Dio: Certo che con le vostre energie non potete entrare in tutte le sue mansioni, neppure se vi sembra di essere assai forti, a meno che non vi introduca lo stesso Signore del castello (M, Epilogo, 2). Quindi bisogna lasciare che Dio introduca l’anima nel castello. Perciò, a livello di esperienza mistica, come è descritta nelle ultime dimore, essa deve fare i conti con una libertà, con cui il Signore regala i suoi doni secondo le vocazioni e le missioni che ha affidato ai suoi. Perciò, se incontrate resistenza, vi consiglio di starvene tranquille, per non disturbarlo in tal maniera da chiudervene per sempre l’entrata (M, Epilogo, 2). Pensate alla diversità di esperienza spirituale tra Teresa di Lisieux e Teresa d’Avila. E pensate anche a Francesco di Sales e alla diversità delle due parti del Struttura logica e dottrinale 73 suo libro: la prima parte finisce con l’estasi, la morte e l’amore (il ferro che viene progressivamente attirato dalla calamita); il secondo libro, che invece presenta l’esperienza della Chantal, diversa dalla sua, termina con l’amore, la morte di Cristo sulla croce. Le due morti d’amore sono quella di Maria, paragonabile a Teresa d’Avila, e quella della Chantal, più vicina all’esperienza di Teresa di Lisieux. Egli ama molto l’umiltà, e se vi riterrete indegne di neppure entrare nelle terze mansioni, otterrete dalla sua benevolenza che vi faccia presto entrare nelle quinte. Allora, recandovi in esse frequentemente, lo potrete servire così bene da meritare che vi introduca nella sua stessa mansione, da cui non uscirete mai più, se non chiamate dalla superiora, la cui volontà vuole adempiate né più né meno della sua. [Guardate come l’obbedienza è ancor più importante: è il distacco della propria volontà]. Se per obbedienza doveste star fuori per molto tempo, al vostro ritorno vi farebbe sempre trovare aperta la porta. E abituate che foste a riposarvi nel castello, la sola speranza di ritornarvi – e che nessuno vi può togliere – vi renderebbe leggera ogni cosa, anche se molto dura (M, Epilogo, 2). Questo discorso di unione è il discorso di un’esperienza mistica singolare, che ha aspetti di omogeneità con la struttura della vita cristiana ed ha a che fare con una libertà di cui non si può disporre e che bisogna imparare ad accettare. L’esperienza in questione rimane infatti sempre ancorata al quadro delle esigenze cristiane, non è semplicemente il risultato di una unificazione interiore: siamo lontanissimi da quei 74 Itinerario di comunione tentativi tipo yoga dove la preoccupazione è di trovare una tecnica che permetta di arrivare al di là dei pensieri distinti, della vita frammentata dello spirito, intelligenza e volontà, attraverso un’unificazione. Non che questo non sia possibile, ma non è l’esperienza di cui stiamo parlando, non è lo sforzo fatto per unificare. Ci si unifica camminando per la via dell’orazione e per la via della virtù, dice Teresa d’Avila, ma non suggerendo una tecnica di interiorizzazione, di semplificazione interiore: non era nella sua prospettiva che il Carmelo diventasse una scuola di yoga! Questa unificazione è l’esperienza di un’iniziativa che nel contempo conduce ad un incontro col Signore, ad un inabissamento – un po’ come la spugna – in Colui che prende l’iniziativa; ci vuole del coraggio, dice Teresa, perché è come un fuscello che si trova davanti ad un cavallone, ad un’onda, e si ha qualche volta l’impressione di morire, sensazione che richiede un abbandono. L’esperienza dell’abbandono, che è una caratteristica cristiana, va ritrovata e verificata per poter vivere quest’esperienza: uno è cristiano se vive l’esperienza mistica con l’abbandono in Dio, e questo diventa un criterio per discernere l’autenticità; una persona che non vivesse abbandonata in Dio e non staccata dalla sua volontà, anche se vivesse tante esperienze, non vivrebbe esperienze cristiane. È più importante essere cristiani che essere mistici! L’essere cristiano misura anche l’esperienza, non il contrario. Ecco perché Teresa si preoccupa così tanto dell’esercizio delle virtù: un’orazione o un’esperienza mistica senza virtù non è vera. Quello che può trasparire da questa esperienza è l’essere ri-plasmati di nuovo, come se qualcosa fosse definitivamente fini- Struttura logica e dottrinale 75 to, morto – la vecchia creatura – e ne nascesse una nuova che si sperimenta come tale, perché la legge del Signore, per utilizzare un’immagine paolina, viene scritta nel cuore: è il passaggio dal sentire il vangelo accanto a noi a dentro di noi, che fruttifica nel giardino dell’anima. Queste grazie vengono date e poi il Signore chiama anche a soffrire molto: il Signore non elimina mai l’associazione alla sua Passione, anche nell’esperienza mistica. Allora la struttura del cristiano è sempre uguale, in qualunque stato di esperienza: in primo piano non sta l’esperienza, ma la rivelazione di Dio, la Parola del Signore secondo cui conformiamo la nostra esistenza e che possiamo sperimentare a livelli diversi; ma non è sulla base dell’intensità maggiore o minore dell’esperienza che noi misureremo l’autenticità dell’esperienza stessa, è sulla base del rapporto con il suo essere cristiana. Anche in Teresa d’Avila tutte le visioni e le locuzioni sono fatte per formare in lei la cristiana: non si potrebbe capire la sua costruzione interiore se non includendo questi fenomeni che fanno di lei la cristiana, la cristianizzano. L’essenziale è dunque che, in un modo o nell’altro, il Signore ci aiuti a diventare cristiani. Dunque l’inabissamento di cui parliamo non suppone solo l’esser messi in una presenza come in un gioco di specchi, dove un’immagine rimanda l’altra, ma si è collocati dentro questa realtà più fondamentale di noi stessi, che è il Signore in noi, che dall’interno ci chiama e conduce all’interno il mondo dell’anima. Può darsi che il Signore ce ne dia anche l’esperienza, ma questo non è l’essenziale. Questa conformazione, questa unione che trasforma come una novità, e 76 Itinerario di comunione fa una personalità nuova, lascia tuttavia sempre che la creatura sia creatura e il discepolo sia discepolo, cioè che abbia i connotati del discepolo. L’esperienza di questa trasformazione, secondo quanto abbiamo anche detto in riferimento alla metafora del baco da seta, è una cristificazione, cioè un diventare come Cristo, vivendo della vita che Lui stesso comunica. Anche se non c’è alcun testo esplicito, mi sembra significativo accostare il testo di Teresa d’Avila alla Seconda Lettera ai Corinzi, capitoli 3 e 4, dove il ministro della nuova alleanza viene presentato, a differenza di Mosè che doveva mettersi un velo perché udiva soltanto il Signore ma non lo vedeva, come colui che vede: Dio si fa vedere in Gesù Cristo, dice Paolo, e “noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria” (cfr. 2Cor 3,18); d’altra parte, insieme viene continuamente esposto alla morte. Il ministero apostolico è insieme un mistero di configurazione al Risorto, ma senza disgiungersi mai dalla configurazione al Crocifisso: questo riflette in fondo la struttura della vita cristiana. Anche per Teresa d’Avila è una cristificazione: l’umanità gloriosa del Signore è come il traguardo verso il quale andiamo; e veniamo configurati dalla iniziativa stessa del Signore che ci richiama verso il centro, per diventare come Lui. Teresa non parla, almeno nel Castello, a questo proposito, dello Spirito Santo, perché la maggior parte dei suoi discorsi verte su Gesù Cristo e sulla sua azione, dietro la quale sta il Padre che ci ha consegnati al Figlio, il quale ci riconsegna al Padre. Nono- Struttura logica e dottrinale 77 stante questo, lo Spirito del Risorto è Colui che opera in noi tutto questo, tenendo ben presente anche la pagina del Pax Vobis: anche lì risiede lo Spirito Santo, secondo la Pentecoste di Giovanni. Questa lettura, che completa il mistero di Teresa, credo possa essere perfettamente legittima; del resto, tra i favori celesti, alla Relazione 25, quando il Padre spiega a Teresa quali sono i doni che ha fatto a noi, dice che essi sono il Figlio, lo Spirito e la Santa Vergine. Tutta la dinamica che conduce al voto del più perfetto è in fondo la dinamica dello Spirito Santo; è nel clima della Pentecoste che viene fatto questo voto, il quale esprime una docilità radicale assoluta allo Spirito Santo. Nelle dimore quinta e settima Teresa descrive diversi aspetti della vita nuova e dice che essa ha la sua sorgente nel centro dell’anima, che, a sua volta, è ormai collocata in un Centro con la “c” maiuscola, Centro assoluto dell’uomo e della realtà: Cristo Risorto. Questo centro è immobile, eppure vive, non è né vuoto né inerte. Che cos’è allora questa vita, che cos’è l’energia nel centro dell’anima? Teniamo sullo sfondo due testi della “settima dimora”: Importa molto, sorelle, che ci guadiamo dal credere che la nostra anima sia un qualche cosa di oscuro [l’originale sarebbe: vuoto]. Ordinariamente, siccome non vediamo altra luce fuor di quella che colpisce i nostri occhi, ci figuriamo che nel nostro interno non Si tratta del proposito formulato da Teresa di compiere in tutto la volontà di Dio con ogni perfezione possibile. La Santa ne parla nelle Relazioni spirituali (cfr. R 4,10. 39. 40. 41). 78 Itinerario di comunione ve ne sia alcuna e che nella nostra anima regni una specie di oscurità. Così è per le anime che non sono in grazia; ma ciò, non per difetto del Sole di Giustizia che è ancora in loro come datore dell’essere, ma perché esse non sono capaci di ricevere la sua luce, come mi pare di aver detto nella prima mansione, riferendomi a ciò che ne aveva inteso una certa persona. Queste anime sventurate si trovano come in una prigione oscura, con le mani e i piedi legati, incapaci di qualsiasi azione che sia loro di merito, cieche e mute. Compiangiamole perché ne abbiamo ragione, pensando che anche noi ci siam forse trovate nelle medesime condizioni, e che Dio può aver misericordia anche di loro (M VII, 1, 3). Ritornando a quello che dicevo, Dio introduce l’anima nella sua stessa mansione che è il centro della medesima anima. Ora, come dicono che il cielo empireo, dove sta Dio, non si muove come gli altri cieli, così questa mansione, per cui l’anima che vi fu introdotta non va più soggetta ai movimenti che suole avere nelle potenze e nella immaginazione, o per lo meno esse non le sono di danno, né le tolgono la pace. Sembro voler dire che una volta arrivata a questa grazia, l’anima sia sicura della sua eterna salute, e non tornerà più a cadere. No. Ovunque accenno a tale sicurezza, si deve intendere finché Dio tenga l’anima per mano, ed ella non l’offenda. Per quanto riguarda quella persona, so di certo che, nonostante si veda in questo stato e vi perseveri da vari anni, tuttavia, lungi dal sentirsi sicura, va innanzi con maggior timore di prima, guardandosi da ogni più piccola colpa. Vivissimi i suoi desideri di servire Iddio, ma, come si dirà più innanzi, vedendo il poco che può fare di fronte al molto a cui è obbligata, non meno viva e continua è Struttura logica e dottrinale 79 la sua pena e confusione: il che non è piccola croce, ma grandissima penitenza (M VII, 2, 9). Notate questo senso dell’immobilità del centro, rispetto alla mobilità delle potenze dell’anima che si agitano. Ora, ci domandavamo cos’è questo centro, questa vita che si sviluppa dal centro, collocato nel Centro assoluto che è Dio. Io credo che questo centro sia l’amore: l’uomo come amore. Ma inteso come qualcosa che si traduce senza esaurirsi né negli atti di volontà, né nel sentimento. Francesco di Sales colloca questo apice dell’anima concretamente nell’amore, un amore che definisce la natura dell’anima o dell’uomo, anche a prescindere dai gesti concreti dell’affettività, delle scelte, della libertà, delle propensioni dell’uomo con cui si esprime, senza esaurirsi; è qualcosa che è presente e si attua in tutte queste cose e non si esaurisce in nessuna, è più grande. Magari l’uomo non se ne accorge, anche nelle sue scelte: se io scelgo, ad esempio, una cosa, come dico che è il mio amore e in che cosa effettivamente risiede? Una vita profonda o una vita superficiale si possono qualificare a partire da questa domanda. Il tuo amore dov’è effettivamente? Si può distinguere la scelta individuale, che magari è contraria all’amore fondamentale, anche all’insaputa dell’uomo, il quale poi in coscienza si accorge dell’incongruenza tra quello che vorrebbe e quello che vuole. Tale riflessione ci aiuta a capire ciò che Teresa intende per centro dell’anima, indipendentemente da ogni ontologia dell’uomo, ma credo che definisca l’uomo, come Giovanni della Croce, come amore: ciò che definisce l’uomo è il suo amore. Il centro potrebbe 80 Itinerario di comunione essere questo amore che si esprime attraverso i gesti concreti dell’uomo, la sua affettività, la sua libertà, ma non si riduce ad essi, anche se l’uomo può illudersi che questi traducano il suo amore, mentre non è vero, e obiettivamente lo sconfessa. Questo amore, che è il dono della carità cristiana, diventa desiderio – lo stesso che ritorna anche in Giovanni della Croce perché non c’è nessun ostracismo del desiderio –, gravitazione, tendenza di comunione finché non rientra nel centro e lì non incontra Colui che è il Centro assoluto: la sua gravitazione è verso il centro, non fuori. Si ritrova Agostino anche qui: il mio amore è il mio peso, cioè la mia gravità. Allora, rientrando nel centro, l’anima incontra Colui che è il Centro assoluto dell’uomo, perciò il desiderio sfocia nella pace, pur continuando a produrre opere ed opere. Questa grazia è data proprio per produrre opere: non è un fare nel senso di disperdersi, ma si tratta di opere virtuose di sequela di Cristo. Per Teresa d’Avila questo amore che sa se stesso, si conosce, non ha paura di esprimersi come desiderio, come gravitazione dell’uomo verso Dio, perché è una gravitazione profondamente ubbidiente e docile. Quando, verso la fine del Seicento francese, con Fénélon è nata tutta la questione dell’amor puro, è nato un progetto astratto, rarefatto e aristocratico della vita spirituale; secondo questo progetto, tanto più io amo Dio quanto meno lo desidero, perché il desiderio di Dio significa impadronirsi di Lui; e quanto più io dico: tu sei la mia speranza perché hai deciso di essere la mia speranza e il mio bene, non perché ti sento e ti desidero come mio bene, ma perché tu lo hai deciso, allora io ti desidero come mio bene. Struttura logica e dottrinale 81 Guardate la sottigliezza di questa cosa: l’uomo praticamente non esiste più, tra l’uomo e Dio non c’è più neanche la possibilità di concerto, di gravitazione verso Dio, perché il desiderio di Dio è come volerlo catturare. È un amore interessato. Invece c’è un desiderio che lascia perfettamente sussistere l’altro, che non lo fa a mia immagine e somiglianza, ma lascia la disponibilità: questo è un desiderio realmente disinteressato, dove non c’è l’aggressività dell’uomo, del desiderio. È questo tipo di desiderio che Teresa d’Avila, Giovanni della Croce e in genere la tradizione cristiana più autentica conoscono. Allora non c’è il problema di esorcizzare il desiderio, ma piuttosto di mostrare come l’amore non può vivere se non passando per una fase che fa desiderare la comunione con l’altro, la presenza, la trasformazione, lasciando che l’altro sia l’altro e non qualcosa di cui voglio disporre io. Il desiderio rimane perciò il desiderio, ma si libera dalla sua aggressività e diventa capacità di accettare che l’altro sia anche il completamento mio, ma a modo suo, non secondo i dettami che gli do io. Quindi c’è una liberazione interna molto sottile del desiderio, ma molto autentica, che diventa una fase del cammino dell’uomo. Per Teresa d’Avila questo amore che sa se stesso e Colui che ha incontrato, non è saputo in maniera oscura. San Bonaventura ha ipotizzato questa esperienza mistica come un tactus, non come una visione, perché non si vede niente, si è nell’oscurità, ma l’altro io lo so perché lo percepisco, come quando uno non vede lo zucchero, ma sente il dolce e dice: questo è zucchero. 82 Itinerario di comunione Un’esperienza che non è il vedere o il sapere, ma il percepire – come dice san Bonaventura parlando del senso spirituale del tactus – diventa importante per esprimere l’esperienza mistica. Qualcosa di simile potremmo riconoscere in Teresa, anche se essa parla dei sensi spirituali come ciò che permette di esprimere questa esperienza, non sensibile immediatamente. Si suppone che l’anima a questo punto, così purificata, metta in atto un esercizio del sensorio diverso. Proviamo a chiederci: come sarebbe il nostro corpo se il nostro cuore fosse cambiato? C’è un modo di vedere, di parlare, di toccare, di atteggiarsi, di stabilire i rapporti, totalmente diverso se il cuore è diverso. Pensate a quanti sguardi violenti ci possono essere se partono da un cuore turbolento e quanti invece di comprensione e di dolcezza, nel caso contrario. L’uomo è unità: Ignazio fa pregare negli esercizi: «Chi vuole usare i cinque sensi come Nostro Signore dica il Padre Nostro, e chi vuole usare i sensi come Nostra Signora, nuovo Adamo e nuova Eva, dica l’Ave Maria». Anche nel Castello Interiore troviamo questo riferimento ai sensi, per esempio quando, nella “quarta dimora”, si parla dell’immersione nell’acqua che a poco a poco sale e sommerge tutto: è una specie di sensazione tattile; oppure quando, sempre nella “quarta dimora”, Teresa parla dell’odorato (secondo capitolo, numero 6), come se in un braciere si buttassero dei profumi: non è che si sentano dei profumi, ma la sensazione del profumo evoca qualcosa di simile e fa capire qualcosa che è molto più profondo e al di là. Tuttavia, il cammino di Teresa non presenta Struttura logica e dottrinale 83 queste caratteristiche, perché va verso un mostrarsi del Signore: il Signore si fa vedere, compare al centro dell’anima, dice: Pax Vobis. È una presenza, non si vede la figura, tuttavia si riesce ad individuare che è Lui: è un’esperienza molto misteriosa. Comunque, è qualcosa di luminoso. Per rispettare il suo modello di esperienza, che non è l’unico, va ricordato che l’umanità del Signore si fa vedere nella Trinità delle tre persone distinte, mentre le parole continuano ad essere presenti. Anche nel 1581 Teresa dice: Le visioni immaginarie sono cessate. Però, mi pare di aver sempre innanzi la visione intellettuale delle tre divine Persone e dell’Umanità di nostro Signore: grazia che mi pare assai più grande. Quanto alle altre, mi sembra ora di capire che provenivano da Dio, perché hanno disposto la mia anima ad entrare nello stato in cui ora si trova. Dio mi guidava per la strada che vedeva necessaria alla mia miseria e al mio poco coraggio. Comunque, quando queste grazie provengono da Dio, si devono molto apprezzare (R, 6, 3). Le locuzioni interiori continuano ancora. Le visioni hanno il senso dell’oggettività, di dare oggettività al termine del rapporto; per lei è sempre un rapporto, non è mai luogo che si trasforma. Dio diventa un assente: credo non sia questa, né per Giovanni della Croce né per Teresa d’Avila, l’esperienza fondamentale; potrebbe essere invece per certi versi l’esperienza di Teresa di Lisieux negli ultimi mesi della malattia quando vive la prova della fede come assenza. Infatti, l’ultima sua espressione è: «Io ti amo, faccio la tua volontà, ma non vedo». Vedete come le panoramiche spirituali non sono riconducibili ad un 84 Itinerario di comunione modello unico! Nessuno dubita che Teresa di Lisieux sia carmelitana, tuttavia notate la diversità dalle altre esperienze. Per Teresa d’Avila l’esperienza è luminosa, tutto sommato: Dio si fa vedere e si fa udire; l’udire permette di guidare concretamente il cammino in alcune situazioni e di interpretare il senso della stessa esperienza mistica da lei vissuta. Il cammino dell’unione Veniamo adesso al cammino dell’unione. Dovremmo formulare la domanda così: per Teresa d’Avila questo cammino si esprime con il termine sequela di Cristo, oppure con il termine orazione? Cioè, è un cammino di orazione o è un cammino di sequela? Effettivamente questi due registri sembrano essere presenti entrambi nel Castello e comporsi variamente: ad esempio, il tema della sequela lo si può cogliere nelle prime tre mansioni, soprattutto nella “seconda dimora” (numeri 2, 7, 8, 11) e nella terza (primo capitolo, numeri 1, 2, 6, 7) dove ritorna insistente la figura del giovane ricco: Sì, diciamo tutte di volerlo, ma per divenire vere anime di Dio non basta volerlo [vedete il rapporto tra il volere e l’amore: si può dire voglio e decido, ma in realtà l’amore profondo non segue questa strada], come non è bastato al giovane che fu interrogato dal Signore se voleva essere perfetto. Da quando ho cominciato a parlare di queste mansioni, l’immagine di quel giovane mi è sempre dinanzi, perché qui ci troviamo nelle sue medesime condizioni, né più né meno. Struttura logica e dottrinale 85 Veniamo ora a queste anime così ben regolate, osserviamo cosa fanno per Iddio e vedremo subito che non c’è motivo di lamentarci di Lui. Se quando ci dice quello che dobbiamo fare per essere perfette, noi gli volgiamo le spalle e ce ne andiamo con tristezza, come il giovane del Vangelo, cosa volete che faccia, dato che ci deve premiare a seconda dell’amore che gli portiamo? Si pensi inoltre che questo amore non dev’esser frutto di immaginazione, ma provato con opere [vedete come, riflettendo sul rapporto tra le opere e l’amore, si riesce a vedere la coerenza o l’incoerenza di un’anima]. Però non bisogna neppur credere che Egli abbia bisogno di queste opere: ciò che conta è la determinazione della volontà. Se si persevera in questo spogliamento ed abbandono di ogni cosa si otterrà quanto si brama, a condizione però che ci si tenga per servi inutili [vedete come il desiderio viene corretto nella sua aggressività], come dice San Paolo, ovvero Gesù Cristo, né mai si creda che Dio sia obbligato a darci quei favori quasi a premio di quello che si fa. Non bisogna inoltre dimenticare che chi più riceve, più è obbligato a dare. E allora, cosa possiamo fare per un Dio così generoso che è morto per noi [vedete: Dio è Gesù Cristo, questa continua oscillazione tra Dio e Gesù Cristo] che ci ha creati e ci conserva nell’essere, se non ritenerci felici di ripagare, almeno in parte, il molto che gli dobbiamo per i grandi sevizi che ci ha resi? E noi oseremo anche chiedergli servizi e favori? (M III, 1, 6-8). Vedete che il desiderio c’è, ma viene radicalmente corretto e ricondotto all’obbedienza e alla docilità, non all’aggressività. Le prime tre mansioni richiamano questo, come il testo del pastore nella “quarta dimora”, il fischio del pastore: anche seguire una voce che chiama all’in- 86 Itinerario di comunione terno è sequela. In ogni caso, seguire questa voce è accettare di morire per vivere la vita nuova, sia nel caso del giovane ricco di cui si parla nelle prime tre dimore, sia nel caso del gregge che deve unificarsi a seguire il pastore e lasciarsi guidare nonostante il rischio o la sensazione di essere condotti in una terra che ci fa morire. La paura di morire si attraversa nella “sesta dimora”, cioè si incontrano anche cose abbastanza strane e ignote, ma si devono incontrare sulla base della fiducia e della confidenza che sono da riporre in Lui. Questo per quanto riguarda il tema della sequela, veramente molto presente all’interno delle dimore. Per quanto riguarda il tema dell’orazione, la cosa è più nota perché il Castello è anche sulla scorta del Cammino di Perfezione. Certo, per Teresa l’orazione non è mai rinuncia alla virtù, ma “porta” che introduce al castello: Per quanto io ne capisca, la porta per entrare in questo castello è l’orazione e la meditazione (M I, 1, 7). Questo coincide perfettamente con quanto ha detto nel libro della Vita e nel Cammino. Dunque, tutto non è orazione per Teresa, anche se il punto sintetico qualche volta pare sia l’orazione, qualificante per la vita del Carmelo. Tutto non è orazione, anche se l’orazione è la condizione e, in un certo senso, il luogo privilegiato dell’esperienza del centro: non si impara mai questa esperienza – dice Teresa – se non si fa esperienza dell’orazione. Sembrerebbe anche il punto di vista secondo cui Teresa considera il cammino dell’unione o della sequela di Cristo. Ma che Struttura logica e dottrinale 87 valore può avere l’alternativa nel dire: il Castello è un cammino di orazione o il Castello è un cammino di sequela? Mi pare che questa alternativa sia molto difficilmente accettabile, e forse non bisogna neppure preoccuparsi di ridurre questa specie di tensione benché ci sia, perché Teresa stessa non se n’è preoccupata. La verità dell’orazione non sta forse per Teresa nella virtù in cui si radica l’orazione stessa e che l’orazione riesce a produrre? Non è dunque la sequela – le virtù non sono forse un modo per seguire Cristo – la premessa e la verifica dell’autenticità dell’orazione? Nella sequela sta la chiave per trovare la verità dell’orazione e dalla verità dell’orazione prende corpo la verità della sequela. Sia la volontà dell’orazione, sia la volontà della sequela si potrebbero definire in funzione dell’amore come tratos de amistad, cioè come gesti di amicizia, comportamenti d’amicizia. Un amore che, come si è detto, non esorcizza mai il desiderio, ma è esso stesso un desiderio suscitato e lungamente purificato, finché non trova la sua pace. È il Signore del castello che in definitiva suscita il desiderio, lo purifica lungamente, gli dà il suo significato, lo forma e finalmente gli fa trovare la pace. In questo senso Teresa, che pure conosce un disinteresse nell’amore – bisogna amare non per avere ricompense – è ben lontana da quella raffinatezza di cui ho parlato, introdotta dalla spiritualità cattolica del Seicento - Settecento: una diffidenza radicale di fronte al desiderio. Invece il cammino verso il centro avviene attraverso il desiderio, che è pienamente ubbidiente, si lascia formare, diventa docile e pienamente abbandonato, per cui l’anima è senza aggressività di fronte all’oggetto del proprio desiderio. Attraverso il desiderio con 88 Itinerario di comunione queste caratteristiche, l’anima esce dal centro illusorio, in cui sta fuori di sé e non se ne accorge – come si dice nel secondo capitolo della “prima dimora” e in cui crede di trovare la propria abitazione – e si lascia condurre verso il suo centro autentico, che è l’amore autentico, quello che davvero l’amore desidera e vuole, al di là di ciò che l’anima può illusoriamente credere o mistificare: non fa quindi di sé il centro assoluto, che resta sempre il Signore del castello. Se volete, è una specie di estasi, che però è più uno stare dentro, un andare verso, un uscire dal proprio centro illusorio per trovare quello reale; in questo senso può essere un’estasi, ma nella povertà e nell’abbandono, e quindi non detta leggi a Colui che deve possedere ma nel quale si ritrova, perché in definitiva la verità ultima dell’uomo non è in se stesso ma nell’umanità di Cristo: la misura dell’umano è l’umano di Cristo. Questa diventa la ragione per cui, lasciandomi possedere da Lui, io ritrovo me stesso. Considerazioni conclusive Vorrei trarre le conclusioni per mettere in evidenza il messaggio universale e quello attuale del Castello Interiore: riuscire a dare il senso dell’attualità di questo discorso di Santa Teresa, al di là dell’esperienza molto singolare che è la sua e del tipo di linguaggio utilizzato. Cosa possiamo trarre da questo Castello? L’uomo ha un centro C’è una prima conclusione che riguarda l’uomo come un essere che ha un centro, che deve cercare il centro, indipendentemente dal fatto che sia connesso con una vocazione: questo discorso è molto attuale, di fronte ad un mondo nel quale l’uomo cerca di fare di se stesso il centro. Nasce da qui una riflessione sull’uomo come essere che ha bisogno di discernere e s’avalla quando trova il centro di se stesso. L’uomo è un essere che ha un centro “eccentrico”, nel senso che tanto più si trova nel suo centro quanto più si porta verso un altro da sé con la “a” maiuscola, ma senza uscire da sé; quanto più l’io accetta di essere un essere che ha un centro – e il centro è tutto proiettato 90 Itinerario di comunione non verso se stesso, ma verso un Altro, che tuttavia non lo fa uscire da se stesso – tanto più, trovando lui, trova anche sé: questo è il paradosso. L’uomo ha bisogno di ritrovarsi, ma ritrova se stesso ritrovando un Altro, perché è riferito a un Altro; quando rifiuta questo riferimento, ritrova se stesso ma si trova ripiegato su di sé, senza trovare il vero Centro. Nella nostra cultura c’è questa idea di Dio: Dio è come il concorrente dell’uomo, per cui, se l’uomo immagina un dio fuori di sé, esce da se stesso e si aliena; tutto ciò che lo porta in questa direzione diventa alienante perché fa disattendere all’uomo i suoi compiti umani, impedisce all’uomo di essere uomo, cioè di assumersi le sue responsabilità. La carità diventa un movimento verso Dio, ma nella misura in cui si va verso Dio si va verso gli altri. C’è chi fa della religione un fatto che va verso Dio mentre la vita va per i fatti suoi: una religione così è fuorviante. L’importante è capire che l’andare a questo centro dell’uomo non è portare l’uomo in una direzione che lo rende meno umano perché gli fa disattendere i compiti umani. È un modo un po’ banale e grossolano di interpretare il cristianesimo, anche se credo ci sia d’altra parte una certa formazione che conduce a dire che la religione è la liberazione fondamentale dell’uomo. L’uomo moderno, considerando la religione un’alienazione, contraddice questo discorso. Ma la teoria dell’alienazione è fondata sulla consapevolezza che la ragione conta soltanto su se stessa e quindi ritiene illusione ogni proiezione verso l’infinito. Resta perciò sempre nel limite dell’umano, ritenendo inutile preoccuparsi di cercare qualcuno al di fuori dell’uomo. Che invece deve rendersi conto della sua incapacità di fare affi- Considerazioni conclusive 91 damento solo su di sé, e che può anche distruggersi. Questa visione dell’uomo è stata tuttavia messa in crisi dall’Illuminismo in poi. La stessa esperienza spirituale denuncia l’insufficienza di questo schema di uomo che fa appello solo alla sua ragione. Una ragione così autosufficiente ha guidato per molta parte il cammino della civiltà occidentale, con esiti contraddittori, come la perdita di Dio e dell’uomo stesso, con il rischio che questi si distrugga da sé. Quando però l’uomo interroga correttamente la sua intelligenza, non può dire la stessa cosa. Non può affidarsi ad una ragione che giudica illusoria una ricerca del centro dell’uomo in tensione verso un Altro, che lo fa essere pienamente se stesso. Invece l’uomo ha bisogno di questa tensione. È importante quindi tornare a riflettere sul centro dell’uomo e su questa situazione paradossale: che io mi trovo tanto più nel mio centro quanto più accetto che il centro di me stesso sia Altro da me, sia un Altro. È anche il significato della creazione: essere creati significa questa cosa. L’uomo, partendo dalle premesse della sua autosufficienza, a un certo punto viene ricondotto a dire: non devo ripropormi il senso del rapporto con qualche cosa d’altro, con qualcun altro. C’è una ricerca filosofica che sta ponendosi, a partire dall’uomo e dall’esistenza concreta, il senso del rimando a questo rapporto. È la crisi stessa del comportamento dell’uomo a riproporre il problema: ci sono momenti in cui si riaffaccia e l’uomo non se se accorge. Tutto il mondo marxista, per quanto senta la crisi, si muove fondamentalmente sul principio che Dio non c’è, c’è l’uomo. Credo che il grande valore della parola di Giovanni Paolo II sia di avere accettato questa sfida, cioè di 92 Itinerario di comunione accettare che l’uomo sia il punto di vista da cui si guardano le persone, a patto che l’uomo sia considerato in una certa prospettiva. Il suo discorso è: «Non abbiate paura!». Il cristianesimo può accettare di vedere le cose dal punto di vista dell’uomo: l’uomo è la via di Gesù Cristo ed è la via che impara la Chiesa. Vedete come può diventare attuale il messaggio di Teresa d’Avila, non inteso solo in modo intimistico. Di fronte ad un’idea di uomo che lo concepisce senza centro e senza rimando a Dio, dice che invece l’uomo ha un centro: il paradosso è che tanto più l’uomo è nel suo centro, quanto più accetta che il suo centro non sia lui stesso, ma Dio. Questa idea porta l’uomo a restituirsi a Dio, che non è un buttarsi nella bocca di uno che ti mangia, ma è la consapevolezza della propria situazione di creatura: la mia consistenza sta nell’essere relativo ad un Altro, e quest’Altro non è invidioso di me, tanto che mi fa consistere, perché io non ho consistenza autonoma. Riconoscere questo mi fa vivere la vita come una restituzione a Dio, perché l’Altro non ha bisogno di portarmi via niente: è soltanto una fonte che dà. L’uomo deve collocare il suo centro dove veramente è, senza surrogati e senza indecisioni: il Dio vero è il centro vero dell’uomo. Di qui appare l’importanza del desiderio ma non in quanto creazione di sé o di Dio, considerato come una creazione dell’uomo. Collocare il centro vero nel Dio vero significa valorizzare il desiderio dell’uomo, ma non come capacità di creare e neppure come capacità di subordinare e di conquistare o di strumentalizzare l’oggetto; tutto questo è deformazione del desiderio. Il desiderio è importante non perché crea l’oggetto e lo strumentalizza, ma in quanto è una realtà dell’uo- Considerazioni conclusive 93 mo, che va interpretata. Quanti desideri, quanti tipi di fame si esprimono nell’uomo! L’uomo è fame, ma il problema è interpretare secondo verità qual è il senso ultimo di questa fame. Dove vuoi andare? Che cosa è questo tutto che ti costruisci tu? Che cosa ami veramente? Qual è il nome della tua fame? Dunque, interpretare secondo la verità del desiderio è anche interpretare secondo la verità dell’uomo, perché il desiderio può essere anche contro l’uomo, perché la fame e la sete possono non essere coerenti alla verità dell’uomo, a ciò che veramente è l’uomo. Il desiderio autentico ubbidisce alla verità e si lascia guidare e formare dall’autentico centro dell’uomo, che è il Dio vivo. Quando c’è un incontro col Dio vero, questa è la risposta ultima alla fame e alla sete dell’uomo. Il desiderio dunque non è in sé e per sé la verità dell’uomo, anche se egli cerca questa verità, che ha bisogno di essere interpretata. È una fame; ma qual è il nome di questa fame? Nel Vangelo di Giovanni troviamo la risposta alla fame e alla sete: l’Eucaristia, che rimanda al mangiare e al bere. Dunque il desiderio non è neppure imperativo morale nell’uomo: da Nietzsche in avanti il cristianesimo appare come la mortificazione dell’uomo, l’annullamento dei desideri dell’uomo, dell’uomo come desiderio; perciò come reazione avviene l’affermazione radicale che tutto ciò che è impulso vitale diventa buon segno. Ma non bisogna scambiare il desiderio con l’imperativo dell’uomo, come non bisogna scambiarlo con la verità dell’uomo. Il desiderio è una realtà da trasformare secondo la verità autentica dell’uomo e del centro dell’uomo; è soltanto una spinta: quando io ho capito dove devo dirigerla – sintetizzando quella povertà che impedisce al desiderio di essere aggressivo, di cattura- 94 Itinerario di comunione re la realtà, oppure di essere costruttore di una realtà che non c’è – ho capito la verità dell’uomo e del suo desiderio. Pensate come si potrebbe sviluppare tutto un discorso sull’uomo a partire da queste riflessioni… La verità dell’uomo in Cristo Dopo questo discorso generale sull’uomo, il passaggio interiore che Teresa ci invita a fare è quello che individua la verità dell’uomo in Cristo. Si parla molto in questi anni di umanità ricercata: l’uomo è in ricerca del significato del suo essere uomo, ma non l’ha ancora trovato; immaginava di saperlo così bene, ma si è accorto di non averlo trovato affatto. La ricerca dunque non è nel senso della ricercatezza, ma nel senso che non si sa ancora che cos’è. Questo umano che si ricerca e fa la verità di ogni uomo, che cosa è per il cristiano e per Teresa? Non è un’idea generale di uomo, ma è l’umano concreto in Cristo: questa è la misura della verità di ogni umano. L’umano concreto di Cristo di fatto è la risposta alla domanda: dov’è la verità dell’umano? Cristo diventa allora la mia misura, la mia norma, perché in lui vedo la mia verità come la verità di ogni uomo, vedo che cosa fa l’uomo autenticamente umano. La risposta che Dio dà non è una teoria generale, ma un umano concreto, quello di Gesù Cristo. Teresa lo esprime quando nella “settima dimora” parla di questo specchio «nel quale anch’io mi vedo». Se la grandezza di Dio e la grandezza dell’uomo si fondono e stanno insieme, senza alternative possibili né invidie reciproche, que- Considerazioni conclusive 95 sta visione diventa cristica. Teresa si esprimerà dicendo che l’uomo e Cristo si rimandano reciprocamente, Cristo rimanda all’uomo e l’uomo rimanda a Cristo, l’uno come misura e forma della verità dell’altro. Tu sei la mia verità, Tu sei la risposta ultima su chi sono io, su che cosa fa o non fa il valore dell’uomo, che cosa vale o non vale, qual è il senso della sua vita, della sua morte. Tutto ciò io lo imparo lasciandomi misurare dall’umano di Gesù Cristo. Il cammino verso il centro assoluto dell’uomo non è direttamente Dio, ma Cristo: la sua vita, la sua parola, la sua voce, la sua morte, la sua risurrezione; tutto ciò è il libro nel quale imparo chi sono io: il mio specchio è Cristo. La grandezza dell’uomo Il senso della grandezza dell’uomo e dell’anima umana viene fatto gravitare sulla grandezza di Cristo e della Trinità, che dice una condiscendenza, un amore che, se chiama al dono di sé, è esso stesso per primo un dono gratuito e assolutamente fedele, per cui non si pente mai di essersi donato. Il senso della grandezza di Cristo e della sua insuperabilità, poiché non possiamo superarlo da nessuna parte, né dalla parte dell’uomo che cerca la sua verità né dalla parte dell’uomo che cerca Dio, non è da ridurre al cristianesimo, che è la tentazione del credente nel mondo attuale, per cui da Gesù si passa al cristianesimo, ridotto ad etica e a morale, cioè ad alcune cose che si devono fare. Pensate alle teorie della liberazione: ad esempio, la prassi della liberazione non conduce a dire chi è Gesù Cristo, ma che cos’è il cristianesimo. Così l’essere-per- 96 Itinerario di comunione gli-altri: sono affermazioni che diventano più espressione del cristianesimo lasciando stare Gesù, come se Gesù non fosse importante; ma se si riduce Gesù al cristianesimo, questo diventa solamente una morale, cioè alcuni comportamenti che si devono assumere. È uno dei grossi rischi corsi in questi anni: la perdita del senso di Gesù, nella sua singolarità, a favore di qualcosa di più universale, di più generale, che è il cristianesimo. Questo, nella cultura moderna, si esprime dicendo che Gesù e Cristo sono due realtà diverse: Gesù è il personaggio, Cristo è l’universale del cristianesimo. Quindi dire Gesù Cristo è molto importante, perché l’idea che viene avanti è: non parliamo di Gesù, ma parliamo del cristianesimo, valutiamo il cristianesimo e riduciamolo in termini comprensibili dalla ragione. Questa operazione è quella che ha spaccato Gesù da Cristo, per cui Gesù è il personaggio storico e Cristo è il suo insegnamento, la sua proposta, i valori cristiani universali; mentre quando dico che Gesù è la Verità e la Giustizia, dico che è Lui l’assoluto del cristianesimo e non posso separare Gesù dal Cristo. La riduzione di Cristo al cristianesimo ha portato molti problemi in questi anni (per gli ordini religiosi, ad esempio, è diventato un dimenticare il fondatore o la fondatrice, non sapere più niente di loro, e pensare invece alla istituzione: come la cambiamo, come la gestiamo, senza domandarsi minimamente come questo risponde all’intuizione fondamentale). Credo che Teresa richiami l’attenzione di tutti noi su questo rischio: a non ridurre la grandezza di Gesù alla grandezza del cristianesimo. Gesù è il Cristo e l’universale cristiano è in Lui. Questo senso della grandezza e della insuperabilità di Cristo conduce alla Considerazioni conclusive 97 grandiosa visione di Cristo come primo pensato nella via di Dio: Dio pensa a Cristo e Cristo pensa all’uomo; questa è la ragione per cui Cristo e l’uomo si rimandano a vicenda, poiché l’uno è pensato nell’altro. È la grandiosa visione paolina di Cristo come primo pensato in Dio, così che su di Lui l’uomo è pensato: l’umano di Cristo è la misura dell’umano dell’uomo. Questo modo di essere uomo è la misura del suo valore. Dire che l’umano di Gesù ha un significato assoluto per l’umano di ogni uomo o dire che l’umano di Gesù è la verità dell’umano di ogni uomo, è un altro modo per dire la divinità. Noi siamo pensati e voluti in Cristo per la sua struttura stessa, per cui ciò che di umano appare in Lui ha un valore assoluto per ogni uomo. E chi può dare valore assoluto per ogni uomo a ciò che appare in un comportamento contingente? Insuperabilità e assolutezza di Cristo Abbiamo già così introdotto il quarto punto di questa lezione che possiamo dedurre dal Castello Interiore: quello che ci induce a pensare che la radice dell’insuperabilità e dell’assolutezza di Cristo è nel fatto che Egli non è semplicemente un caso particolare dell’umano, non è soltanto l’uomo Gesù; è nel fatto che in Lui vediamo l’umano del Figlio di Dio, l’umano nella Trinità. Questo lo rende assoluto, definitivo, pur essendo Egli la realtà concreta del creato, dei tanti milioni di uomini dopo di Lui. È un richiamo alla paradossale assolutezza di Gesù Cristo: è un uomo della serie e tuttavia non è riconducibile alla serie; è il punto assoluto, per cui ciò che è prima di Lui va verso di Lui, ciò 98 Itinerario di comunione che è dopo di Lui si volge a Lui. Per cui si potrebbe dire: le ultime cose del cristiano sono Gesù morto e risorto. Anche quando ci facciamo domande sulla fine del mondo, il senso della fine è già dentro la morte e la risurrezione, avvenimento assoluto e insuperabile del mondo. L’essere contingente di Gesù, perché uomo come tutti gli altri uomini, ha dentro di sé qualcosa che lo rende assoluto per tutti gli altri uomini: questo qualcosa è la sua divinità. L’umano del Figlio è dunque l’umano assoluto, da precisare come carità che è la dedizione incondizionata di Dio agli uomini, che si fa dedizione incondizionata in Gesù: «Questo è il mio corpo e il mio sangue per voi». L’umano del Figlio è l’umano in cui la carità prende e toglie, formando il desiderio dell’uomo; non con l’arroganza di Adamo che vuole conquistare l’uguaglianza con Dio, ma nel senso del lasciarsi formare nella povertà. Questa carità vive nell’ubbidienza perché, essendo nella carità del Figlio, non può essere che una carità che rimanda totalmente alla sua origine. Allora il modo umano di tradurre questo rimando del Figlio verso il Padre non può essere che l’accoglienza e l’ubbidienza. Non dobbiamo aver paura di guardare alla preghiera di Gesù, come se fosse qualcosa di indegno di Dio: come fa ad essere Dio e pregare? Come fa Dio a rivelarsi in modo concreto? Come fa il Figlio di Dio a esprimere nell’umano concreto il suo rapporto verso il Padre? Come può vivere l’abbandono nel Padre se non pregando, se non vivendo anche la paura e l’angoscia che però vengono risolte nella fiducia, se non facendo la volontà del Padre, se non realizzando la missione? Tutto questo è l’umano di Gesù che traduce la realtà profonda di essere Figlio di Dio. Invece, quan- Considerazioni conclusive 99 do pensiamo che Gesù è Dio, non riusciamo più a capire come fa Dio a offrire se stesso a Dio, come fa Dio a pregare, e così lasciamo cadere questi aspetti dell’esistenza umana, secondo cui Gesù ci insegna cosa vuol dire essere uomo, misurati su di Lui, Figlio di Dio nella carne umana. Itinerario di obbedienza Così, per quanto insistente sia il richiamo alla generosità e alla radicalità dell’impegno di sequela da parte di Teresa, è fondamentale il fatto che, pur vivendo in coerenza con il senso del centro di cui abbiamo parlato, l’itinerario resta fondamentalmente di disponibilità, di obbedienza. Teresa insiste fortemente su questo, e guai a ridurla in termini ascetici o a consigli pratici, perché la si impoverisce in una maniera notevolissima. Teresa non conosce tecniche di concentrazione verso il centro di sé e verso la scoperta di Colui che vi abita; conosce solo la via dell’ubbidienza: quando Colui che può chiamare decide di farlo – e in ogni caso è Colui che invita a camminare per la sua strada, con Lui davanti – non si inciampa ma lo si segue. Quando questa esperienza si fa, perché Colui che chiama la rende possibile, come nel caso della profondità con cui Teresa stessa l’ha vissuta, diventa il punto di partenza di un richiamo rivolto non solo ai mistici, ma a tutti gli uomini perché non perdano il senso del centro, in particolare agli uomini del nostro secolo che cercano questo centro: dovrebbe essere l’essenziale nella Chiesa. Tanto più l’uomo è se stesso nella verità, quanto più rimanda a un centro che non è l’uomo e 100 Itinerario di comunione non è genericamente Dio, ma è Gesù Cristo, nella sua assolutezza e nella sua insuperabilità. L’orazione Da ultimo, in concreto, questo senso del centro si acquista nell’orazione, che pure è una grande lezione. L’orazione, cioè la gratuità di questo gesto, che non è produttivo, non è tecnica, mette in evidenza, da un lato, l’uomo fino alle sue radici – cosa sei tu, dove vai, cosa fai, perché fai questo, dov’è il tuo amore, come interpreti il tuo desiderio – e, dall’altro, esalta la realtà di Colui che è il centro, cioè la verità assoluta, ultimativa dell’uomo, che è in Cristo. Sembra che questa simultaneità dell’azione e dell’orazione nell’esistenza dell’uomo – cioè il fatto che il monte di Dio sia il più alto di tutti gli altri monti e insieme il mettere in questione l’uomo fin dalle sue radici – sia apparentemente dislocata su due fronti, quello di Dio e quello dell’uomo; in realtà tende a farsi sintesi, perché uno sguardo è correlativo all’altro: mi guardo nello specchio che è Cristo, che è lo specchio mio. Io sono specchio di Cristo, ma in Lui vedo anche la mia umanità; per questa ragione nell’orazione si vede in modo sintetico, cioè i due sguardi, quello sull’uomo con le sue questioni fondamentali e quello su Cristo, tendono a fondersi insieme. L’orazione è uno scavo: entrare dentro di sé per arrivare a Cristo. Indice Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 Nota Redazionale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Profilo della Santa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 Legenda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 Premessa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 Osservazioni introduttive Il momento della composizione . . . . . . . . . . . . 19 La natura del trattato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 I destinatari del trattato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 L’intuizione fondamentale dell’opera. . . . . . . . 30 La struttura simbolica Il castello. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 Il baco da seta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 Lo Sposo e la sposa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 Struttura logica e dottrinale Naturale e soprannaturale. . . . . . . . . . . . . . . . . 56 Il Signore del castello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 L’anima dell’uomo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66 L’unione con Dio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68 102 Itinerario di comunione Il cammino dell’unione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84 Considerazioni conclusive L’uomo ha un centro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89 La verità dell’uomo in Cristo . . . . . . . . . . . . . . 94 La grandezza dell’uomo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 Insuperabilità e assolutezza di Cristo. . . . . . . . 97 Itinerario di obbedienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99 L’orazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100