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Archivio del sistema carcerario dell’Autorità inglese
Documento n. 498. Trascrizione recuperata nel centro di
detenzione di Lancaster
Dichiarazione di prigioniero di sesso femminile detenuto ai
sensi del Comma 4(b) della Legge speciale per la prevenzione delle insurrezioni
Mi chiamo Sorella.
È il nome che mi è stato assegnato tre anni fa. Gli altri mi
chiamavano così. Io stessa lo uso. Quello che avevo precedentemente, è irrilevante: non ricordo che venisse usato e se
mi chiameranno così non risponderò, né lo pronuncerò ad
alta voce. Non darò segno di riconoscerlo. Non esiste più.
D’ora in poi chiamatemi Sorella.
Sono stata l’ultima donna ad andare alla ricerca di
Carhullan.
Era un ottobre fradicio quando partii. In città iniziavano
a cadere le foglie e il terreno era ricoperto di una poltiglia
giallastra. Sulle regioni del Nord si abbattevano gli ultimi
temporali e acquazzoni. L’estate era ormai alla fine, e pareva
che nell’atmosfera si stesse aprendo una breccia, da cui alla
notte e al mattino filtrava aria un po’ più fresca. Era un sollievo non svegliarsi più sudati sotto le lenzuola della nostra
stanza all’interno degli alloggi comuni, non uscire più da un
incubo rovente con un velo umido e lattiginoso sul petto.
Ho sempre dormito meglio d’inverno, mi sembra che il mio
battito vada più lento.
Era come se il fresco purificasse anche la città. La sera,
quando le nuvole si diradavano e il caldo si attenuava, la
puzza di fermentazione che proveniva dalla raffineria e dagli impianti per la produzione di combustibile tendeva a
disperdersi. Dalla Riorganizzazione Sociale in poi, l’umidità
estiva durava sempre di più e la stagione fredda era confinata in un periodo sempre più ridotto dell’anno. Pressati l’uno
sull’altro come pesci in un affumicatore, eravamo costantemente immersi nei fumi della combustione della colza e
delle sabbie bituminose.
L’abbassamento della temperatura mi aveva dato una
sensazione di frenesia, una lucidità superiore all’ansia e alla
consapevolezza dei rischi che avrei corso. Era tonificante. Il
freddo mi faceva tornare in mente la mia infanzia. All’epoca
il clima era più definito, differenziato. Alcuni anziani alla
fabbrica in cui lavoravo ripetevano che di tutte le tradizioni
britanniche che erano andate perdute quella del tempo era
la più triste. Come se fossimo stati noi a scegliere quel clima
subtropicale con una specie di referendum.
Ricordo ancora il picchiettio ghiacciato della grandine
sulla faccia, in marzo, mentre aspettavo l’autobus che mi
portava a scuola; e le bufere autunnali, che facevano sbattere e ondeggiare qualunque cosa. Il gelo di gennaio che ti
entrava nelle ossa, le mani e i piedi intorpiditi sotto strati di
lana. Da ragazzi non si ha paura del possibile, non si immagina che il mondo possa andare in pezzi o che nell’arco della
propria vita accadrà qualcosa di terribile.
Persino la pioggia è diversa, adesso: è imprevedibile e violenta, non è la pioggerellina grigia delle vecchie cartoline,
delle barzellette, dei servizi del telegiornale. È una pioggia
ferita. Sulle alture la neve cade di rado, anche se la gente in
città ha ancora l’abitudine di cercarla con lo sguardo.
Ero diretta in un luogo lontano, a una quota elevata, e
una parte di me sperava che, se vi fossi rimasta a lungo,
avrei rivisto i cumuli bianchi.
Partii all’alba per uscire da Rith senza che nessuno se ne
accorgesse. Con me avevo uno zaino abbastanza leggero
per affrontare una lunga distanza e salire sui monti. Con
me non avevo molto: vestiti, scarponi, del cibo in scatola,
fette biscottate, una borraccia e un kit di pronto soccorso
nel caso fosse possibile togliermi il regolatore, anche se non
avevo la minima idea di come si potesse fare. Avevo anche
un vecchio fucile della Seconda guerra mondiale, infilato
tra i maglioni e gli abiti impermeabili; la sua canna mozza
sfregava contro il lembo di tessuto che chiudeva lo zaino.
L’idea era di usarlo come merce di scambio una volta arrivata a Carhullan.
La notte prima della partenza avevo nascosto lo zaino in
un vicolo dietro al nostro palazzo, per poter scendere le scale
senza impedimenti e senza urtare o sfregare contro le pareti.
Lo avevo sistemato in un punto buio e asciutto, una nicchia
dietro la camera principale del serbatoio dell’acqua piovana,
mentre le famiglie negli altri alloggi erano a cena – e prima
che mio marito tornasse dal suo turno – assicurandomi con
un bastone che non ci fossero tane di topo.
Di primo mattino scivolai fuori dal letto senza svegliare
Andrew e mi vestii nel bagno comune, cercando di non fare
rumore. Nella tasca dei pantaloni avevo infilato un sacchetto di plastica dove mettere tutto ciò che poteva servirmi.
Sulla mensola della famiglia della stanza accanto alla mia
c’era una saponetta ancora da scartare. La feci cadere nel
sacchetto insieme al dentifricio, al deodorante, a un rasoio
e a qualche lametta. Esitai un istante davanti all’armadietto
delle medicine dei miei vicini, poi lo aprii. C’erano delle
aspirine, una confezione di assorbenti e una bustina di un
medicinale in polvere contro la cistite scaduto da un bel po’.
Li raccolsi. Poi mi incamminai lungo il orridoio e giù per
le scale.
Mi fermai un paio di minuti fuori dal palazzo per essere
certa che Andrew non mi avesse sentito. Cercai di mantenere la calma; il cuore pompava fortissimo il sangue nel petto.
Avvertivo il battito fin nella punta delle dita. Mi dissi che
sarebbe filato tutto liscio. Era un mese che mi allenavo a
svegliarmi presto e provavo la partenza. Ero sempre riuscita
a sgattaiolare via in silenzio e senza correre rischi: giravo per
la città buia, stando attenta a evitare le zone in cui vagavano
i cani randagi, poi tornavo a casa. Ma stavolta non era un
giro a vuoto. Inspirai a fondo, buttai fuori l’aria e aspettai
ancora. Ci mancava solo che Andrew mi scoprisse, si mettesse a discutere e mi desse della pazza svegliando tutti. Ormai eravamo ai ferri corti, pieni di risentimento l’uno verso
l’altra, e a malapena ci rivolgevamo la parola, ma non mi
avrebbe mai permesso di allontanarmi dalle zone ufficiali
con uno zaino in spalla.
Ero obbligata a stare in quella casa, lo sapeva lui e lo sapevo io. Non erano contemplate altre opzioni. Se Andrew
mi avesse scoperto, mi avrebbe trascinato di sopra, oppure
mi avrebbe bloccato in mezzo alla strada e io avrei cercato di
liberarmi. All’arrivo di un sorvegliante dell’Autorità, si sarebbe forse inventato una scusa per il mio comportamento,
per esempio che ero sballata o che avevo avuto un incubo.
Mi avrebbe detto di portare pazienza, che ora le cose andavano male ma ce l’avremmo fatta, e che ci saremmo potuti
separare non appena la situazione fosse stata meno tesa e
pericolosa.
Mi appoggiai al muro del palazzo e mi misi in ascolto,
aspettandomi di sentire i suoi passi un’ultima volta. L’unico
rumore che proveniva dall’alto era il ronzio bizzoso del contatore elettrico in standby. Sollevai lo sguardo. Il cielo era di
un marrone grigiastro bituminoso, simile al colore dell’olio
di scisto che si rivoltava nelle vasche della raffineria in cui
lavorava Andrew. C’era una chiazza bianca di luna, un’ulcera frastagliata e opaca nel tessuto delle nuvole. A Rith le luci
erano ancora tutte spente, e non si sarebbero accese fino alle
sei, quando veniva distribuita l’elettricità e si potevano scaldare l’acqua e il cibo, guardare le ultime notizie con i bollettini dai fronti di guerra e seguire le estrazioni della lotteria.
Secondo i miei piani, a quel punto sarei già stata lontana.
Dopo qualche minuto andai nel vicolo a recuperare lo
zaino. Dovevo sbrigarmi, senza pensare troppo. Di solito a
quell’ora la cittadina era morta, ma era comunque possibile
imbattersi in un’autopattuglia dell’Autorità. Il solo pensiero mi faceva star male: non avrei avuto alcuna spiegazione
plausibile da dare. Non volevo riflettere su ciò che stavo
facendo, con il rischio di vacillare. Anche se ero sicura che
non sarebbe successo, non dopo le ultime settimane.
Attraversai la città tenendomi lontana dagli alloggi comuni; passai davanti al vecchio centro commerciale con le
finestre sbarrate da assi di legno e al capannone delle turbine in cui da anni erano accatastati gli involucri metallici
in attesa di essere spediti. Le strade erano deserte, tutto era
silenzioso. Solo la superficie dei vecchi mattoni rossi delle
case, i tetti di ardesia e l’asfalto riflettevano un po’ di luce,
restituendo una versione spettrale e antiquata della città.
Era difficile immaginare la quantità di persone dietro a
quei muri, costrette a stare in due o tre per stanza; alcune dormivano, altre erano sveglie e parlavano a bassa voce
per non disturbare le altre famiglie. Alcuni piangevano e
venivano consolati o ignorati; altri, incuranti che qualcuno potesse sentirli attraverso le pareti, respingevano il loro
corpo dolente a mano a mano che gli effetti dell’efedrina
da quattro soldi iniziavano a svanire. Tutte le volte che mi
ero esercitata per la partenza su quelle albe mi era sembrato
aleggiasse un’atmosfera di sottrazione, come se vi fosse stato
un abbattimento selettivo e non un’aggregazione della popolazione.
In fondo a ogni fila di alloggi si intravedevano le sagome
dei contatori, piccole cisti ronzanti progettate per segnare
il flusso di energia delle cellule fotovoltaiche ma che ora
venivano utilizzate per regolare i consumi della vecchia rete
elettrica. Dopo la Riorganizzazione c’erano stati pochi miglioramenti. Il piano decennale di ripresa si stava trasformando in un mito privo di speranza.
Era difficile non guardarmi alle spalle, lungo la via percorsa, per controllare se qualcuno mi stesse seguendo, o anche solo osservando. Mi costrinsi a non girarmi. Mi dissi
che, se volevo proseguire, il mio sguardo doveva avere un’unica direzione: in avanti.
Si sentì un lieve crepitio in cielo e a ovest il fragore di un
tuono. Di lì a poco sarebbe piovuto e mi sarei dovuta fermare per indossare gli abiti impermeabili, ma finché ero ancora dentro il perimetro della città non potevo permettermi
una sosta. Magari più tardi, una volta lontana dal centro
abitato, accaldata per la camminata, mi sarei spogliata: tanto mi sarei asciugata più in fretta che non i vestiti.
Erano anni che non uscivo da Rith. Nessun civile l’aveva più lasciata, se non per essere condotto in un centro di
detenzione. Non era permesso passare da una zona all’altra,
il registro obbligava le persone a restare nelle aree in cui si
trovavano all’epoca del collasso. Solo gli agenti governativi
e l’Autorità avevano la necessità e i mezzi per viaggiare, e di
solito si spostavano in treno.
Ero nata lì, e i dintorni mi erano familiari: le stradine
scoscese e i tetti ammassati, Beacon Hill e, di fronte, su
due collinette gemelle, il castello. Proseguii lungo il vecchio
cavalcavia dell’autostrada; sotto c’erano cumuli di rottami
e spazzatura, e si sentiva il fruscio degli animali. Oltre il
confine dell’abitato, più in basso, le strade erano andate in
malora. Erano molto peggio di quanto avessi immaginato.
Dopo anni di abbandono erano sprofondate e piene di buche; tratti interi erano stati spazzati via dalle inondazioni.
Erano cedevoli come ghiaia e in certi punti c’erano piccoli
crateri pieni di acqua piovana: in uno inciampai, inzuppandomi i pantaloni fino alle ginocchia. La gente in fabbrica e
alle riunioni negli alloggi aveva ragione: niente veniva più
riparato, a eccezione delle arterie principali di cui si serviva
l’Autorità.
Dove riuscivo correvo, stando bene attenta a non cadere
e a non slogarmi una caviglia, cercando l’andatura giusta
per una giornata che si prospettava lunga e difficile. Dopo
mezz’ora raggiunsi il pendio su cui si trovava il casello bianco. Le finestre erano tutte rotte e il tetto spiovente aveva ceduto da un lato. Durante una lezione di storia locale avevo
imparato che era stato incendiato due volte dagli Scozzesi, e
poi ricostruito. Adesso era di nuovo in rovina. I proprietari
dovevano essersi trasferiti a Rith da un bel pezzo, insieme a
tutti coloro che risiedevano fuori dal confine.
Poco più avanti, giù dalla collina, c’era il vecchio ponte stradale di Yanwath, ancora intatto. Prima del divieto di
spostarsi, lo avevo attraversato parecchie volte in macchina.
Il semaforo che un tempo ne regolava il traffico era rotto; le
luci erano nere di sporcizia e il palo si era piegato sulla base
di cemento. Nel punto in cui la strada aveva ceduto, subito
prima di risalire verso la spalla del ponte, si erano formate
pozze d’acqua e mulinelli dentro cui galleggiavano detriti
indistinguibili, forse pezzi di intonaco delle case situate a
monte. Guadai le pozze, mi fermai al centro del ponte e
mi sporsi dal parapetto. Il fiume Eden, gonfio e marrone,
scorreva a una velocità spaventosa. Nella semioscurità riuscii a intravederne il movimento impetuoso lungo le rive, il
risucchio biancastro delle creste spumose e dei vortici. Con
le piogge aveva rotto gli argini e si era riversato nei fossi e
nei giardini su entrambe le sponde. Sentivo lo scricchiolio
dei rami più bassi degli alberi che venivano spogliati delle
loro foglie.
L’acqua arrivava fino alle finestre dei cottage vicini al
ponte. Si sentiva un forte odore di limo, di malta e di stoffa
bagnata: il tipico odore delle case inondate. Il fiume che ricopre di fanghiglia le pareti, che fa marcire tende e tappeti.
Lo stesso odore con cui mi ero svegliata più di dieci anni
fa, quando scendendo le scale avevo trovato la casa piena di
rifiuti e liquami.
La strada proseguiva attraverso un paesino, ormai disabitato, e si inoltrava nelle terre selvagge e abbandonate di
quello che un tempo era un parco nazionale, il luogo che la
generazione di mio padre chiamava Lake District.
Il veicolo comparve verso mezzogiorno. Stava diluviando. Sulle prime pensai che fosse solo il rumore della pioggia scrosciante o l’acqua che scorreva nei canali sotto la
strada, poi sentii cambiare le marce. Mi spostai sul bordo
della carreggiata e mi girai, pronta ad acquattarmi dietro
un muretto, aspettandomi di vedere la sagoma blu scuro
di un’autopattuglia. Invece, sull’asfalto dissestato, si stava
avvicinando lentamente un furgoncino bianco, civile. Le
sospensioni facevano un gran rumore, come se fossero allentate, e sembrava che la carrozzeria fosse rialzata rispetto
al telaio. Il veicolo ondeggiava con indolenza sui dossi e sul-
le buche, i finestrini erano neri di polvere e pieni di baccelli
di piante e foglie cadute durante l’ultimo acquazzone. Dal
tubo di scappamento si alzava uno sbuffo di fumo grasso e
marrone. Il furgone mi superò, rallentò e si fermò. Mi avvicinai nervosa alla portiera dalla parte del guidatore; il vetro
si abbassò cigolando.
«Dove sei diretta, ragazza?» L’uomo aveva il volto arrossato, simile a un pezzo di vetro molle appena estratto da una
fornace. Mi squadrò con i suoi occhi chiari. Ero in condizioni pietose: avevo i capelli fradici e la vecchia canottiera
bianca che indossavo era zuppa e mi stava appiccicata alla
pelle. Incurvai le spalle in avanti e mi coprii il seno con
le braccia. L’uomo scoppiò a ridere. Aveva i denti marci,
segnati lungo il bordo da una patina giallastra, e da una
riga color argento intorno alle gengive, molto rivelatrice.
«Gran bel posto per un’escursione. Sei l’ultima delle guide
Wainwright, eh? O vuoi essere la prima a ritornare sulle
cime per piantarci una bandiera? Allora in città le cose devono essere migliorate. Forza, sali, che è meglio.»
Esitai. Mi ero ripromessa di evitare ogni contatto lungo
la strada e sapevo che le domande potevano portare guai,
ma mi facevano male le spalle e i piedi ed era tanto che non
mi fermavo a riposare. Girai attorno al furgone da dietro
per salire dal lato del passeggero e intanto strizzai la canottiera bagnata. L’uomo si piegò e mi aprì la portiera, come
faceva sempre mio padre quando mi portava a scuola. Aveva
posato uno straccio lurido sul sedile per tenerlo asciutto.
Posai lo zaino sul fondo dell’abitacolo e salii. «Brava ragazza», disse. «Sono passato al momento giusto, eh?»
Inserì la marcia e ripartì. Che sensazione strana. Erano
anni che non salivo su un’automobile. Avevo consegnato
chiavi e documenti, come tutti gli altri, e mi ero dimenti-
cata di come ci si sente al volante, di com’è essere chiusi in
uno spazio ristretto eppure liberi di andare ovunque. Guardare l’uomo che abbassava la frizione e azionava il tergicristallo mi sembrava un sogno, un ricordo perduto. All’interno dell’abitacolo c’era un odore forte, acre, di abiti vecchi,
di aceto misto a urina; o forse era il tizio a puzzare. Ma non
mi lamentai, né provai ad abbassare il finestrino: mi bastava
non essere più sotto la pioggia.
Sentivo già la pianta dei piedi raggrinzita, nonostante
portassi due paia di calze pesanti. Avvertivo un formicolio
alle dita, le piegai e le distesi. Non mi sarei mai aspettata di
trovare un passaggio. Mi ero allenata per mesi a camminare,
quando non ero di turno; le prime volte senza meta, tanto
per passare il tempo, e poi con un obiettivo: giravo attorno
alla periferia di Rith, salivo fino a Beacon Hill e poi tornavo. Non era vietato passeggiare, sebbene Andrew ritenesse
che fosse stupido correre il rischio di imbattersi nei cani
randagi che vagavano per le discariche in cerca di cibo. Erano sporchi e malati, diceva; era come invitarli a mordermi.
Di tanto in tanto aggredivano qualche passante, ma non
avevano mai ammazzato nessuno. Non ero mai riuscita a
esercitarmi con lo zaino, sarebbe stato troppo sospetto, e
ora il suo peso era un supplizio.
Nell’ultima settimana avevo fatto in modo di nutrirmi
a dovere: due porzioni di riso invece di una e sardine a colazione, anche se avevo vuotato la dispensa e Andrew ne
avrebbe risentito per il resto del mese. Ero in salute e in forma come meglio non avrei potuto. Ma un conto era girare
intorno alla città nella luce tenue del mattino e mangiare
qualche scatoletta di pesce in più; tutt’altra storia era spingersi fin lì trascinandomi tutto quello che possedevo sulla
schiena. Avevo percorso poco più di quindici chilometri ed
ero stremata. Lo zaino era pesantissimo e mi schiacciava la
colonna vertebrale. Gli acquazzoni si erano susseguiti per
ore, gli orli dei vestiti erano tutti umidi e l’attrito mi irritava
la pelle. A ogni passo mi allontanavo sempre di più dalla
città, sfidando i miei limiti. Era improbabile che comparisse
un veicolo, anzi, era quasi un miracolo, ed ero felice che
fosse successo.
Il furgone si inclinava e sbandava nelle curve. Il tizio le
prendeva larghe per evitare gli ostacoli, le buche e le sterpaglie che invadevano la carreggiata. Mi puntai con entrambe
le mani sul sedile per sorreggermi e rimasi in silenzio. Non
volevo fare conversazione ed essere costretta a destreggiarmi
tra le sue domande, rischiando che riferisse le mie parole a
qualcun altro. Di tanto in tanto l’uomo mi guardava e tirava su col naso: ne dedussi che aveva comunque più voglia
di parlare che di ascoltare. Aveva l’aria di uno irrequieto,
tagliato fuori dal mondo. Forse lavorava lontano dalla zona
ufficiale, pensai.
«Allora, hanno tolto le restrizioni?» chiese dopo un po’.
«Sei la prima persona che vedo da… Dio, non so neanche
da quanto. Quando ti ho visto mi è preso un colpo. Ho
pensato che questo vinaccio del cazzo mi facesse venire le allucinazioni.» Mi indicò una fiaschetta color argento in uno
degli scomparti del cruscotto, e me ne offrì un sorso. Scossi
la testa e appoggiai i piedi sullo zaino per evitare che rotolasse di qua e di là mentre il furgone arrancava tra le acque
basse di un torrente. Il telaio grattò fortissimo sul fondo sassoso: dal rumore era come se stessimo spalando badilate di
ciottoli. L’uomo pestò sulla frizione, scalò le marce e mandò
su di giri il motore.
Sembravano essere spuntati ovunque nuovi corsi d’acqua
montana: fuoriuscivano dai muretti e dai campi. Quando
le gomme ripresero trazione, l’uomo rallentò e mi ripeté la
domanda.
«Sì, le hanno tolte per me», risposi. Cercai di non destare
sospetti e di non dare l’impressione di essere in ansia. Lo
squadrai e pensai che, nonostante tutte le sue chiacchiere
sulle escursioni, con ogni probabilità doveva aver intuito
che qualcosa non quadrava: una donna che vagava da sola,
per strada, lontana dalla città, apparentemente senza un
modo per tornare indietro. Mi aspettavo che mi mettesse
alla prova.
Indicò lo zaino. «Hai una tenda lì dentro? Perché non
potrai tornare indietro per un po’. Sto andando a Rosgill,
poi mi sposto a Blackrigg. Se conosci qualcuno da quelle
parti, sei a posto. Magari lo conosco anch’io, io conosco tutti quelli che sono rimasti. Certo, sono solo quattro gatti. Li
hanno cacciati quasi tutti quei poveri bastardi, ma non me.
Io lavoro al bacino idrico, alla torre dell’acquedotto. Non
c’è granché da fare, a parte azionare le chiuse. Ho l’autorizzazione a guidare e una quota prioritaria sul furgone; cioè,
è tutto in regola. Faccio la mia parte per la ripresa. Nessuno
va molto in giro di questi tempi, solo io quando vado a fare
provviste o a prendere qualche tecnico. Uscirò di nuovo fra
tre settimane, forse anche di più. Sei stata fortunata che
sono passato proprio adesso.»
È vero, ero stata fortunata. Se mi avesse accompagnato
fino a Rosgill, mi sarei risparmiata quasi venti chilometri
di vesciche ai piedi. L’uomo elencò in fretta i nomi di gente
del posto che era stata abbastanza testarda da restare, come
se potessi offrirmi spontaneamente di conoscerli, poi cominciò a lagnarsi del razionamento di carburante, sempre
più rigido, e della mancanza di prodotti freschi. «Il latte a
lunga conservazione mi fa schifo», disse. «Sa di sciacquatura
di cazzo, vero? Scusa il linguaggio. Comunque, è quel che
ci tocca per aver fregato gli allevatori con tutte quelle sciocchezze sulla centralizzazione della produzione. Adesso che
ci servono, sono stati tutti costretti a chiudere.» Lo lasciai
parlare, e intanto cercavo di tenere la mente sgombra e di
restare lucida.
In origine, il mio piano consisteva nel partire da Rith il
più presto possibile e fare tutta la strada a piedi. Se avessi mantenuto una buona andatura e non mi fossi fermata
troppo a lungo a riposare, entro il tramonto sarei stata abbastanza vicina alla meta. Avevo consultato una vecchia cartina dell’Ordnance Survey, che Andrew teneva in una delle
scatole sotto al letto, e mi era sembrato che si potesse fare
in un giorno, al massimo un giorno e mezzo, nonostante le
curve di livello indicassero che nell’ultimo tratto il terreno
era piuttosto scosceso Arrivare alla fattoria sarebbe stata una
sofferenza, ma ne sarebbe valsa la pena. Una volta lì sarebbe
andato tutto bene, ci avrebbero pensato le donne.
In tutte quelle settimane passate a pianificare non avevo nemmeno contemplato la possibilità che non ci fossero
più. O, peggio, che potessero cacciarmi. Avevo evitato pensieri simili, nel timore che potessero portarmi fuoristrada.
Giorno dopo giorno era la speranza a nutrirmi, come mai
avrebbe potuto fare il cibo in scatola importato. Ma la verità
era che non potevo essere per niente sicura dell’accoglienza
che mi sarebbe stata riservata a Carhullan, né di cosa o di
chi vi avrei trovato. Tuttavia non ero disposta a credere che
lì non ci fosse più nessuno, che avessero rinunciato. Se mi
fossi lasciata andare a pensieri simili, non sarei mai partita.
Erano almeno cinque anni che non venivano diffusi rapporti sullo stato dell’agricoltura. L’Autorità non aveva alcun
interesse a pubblicarli. Le loro circolari non menzionavano
mai quell’altra metà del paesaggio, l’altra metà della Gran
Bretagna. Ogni tanto alla periferia di Rith faceva la sua
comparsa qualche irriducibile a cavallo di un pony, su una
moto customizzata o a piedi, ma solo per vedere quali progressi ci fossero stati, a contemplare le fabbriche di Nuovo
Carburante, la raffineria di petrolio Uncon, o a elemosinare
antibiotici. A volte facevano scambi al mercato nero; e capitava che venissero a riferire di una morte, di una sepoltura.
Per chi stava al comando non erano una grossa preoccupazione: chiunque non avesse partecipato al censimento non
era stato segnato nei registri. Chiunque vivesse al di fuori dei settori designati veniva considerato autonomo, uno
straniero, e non era più tenuto in considerazione. Aveva
scelto di non partecipare alla ripresa, e dunque non faceva
più parte della nazione. L’Autorità definiva queste persone,
semplicemente, Non Ufficiali.
«Non fraintendermi, io non li sopportavo quei turisti»,
riprese l’uomo, «ma adesso è tutto morto. Avevamo un forte
senso di comunità e adesso non c’è più niente. Non c’è vita,
ci sono solo conigli e quei cervi del cavolo. Io sono uno che
sta bene in mezzo alla gente.» Mi squadrò di nuovo. Mi
chinai in avanti e aprii lo zaino, da cui tirai fuori con cautela una maglia. La infilai sopra la canottiera bagnata, anche
se avrei preferito toglierla prima. «Oh, perché non mi hai
detto che avevi freddo? Il riscaldamento funziona.» Azionò
la ventola sul cruscotto e subito avvertii un’ondata di calore
stantio sulla faccia e sugli stinchi.
«Non che vorrei vivere in città», riprese lui. «Non la reggo, soprattutto adesso che è diventata una specie di ghetto
del cazzo. Tutte quelle regole… E poi i parassiti. È una presa
in giro. Chi l’avrebbe mai detto che saremmo finiti come
un Paese del terzo mondo? Sono contento del mio lavoro
qua. Ho un sacco di spazio e aria pulita. Sono padrone di
me stesso.» Annuii, e lui mi scrutò di nuovo. «Senti, non
fare stupidaggini quando arriviamo», aggiunse, «altrimenti
sarò costretto a scaricarti. Anzi, dammi il tuo numero di
identificazione, non si sa mai. Scrivimelo, magari.» Annuii
di nuovo ma non dissi nulla, e guardai fuori dal finestrino.
Riprese a parlare per colmare il mio silenzio. «È bello rivedere un turista. Le cose devono andare decisamente meglio. Qua non c’è mai anima viva, specialmente ora che i pub
hanno chiuso. Io poi non sopporto i telegiornali, raccontano
solo balle. Loro pensano che non abbiamo capito, che non ci
rendiamo conto del casino che c’è. Sia chiaro, io sostengo i
nostri soldati al cento per cento, e penso che il Re abbia due
palle grosse così, ma insomma, che senso ha?» Fece un sospiro. «Sai, ci si dimentica di com’è parlare normalmente con le
persone. Ci si dimentica di un sacco di cose.»
L’aria all’interno dell’abitacolo si fece soffocante. Un rivolo di sudore mi correva lungo la schiena, o forse era pioggia.
Ogni volta che il tizio alzava i gomiti e si chinava sul volante
sentivo puzza di carne frolla. Aprì appena il finestrino dalla
sua parte. «Non mi hai detto dove vuoi che ti lasci. Ascolta, se ti va puoi restare un po’ con me prima di proseguire
per i monti; mangi qualcosa, ti riposi un po’… Ho appena
preso della lonza essiccata.» Imitando un accento americano disse: «Viene dai nostri amichetti cristiani degli States».
Scoppiò in una risata beffarda e scosse la testa. Avvertivo il
suo sguardo sulle gambe, sulle cosce bagnate. «Ehi, senti un
po’, ti dispiace se ti faccio una domanda? Stanno ancora…
insomma… sorteggiando le donne per evitare la sovrappopolazione?» Rise di nuovo, illuminandosi in viso. «È l’unica
cosa buona di tutta questa faccenda. Siamo tornati all’epoca
dell’amore libero. Eh, sì.» Strinse forte il volante.