SCHEDA SPETTACOLO “L`ULTIMA MADRE” DI E CON AFRA

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SCHEDA SPETTACOLO “L`ULTIMA MADRE” DI E CON AFRA
SCHEDA SPETTACOLO “L’ULTIMA MADRE”
DI E CON AFRA CRUDO
Durata 1H
SINOSSI
Una donna anziana, rinchiusa in un mondo angusto e opprimente, è portata a vivere ricordi,
memorie sepolte, stati di coscienza, fantasmagorie e deliri in una trasformazione continua da
una figura a un’altra. Il succedersi delle metamorfosi scaturisce da un dialogo interno che trova
la sua logica in una dimensione stregonesca.
Si tratta di un universo povero, fatto di reclusione, solitudine e violenza, che parla del vissuto al femminile dell’Italia
contadina del meridione e di come una certa cultura patriarcale e repressiva abbia portato alla creazione del maligno. La
preclusione agli orizzonti del mondo e il conseguente ripiegamento su di sé, nell’oscurità di una casa senza finestre,
hanno plasmato nel tempo un’attitudine stregonesca, fatta di scissione interna e visione del Male in ogni gesto del
quotidiano. Questa forma di pensiero, legata a sottili azioni d’istigazione continua all’aggressività e alla diffidenza verso
l’altro, si è concretizzata tragicamente in un assassinio: mia nonno fu ucciso dal vicino di casa e lei fu incolpata di
complicità nell’assassinio. Questo evento non ha fatto altro che portare all’esasperata convinzione della presenza del
maligno da sconfiggere: la partecipazione alla Messa cattolica e la frequentazione del mago non costituiscono più una
contraddizione, ma un’elaborazione perfetta per dominare il Mostro, dentro e fuori di sé, attraverso una ritualità
composta di fatture e contro fatture.
Il quadro psichico dei personaggi
Ispirandomi alla vita di mia nonna, che si svolse interamente in un ambiente contadino delle Puglie, ho
creato dei quadri di donne, ognuna con una sua specificità e carattere, volti a cogliere dei momenti
importanti della sua esistenza o della sua modalità di stare nel mondo: la sposa, la cartomante, la
posseduta, la prostituta, la vecchia. Ognuna di queste figure contiene un talento e una potenzialità
destinati al fallimento.
La sposa
E’ stata messa a fuoco a partire da una frase di Osho che mi aveva particolarmente colpito: “Per molti
sposarsi significa terminare di vivere e stare chiusi per sempre in una bara, sono già morti”. Mia nonna,
sposata giovanissima, ha, di fatto, vissuto per la maggior parte del suo tempo rinchiusa in una casa senza
finestre; la sua vita è stata un carcere e suo marito il carceriere. Il matrimonio si è tradotto in
un’autorizzazione alla violenza e all’oppressione. La sposa, rappresentata come danzatrice fallita, come
metafora di un progetto di realizzazione personale tarpato, costituisce un potenziale di vita consumato
nelle mura di un sogno sbiadito e corrotto per sempre. In scena una giovane donna vestita di bianco e
insanguinata viene fuori da una bara/letto, come una morta-vivente, per “raccontare” la sua storia.
La cartomante
Dopo la morte di suo marito, mia nonna si era votata alla magia e alla frequentazione della chiesa. La sua
era una visione magica degli accadimenti, impastata della cultura del magismo meridionale: a casa
si dedicava regolarmente a compiere rituali di fatture e contro-fatture. La frequentazione del mago la
sollevava e costituiva un rifugio per arrivare ad accettare l’invasione del male e della solitudine nella sua
vita. Aveva una personalità doppia e imprevedibile: poteva essere tanto dolce e gentile quanto trasformarsi
con cattiveria e aggressività e mostrasi con un altro volto. Questa figura mette in atto una possibilità di
esorcismo del male oltre che ad aprire il varco a un’energia che, rimasta inespressa, si rivolta diventando
aggressiva e brutale. Anche in questo caso il segno negativo pesa in modo preponderante sulla bilancia del
bene e del male. La figura del mago è compresa dentro di lei: scenicamente è colta nella sua trasformazione
in un essere dispotico ed esaltato, volto a terrorizzare, nel tentativo di affrontare una propria paura più
profonda e soverchiante.
La posseduta
La presenza del male pervade e corrode ogni aspetto del quotidiano. Si sedimenta una forma di pensiero
delirante, per cui qualsiasi gesto, rumore, accadimento costituisce fonte di angoscia. Istillando sempre più
in profondità gocce di veleno all’interno del proprio ambiente familiare, contribuisce a sviluppare il quadro
nel quale si configura l’omicidio di mio nonno ad opera del vicino di casa. Mia nonna viene incolpata per
istigazione: il senso di colpa aggrava il suo stato psicologico. Il mostro, fuori e dentro di sé, diventa
onnipresente… la lotta estrema e sempre più sconvolgente; il sangue scorre. Teatralmente: un angelo,
vecchio, cerca di affrontare qualcosa di più grande di lui, ma ne rimane schiacciato; la figura angelica si
“risolve” in una sorta di scarafaggio kafkiano. Gli studi di De Martino sul mondo della magia e del rituale
della tarantella dell’Italia meridionale sono stati di appoggio nell’ideazione della scena.
La prostituta
Tra la visione del male s’inserisce la questione sessuale. Spesso agli occhi di mia nonna, per una ragione o
per l’altra, le donne risultavano “puttane”. La tematica sessuale la turbava e la travagliava tanto che
leggeva una sessualità malata in ambiti dove non esistevano neanche i presupposti per pensare al sesso. Il
mio ricordo di bambina della sua stanza da letto, più simile a una camera mortuaria e segreta, è indelebile.
La costruzione della scena è ispirata a un racconto di Mishima, tratto dai “Cinque No”. In uno di essi una
vecchia mendicante e strega incontra un giovane poeta che, percependola come una giovane bellissima,
s’innamora. Il prezzo della sua visione irreale e allucinata è la morte. La sessualità diventa un fantasma
persecutore.
La vecchia
Questa figura, che all’inizio era appena abbozzata, ben presto sparì dalla costruzione dei diversi quadri. Alla
fine del percorso, mi sono resa conto che, essendo l’origine di tutte le altre figure di donna, non poteva
essere che lei a condurre il gioco teatrale e a fondare l’assetto di tutte le altre immagini, come derivanti da
una sua emanazione, che vanno di volta in volta a raccontare di una frattura dell’anima. Da un punto di
vista più psicologico o psicanalitico, la rappresentazione delle varie donne è stata trattata come se
testimoniassero di una stratificazione di esperienze e di entità psichiche, depositate nella memoria
familiare e antica; come archetipi e/o potenze attive nell’eredità della costruzione dell’anima. In questo
senso ho voluto chiamarla “L’ultima madre”.
Le musiche
L’intervento della musica è di particolare importanza in questo spettacolo: nel caso del personaggio della
sposa, la musica di Salinnen è stata ispiratrice nella creazione della scena, ogni gesto e azione scenica è
stato creato a partire dalla musica. Il personaggio si è sviluppato dalla partitura sonora e con essa
dall’immaginario che mi si è aperto. In tutti gli altri casi la musica interviene per creare una dimensione e
uno stato d’animo a sostegno del percorso dei pensieri ed emozioni della vecchia. Tra le musiche ci sono
anche delle voci, la radio e dei rumori appartenenti alla quotidianità. Alcune volte la musica proviene
dall’esterno per influire sullo stato d’animo dei personaggi; altre volte, invece, è come se fosse
un’elaborazione interna che si dirige l’esterno e che, in alcuni casi, risulta allucinata o provocata da un
ricordo. Mi è sembrato importante far intervenire una parte di quotidianità sonora, tipo il cane che abbaia,
i gocciolamenti, i rumori di primavera o di pioggia, per agganciare dei quadri di sogno, di ricordo o
allucinazione a una realtà più schietta e ordinaria, ma anche per dare un certo respiro al passaggio da una
scena all’altra. La radio, che costituisce l’unico elemento di compagnia alla vecchia, alla fine approfondisce
e scava nel senso di solitudine che percorre l’evoluzione del personaggio. In alcuni casi è un pretesto atto a
riempire il vuoto della giornata, in altri c’è un vero e attento ascolto, come nel caso della messa, ennesimo
tentativo disperato di trovare sollievo alle proprie ferite d’isolamento e di ripiego doloroso nel passato della
propria vita. E’ stato inoltre compiuto un innesto sulla musica di Purcell “The King Arthur”, interpretata dal
cantante lirico americano Klaus Nomi. All’incedere inesorabile della musica, dove è cantata una progressiva
e ineluttabile morte per assideramento, sono sovrapposti degli ansimi via via sempre più incalzanti e
spasmodici di un coito esasperato. Un senso di morte attende chi rimane imprigionato nel gelo, ma anche
colui che è preso nel raptus di un movimento convulso. In un contesto dove la vita e la morte sono a
confronto, la vecchia appare giovanissima e la giovane vecchissima, con uno sfasamento del senso dello
spazio-tempo. Un viaggio nel tempo che prende la forma dell’interrogatorio, in cui la lotta per la
sopravvivenza è viscerale. Eros e Thanatos cercano il loro trono.
Il lavoro fisico
I personaggi parlano fondamentalmente attraverso il loro corpo: la danza butoh è stata usata per creare la
figura della vecchia e dare un senso di decadenza fisica, frutto di osservazione giornaliera delle posture di
anziani. Nella scena della cartomante ho studiato i movimenti di Hitler nei comizi e li ho mischiati a dei
movimenti spezzati, frutto della mia immaginazione, per dare l’idea di un’immagine spaccata. Durante il
periodo delle prove feci un sogno: tra le mie braccia un neonato con la faccia di Hitler. Ho capito che nella
mia “casa” ospitavo un “piccolo” despota che, a tradimento, tirava le fila della mia coscienza……sono
andata a studiarmi il comportamento del dittatore durante i comizi, ho pensato che i suoi gesti inconsulti e
isterici erano di un’efficacia straordinaria e davvero molto teatrali. Immaginandomi di trasformare la scena
teatrale in una cattedrale mastodontica, riempita di adepti, ho dato sfogo al mio delirio personale di
potere, proprio quello che mia nonna cercava per affrontare il peso della vita che la schiacciava come un
macigno; delirio consumato nelle mura della solitudine più totale: nessun podio, nessuna massa
testimoniava del suo potere. Nella sposa ho mischiato il butoh con la danza classica, studiata nei primi anni
del mio percorso. La sua camminata è quella di uno scheletro che porta dietro di sé il ricordo delle
presenze-assenze degli antenati, la sua danza un tentativo di rinascita che appassisce nel suo destino di
morte. Nella scena erotica l’idea di mantenere la maschera è arrivata successivamente, ma l’inserimento di
questo elemento mi ha portata a studiare i movimenti come se il corpo fosse spaccato in due; dal busto
verso l’alto doveva essere vecchio e muoversi da vecchio, dalla vita in giù, giovane. In questo modo si è
delineata un’ulteriore figura mostruosa. Nella scena dell’angelo ho mischiato danza contemporanea e
butoh: all’inizio questa scena è stata realizzata come una danza di possessione, una sorta di tarantella, un
tentativo di liberazione dal male, coreografata usando la danza africana. Nel momento in cui la vecchia è
diventata il personaggio principale ho dovuto cambiare la cifra della scena: l’aggiunta delle ali costituisce la
metafora di un tentativo di liberazione e di volo; i movimenti presi dalla danza afro, asciugati e trasformati
attraverso il butoh, devono dare il senso di animalità feroce e della lotta all’ultimo sangue. In generale ho
cercato di usare un linguaggio corporeo dedicato ad ogni personaggio e a il suo tipo di fisicità, mettendo a
frutto le esperienze raccolte nel mondo della danza classica, africana, giapponese.
Ho sempre pensato e sentito che la danza e lo studio del movimento non potevano essere fine a se stessi,
ma che fosse necessario contestualizzarli per dare un significato al vissuto del corpo. Corpo che, attraverso
la tecnica, diventa un canale per accedere al simbolico e al metaforico, all’interno di un quadro teatrale.
Corpo che può accedere alla dimensione dell’invisibile e tradurne la sua presenza. Il Butoh, in questo senso,
non fornisce una codificazione precisa dei movimenti, ma a partire da un immaginario lascia che sia il corpo
a trovare la sua forma e la sua presenza, lascia che sia l’esperienza di vita a trascrivere il suo linguaggio.
Commento di Giampaolo Verga
Il lavoro di Afra Crudo mi riporta alla mente le parole di P. Szondi sulla poesia Engfuehrung di Celan: “Il
testo stesso rifiuta di porsi al servizio della realtà, di continuare a giocare il ruolo che gli si assegna a partire
da Aristotele". La poesia cessa di essere mimesis, rappresentazione: diventa realtà. Realtà poetica,
beninteso, testo che non segue più una realtà, ma si progetta esso stesso, si costituisce in realtà.
Anche L’ultima madre -con le sue figure davvero “border/line”, polivalenti e ambigue fino all’ibrido, ma
nello stesso tempo precise, messe a fuoco fin nei minimi dettagli- ci conduce nella sua “landa”, a volte
desolata, a volte onirica o stregonesca.
Niente a che vedere, però, con il mondo autoreferenziale dell’Art pour l’art. All’origine di questo lavoro c’è
l’esistenza tragica di una donna e il suo rapporto angoscioso fino al delirio con la questione del dolore e del
male, sia patito che inflitto; formidabile è nello spettacolo la compenetrazione vittima/carnefice.
Ritornando alle parole di Szondi: “La sostituzione del testo-realtà al testo-rappresentazione (che, si dice, è
al servizio della realtà), lungi dall’esprimere ciò che s’intende con estetismo, discende, proprio all’opposto,
dalla volontà e dalla preoccupazione del poeta di rispettare la realtà della morte, la realtà dei campi di
sterminio, invece di pretendere di fornirne un’immagine poetica. Al contempo, egli pone in atto la realtà
estetica della sua poesia, che è quasi interamente votata alla memoria dei morti”.
Innanzitutto dunque (anche nei momenti più eclatanti e a tratti in certo modo grotteschi) il pudore, o,
come ebbe a dire Adorno, la vergogna dell’arte al cospetto della sofferenza.
E’ proprio partendo da questa rinuncia, da questo iato incolmabile ma pur sempre percepibile tra l’arte e la
vita, che la straordinaria forza magnetica del linguaggio corporeo di Afra riesce a far risuonare l’aspetto più
profondo e oscuro di una vicenda umana, irriducibile a ogni narrazione e a ogni catarsi, aristotelica o rituale
che sia.
E’ anche e forse soprattutto in virtù di questo “irriducibile” che il lavoro assume un respiro più ampio e ci
interroga (ovviamente non in senso logico-speculativo) sul mistero del dolore, del male e della morte.
La vulnerabilità e il bisogno dell’altro/Altro di queste figure –per un verso estremamente peculiari e
connotate al femminile- diventano così anche fragilità e anelito nei quali ciascuno di noi si può in qualche
modo riconoscere, perché puramente “creaturali”.
Anche da qui, forse, il coinvolgimento emotivo che spesso “assale” chi assiste a questo spettacolo, senza
che esso ostenti alcunché o che rompa delle pareti fisiche.
E’ solo da questa condizione che, nell’ultima scena, questa vecchia radicalmente sola ed esausta si
avventura sulle meravigliose note di Bach, in una danza al tempo stesso claudicante e armoniosa:
... es sind
noch Lieder zu singen jenseits
der Menschen
(... ci sono
ancora melodie da cantare oltre
gli uomini)
Celan, Fadensonnen
Concept e regia: Afra Crudo
Attrice-danzatrice: Afra Crudo
Scenografia: Ass. Terra del fuoco Silvia Moro, Antonella Spina
Musiche e arrangiamenti sonori a cura di: Giampaolo Verga, Andrea Miranda, Afra Crudo
Luci e foto: Nicola Righetti
Costumi: Afra Crudo
Tenico Luci: Beppe Sordi
Realizzazione maschere: Natale Panaro