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As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it LUIGI TOMAZ LA COMUNE CIVILTÀ TRA LE DUE SPONDE ADRIATICHE DALLA PREISTORIA ALL 'EVO MODERNO Storia, cultura e attualità dell’Adriatico orientale è il titolo del volume di atti del corso di aggiornamento in storia per docenti promosso a Pescara dal Libero Comune di Zara in esilio nel 1999. Dal volume riproduciamo le lezioni del prof. Luigi Tomaz. Prima di Roma Quando si parla dell'Adriatico, anche trattando del secondo millennio avanti Cristo, si rischia di essere accusati di revanscismo irredentista. Perciò io uso l'accortezza di appoggiare le mie panoramiche storiche su supporti insospettabili, politicamente e nazionalisticamente ben definiti o comunque super partes. Giacomo Scotti, scrittore italiano accolto nel Quarnaro quando io fui costretto ad abbandonarlo, nel 1980 fa proprie le parole dello storico Bernardo Benussi che nel 1924, così si è espresso: “La storia ci conserva la memoria di una grande migrazione ... nelle nostre regioni (Istria e Quarnaro) all'epoca della guerra troiana: quella dei Veneti. (Euganei?) Avanzandosi dall'Oriente attraverso i Balcani lungo la via del Danubio-Sava (dell'Istro), i Veneti, oltrepassate le Alpi orientali ... si sarebbero stabiliti in tutto il paese dai monti al mare, spingendosi inoltre ben addentro nell'Alta Italia”. Un popolo unico dunque lungo tutto l'alto golfo Adriatico! Scotti continua: “Sullo stesso argomento non nutre dubbi uno dei più profondi conoscitori della preistoria sulle isole adriatiche, Grga Novak. Afferma che verso la fine dell'Eneolitico, sulle sponde dell'Adriatico comparvero tribù indoeuropee ... Probabilmente le nuove tribù, che dilagavano anche nelle regioni interne della penisola balcanica e appenninica, giunsero a queste sponde per le vie del mare dal Peloponneso occidentale,. ma ci furono anche colonne che scesero dal Nord ... penetrando nell'odierna Venezia Giulia, nel Veneto, nella Romagna, nella Lombardia. Si devono a questi nuovi arrivati i villaggi di palafitte e di terramare sorti nel Veneto e in Romagna e i castellieri lungo la costa orientale e sulle isole adriatiche, più che altrove numerosi proprio nel Quarnaro e in Istria. Restano tracce di centinaia di questi abitati-fortezze (molti diventeranno castri romani) a Cherso, Lussino, Veglia ed Arbe”. Un'unica migrazione stanziatasi lungo la sponda di Romagna, Veneto, Istria e Isole del Quarnaro, cioè da Rimini a Zara su un arco ininterrotto. Virgilio racconta che le delegazioni dei Veneti convenivano ogni anno alle foci del Timavo, in Istria, per celebrar sacrifici al mitico Diomede che li aveva portati fino lì assieme ai Troiani. Il mito di Giasone e Medea vuole gli Argonauti arrivati, via Danubio e Sava, o al Quarnaro o nel golfo Tergestino, comunque nei due seni adriatici che serrano l'Istria: Polibio dice che “abitava da tempo la parte presso l'Adriatico una popolazione molto antica, dei Veneti, poco differenti dai Celti negli usi e costumi, ma di lingua diversa”. Nel Veneto sono state distinte cinque o sei epoche preromane denominate Este dalla città capitale, dal 1200 al 200 avanti Cristo. Tra Este IV ed Este VI si sarebbe sviluppata la lingua scritta in caratteri di tipo etrusco, tramandata da lamine, terrecotte e lapidi. La lingua venetica fu simile o affine a quella degli Istri, dei Liburni e degli altri adriatici? Difficile da sapere, ma è certo per ora che l'unica iscrizione-stele figurata attribuita ai Liburni si trova a Novilara nelle Marche. Le vecchie storie di Senigallia ne attribuiscono la fondazione ai Liburni di Segna, nel litorale del Quarnaro, e Segna si considerava fondata dai Liburni di Senigallia prima che la Sena delle Marche divenisse sede dei Galli Senoni. Può darsi che questa storia sia nata durante i lunghi secoli di traffico marittimo privilegiato tra Segna - mai veneziana - ed il porto pontificio di Senigallia, ma è certo che fin dalle epoche più nebulose dell'antichità c'è stata comunanza e frequentazione intensissima tra As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it Piceni, Liburni, Padani del Po e di Spina, Adriesi, Istri, Veneti, Dalmati e Iapigi delle Puglie. Nell'isoladi Veglia, mare insulare dei Liburni, furono trovate fibbie di bronzo in tutto simili proprio ad altre della necropoli di Novilara. I parlari? Vedremo che molte connessioni transadriatiche ci sono state, e tali che, se anche non ci fossero le prove raccolte, il complesso delle altre risultanze le esigerebbe. Non dobbiamo però neanche pretendere che 30 o 25 secoli fa ci fosse una lingua adriatica unica e senza differenze da luogo a luogo, quando pensiamo che neanche cent'anni or sono, i pescatori di Molfetta e quelli di Chioggia - indiscutibilmente italiani - si capivano soltanto con i gesti e non nei loro dialetti. Una cosa è certa: nel pieno del millennio avanti Cristo, di qua e di là dal mare, si capivano e conoscevano tutti perché partecipavano della stessa civiltà peculiare dell'Adriatico. Se non ci son rimaste tante parole, ci è rimasta la lingua dell'arte,dell'artigianato,dell'abbigliamento,della convivenza sociale, della vita familiare e di comunità, del culto dei morti. Anche per questo argomento io non vado a scomodare ne accademici d'Italia,né studiosi impegnati nella difesa delle radici italiche degli istro-dalmati, ma vado a spulciare un altro insospettabile, il prof. Alexander Stipcevic che in Arte degli llliri, del 1963 ci dà ragione anche quando tenta di insinuare – parrebbe per dovere patriottico - giustificazioni ingenue fino alla tenerezza. Sentiamolo, tenendo presente che al di là dell'Adriatico si vuol far credere che anche tremila anni fa esistevano gli attuali confini etnici, linguistici e politici: “A quanto pare l'estensione del territorio illirico corrisponde all'odiernoterritorio iugoslavo. ... Genti illiriche, più precisamente di origine illirica, vivevano pure in Italia (i Messapi, gli Iapigi ecc. in Puglia, i Piceni nelle Marche) ma non prenderemo in considerazione queste genti perché la loro cultura è di carattere più italiano che il lirico”. Chi non legge oltre all' Introduzione resta dell'ideache nel libro non si parli più dei rapporti con la costa adriatica della Penisola italiana. Così invece non è perché tosto leggiamo: “Le genti illiriche che per prime meritano di essere menzionate ... sono senza dubbio quelle abitanti le odierne Istria e Slovenia. … Infatti, nel periodo in cui molti llliri non conoscevano o quasi l'artefigurativa, quelli dell'Istriae della Slovenia, strettamente collegati da legami economici e culturali con le civiltà italiche, producevano e parzialmente anche importavano prodotti di alta qualità artistica. Gli scavi archeologici già nello scorso secolo dimostrano che in quelle regioni illiriche fioriva un'artefigurativa affine a quella conosciuta nell'Italiasettentrionale ... Le monumentali statue lapidee di Nesazio (Istria) ... e gli altri oggetti d'arte hanno dato all'arte illirica di quelle zone un valore di prim'ordine”. E ancora: “Il confronto dei bronzi rinvenuti in Slovenia e in Istria, con quelli di Bologna, di Este, di Sesto Calende, ecc, dimostra la mancanza di una differenza essenziale anche nei particolari. … Una prova assai convincente della produzione indigena (non d'importazione) scaturisce dal fatto che i cinturoni provenienti dalla Slovenia sono di forma rettangolare, mentre quelli atestini sono ovali”. Dobbiamo desumere che quelli dell'Istria sono ovali come quelli di Este al di là del mare. “Nei numerosi oggetti di abbigliamento rinvenuti in queste regioni (e non in quelle interne balcaniche) osserveremo un singolare mescolarsi di elementi indigeni con altri di provenienza italica da una parte (Istria) e dall'Europacentrale dall'altra(Slovenia). L 'influssoitalico è però molto più forte e, diremo, decisivo nella formazione di quest'arte”. A monte della Liburnia, nell'attualeCroazia, si sono trovati dei ninnoli a Kompolje, nel territorio degli antichi Japodi: “Possiamo affermare che la patria della plastica di Kompolje sia l'Italia... perché quasi tutte le figurine umane di ambra che si possono paragonare a quelle di Kompolje provengono dall'areaculturale estrusca (Bologna, Marzabotto, Roma, Vasto - sul Gargano - e Ruvo in Puglia). È molto probabile che l'emporio greco-estrusco di Spina fosse il punto di partenza. … Ma poiché gli Japodi frequentavano assiduamente la costa italica nel VI-V secolo non si può escludere che esse siano state acquistate in qualche altro emporio della sponda occidentale dell'Adriatico”. Dopo gli Istri e i loro propinqui, tocca ai Liburni: “Sul territorio tra il fiume Cherca in Dalmazia e l'Arsain Istria, e nelle isole adiacenti - Veglia, Cherso, Pago, ecc., vivevano i Liburni, As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it gente bellicosa che nella prima metà del primo millennio a C. dominava l'Adriatico... Era gente prettamente marittima e non c'è da stupirsi che la loro cultura materialequella ( ... immateriale non è stata trovata negli scavi!) differisse ... da quella conosciuta dalle altre genti illiriche del retroterra. La grande necropoli di Nona presso Zara, ci ha rivelato ... che nella civiltà Iiburnica l'elemento italico era particolarmente forte”. “Un elemento artistico caratteristico per la civiltà liburnica è l'applicazione(ornamento metallico applicato) a forma di testa di uccello lacustre ... nei pendagli, pettorali, ecc. e in genere dove gli Japodi mettono teste equine. È un motivo molto usato dai Liburni. ... Strette analogie troviamo pure col materiale archeologico proveniente dalla civiltà picena della opposta sponda italica. Proprio questo motivo ornamentale, associato ad altri elementi archeologici, fa di queste due civiltà adriatiche quasi un unico complesso culturale”. Come gli Istriani con i Veneti e i Romagnoli, così i Liburni con i Piceni, costituivano un'unica civiltà rappresentata in simbolo dalla stessa insegna araldica. Lo Stipcevic insiste: “Ci sono differenze tra le protomi (pendagli a forma di maschera umana) liburniche (marittime) e quelle Japodiche (terragne). Tra gli esemplari più belli, quello di Nona e cinque ... da Bescanova nell'isoladi Veglia. Questi ultimi ricordano molto le figure provenienti dall'Etruriae probabilmente nell'Italiaetrusca dobbiamo rintracciare le origini di quest'arte”. Mi sono dilungato per dimostrare con le parole di un insospettabile che anche nel millennio precedente l'eracristiana, lungo le due sponde parallele del nostro mare la lingua dell'artee della civiltà era straordinariamente unica e diversa da quella degli Illiri balcanici oltremontani. La colonizzazione greca in Dalmazia è stata comune all'Italiameridionale e adriatica ed è sempre stata accettata come componente essenziale e positiva della civiltà italiana sviluppatasi anche su quelle radici. Stipcevic sostiene che le sponde adriatiche non colonizzate, non riuscivano a recepire direttamente l'arteellenica e avevano bisogno della mediazione italica per l'affinitàdi gusto e di mentalità tra gli italici egli adriatici. È qui doveroso accennare che la storiografia contemporanea ungherese, interessata alla Dalmazia per la parte avuta dalla corona ungarica nelle vicende adriatiche medioevali, ha valorizzato l'influsso delle Polis greche, prima ma anche durante e dopo la stessa municipalizzazione romana, trovandovi la radice del forte senso civico e d'autonomiacomunale delle autocefale e autodespote città dalmate del Medioevo, in netto anticipo sullo stesso analogo fenomeno comunale del Medioevo italiano. Ritornando ai linguaggi parlati e scritti già accennati, Giacomo Devoto assicura nel 1969 che nella regione pugliese dove erano approdati gli Illiri Japigi, ad una preesistente piattaforma, da lui chiamata convenzionalmente protolatina, si era sovrapposto uno strato ‘illirico’ di cui dà la maggiore testimonianza la lingua dei Messapi che con i Dauni e i Pancezi costituivano le tre tribù degli Japigi alle quali oggi corrispondono territorialmente le province pugliesi storiche di Foggia, Bari e Lecce. L'illiricosi è sovrapposto al protolatino, in quei territori, a partire dal IX e IIX secolo a. C. e nel Salento leccese è sopravvissuto nelle sue particolarità sonore in oltre 300 iscrizioni con alfabeto greco derivato dalle vicine città greco-italiche. Il Devoto ridimensiona la portata del termine illirico affermando che solo da una decina d'anniesso tende a rientrare nei limiti ragionevoli dopo essere stato portato ad una nozione molto vaga ed esagerata ... non solo nell'Italiaantica. Riduce inoltre la definizione di miri dalla nozione positiva di gruppo di popolazioni nuove arrivato per ultimo a completare la grande migrazione indoeuropea, alla nozione negativa di resti di tribù preindoeuropee, scampate al diluvio dei popoli nuovi indoeuropei stanziatisi tutto intorno a loro premendoli e costringendoli a compiere delle migrazioni parziali attorno all'Adriatico. Questa affermazione del Devoto dà maggior vigore alla nostra tesi perché conferisce omogeneità, maggiore antichità e primigenia autoctonia alle genti adriatiche, presentandole come consanguinee oltre che affini per civiltà e cultura ininterrotta tra il secondo ed il primo millennio a. As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it C. Illiri indoeuropei stanziatisi attorno al nostro mare o adriatici preindoeuropei in continuo alternarsi e trafficare tre le due sponde, Devoto ribadisce comunque: “Questo non esclude che sussistano in Italia concordanze transadriatiche”. Il mito tramandato per tremila anni è confermato dal rigore scientifico di un massimo luminare del nostro secolo, che continua: “L'Italia, per la sua ascendenza umbra, venetica e protolatina esige connessioni transadriatiche...‘indoeuropee’ non ancora differenziate, non circoscrivibili in un termine ristretto come l'Illirismo”. Si badi bene che io ho lasciato gli Illiri al prof. Stipcevic, iniziando a parlare di Veneti, di Istri, di Liburni, di Piceni, di Dalmati e di Iapigi. Passando a qualche straniero super partes, cito John J. Wilkes che sostiene nel 1997 la affinità linguistica tra Liburni e Veneti e la loro disponibilità civile alla precoce assimilazione alla mentalità romana con la strutturazione in Municipia e la estensione dello Jus Italicum o Dominium ex iure quiritium, con l'ordineequestre romano, già in età giulio-claudia, quando i cosiddetti Illiri oltremontani erano tenuti al margine dai coloni italici. Sulla parlata e sulla consanguineità, suggerita dal Devoto, possiamo citare M. Landolfi che nel 1988 ha evidenziato il fittissimo scambio reciproco tra le sponde Liburniche e Picene durante l' età repubblicana romana, nella seconda metà del millennio, ma, diamo grande valore ad un altro insospettabile, Slobodan • a• e che nel 1984, sviluppando il passo di Plinio il vecchio sui Liburni, indicati quali i più antichi abitatori del Piceno, è arrivato ad ipotizzare che gli aspetti straordinariamente simili delle culture liburnica e picena derivino da una antichissima e iniziale residenza italica dei Liburni quali proto-piceni. Staccatisi dal ceppo originario e migrati sulle isole e lungo la costa della sponda opposta, avrebbero mantenuto il naturale rapporto fraterno con la terra d'origine,come gli Elleni della Magna Grecia italica con le loro originarie Polis dell'Ellade.La tesi non contrasta con le ‘piccole migrazioni parziali’ delle tribù Illiriche preindoeuropee del Devoto. Il titolo del saggio di Slobodan • a• e è significativo: Truentum Liburnorum -Tronto, fiume dei Liburni. *** Lasciando ai sommi vertici dell'archeologia, della glottologia e della indagine toponomastica, il grande parlare di Illiri in riferimento a tutte le genti adriatiche, da Erodoto a Virgilio a Festo a Plinio nella fitta schiera di poeti, storici e geografi antichi, dimostra che i Greci avevano coniato quel denominatore comune perché convinti dell'ovviasomiglianza tra l'umanità delle due riviere e che i Romani l'hanperpetuato per la stessa evidenza. Ci basta e ci appaga quanto ha sintetizzato Giuseppe Praga: “Le ipotesi e le teorie sinora formulate sono troppo indeterminate per poterle proiettare sul piano storico. È tuttavia sin da ora accertato che ... soprattutto tra l'unae l'altrariva dell'Adriaticovi fossero sin dai tempi preistorici non solo vivi scambi e passaggi di uomini, cose e forme di vita, ma medesimezza di strati etnici”. Tutto questo mondo pre- o postindoeuropeo, che non ha saputo scrivere la sua storia pur lasciando orme che la risacca di due millenni non ha cancellato, è stato vieppiù influenzato e conquistato dalla civiltà greca penetrata nel suo stesso golfo e poi da quella greco-romana, seguita e incalzata dalla stessa espansione della sovranità di Roma. Con Roma Roma aveva conquistato con interminabili guerre, tutti i popoli italici che la circondavano, sul versante tirrenico, su quello appenninico e su quello ionico. Venne così il tempo della sua presenza in Adriatico. Nel 290 avanti Cristo ha già raggiunto la costa picena; nel 283 e 268 deduce le colonie di Sena Gallica e di Ariminum; nel 264, quando sul Tirreno affronta Cartagine, possiede tutta la costa adriatica centro-meridionale. Nel 229 stringe patto di alleanza stabile con le città greche di Corcyra (Corfù), Apollonia, Dyrrachium (Durazzo) e Issa (Lissa) nel cuore marittimo della Dalmazia e con As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it le tribù dalmate minacciate da un regno illirico, piratesco, da poco esteso da Scodra (Scutari) fino alle foci del Narenta. L'alleanzacontinua, finché si susseguono le guerre, per mezzo secolo. Contemporaneamente, nel 225, è pattuita la stabile intesa veneto-romana, libera e consensuale come l'altra,perche imposta dalla avversità dei Celti della Gallia Cisalpina, Nel 189 - chiusa la parentesi di Annibale - è dedotta la colonia di Bononia (Bologna) ed otto anni dopo, nel 181, quella di Aquileia. Tre anni dopo, dal 178 al 177 è espugnata l'Istria,Nel 168 si concludono gli scontri nella bassa Dalmazia e nel 156-155 il potere romano si stende anche sui Dalmati a Nord del Narenta; nel 129, senza contrasti, sui Liburni fino al confine con gli Istriani già raggiunto da occidente. Roma non estende la sovranità per razziare ma per difendere la sua civiltà, civilizzando i popoli limitrofi, Nel 175 ha costruito la via da Bologna ad Aquileia, nel 148 la Postumia da Genova ad Aquileia, nel 132-31 la Popilia Annia da Rimini, per Adria, a Padova dove si innesta alla Bologna - Aquileia che continuerà nella via Gemina verso Emona e nella Flavia verso Pola e poi verso Tarsatica (Fiume). Un piano formidabile che avanzerà in Liburnia e Dalmazia per arrivare al traghetto della via Appia con 1'Egnaziadiretta alla Grecia conquistata nel frattempo. Nella guerra tra Cesare e Pompeo, i Dalmati sono con Pompeo e i Liburni con Cesare: sono pienamente entrati nelle stesse lotte civili di Roma. Dal tempo di Silla, il Limes italicus è posto trasversalmente tra Amo e Rubicone. Tutto il resto, da Cesenatico in su non è ancora Italia. Nel 42, due anni dopo la morte di Cesare, il Senato estende il nome e l'ordinamentod'Italia fino alle Alpi e all'Istria,Emilia, Veneto ed Istria entrano così nell'Italiaassieme, con le altre regioni che stanno al centro e all'ovestdi quella che diventa allora soltanto l'Italiasettentrionale. Augusto struttura la nuova Italia in 11 regioni rispettandone con grande saggezza le antiche peculiarità. La costa da Otranto al Quarnaro è ordinata nelle Regiones: II Apulia et Calabria; IV Samnium; V Picenum; VI Umbria (il lido dell' Ager Gallicus con Senigallia e Pesaro); VII Aemilia; X Venetia et Histria. La Decima Regio sarà estesa nel 170 d.C. alle liburniche Alvona (Albona), Flanona (Fianona), Tarsatica (Fiume) e raggiungerà poi Emona (Lubiana). Thomas H Wilkins, nel 1988-89 sostiene che le città liburniche vennero ascritte amministrativamente di fatto alla X regio Venetia et Histria fin dall'epocaaugustea. Massimiliano Cerva, nel 1996, trattando della pacifica entrata liburnica nel nesso romano, se ne dichiara convinto in base a dati precisi e nuovi. La storia delle isole del Quarnaro lo dimostra. Nel 33 a.C. è costituita la Provincia romana chiamata ora Illiricum ora Dalmatia, che fino il 22 è Senatoria e poi Imperiale, Augusto stesso vi ha stabilito colonie e municipi estendendovi Immunitas e Jus italicum e insediando a Salona il Legatus Augusti pro Pretore. Risolta nel 9 dopo Cristo l'ultimadifficoltà militare, per sei secoli la costa orientale dell'Adriaticovivrà in pace continua progredendo nella civiltà romana. Fino al 70 vi stanzieranno due legioni, la VII e la XI e dal 70 la Dalmazia sarà Provincia inermis, senza presidio militare, affidata al rispetto e alla tutela delle leggi e degli ordinamenti municipali gestiti nell'autonomia civica sul modello dell'Urbe. Non stiamo facendo la storia sistematica dell'Adriatico e perciò qui fermiamo l'elencazione incalzante di fatti e date che abbiano iniziato dal 290 a. C. ripercorrendo la romanizzazione simultanea delle due sponde. L'abbiamofatta per evidenziare che non fu una sponda occidentale già romana ab immemorabili a conquistare una sponda orientale ancora barbara e refrattaria alla civilizzazione romana, ma che, in uno stesso processo storico, un'unicamarea ha risalito l'Adriatico nella sua lunghezza, dilagando ad ondate sull'unae sull'altrariva fino a congiungerle a settentrione con un solido arco, conchiuso dalla chiave di volta della penisola istriana. *** La romanizzazione totale avviene subito, il che ne dimostra la predisposizione. Il lido orientale è inteso da Roma come l'altra sponda del mare di casa, cioè l'estensionesul mare del territorio metropolitano. In questa visione il territorio viene fortemente aiutato ad identificarsi, nell'aspettoe nel vivere civile, allo stesso centro dell'Impero,per costituire non una stazione As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it periferica avanzata, ma la base stessa di supporto e riferimento per la conquista dell' Illirico oltremontano ben presto attuata fino al Danubio e poi al continente oltredanubiano che nella sua illimitatezza preoccupa la lungimirante previsione governativa. La capillare deduzione di colonie, l'entusiasmo istro-dalmata per l'arruolamento nella flotta - notato dagli storici - e nelle legioni stanziate per il mondo, la conseguente forza sociale del ceto dei veterani, la capillarità dei porti aperti ai traffici sicuri per la disciplina imposta all'antica prepotenza piratesca, la rete viaria attuata su piano mondiale e la sicurezza delle leggi, con la cittadinanza romana, danno vita ad una lunga riviera civilissima e prospera difesa dalla barriera naturale delle Alpi che continua ininterrotta, dopo i valichi carnici, costeggiando la fascia costiera fino all'Epiro.Ville, aziende agricole e ittiche, collegano città cinte di mura turrite, ornate di porte, di archi, di templi, di palazzi, di fori, di acquedotti, di teatri, anfiteatri, palestre, ippodromi, biblioteche, scuole. Il commercio, l'agricoltura,la navigazione, promuovono l'artigianatoe l'arte. Città e vie si disseminano di statue, are, sepolcri monumentali. Ogni agro è inizialmente pianificato con la città dalla centuriazione che la fotografia aerea ha oggi portato alla conoscenza quasi perfetta. Il collegamento tra le due rive è funzionale e appaga l'attesadi convivenza prospera maturata in oltre mille anni. Il porto di Classe, sul lido di Ravenna ha il suo controporto nella baia di Salona e le sue sezioni staccate nel Nord e a Sud. Ossero, centro già liburnico sull'euripod'entrata all'arcipelagodalmata, che divide le isole di Crepsa - Cherso e l'attualeLussino, conserva capitelli compositi grandiosi, resti del suo aspetto importante di stazione di controllo marittimo dell'alto Adriatico. La grande estensione dell'esportazionecommerciale marittima è documentata dalle anfore di produzione istriana scoperte nel porto di Ostia. Gli antichi parlari han ceduto al latino e tra archi, colonne, fori e basiliche civili e poi religiose, fiorisce la letteratura. La Dalmazia darà alla romanità Gerolamo, che ci teneva a dichiararsi figlio della sua terra: ‘Son dalmata!’ Non diceva ‘sono Illirico’ ed era sincerissimo perché parlava a Dio: Parce mihi, Domine, quia dalmata sum! La sua Vulgata ha dato la lingua latina alla Chiesa di Roma. Nella lingua del grande dalmata il mondo occidentale ha appreso la parola di Dio. Prima e dopo il Padre della Chiesa Gerolamo la Dalmazia ha dato a Roma due Papi, Caio di Salona nel 283 e Giovanni IV di Zara nel 640. Ma ha dato anche Imperatori, il più celebre e grande, tanto preoccupato per i lo stato romano da ordinare la più sistematica persecuzione dei cristiani per amore di Roma. Il cristianesimo è arrivato e si è radicato già nel secolo apostolico. Durante la persecuzione di Diocleziano si ha un esempio significativo della complementarietà e dell'integrazioneche continua e aumenta tra le due sponde, nello scambio delle materie prime, della manodopera qualificata, delle maestranze edili. Nell'ediliziamonumentale è la sponda istriano-dalmata a fornire impresari ed esecutori al seguito dei marmi assai pregiati e richiesti in occidente. Allora il lungo golfo Adriatico era considerato quasi un canale transitabile a guado e fior di maestri dell'architettura ci lavoravano e v lavoreranno or qua or là con effettivo ‘pendolarismo’. San Gerolamo, scrivendo al santo vescovo di Altino, Eliodoro, minimizza tanto il braccio di mare tra le due rive da definirlo tantum fretum - nient'altro che un fosso! Attorno al 301, Marino e Leo, maestri lapicidi dell'isoladi Arbe, si trovano a Rimini per lavorare la pietra portata dalle cave della loro isola. Stanno restaurando le mura della città o costruendo un ponte nei pressi, quando li coglie la persecuzione ordinata dal loro corregionale che, proprio allora stava facendo costruire sulla costa di Salona il grandioso palazzo imperiale. Essendo cristiani ben noti e Marino anche diacono, si rifugiano in cima al monte Titano. Leo passa in un altro monte vicino e la matrona Felicissima dona il complesso roccioso a Marino che, morendo in santità, lo lascia al suo piccolo popolo di seguaci dando così inizio alla Repubblica di San Marino. Storia e leggenda, patrimonio sacro della più antica repubblica del mondo. L'urnain cui furono poste le ossa del Santo è di autentica pietra di Arbe e la Repubblica ha coltivato sempre con l'isola rapporti di fratellanza. Lo scambio della pietra già lavorata o squadrata per facilitare il trasporto, As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it avveniva da qualche secolo e continuerà nei periodi di fervore edilizio per esplodere nel Rinascimento. Il mausoleo di Teodorico arriverà, dopo l'impero,dall'Istriaa Ravenna, a pezzi pronti per il montaggio, compresa la pesantissima cupola monolitica. Tutta Venezia è di pietra d'Istria:piazze, campielli, calli, rive, dighe amare, porticati, loggiati, balconate e polifore. D'altronde,come poteva mancare la pietra tra tanto traffico di legname e di legna, di sale, di olio, di vino, di granaglie, di carne affumicata, di lana, di panno di rascia e di tutto il trasportabile in qua e un là e per traverso da e per il Levante, l'Oriente e Aquileia, porto dell'Europa continentale? *** La pietra e i lapicidi ci hanno portato all'architetturae dobbiamo entrarci perché la modellazione degli spazi urbani e la forza dei loro stili è lo specchio più significativo di ogni civiltà. Limitiamo la panoramica monumentale della romanità più vistosa, di Pola nell'Istriae di Zara, Salona e Spalato nella Dalmazia. Pola Ha scritto Mario Mirabella Roberti, ultimo sovrintendente ai monumenti di Pola italiana: “Pola, insegna di Roma sull'Adriatico... dopo Roma, più che Verona, ... ed altre città ... d'Italiae d'Europa,... può mostrare quasi tutte le architetture antiche. Le opere della difesa e dello svago: due porte, un largo tratto della cinta murale, un anfiteatro e due teatri; le opere della fede e dell'esaltazioneonoraria: due templi e un arco,. le opere dell'utilitàpubblica e della devozione ai trapassati: una grande conserva d'acqua,un ninfeo e un mausoleo ... Mostra ... chiaramente tuttora il tessuto connettivo che collegava i grandi edifici antichi, l'impiantourbanistico romano ... Ed è a Pola non l'incrociarsitradizionale delle strade, ben noto in molte altre città, ma una disposizione che è unica nel mondo romano, con le vie radiate tutt'intornoal colle in cui la città è costruita, dalla cima alla breve fascia di terra che vi è al piede bagnata in gran parte delle acque del porto, dove fra la collina e le mura passa la via decumana”. Pola può esibire un buon tratto di evoluzione storica e stilistica dal periodo post-Cesareo al pieno Impero fino e oltre l'epocaFlavia e l'haesibito a tutti i grandi architetti e trattatisti del Rinascimento che vi hanno ricavato disegni e proporzioni. La Porta d'Ercole; con la testa del mitico eroe, con arcata possente che ricorda ancora le porte etrusche, risale al 40 avanti Cristo, due anni dopo che il nome d'Italiafu esteso al settentrione ed è la costruzione romana più antica di tutta l'Italiasettentrionale. Ostenta la scritta dedicatoria ai duoviri della città L. Calpurnio Pisone Cesonino suocero di Cesare e L. Cassio Longino fratello di un uccisore di Cesare, personaggi patrizi di primissimo piano venuti in Istria in seguito alle guerre civili e alle proscrizioni da Roma. Due torri rotonde la scortano. Altre torri rotonde e quadrilatere sporgono in rudere da una seconda cinta di mura più ampia, di epoca tardoromana e ci collegano idealmente al Palazzo di Diocleziano costruito a Spalato. Su queste mura s'aprela Porta Gemina a due fornici che indirizzavano al colle e al teatro minore. I due archi sono identici, serrati da pilastri con colonne di stile composito ionico-corinzio. Sopra il bel cornicione in origine s'alzava un timpano triangolare a frontone. Manca l'iscrizione sulla lunga tabella e perciò l'etàdell'operaè deducibile solo dallo stile riconducibile agli imperatori Antonini. Un'altraporta, a tre fornici, fu distrutta alla metà del 1800 assieme alle mura sacrificate al ... progresso che allora si riduceva ai bei viali per le passeggiate in carrozza della gente bene come aveva insegnato Vienna. Somigliava ed era probabilmente coeva della Porta dell'Arco augusteo di Fano sulla riviera marchigiana. As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it La porta trigemina era collegata da una via all' Arco dei Sergi dedicato, all'ingressodella via Decumana, da Salvia Postuma, nobile patrizia, in onore del marito Lucio Sergio, del figlio Lucio Sergio Lepido - tribuno militare della XXIX legione distintasi ad Azio dalla parte di Antonio - e del genero Cneo Sergio, tutti le tre edili e duoviri della colonia di Pola. I Sergi erano arrivati a Pola perché invisi nell'Urbe come gente di Catilina. La ricchissima e finissima decorazione a rilievo con scene e allegorie, d'armi, sfingi, delfini, viluppi di fogliame con grappoli e uccelli vivaci, rivela lo stile naturalistico e arioso della scultura augustea e ricorda l' Ara Pacis di Roma che però è posteriore. Il fregio d'armi è il più ricco che si conosca dopo quelli del portico di Atena a Pergamo. Nel Rinascimento sarà modello agli scultori ricamatori di pilastri stipiti e soglie, attivi in Italia e in Europa. Ma l'originalitàdell'Arcodei Sergi sta nelle colonne binate, cioè poste sporgenti a due a due davanti ai pilastroni di sostegno dell'arcata,su propri distinti piedistalli e con propri segmenti di trabeazione superiore. Le colonne, scanalate, sono corinzie e le foglie dei capitelli sono tagliate con effetto di forte chiaroscuro. Il motivo delle colonne binate ha interessato molto i grandi della Rinascenza. L'arcofu disegnato e misurato, alla metà de11400, da fra'Giocondo da Verona, maestro di Raffaello, e da lui per primo esibito al mondo. Michelangelo nel 1500 ne ha eseguito un disegno particolareggiato con le indicazioni delle misure. Battista Sangallo fratello di Antonio autore del celebre ‘modello’ di S.Pietro e traduttore di Vitruvio, ne ha rilevato il disegno ora agli Uffizi di Firenze. Giovanni Maria Falconetto, veronese, che girò l'Istriain lungo e in largo, ne eseguì il disegno per il suo mecenate Alvise Cornaro di Padova, Baldassare Peruzzi lo studiò e Sebastiano Serlio lo riprodusse nei suoi celeberrimi 7 libri dell'Architetturae Prospettiva. E riconosciuto che tutte le colonne binate dal 1400 in poi derivano dall' Arco di Pola a partire dall'arco aragonese di Napoli lavorato dal dalmata Laurana. Allo stesso periodo augusteo risale il tempio di Augusto a Roma, elegante edificio sacro su alto basamento con gradinata d'accesso alla facciata costituita da portico con quattro colonne a capitelli compositi ad alto fogliame corinzio. Fu l'unicomonumento romano d'Italiacolpito da una bomba d'aereo.La notte del 3 marzo 1944 ebbe squarciato il timpano e il tetto e divelte le colonne. Il restauro fu immediato e preciso, pur nell'angoscia di quei due anni tremendi che si conclusero nel '47con la consegna di Pola, fino ad allora occupata dagli anglo-americani, alla armata iugoslava di Tito, dopo l'esododella città. Un grande insegnamento di civiltà che agli italiani nessuno ha voluto ancora ricordare. Il tempio formava, in coppia con uno gemello, ai lati di uno più grande, il ‘Campidoglio della città’. Porta scritto: Romae et Augusto Caesari divi f(ilio) Patri Patriae. È dell'epocadella nascita di Cristo. Lo spirito è perfettamente romano, ancora repubblicano, e richiama la forza del tempio della Fortuna virile di Roma. Le proporzioni classiche sono perfette. Come nessun'altracittà dell'Italiasettentrionale, Pola aveva due teatri adagiati alla greca sul pendio di un colle: uno entro le mura ed uno fuori. Ne restano le tracce e i ruderi tra case e costruzioni. Nel 1543 Andrea Palladio e nel 1550 Sebastiano Serlio ne hanno misurato e valutato con grande scrupolo le rovine allora ancora eloquenti, soprattutto del teatro maggiore. Ma l'emblemadi Pola e la corona dell'Adriatico romano è l'anfiteatrochiamato, come a Verona, l' Arena. La cinta perfettamente conservata misura di circonferenza m. 327. Ha 4 torri scalarie sporgenti che ne costituiscono l'originalità.È il sesto anfiteatro d'Italiadopo il Colosseo e quelli di Pompei, Pozzuoli, Capua e Verona. È il maggiore dell'Adriatico.Il primo anfiteatro, di Augusto, fu ingrandito nell'epocadi Claudio e - pare - finito nell'epocadi Vespasiano. I visitatori del 1500 testimoniano delle tombe polesi a pianta centrale. Ne rimane oggi una sola, ottagonale e unica. Rimangono i gradini a ferro di cavallo della fonte d'acqua‘Ninfeo’ e le volte a botte della grande cisterna a tre navate, capace di 600 metri cubi di riserva d'acqua.Dell'acquedottoè affiorata la testimonianza di una scritta. La ricchezza di architetture di tutta l'Istriaromana era straordinaria e lo rimarcherà, un sessantennio dopo la caduta dell'Imperod'Occidente,il letterato ministro del Regno d'Italia As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it barbarico M.A. Cassiodoro scrivendo da Ravenna ai tribuni della X Regio italica: “Ville di livello pretorio che splendono in lungo e in largo, appaiono disposte come perle per dar testimonianza dei gusti raffinati degli antichi di quella provincia che appare ornata di tante architetture”. La vastità del sepolcreto romano colpirà Dante che ne lascierà nota nell'Inferno:“Fanno i sepolcri tutto il loco varo / Sì com'aPola presso del Carnaro / Ch 'Italiachiude e suoi termini bagna”. Zara Zara non conserva i suoi notevoli monumenti se non in una miriade di reperti architettonici e scultorei per mezzo dei quali si è potuta fare comunque una ricostruzione abbastanza precisa soprattutto del Foro. I grandi bombardamenti del 1943 e 1944 han fatto piazza pulita di tanti resti romani, assieme a quelli veneziani e moderni, sfigurando la bella città che però è ancora impostata sulla pianta romana a scacchiera castrense. L'agromostra chiari i segni della centuriazione romana in quadrati di 710 metri per lato. Sorge sull'estremitàdi una penisola parallela alla sponda di terraferma e già al tempo romano aveva un vallo che la isolava, sul quale s'ergevauna grande muraglia che andava da parte a parte perpendicolare al mare. Il grande muro antichissimo, a massi robusti diseguali ma a perfetta coesione, si apriva al centro in corrispondenza della via cardinale maggiore. La porta era bella come un arco di trionfo a tre fornici. Era quindi trigemina e scortata da due possenti torri ottagonali tipiche in questa funzione anche a Roma, ad Altino città romana sul ciglio della laguna veneta, a Pola, a Salona e sulla cinta del Palazzo di Diocleziano a Spalato. C'era un'altraporta piccola, verso il mare aperto, scortata da una sola torre quadrata. Dalla parte opposta a questo muro di difesa, verso la punta sul mare, ad ovest nella scacchiera urbana, si stendeva l'area del Foro e del Campidoglio mentre a metà, verso la riva interna, si apriva il piazzale del mercato. Il Foro, rettangolare, era tutto circondato da un edificio quadrilatero con finestre su due piani all'esternoe con un portico colonnato continuo all'interno.Il Foro era diviso in due parti, una, di fondo, eminente di ben due metri sull'altrae cinta di porticato ad un sol piano, mentre la parte iniziale più ampia era attorniata da porticato a due piani. Al centro della parte alta si innalzava un tempio con colonnato esastilo prostilo a due file di colonne. Il tempio era ampio, alto sul rialzo del foro ed ulteriormente sopraelevato su un suo basamento a gradinata anteriore. Aveva tre porte di entrata sulla facciata, con tre navate interne, come il Partenone di Atene. La Piazza più vasta ai piedi del tempio era dominata da due grandi colonne eleganti di funzione onoraria. Una delle colonne ha resistito anche ai terribili bombardamenti ed è ancora in piedi scorticata ma possente. Rimangono ancora i gradini laterali del porticato, molte basi e alcuni mozziconi di colonne. Il Campidoglio era tutto di marmo fine decorato da altorilievi. La piazza stranamente si presentava come la piazza san Marco di Venezia con le Procuratie (gli uffici pubblici) ai lati sollevate sui colonnati, e San Marco (il tempio) dominante al capo della piazza. Vi era accanto la basilica civile adibita alle assemblee politiche e giudiziarie. Il tempio, del I secolo a. C., era dedicato ai tre protettori di Jadera, i massimi dell'olimpo,Giove, Giunone e Minerva. Rimangono bassorilievi e rilievi di ghirlande e mascheroni, volti di Giove Ammone, della Medusa e di altri dei ed eroi della classicità. Il complesso del Campidoglio si è sviluppato tra il I ed il III secolo d.C. La piazza del mercato aveva un arco monumentale che dal 1500 è conservato murato sulla porta di città. L' urbs dalmatina Jadra aveva due acquedotti, il più grande lungo 35 chilometri, fino al lago di Vrana. Restano tracce di due necropoli e di un anfiteatro fuori dalle mura. Sull'areadel foro sono stati costruiti la chiesa bizantina di San Donato, il palazzo vescovile e numerosi edifici della città medioevale. Ciò che non è riuscito a fare il fluire normale della storia sovrapponendo le epoche sullo stesso rettangolo urbano stretto per tre lati dal mare, han fatto le bombe della guerra mondiale…di liberazione 1943-45, in base al programma predisposto nei decenni tra le due guerre, quando il poeta Vladimir Nazor che volle essere il ‘D'Annunzio croato’ educava i nuovi iugoslavi con i versi: As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it “Ridurremo in frantumi nel nostro territorio le pietre della città nemica dopo averla distrutta, e le getteremo in fondo al mare dell'oblio. Al posto di Zara distrutta sorgerà la nuova Zadar”. Salona Salona non esiste più dal VII secolo dopo Cristo quando la metropoli madre di imperatori, papi, martiri e patriarchi venne rasa al suolo dalla marea avaro-slava. La sua vitalità pluricentenaria fu mutata d'untratto in una enorme cava di pietre, di opere d'artescultorea frantumate, di teste mozze di marmo, di statue mutile e divelte, di basiliche cristiane appena costruite durante gli ultimi due secoli, profumate e arse, di sepolcri scoperchiati. Pure apparentemente internata, era città sul mare perché vi penetrava un fiordo marino profondo. Romana dal 119 a.C., era stata elevata da Augusto a Colonia Julia Martia. I veterani delle legioni salonitane colonizzarono tutto l'illiricofino al Danubio. Il massimo sviluppo lo ebbe tra il III ed il VI secolo in concomitanza con la decadenza generale dell'impero.Era rinomata ed insuperabile per l'industriadelle armi. Per fuggire ai Longobardi, Salona era stata scelta dai Beneventani e da molti della costa occidentale, quale rifugio sicuro. Anche gente dell'Istriae della Venezia risulta essersi trasferita allora nella capitale della Dalmazia. Anche Salona aveva la porta principale trigemina, a tre fornici, come Zara e Pola, alta 8 metri, tra due torri ottagonali robuste. Gli imperatori Costanzo e Marco Aurelio abbellirono la città e l'ampliarono cingendone le mura di torri nuove per renderla sicura dall'attaccodei Marcomanni, i primi barbari pericolosi. Rimangono i resti delle terme del II secolo con le fondamenta del calidarium e tracce dell'acquedotto.L' Anfiteatro di Salona risaliva al 150 d.C. circa ed aveva un porticato aggiunto tra i secoli IV-V. Poteva contenere dai 15 ai 20 mila spettatori. Di età augustea era il Teatro presso il mare accanto ad un tempio prostilo. Numerose e complesse erano le basiliche paleocristiane costruite dal IV al VII secolo. Anche l'architettura cristiana fu ridotta alle fondamenta. I Salonitani si rifugiarono nel vicino palazzo di Diocleziano che, divenuto loro residenza fissa, diventò Spalato. Con una leggendaria sortita fu possibile trarre dalle cripte sepolte sotto le macerie i corpi venerati dei martiri e il papa Giovanni IV, zaratino, ne volle le reliquie che sono conservate al culto universale nella basilica di San Giovanni in Laterano di Roma dove sono state allora portate con grandi cerimonie e dove splendono, ritratti in piedi in lunga teoria ai lati di Maria e sotto il grande Cristo benedicente tra i simboli degli Evangelisti. Il celebre mosaico raggruppa assieme sia i Martiri salonitani sia gli istriani, quasi in una previsione del comune destino delle loro terre che li rende significativamente attuali. Spalato Nato a Salona o nella vicina Dioclea, l'imperatoreDiocleziano, tra la fine del 200 e l'inizio del 300 d.C., si costruì uno splendido Palazzo, dove oggi è, come abbiamo detto, la città vecchia di Spalato. Vi si stabilì nel 305 e vi morì nel 313. Vissuto a lungo a Nicomedia, si è pensato abbia fatto progettare il palazzo da architetti orientali, come Traiano aveva fatto per il suo Foro in Roma. Lo stile è comunque quello ufficiale del tempo. Il Palazzo è una costruzione fra la villa di lusso ed il campo militare romano con elementi di città ellenistica. E rimasto pressoché intatto per molti secoli. Dopo pochi anni fu preso a modello per quello di Costantino nella nuova capitale Costantinopoli e poi suggerirà forme ai monasteri benedettini medioevali, ai maggiori castelli e palazzi isolati dei regnanti e dei grandi feudatari, alle città murate medioevali di impianto castrense romano, fino all'Escorialedi Carlo V a Madrid e alle maggiori regge. La pianta è un rettangolo impercettibilmente sghembo per l'adattamento alla forma del suolo, di 180 metri per 215. La superficie occupata è di circa 30.000 mq. Tutto il complesso è cinto da una muraglia alta 17 metri dalla quale sporgono all'esternoquattro torrioni quadrati ai quattro spigoli e due torri rettangolari leggermente più piccole su ciascuno dei tre lati di terraferma. Il quarto lato è sul mare. Al centro di ciascuno dei tre lati di terraferma c'è una porta cui fanno scor- As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it ta due torri ottagonali, la porta aurea, la porta argentea e la porta ferrea. L'aurea è la principale, posta a monte. Sono massicce, ad arco, e la muraglia su cui s'aprono termina con una cornice di archi ciechi alternati a finestre cieche. Il motivo è usato in Roma nelle coeve terme dello stesso Diocleziano, nella Curia e nel tempio di Venere e già annuncia quelle che, dopo l'interruzione barbarica, saranno le finte arcate dello stile romanico. Il lato sul mare era in origine tutto bagnato dalle onde ed era liscio e solare. Si apriva sul piano superiore in un'unicalunga balconata ad arconi su pilastri ritmati da pseudo-colonne. La balconata s'impennavaformando quel motivo che sarà ripreso nel 1500 da Sebastiano Serlio e, col nome di Serliana, verrà usato dal Palladio rimanendo di uso costante. Una unica porticina, oggi chiamata bronzea, si apriva semplice su un imbarcadero di pietra che serviva da rivetta d'ormeggiosull'Adriatico verso il mondo intero. Tra le tre porte passavano le due strade esterne che dentro il Palazzo s'incontravanoperpendicolari a formare il Cardo e il Decumano. Mentre il Decumano andava da porta a porta, dividendo trasversalmente il complesso in due, il Cardo procedeva di poco oltre all'incrocioformando il mirabile Peristilio e si fermava davanti al protiro della residenza imperiale. Le due vie principali dividevano il tutto in tre parti: le due simmetriche a monte, erano destinate una ai soldati della grande guardia e l' altra ai funzionari e agli impiegati. Dal Decumano fino al mare si stendeva tutta la terza parte, ufficiale rispetto alle altre due. Il Peristilio è ancor oggi accompagnato ai lati da due colonnati corinzi senza architrave perché sui capitelli poggiano direttamente i piedritti degli archi. Non è un motivo nuovo e orientale perché è visibile anche nelle decorazioni parietali a motivi architettonici di Pompei. Il motivo è segno evidente che la logica costruttiva romana classica stava evolvendosi nelle forme che troveranno attuazione tipica dopo un paio di secoli nell'architetturabizantina. Il vigore spaziale dioclezianeo rivivrà col Brunelleschi di Santo Spirito di Firenze oltre mille anni dopo. Il Peristilio termina nel Protiro tutto facciata nel quale il frontone triangolare comprende un'arcata centrale tra due paia di colonne unite in alto da segmenti rettilinei. Filippo Brunelleschi, o chi altro ne è stato il progetti sta (oggi c'è discussione) riprenderà il motivo sulla facciata della Cappella Pazzi di Firenze. Ai lati del Peristilio, oltre le divisioni ideali dei colonnati, s'apronodue spazi rettangolari dentro i quali da una parte s'alza la cappella palatina, tempietto di Giove pro stilo tetrastilo con soffitto a botte decorato a cassettoni di vivo marmo, e dall'altral'edificio ottagono porticato del Mausoleo che Diocleziano volle costruirsi per rimanere nel suo palazzo anche da morto, protetto nel sonno eterno da due sfingi misteriose di granito egiziano. Il disegno verrà raccolto nel Rinascimento forse da Luciano Laurana e passerà alle ‘rotonde’ disegnate nelle piazze delle città ideali, dipinte, se non dallo stesso Laurana, da Francesco di Giorgio Martini che lo frequentò ad Urbino, da Piero della Francesca e sui fondali prospettici di Perugino e Raffaello. Il Protiro immette in un grande vestibolo circolare con cupola, tuttora in piedi. Dal vestibolo si accedeva alla grande sala delle udienze solenni, all'appartamentodell 'Imperatorecon la vasta e ricca biblioteca, e alle sale della famiglia imperiale. Dappertutto erano fregi scolpiti, pavimenti di mosaico e mosaici parietali. La cupola splendeva di un unico grande mosaico. Non mancavano le terme e l'acquedotto,alto e slanciato sulla campagna, ora in parte ancora utilizzato. Nel palazzo, dopo la morte di Diocleziano visse la moglie Prisca con la figlia Valeria e poi abitò Galla Placidia che nell'altroversante, a Ravenna, si è costruita il piccolo mausoleo a croce greca con i mosaici simili a quelli perduti di Spalato. Vi hanno vissuto altri imperatori, come Glicerio che il Papa aveva nominato vescovo di Salona poi che era stato deposto da Giulio Nepote. Quando Giulio Nepote a sua volta lo raggiungerà, verrà accolto con grande cortesia e fatto fuori con altrettanta speditezza. Anche Glicerio farà la stessa fine per mano dei seguaci di Giulio Nepote. Tutto procedeva liscio tra le due sponde. Il primo vescovo di Spalato sarà un adriatico occidentale, Giovanni da Ravenna che trasformerà, senza toccarne le strutture, il mausoleo del grande imperatore in chiesa cattedrale, ed il tempietto di Giove in battistero. Una miriade di architetti e scultori ha attinto forme e ispirazione As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it dal grande monumento e ne parlano trattati, storie dell'arte,guide turistiche, cronache antiche e pubblicazioni moderne della costa occidentale che per lunghissimi secoli si è fatta illuminare dal messaggio di Roma che splendeva sulla costa orientale, dove appunto sorge il sole sull'Adriatico. Il periodo bizantino Dopo Roma ed il regno d'ltalia‘barbarico’ di Odoacre e di Teodorico, regno che aveva compreso la Dalmazia, tutta la costa da Ravenna a Grado, dell'Istriae della Dalmazia, era entrata nell'orbita dell'altraRoma, Costanti-nopoli-Bisanzio che dalla sede esarcale di Ravenna, costituita nel 569 mantenne viva l'antica romanità nella reciprocità totale tra le due sponde. Quando Ravenna fu scossa dalle discordie religiose, l'imperatoreGiustiniano, ordinatore del Diritto romano, mandò vescovo a Ravenna, capitale effettiva dell'Italiae di fatto della stessa Chiesa occidentale, il prete Massimiano di Pola che in breve seppe imporsi e farsi amare e obbedire per la sua saggia autorevolezza. Quel Massimiano che splende sui mosaici delle maggiori basiliche ravennati e in San Vitale è ritratto con l'imperatoreGiustiniano alla cerimonia della consacrazione del tempio, di prospetto all'imperatriceTeodora col suo seguito, è un istriano della Decima regione italica. Anche altri istriani e dei dalmati furono arcivescovi della Ravenna bizantina. Come a Ravenna, così a Parenzo, insigne sede vescovile dell'Istria,sorse la basilica eufrasiana e pur questa splende ancora di mosaici romano-bizantini. È a pianta basilicale romana come la ravennate S. Apollinare in Classe consacrata 5 anni dopo ed ha costituito il ponte tra l'architetturae l'artebizantino-ravennate e quella della basilica di san Marco in Venezia, molto più tarda e di aspetto e spirito del tutto orientale. Quando tutto il Veneto era chiamato Longobardia, la costa lagunare veneta, con l'Istriae la Dalmazia marittima erano chiamate Romània e gli abitanti Romani, dai greci Romànoi. Allo stile romano-bizantino non ha aderito solo Ravenna, con la Puglia e l'Istria,ma logicamente anche la Dalmazia. Ricordiamo l'edificiopiù significativo, il San Donato di Zara. Scrive il Lavagnino: “Si collega direttamente all'arteravennate ... la chiesa rotonda di s. Donato a Zara, probabilmente edificata tra l’801 e 1l’804. La bella costruzione, che ha giro giro un deambulatorio sostenuto da forti pilastri, matroneo, e tre absidi all'esternoarcheggiate, ha vivissimi punti di contatto con quelle di S. Vitale di Ravenna e del Duomo di Aquisgrana, che veniva consacrato appunto nello stesso anno 804. Dati gli scambi anche allora continui tra la Dalmazia e l'Esarcato,non v'ènessun bisogno di spiegare la costruzione del S. Donato come derivazione da edifici orientali o addirittura dalla chiesa tedesca, come ha voluto far credere qualche studioso, ma è molto più logico, semplice e opportuno riferirla appunto a s. Vitale di Ravenna. San Vitale di Ravenna era stata iniziata nel 521, prima dei SS. Sergio e Bacco (528) e di Santa Sofia (532) di Costantinopoli. È significativa la origine ravennate di S. Donato tardiva di 3 secoli ed iniziata quattro anni dopo l'inizioad Aquisgrana della cappella palatina del rinato Impero Romano d'Occidente. L'invasione barbarica e la resistenza costiera Nessuno contesta l'arrivo della romanità intatta al VII-VIII secolo, sulla sponda orientale dell'Adriatico ma pochi riflettono che, girando tutto attorno il mare che circonda la penisola italiana, solo la costa istriano-dalmata ha mantenuto viva, assieme a quelle pietre, la civiltà e la cultura romano-italica fino al nostro secolo, così come è avvenuto nella Penisola stessa. Nell’ VIII secolo si compì il dramma immane dell'ultimainvasione barbarica calata sul mondo romano, la più rovinosa. Gli Avari sono scesi da oltre il Danubio sull'Illiricoo Dalmazia continentale, portandosi dietro gli Slavi precedentemente sottomessi, e li hanno poi lasciati padroni della vasta regione. Di nessuna invasione, dopo quella fugacissima di Attila, è stato scritto dai contemporanei in toni tanto catastrofici. Fu un oceano di sangue, la distruzione totale di città civilissime, l'annientamentoumano sistematico, secondo il programma genetico di quelle orde. L'ondata,di origine carpatica, aveva raggiunto le creste degli alti monti e lì si era fermata, pare As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it terrorizzata dal mare. Il Papa Giovanni IV, dalmata di Zara, mandò da Roma carri di denaro d'oroe argento per riscattare quanti cristiani poté. Questa tremenda pagina di pulizia etnica e civile è di fatto esaltata con entusiasmo patriottico della storiografia nazional-razzista degli slavi del sud, almeno da centocinquant'anni cioè da quando han deciso di completarla. Ai Dalmati italiani, e per estensione anche agli Istriani, essi obiettano che i loro avi hanno sterminato uno ad uno tutti i dalmato-romani e che, di conseguenza, il seme italico non è autoctono, ma importato dai veneziani a partire dall'anno1000 quando, secondo loro, il doge Pietro Orseolo II strappò la Dalmazia ad un regno slavo, più mitico che storico, che in una decina d' anni avrebbe assunto tutti i diritti di sovranità razziale, di prima e di dopo, in perpetuo. Questo mostruoso diritto storico di conquista per sterminio sarebbe stato ereditato dopo secoli e secoli dagli occupatori calatisi dai monti dopo il 1918 e il 1945. Agli esodi ha corrisposto infatti una enorme calata al mare dalla Balcània oltremontana. Dallo sterminio e dalla distruzione avaro-slava sono invece rimaste illese le piccole città sulle isole e le più grandi città sugli estremi promontori peninsulari. Non sta qui ricordare i tanti testimoni autorevoli quali, tra gli altri, Costantino Porfirogenito Imperatore di Bisanzio, che nel 950 circa, scrivendo per il figlio erede il trattato De Administrando Imperio, elenca con chiarezza tutte le città rimaste romane e abitate da romani di lingua latina. C'èun filone storiografico che accetta quanto dice il Porfirogenito, ma aggiunge che dopo mezzo millennio la pressione slava, pur pacifica, fu tale da snaturare la latinità popolare che poi sarebbe rifiorita nell'italicitàimposta dalla presenza veneziana. Trieste, Fiume e Ragusa, non veneziane, dimostrano il contrario. Le città municipali ed episcopali marittime resistettero e si imposero anche ai re ungari quando fagocitarono il regno croato subito dopo il 1000 ... ereditando a loro volta i suoi ... diritti. Con la forza del coraggio, col lume della civiltà e con la sapienza marinara, le città marittime imposero rispetto così come Venezia lo impose, dalle sue lagune, alla sua terraferma padano-veneta-friulana invasa dai Longobardi. Come i Longobardi hanno dato il nome alla Longobardia-Lombardia che si stendeva fino alla conterminazione lagunare di Venezia, così gli Slavi hanno dato nome alla Schiavonia discesa fino agli anfratti più interni del mare, a pirateggiare dalla foce del Narenta. Come fu distrutta Aquileia e nacque Venezia, così fu distrutta Salona e nacque Spalato. L'Istriafu un'eccezione,sia rispetto al Veneto che rispetto alla Dalmazia; la X Regio italica continuò nella penisola istriana e nella ‘Venetia marittima’ (lagunare). L'Istriasubì una fugace presenza dei Longobardi che spinsero gente a trasferirsi oltre Adriatico, in laguna o a Ravenna. Nell'alternarsidelle scorrerie aliene, molti ravennati presero invece la strada inversa. Stanchi di essere taglieggiati dalla pirateria narentana che era arrivata a pretendere il praetium pacis dalla stessa Venezia, Veneziani e Dalmati s'accordarono,con il placet dell'Imperatored'Oriente,e Venezia, dal 1000 in poi sposò il mare Adriatico in segno di dominio. La vitalità municipale di città marittime e commerciali come Zara conservò forte autonomia per qualche secolo, patteggiando con Ancona e con Pisa, allora repubblica marinara che soccomberà a Genova. Zara soccomberà a Venezia. Ma le città dalmatiche che si trovavano Venezia sul mare, si trovavano però l'Ungheriasul continente, che voleva arrivare al mare per legarsi in Adriatico al regno di Napoli frontaliero della Dalmazia con la sponda meridionale dalla Puglia in su. Tra le due corone si arriverà alla consanguineità di Casa d'Angiò. Anche questa è storia dei rapporti tra le due sponde. Le forti comunità adriatiche manifestarono in quegli scontri-incontri tutta la loro esuberanza municipale romana evolutasi nella fierezza mercantile dei liberi comuni italici. Il Romanico a Zara A dimostrare che la Dalmazia non è stata una colonia di Venezia, ma che invece la sua civiltà si è espressa in forme italiche inizialmente indipendenti e legate alla sua profonda romanità, sono alcune opere straordinarie radicate nella stessa storia civica delle singole città. As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it Tra l'XIed il XIII secolo, le città dalmate si svegliano nella prima rinascita mediterranea. Diventano noti i porti di Zara, Traù e Ragusa. Sorgono grandi cattedrali, a tre navate condizionate da preesistenti fondamenta paleocristiane, con tre absidi terminali e altrettanti portali sulle facciate in coerenza con gli spazi funzionali interni. Anche il grande tempio romano e la basilica civile di Zara erano a tre navate con le rispettive porte! Si elevano campanili ora massicci, ora più eleganti, di lato e isolati dalle loro chiese, o sdoppiati e simmetrici sulla facciata come a S. Pietro e Mosè nella Salona ormai ricostruita quel tanto che bastava a ripristinare il culto dei luoghi santificati dai martiri. È molto interessante il rarissimo culto di San Mosè – o Moisè – coltivato, con grande importanza, a Spalato e a Venezia dove parrebbe essere stato addirittura l'originariosanto patrono della città. Dal secolo 1100 al 1300 il Romanico trionfa a Zara e a Traù, ma non c'ècittà costiera o isolana dove non lasci traccia di sicura originalità. A Zara viene costruita la Cattedrale di Santa Anastasia, vigorosa nella coerenza strutturale. Ad ogni navata corrisponde il suo portale profondamente incavato con lunette scolpite a bassorilievo e statue su alte mensole sporgenti dagli spigoli esterni, che rappresentano la continuità col tempio paleocristiano-bizantino sostituito. Una cornice sottile e forte, liscia, marca la divisione tra l'altozoccolo solare, e la parte superiore che -meraviglia per chi conosce gli stili ma non la storia della città - è tutto un gioco astratto di chiaroscuro, a tre fasce sovrapposte disuguali, in adesione all'esigenzadel profilo facciale a capanna tripartita. Sono tre pseudo-loggiati romanico-toscani. La loro derivazione è pisana, con sfumature stilistiche che a qualcuno hanno suggerito Lucca o Pistoia, per opinabili somiglianze formali dei singoli archetti. L'architettodella facciata ha espresso la sua maestria misurata di spirito tardo romano rivissuto in forme che rivelano ancora lievità bizantina in accordo con l'influenza mediterraneo-orientale presente a Pisa. Ma c'èanche Venezia, sensibile sia al bizantino che all'orientale,nella fascia più bassa e più estesa, paragonabile al lungo loggiato sulle facciate coeve di Cà Loredan e del poi Fondaco dei Turchi, in origine Cà Pesaro. All'internosfilano, parallele lungo la navata centrale, sopra i colonnati, le due logge del matroneo a colonnine binate in armonia con le esterne corrispondenti ai lati del rosone. Va ricordato che Zaratini e Pisani, il 28 marzo 1188 firmarono un patto di alleanza che ripeterono nel 1192-93 assieme alla città di Pola, contro l'assolutismoadriatico di Venezia. Neolatini e italici sì, ma in parità di diritti! Venezia chiederà ai crociati, a parziale copertura del noleggio del viaggio in Terrasanta, di scendere a Zara e ... dissuaderla dai giochetti con i tirrenici. Il Papa quando lo saprà scomunicherà i veneziani e manderà da Ancona navi e armati a difesa degli Zaratini. Del mancato destino con la repubblica di Pisa, resta a Zara la bella costruzione romanica che simili non ha per tutto l'Adriatico fuorché - attenti - proprio ad Ancona nella chiesa a tre navate della quale ha scritto Emilio Lavagnino: “Un maestro Filippo decorava con file sovrapposte d'archetti ciechi la elegante facciata della chiesa di Santa Maria della Piazza ad Ancona e l’edificio sembra riflettere, più che le forme pisane quelle del Duomo di Zara”. Altra chiesa importante è San Grisogono, consacrata nel 1175, bell'esempiodi romanico fondamentalmente lombardo con qualche influsso pugliese nelle ampie superfici scandite da sottili intagli di cornice. A Zara l'absidemaggiore di San Grisogono e il fianco della Cattedrale, terminano in una galleria lombarda e le facciate delle due chiese sono ritmate, con evidente ricordo delle architetture pisano-lucchesi, da serie di colonnine e di arcatelle. A differenza della cattedrale, le colonnine della facciata, che sono binate, formano oggi una fascia sola di pseudo-loggiato. L'alta loggia semicircolare a colonnette singole che circonda tutta l'absidemaggiore non può non ricordarci l'absidealtissima del Duomo di Parma, quella di Santa Maria Maggiore di Bergamo, ma anche il più primitivo battistero di San Vincenzo e Anastasio ad Ascoli Piceno. Sul mare abbiamo qualcosa di somigliante a Santa Maria di Portonovo di Ancona ma soprattutto sull'absidedi San Donato a Murano nella laguna veneziana. As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it Romanico e Gotico a Traù A Traù, città fondata dai Greci come Ancona, che Plinio il vecchio ha chiamato Tragurium civium Romanorum, fu dedicata al patrono san Lorenzo nel pieno 1200 una cattedrale romanica, gioiello e scrigno di gioielli in quella stupenda isoletta murata a città, allacciata alla infida terrafenna da un ponte levatoio come molte antiche città costiere, da Chioggia a Grado, da Isola d'Istria, Capodistria, Rovigno in giù, Zara compresa. La basilica è dalmaticamente a tre navate con le rispettive tre absidi e senza transetto. In compenso del transetto ha un bell'atriodavanti alla facciata, non unico come idea se pensiamo a sant'Apollinare in Classe, a Torcello di Venezia, alla stessa San Marco, al protoromanico di Pomposa che è del 1026 e all'umilissimoe commovente romanico di Lugnano in Teverina nella regione umbro-marchigiana. È unico di forma perché ha l'arconeprincipale in posizione laterale sicché la vera facciata della chiesa è lo spigolo sul quale s'alzail campanile che esternamente domina il tutto. Intelligente scelta urbanistica condizionata dalla piazzetta. La costruzione della torre campanaria che si è protratta per tutto il 1300, il '400ed il '500,presenta la cattedrale che le sta di sotto e di dietro, come fosse di stile gotico quando invece la scatola muraria è romanica. Il campanile ha il primo piano con due finestre per lato di stile gotico fiorito, come si può trovare nelle costruzioni pubbliche civili dell'Italiacentrale al di là dal mare di Traù. Il secondo piano è gotico pienamente veneziano: le due bifore per lato sembrano tolte pari pari da una facciata sul Canal Grande, inconfondibili perché il gotico a Venezia è stato longevo ed è entrato tranquillamente nello stesso Rinascimento. n terzo piano non ha più le ogive, ma due bifore per lato che di gotico hanno conservato solo la lungilinearità ed il ricamo quadrilobato sopra gli archetti a tutto sesto. La torre è tutta di marmo lavorato con somma finezza e termina nella grande piramide quadra come la cuspide del campanile di san Marco. La chiesa è pienamente romanica, anche nella copertura a crociere delle navate. L'atrioè tutto di marmo, ma il capolavoro è il portale, del maestro lapicida Radovano. È datato 1240 e l'operascultorea è importantissima per il suo valore intrinseco ma soprattutto perché si pone all' origine della stessa nuova scultura italiana arrivata per via di Puglia a Pisa e da Pisa a Roma. La storiografia istriano-dalmata italiana è stata finora condizionata dalla avversa storiografia di rapina iugo-croata. Di contro alla negazione delirante dell'italicitàveneziana delle nostre terre si è voluto alzare il muro difensivo della venezianità totale che non corrisponde alla verità storica completa. Un'opera storica uscita di recente come summa della partecipazione istro-dalmata alla civiltà italica, presenta una biografia del Radovano assai deludente. Vi sono citati i due leoni che sorreggono, uno per parte, le statue di Adamo e di Eva, la ricca simbologia dei girali vegetali e delle figure allegoriche; è riportata la foto del presunto autoritratto dell'autore,ma il commento si limita a queste parole: “La critica ha notato la mescolanza di forme lombarde e forme veneziane e l'influenzadell'Antelamidev'essereammessa, ed allora si può ammettere pure che Radovano vide le figure e le allegorie di Benedetto Antelami nella porta maggiore di San Marco a Venezia: motivo di più per un accostamento e una dipendenza della scuola scultoria dalmata da quella veneziana”. Nient'altro.Con la totale sudditanza alla scuola veneziana (e non è vero che Antelami sia il rappresentante della scuola veneziana) tutto dovrebbe quadrare. L'originalitàdel portale di Traù, che per il resto è una bella e aggiornatissima edizione dei portali in gran voga in Italia tra il romanico ed il gotico, sta nella lunetta che rappresenta a bassorilievo la Natività come Presepio. Nel 1240 sul lunettone del Duomo di Traù è stata scolpita una complessa Natività che esibisce caratteristiche marcate delle Natività che solo dopo qualche decennio saranno scolpite da Nicola e Giovanni Pisano a Pisa, a Siena e a Pistoia. Dopo un primo periodo di acquiescenza al piatto bassorilievo bizantino, a figure emergenti da un fondo altrettanto piatto, e particolareggiate da solchi incisi, viene tosto avvertita in Dalmazia l'ariadi rinascita romanica e poi gotica e preumanistica, e la scultura si arrotonda riprendendo la robusta plasticità, ispirata anche dagli evidenti contatti con l'arte lombarda e veneta ma soprattutto dal grande patrimonio locale di architettura e scultura romana. Significativo è quanto scrive Vera Fortunati As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it circa la basilica di san Nicolò di Bari iniziata nel 1087: “Se Roma era lontana e per quei tempi pressoché irraggiungibile, il suo patrimonio artistico si poteva conoscere nella Dalmazia, a Spalato, zona familiare ai pugliesi nelle lunghe scorribande di traffici e commerci”. Il lunettone del portale di Traù è stato scolpito 28 anni prima del pulpito di Siena di Nicolò Pisano, 62 prima del pulpito di Pistoia e del Battistero di Pisa di Giovanni Pisano. Arnolfo di Cambio scolpirà le statue del Presepio di Santa Maria Maggiore in Roma 55 anni dopo, e Giotto dipingerà la Natività di Padova dopo 65 anni. L'originalitàdella Natività di Traù consiste nel fatto che lo scultore ha posto i tradizionali motivi delle Natività bizantine distribuiti su una superficie senza prospettiva, senza peso e fuori dall'ordine cronologico, in un ordine coerente con la mentalità romano occidentale concretamente basata sul realismo della forza di gravità e sulla successione cronologica degli episodi. È, lo ribadiamo, un forte momento di occidentalizzazione della figurazione orientale e un grande rientro nella romanità, come nella Penisola non è ancora avvertito. Nell'angolaresinistro della lunetta, le pecore e i caproni, due dei quali dan di cozzo per loro conto mentre i pastori si scaldano al fuoco, annunciano chiaramente la loro parentela con i caproni che Nicola Pisano scolpirà 20 anni dopo a Pisa. Anche l'alberonell'angolare di destra, con le sue larghe foglie sul tronco contorto, annuncia l'albero scolpito di Siena. La caratteristica del letto, della culla e del vigoroso Bambino lavato, impostati e pensati con realismo, prende corpo ancora più preciso a Spalato nel quasi contemporaneo e forse precedente di 20-30 anni, lastrone di marmo inserito su una facciata del campanile della cattedrale. La Natività di Spalato offre qualcosa di più di una dura e goffa replica del timpano di Traù ricomposto in forma allungata come è stato di recente definito. Noi ci vediamo invece una forte e prepotente corposità ancora inedita ed uno stacco delle figure dal fondo. Il lavoro, che è di Radovano o meglio del Buvina, è un deciso inizio della composizione realista in un unico ambiente con le figure saldamente piantate al suolo. Lo stesso realismo è nell' Annunciazione sullo stesso campanile. Per chi non lo ricorda, Nicola Pisano è nato in Puglia, forse a Bari nel 1220, e si è trasferito a Pisa nel 55-'60.La Puglia era la prima regione della Penisola a sentire la voce della scultura romana riproposta agli artisti dal grande re Federico II. I giovani pugliesi praticavano la Dalmazia perché era per loro l'altraparte del canale di casa. Come poteva un giovane lapicida trascurare la conoscenza delle pietre romane così a portata di mano, e non interessarsi di quanto si stava costruendo e scolpendo a Spalato e Traù? Nel 1240 Nicola aveva 18 anni. Prima di trasferirsi a Pisa, ormai quasi quarantenne, ha visto la Natività di Traù e l'ha disegnata come s'usava,portando con se i disegni. Oltre al figlio Giovanni, è stato suo allievo anche Arnolfo di Cambio che porterà il messaggio a Roma. Gotico e Rinascimento “L'arte gotica venne (in Dalmazia) adottata tardi e abbandonata presto per il Rinascimento, stile verso il quale i dalmati dimostrarono una attitudine precoce. È naturale perche la Dalmazia era ed è densa di romanità”. Del gotico possiamo sì dire che è arrivato da Venezia. Sulle mille facciate delle case rimarrà in auge fino a tutto il 1500 così come nella stessa Venezia dove si costruivano ancora balconate ogivali dopo che le opere del Sansovino erano scuola di Rinascimento al mondo. Per Venezia città e repubblica, più che gotico era lo ‘stile veneziano’ e con questo nome è stato riproposto a Venezia, in Istria, in Dalmazia, a Spalato e perfino a Trieste, alla fine del 1800 e nel primo 1900. Il turista vede Venezia sulla costa istro-dalmata proprio per tanta dovizia di gotico veneziano sulle facciate delle rive e delle piazzette. Anche il gotico monumentale fu portato in Dalmazia da veneziani, forse dalla notissima famiglia di lapicidi identificata col suo mestiere, Delle masegne che vuol dire “dei macigni” cioè dei blocchi di marmo. Ma a Venezia lapicidi dalmati lavoravano già. Emblematico del gotico dalmata è il Duomo di Sebenico, che è già però una grande opera della Rinascenza. A Sebenico era in costruzione la cattedrale almeno dal 1430. Vi lavoravano come architetti e scultori un Pier Paolo creduto Delle Masegne, e poi identificato per Busato, con gli aiuti As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it Francesco di Giacomo e Lorenzo Pincino o Pincin, tutti veneziani. La chiesa stava sorgendo con le caratteristiche del gotico di S. Stefano, San Giobbe e Santa Maria dell'Ortodi Venezia, unica differenza evidentissima il bianco della pietra locale più conveniente del laterizio. Oggi la cattedrale di Sebenico ha colonne e arconi della navata gotici sui quali scorre una fascia di cornice a fogliame in volute gotiche. Le pareti esterne delle navate laterali sono in parte di quel periodo e così il grande portale della facciata. Gotico è anche il portale laterale chiaramente riferibile al portale di Traù del quale ripete anche i leoni reggi-colonne e le statue di Adamo ed Eva. È opera del dalmata Gregorio di Antonio. Le statue sono di Bonino da Milano che in Dalmazia si trovava come a casa sua e lavorava dappertutto assieme a tanti altri lombardi, toscani e d'altre regioni d'Italia. Dopo dieci anni di lavori venne ingaggiato un nuovo Proto, Giorgio di Matteo da Zara che aveva lavorato, in fama di artista provetto, a Venezia dove aveva messo su casa con moglie e figli sposando la veneziana Elisabetta, figlia del presidente della corporazione degli intagliatori in legno. Giorgio stava allora scolpendo per l'impresadei Bon, la famosa Porta della Carta del Palazzo ducale. Adolfo Venturi sostiene che Giorgio è stato, tra gli allievi del Bon, il più evoluto verso il Rinascimento: “Questa forma evoluta dell'artedei Bon si trova in Giorgio da Sebenico, tanto evoluta da non aver riscontro in tutta l'Italiae in tutto il secolo XV”. A Sebenico, dove si trasferisce da Venezia nel 1441, viene indicato nel contratto come: Magister Georgius lapicida, quondam Mathei de Jadra, habitator Venetiarum, ad praesens existens Sibinicj. Egli imposta il suo disegno nuovo e già nel 1443 è in grado di incidere sulla pietra il conseguimento della copertura delle absidi e del transetto con tetto e botte originalissimo: Hoc opus cuvarum fecit M(agister)r Giorgius Mathei Dalmaticus. La volta a botte è lavoro di pura scultura perché è congegnata in tanti lastroni di pietra tutti uguali e ricurvi, posti uno accanto all'altroad incastro su costoloni d'appoggio.Non c'èintercapedine o soffitta sicché la stessa lastra incurvata si vede dall'internoe dall'esterno.Nel 1447 è a Spalato, dove scolpisce con grande vigore la cappella del Rosario per le Benedettine e la cappella di S. Anastasio nella cattedrale, in simmetria a quella di S. Doimo eseguita da Bonino da Milano. È molto celebre la formella della flagellazione con le figure vigorosamente animate e colte nell'attimo fuggente, paragonata al Donatello di Padova. Nel 1451 è a Zara dove fa estrarre e sbozzare pietre delle cave locali, su richiesta di Leon Battista Alberti che a Rimini, sull'altrasponda, sta costruendo il Tempio malatestiano ricoprendo la preesistente chiesa gotica di san Francesco di un involucro ispirato all'architetturaromana antica. Con l'Albertiè dunque in contatto di collaborazione forte e non può aver svolto le delicate funzioni senza avere tra le mani una copia del progetto del tempio. Con l'Alberti, o quantomeno col costruttore dell'Alberti,Matteo de Pasti, non può non essersi incontrato e non può non aver visto il modello. Le pietre venivano lavorate prima dell'imbarco. Vincenzo Fasolo scrive: “Fatto interessante questo, per la conoscenza che egli acquista dell'artedi quella chiesa e dell'Albertiche dobbiamo annotare per la coincidenza, probabile, del terminale tricuspidato della facciata, del quale Giorgio poté avere visione dal modello”. Qui entra in discussione la originale facciata di Sebenico che termina appunto non a capanna puntuta, ma a semicerchio perfetto sul prospetto della navata centrale, e ad archi di cerchio sui prospetti delle navate laterali. Giorgio assume quale primo collaboratore il già rinomato Nicolò Fiorentino, allievo del Donatello. li Fiorentino ne continuerà l'operae completerà la copertura delle navate, la cupoletta centrale e la facciata, rispettando, per contratto, il modello del maestro. Apollonj Ghetti e Luigi Crema, hanno scritto nel 1943 a proposito della facciata a tre curve di Sebenico: “Come è noto, l' edificio fu terminato da Nicolò Fiorentino. Ma se, come appare probabile, egli non fece che dare esecuzione al modello preparato da Giorgio, si avrebbe in questa facciata, logica espressione delle retrostanti strutture (traenti forse più remote origini da forme romaniche proprie a talune chiese pugliesi), il primo esempio di quelle terminazioni semicircolari che Mauro Coducci introdusse nel Rinascimento veneziano, con S. Michele in Isola e S. Zaccaria”. Gli illustri studiosi - e ciò a noi ora interessa molto - propongono per le coperture a botte di Giorgio, una possibile derivazione romanica pugliese. Riconoscono poi a Giorgio il merito - lo fanno col minimo di cautela dovuto As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it all'ufficialitàdella loro pubblicazione - di aver suggerito la sua nuova forma di facciata al bergamasco Coducci che nel 1469 costruirà a Venezia S. Michele in isola col triplice coronamento curvilineo, ripreso in forma grandiosa anche sulla facciata di San Zaccaria dove il Coducci ha lavorato dal 1480 al 1515, nella Scuola di S. Marco eseguita assieme a P. Lombardo tra il 1487 ed il 1495 e a Santa Maria dei miracoli, dal 1481 al 1489. Di queste chiese però soltanto la piccola Santa Maria dei miracoli ha la facciata a semicerchio corrispondente al profilo del tetto, ma il tetto è di legno rivestito di piombo. Quelle del Coducci quindi sono eleganti decorazioni scenografiche non funzionali, che mascherano normali tetti a tre spioventi coperti di coppi. Il rapporto di lavoro di Giorgio con l'Alberti per il Tempio malatestiano di Rimini è però decisivo. Il tempio di Rimini è rimasto infatti incompiuto ed oggi la sua facciata si presenta a forma di arco trionfale romano a tre fornici, con la parte superiore mai eseguita. L'Alberti,da quel teorico che era, ha giocato su tutte le sue facciate con le curve, con i timpani triangolari e con le volute, senza decidere mai. Il modello di Giorgio, approvato ed esposto dal 1442, può avere esercitato una temporanea influenza sull'Alberti? Ciò capovolgerebbe i termini, ma anche quanto sembra temerario può avere un fondamento. La medaglia del Tempio, modellata per incarico del duca Sigismondo Malatesta dallo stesso Matteo de Pasti, ci documenta incontrovertibilmente che la parte alta terminale di Rimini era stata progettata a semicerchio centrale e a due archi laterali proprio come quella di Sebenico. La medaglia porta la data: MCCCCL -1450. Nel 1450 Giorgio non può non averne avuto sotto gli occhi una copia dato che nel ’51 spedì al de Pasti le pietre già pronte. L'originalitàdi Giorgio sta comunque nell'ideaunitaria della copertura delle navate cui la facciata aderisce con esattezza per rispecchiare lo spazio interno. Solo l'ideatoredel tetto scolpito a scrigno poteva concepire la facciata corrispondente. Invidia di campanile e ruggine interessata di consolidate impalcature di storiografia baronale sfiorano questi argomenti senza volerli mai approfondire. Puglia romanica, Rimini proto-rinascimentale del sommo teorico Alberti, Rinascimento veneziano del Lombardo e del Coducci, gravitano attorno al modello realizzato per primo a Sebenico dal silenzioso Magister Georgius de Jadra, in arte Dalmaticus, che in casa, lui che era di Zara, con la moglie veneziana e i figli nati a Venezia dove possedeva tre case, parlava dalmatico-veneto ma fuori, al mondo dell'arte,parlava nella più aggiornata lingua italiana d'avanguardia.Nel 1451, per otto anni, Giorgio è ad Ancona. Nel 1461 è a Ragusa chiamato da quella repubblica marinara indipendente per la celebre torre Minceta. E poi a Pago per disegnare la pianta urbanistica della nuova città voluta dal governo veneto e vi riprogetta il palazzo vescovile e la chiesa di san Nicolò. Si è scritto che sono idee sue la facciata della cattedrale di Ossero ed i portali di linea gemella di Ossero e Cherso, ma la facciata armoniosa di Ossero è liscia come le facciate gotiche di Muggia e della Madonna grande di Treviso. Sulla lunetta del portale di Cherso c'èdal 1495 la copia di marmo a bassorilievo, esatta in tutti i particolari più minuti, della contemporanea Madonna degli Alberetti dipinta del Giambellino e conservata alla Galleria dell' Accademia di Venezia. Giorgio Dalmatico degli Orsini di Zara, impropriamente chiamato da Sebenico va qua e là per l'Adriatico e così Andrea Alessi e così Nicolò Fiorentino, che lascia molte belle sculture in Dalmazia, lavori nelle isole Tremiti davanti al Gargano e soprattutto a Traù dove esegue la cappella del beato Orsini, opera poderosa più liberamente rinascimentale del monumento al doge Francesco Foscari nella basilica dei Frari di Venezia. Il Nostro muore nel 1475 lasciando incompiuta a Civitanova Marche la facciata del Duomo. È una constatazione doverosa che l'operadi Giorgio, architetto e scultore, è già chiaramente rinascimentale in Dalmazia, mentre è ancora gotica sul versante delle Marche. L'Adriatico occidentale non era ancora diffusamente preparato alla novità. L'antica toga romana veniva ritessuta partendo dal suo splendido orlo dalmata. Anche nei lavori anconetani di totale apparenza gotica, quali la Loggia dei mercanti, la facciata, con grandioso Portale, di S. Francesco delle scale, la Loggia e il Portale di S. Agostino e forse il Palazzo Bonincasa, i fermenti rinascimentali sono però evidenti nella tendenza compositiva alla forma quadrata, cioè all'equilibrioclassico, e non alla forma rettangolare cioè allo squilibrio As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it verticale, o al triangolo allungato verso il vertice di quando il gotico scaturisce dal cuore. A Sebenico, sulla cornice orizzontale che corona all'esterno l'alto zoccolo del complesso absidale, Giorgio ha fatto sporgere una serie continua di teste a tutto tondo: vivacissimi e popolareschi ritratti, tutti differenti, di una arguta umanità cittadina. I croati, contro l'evidenza,ripetono che si tratta di tipici volti di razza croata. I compilatori delle guide turistiche non si sono accorti che Giorgio ha posto una cornice di teste così anche ad Ancona, tutt'attornoal portale di San Francesco delle Scale. Sono musi croati anche quelli? O belle facce della stessa gente adriatica? In Dalmazia la facciata delle chiese alla Sebenzana ha repliche in S. Maria di Zara, in s. Salvatore di Ragusa, nel Duomo di Lesina, per citare le più importanti oltre alle repliche Coducciane in Venezia. *** Nello stesso secolo di Giorgio la Dalmazia ha dato due altri eccelsi protagonisti al Rinascimento italiano, Luciano e Francesco Laurana che pare siano nati nello stesso borgo dell'agrozaratino e nello stesso anno 1420 senza essere né gemelli né fratelli. Si vede che su Urana o Vrana è passata quell'anno una stella speciale. Luciano morirà a Pesaro ne11479, Francesco ad Avignone nel 1502. Quando Giorgio, si calcola a quarant'anni,si stabilì a Sebenico, loro ne avevano 21. Si deve pensare ad un loro iniziale approccio col mestiere in Zara e poi ad un soggiorno a Venezia, alla quale Zara era ritornata nel 1410 dopo aver passato sotto la corona d'Ungheriaun cinquantennio feudale insopportabile per la mentalità e le esigenze vitali dei comuni marittimi adriatici. In quei primi decenni del '400perciò la Dalmazia si sentiva liberata e fioriva di vitalità a lungo repressa, tutta protesa verso l'occidente italico di cui si sentiva intimamente parte. A Venezia e nel Veneto erano passati tutti i massimi maestri, Giotto, Antelami e poi Donatello e anche il Brunelleschi che era nato nel 1377, mandato dal cielo per dar nuova forma all'architettura già per centinaia d'anni smarrita, a detta del Vasari. La cappella Pazzi è del 1430. Del 1421 è il porticato dell'Ospedaledegli Innocenti. Del 1432 è S. Spirito di Firenze. Nel 1436 è finita la enorme cupola di Santa Maria del Fiore che dal ’17 teneva il fiato sospeso al mondo intero. Giorgio è per tutto quel periodo a Venezia, dove annota tutte le notizie di prima mano. Il modellino della cupoletta di Sebenico non può non essere stato eseguito sul modello approvato nel 1442, se non nell'influenzadel cupolone brunelleschiano. Certo, come ingegneria è tutt'altracosa perché si può dire una scultura, ma la forma è quella, con i costoloni fortemente evidenziati all'esterno. Il più giovane Luciano Laurana ha capito il Brunelleschi forse ancor più intimamente di Giorgio e lo dimostra in quell'ideaplatonica fatta architettura reale che è il cortile porticato del Palazzo ducale di Urbino costruito nel 1468 -1472 tenendo un occhio teso all'Ospedale degli Innocenti. Prima, durante o appena dopo il soggiorno a Venezia, i Laurana non possono non essersi incontrati con Giorgio. Adolfo Venturi ha voluto individuare in due angeli scolpiti nel duomo di Sebenico lo scalpello del giovane Francesco. Altri hanno intravisto lo scalpello del Laurana sugli angeli, ugualmente flessuosi ma più stiacciati, nel Tempio malatestiano di Rimini. Comunque le strade dei tre dalmati procedettero divise per percorrere le due sponde dell'Adriaticoe andare molto oltre. *** Le vite dei due Laurana sono misteriose come il fascino dalle opere, d'architettura di Luciano e di scultura di Francesco. È certo che seppero frequentare e capire i più grandi maestri del secolo e divenire così eccelsi da subire un rispettoso isolamento per la troppa originalità ed elevatezza. Idea platonica è il cortile urbinate di Luciano, idee platoniche sono i busti femminili di Francesco. Luciano è stato a contatto diretto con l'Albertiattorno al 1465 a Mantova dove gli si attribuisce il cortile di san Giorgio del palazzo ducale. Ad Urbino nel 1468, per il Duca Federico da Montefeltro allora padrone di fatto d'Italia,ampliò tutti gli spazi del palazzo a misura della corte principesca As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it centro di tutte le menti somme dell'umanesimo.Il cortile è un “mirabile prodigio di proporzione, di musicalità e di leggerezza: ogni elemento ha vita rarefatta, ma la rarefazione non esclude, anzi, sottolinea la freschezza letificante ...”. La cosiddetta facciata a ponente, svela analoga freschezza nell'accordarsi,sia con gli altri volumi, sia col paesaggio, realizzando un 'intelligentissimasoluzione urbanistica. Ha scritto Paolo d'Ancona:“Il palazzo d'Urbino... trova una probabile fonte di ispirazione nel palazzo di Diocleziano a Spalato. ... Luciano Laurana, dalmata, è il terzo grande architetto del Quattrocento, che come il Brunelleschi e l'Albertitrasse ispirazione dalla tradizione classica espressa attraverso tipi architettonici romani ... [ma] a differenza del Brunelleschi e dell'Alberti,il Laurana non si ispirò a tipi architettonici della prima età imperiale, quali il Pantheon e il Colosseo; per la sua origine dalmata da Zara, poté invece studiare un esempio del tardo impero: il palazzo di Diocleziano a Spalato del IV secolo d. C. ... Al linearismo brunelleschiano e alla monumentalità albertiana, si accosta così l’elenganza spaziale del Laurana”. A Napoli il suo nome è legato ai due potenti torrioni di Castelnuovo tra i quali, forse anche lui stesso ma certo Francesco, daranno impronta decisa al portale costruito come arco trionfale di Francesco I d'Aragona. Vi sono presenti, per la prima volta nella Rinascenza, le colonne binate dell' Arco dei Sergi di Pola. Nel 1476 erige la rocca di Pesaro. Sua è la rocca di Senigallia. Ad Urbino sono a lui attribuiti altri palazzi, la loggia dell'ospedale, parte della chiesa degli Zoccolanti, la casa Luminati. È presente nella rocca di Sassocorvaro e nel palazzo Limi di Rimini. La sua sensibilità urbanistica non può non averlo portato al dibattito, allora attualissimo, sulle città ideali. A lui da taluno sono stati attribuiti tutti o in parte i tre dipinti di prospettive urbane (musei di Berlino, Urbino, Walters di Baltimora), delle quali abbiamo già accennato parlando del mausoleo ottagonale di Diocleziano. *** Francesco Laurana ha forse eseguito alcune sculture del Palazzo di Urbino. Nel 1452, a 32 anni, è già a Napoli dove incontra la scultura di Michelozzo, che ha lavorato anche a Ragusa, e del catalano Sagrera, primo progettista dell'arcodi Alfonso che probabilmente con Luciano trasformerà in corso d'opera.Dal 1458 al '67è in Provenza per Renato d'Angiò e vi assorbe qualche squisitezza del tardo gotico che saprà usare con intelligenza in Sicilia dove lavorerà intensamente dal 1467 al '71realizzando la cappella Mastrantonio del Duomo di Palermo, la Madonna di Noto con altre madonne soavi, e i busti-ritratto idealizzati eppure somiglianti, di Eleonora e di Beatrice d'Aragona. Francesco in Sicilia inaugura il Rinascimento. Questo merito non gli è conteso da alcuno. In seguito alla visita a Palermo di Federino di Montefeltro, dopo il 1472 è ad Urbino dove per il Duca scolpisce, dal modello della maschera mortuaria, il ri-tratto celeberrimo della duchessa Battista Sforza. I suoi numerosi busti di nobili donne lo hanno reso famosissimo. Francesco ci ha impresso il massimo della rarefazione astratta dei volumi mossi in volute ascensionali metafisiche che nulla tolgono alla monumentalità regale ma sempre umana. Ha saputo cogliere le lezioni di Piero della Francesca e di Antonello da Messina per essere lui stesso in modo insuperabile. *** Nella nostra panoramica trimillenaria non possono entrare se non i massimi esponenti del tema che andiamo svolgendo. L'innumerevoleschiera di tutti gli altri valenti uomini della cultura istriana e dalmata devono essere sottintesi. Non va sottaciuta però l'operadi Giovanni Dalmata da Traù, nato nel 1440, allievo forse dell'Alessisocio di Nicolò Fiorentino e allievo-collaboratore di Giorgio. A Roma, dove acquistò fama, fu allievo di Paolo Romano e lavorò con Mino da Fiesole e poi con Andrea Bregno veneziano, e da solo, lasciando la tomba di papa Paolo Il, ora smontata, il sepolcro del Cardinale Roverella in San Clemente, opere a Palazzo Venezia, stemmi papali insuperabili, lavori ad Aracoeli, S. Maria del Popolo, SS. Apostoli. È stato scritto che ai suoi lavori si è ispirato Andrea Sansovino. In Ungheria ha scolpito i ritratti di Beatrice d'Aragona e Mattia Corvino; a Venezia, a fine secolo, il busto vigoroso di Carlo Zen ora al Museo Correr. Scultore gentile dal piglio deciso, ad Ancona è presente col monumento Gianelli in Duomo. Ha lasciato a Roma la firma: Opus Ioannis Dalmatae, sul noto bassorilievo della Speranza. As s ociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia : : www.anvgd.it *** Ai grandi dalmati del XV secolo ha dedicato, nel 1966, una bella pagina Francesco Negri Arnoldi in una collana di massima divulgazione: “Non spetta soltanto ai lombardi il merito dell'incrementodella scultura rinascimentale ... ché spesso ben più valido e significativo fu il contributo di artisti provenienti dalla Dalmazia, regione soggetta all'influenzaculturale del Veneto e della Lombardia sin dal periodo romanico, ma fecondata anche dall'artetoscana attraverso l'operadi Michelozzo (chiamato per i lavori del Palazzo dei Rettori a Ragusa) e più tardi di Niccolò Fiorentino (collaboratore di Andrea Alessi alle sculture della Cappella Orsini nel Duomo e autore della Tomba di Giovanni Sabota in San Domenico a Traù). Assai più colti dei lombardi, e più di loro aperti alle conquiste rinascimentali, si mostrano infatti questi artisti dalmati ... Così il grande architetto Luciano Laurana, iniziatore del Rinascimento urbinate; così gli scultori Francesco Laurana, attivo a Napoli, in Sicilia e in Francia, e Giovanni Dalmata, il più dotato dei maestri nordici operanti a Roma in questo periodo. A questi artisti va aggiunto il nome di Giorgio Orsini da Sebenico, che ad Ancona eseguiva i Portali delle Chiese di Sant'Agostinoe di San Francesco e la Loggia dei mercanti. In patria Giorgio lavorava fin dal 1441 alla fabbrica del Duomo di Sebenico, alla cui direzione succedeva poi nel 1477 lo stesso Niccolò Fiorentino. L 'operaarchitettonica, come quella scultorea del maestro Dalmata, al quale spetta in parte anche la decorazione plastica del Duomo di Sebenico ... appare caratterizzata dal felice accordo tra il senso di grandiosità classica (certo ispirato alle rovine del Palazzo di Diocleziano a Spalato) ed una energia e fermezza di forme tipicamente lombarde. A volte inoltre (come nei rilievi che ornano l'Arcadi Santo Anastasio a Spalato) l'artedi Giorgio da Sebenico si accende ad un dinamismo espressionistico, ad una vivace animazione che non è possibile non attribuire ad una, sia pur indiretta. influenza dell'opera padovana di Donatello. Ed è opportuno ricordare a questo punto che tra gli aiuti del maestro fiorentino durante il periodo di attività padovana figurava anche un Francesco da Ragusa”. Luigi Tomaz