La sindrome del burnout nelle helping professions nel
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La sindrome del burnout nelle helping professions nel
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 La sindrome del burnout nelle helping professions nel paradigma Biopsicosociale Giuseppe Alessandro Romano Prefazione Il problema dell’umanizzazione del modello clinico-terapeutico ed assistenziale nelle strutture socio-sanitarie è sempre più vivo ed attuale. Il concetto di malasanità non si riferisce solamente alla negligenza o all’imperizia del personale sanitario e parasanitario, ma anche e principalmente alla perdita della prospettiva empatica nel rapporto tra operatori e pazienti. È infatti opinione diffusa che esista un progressivo disinteresse ed una freddezza emotiva degli operatori dei servizi socio-sanitari-assistenziali nei confronti della sofferenza fisica e psicologica degli assistiti e del vissuto di angoscia che, in una certa misura, caratterizza la condizione di “paziente”. Un fondamentale indice di efficienza di un reparto è dato proprio dalla percezione da parte dei pazienti del sentirsi accolti, ascoltati, compresi ed assistiti con rispetto, empatia, accettazione più che da altri indici, quali l’autorevolezza dei terapeuti o la presenza di apparecchiature diagnostiche sofisticate (Bakal, 1984). La presa in carico di chi sta male, per essere davvero efficace, deve comprendere anche l’aspetto psicologico del “prendersi cura” e deve essere caratterizzata da un atteggiamento centrato sul paziente, che metta quest’ultimo al centro del sistema, riconoscendo e promuovendo il suo 1 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 empowerment, ossia il suo potere di gestire in prima persona in maniera respons-abile e attiva la propria salute. Passare dal paradigma bio-medico, imperante in questi ultimi due secoli nella medicina tradizionale che vede in termini riduzionistici la salute come assenza di malattia al paradigma biopsicosociale, che riconosce la complessa interrelazione di diversi sistemi determinanti la salute, permette di ottenere risultati quali una maggiore alleanza tra chi aiuta e chi viene aiutato, migliori risultati clinici, un minore livello di stress, stili di vita più salutari, una migliore qualità della vita sia rispetto al paziente sia rispetto a chi lavora intorno a lui. Tutto ciò va esteso a diversi ambiti secondo un’ottica sistemica. Rimanere ancorati al modello medico tradizionale comporta il non riconoscere e promuovere il potere dell’utenza, trattare la malattia anziché considerare la persona nella sua totalità, instaurare una relazione di tipo asimmetrico che vede da un lato l’operatore, che “deve” attivamente dare aiuto, e dall’altro l’utente, che passivamente delega a questo la sua salute. Tutto ciò implica da parte di chi aiuta un impiego di energie che a lungo andare, nonostante l’indiscutibile e sincera volontà di essere disponibili, empatici, presenti nella relazione, può esaurirsi provocando degli effetti deleteri in termini di salute psicologica, fisica e relazionale. Tali effetti hanno inevitabilmente ripercussioni sul rapporto col paziente, sulla sua salute, sulle relazioni familiari, sull’efficacia e sui costi del servizio e, a più livelli, su tutti i sistemi interrelati e complessi all’interno dei quali gli attori in scena sono inseriti. Il concetto di sindrome del burnout Dover affrontare un problema particolarmente complesso o il tentativo di adattarsi ad una situazione difficile comporta l’attivazione di meccanismi emotivi e fisiologici di risposta che vengono definiti stress. Il principale studioso dello stress è stato senza dubbio Hans Selye, il quale negli anni ’40 definì quest’ultimo come l’insieme delle reazioni aspecifiche provocate nell’organismo dall’azione, più o meno prolungata nel tempo, di fattori nocivi (stressors). Tali reazioni hanno la funzione di permettere all’organismo stesso di adattarsi ad una nuova condizione e di superarla (Rossati, Magro, 2001). Ciò che qualifica un evento come stressante non è tanto la qualità dei fattori che entrano in gioco, ma l’intensità del bisogno di riadattamento che viene attivato. Selye ha distinto due tipi fondamentali di stress: lo stress positivo (eustress), che conduce ad una risposta adattiva mettendo in grado l’organismo di interagire in modo adeguato con l’ambiente, favorendo così un equilibrio tra domanda e risorse, e lo stress negativo (distress), indicante la risposta protratta (disadattiva) che assume una valenza negativa per l’organismo. L’autore ha analizzato lo stress nelle sue manifestazioni fisiologiche e patologiche, soprattutto dal punto di vista endocrinologico, immunologico e clinico, considerando anche l’evento psicologico tra gli effetti dello stress. 2 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 La psicologia ha assegnato agli eventi psicologici il ruolo di mediatori di cause, oltre che di effetti, spostando l’attenzione dall’esame delle situazioni stressanti all’esame delle connotazioni psicologiche che queste assumono nelle specifiche transazioni tra individui e ambiente, in cui determinante è la valutazione cognitiva del soggetto in termini di minaccia, disturbo o sfida. Il concetto di stress deve, dunque, essere visto come una variabile multifattoriale nella quale si intrecciano tre dimensioni fondamentali del fenomeno: quello biologico, quello psicologico e quello sociale, che non vanno valutate separatamente, ma considerate in una relazione circolare e complessa. Particolarmente interessante a tal proposito è l’impostazione di Appley e Trumbull (1987) i quali hanno esaminato lo stress nel contesto delle interazioni tra l’individuo e l’ambiente ed in rapporto al funzionamento ed equilibrio dei tre sistemi paralleli: biologico(sistemi nervoso, circolatorio, respiratorio, digerente, ormonale, immunologico), psicologico (processi cognitivi, emotivi, motivazioni, aspettative, atteggiamenti) e sociale (valori, norme, ruoli). Ogni qualvolta il funzionamento di uno o più dei tre sistemi registra una discrepanza tra le caratteristiche della domanda e le sue capacità di farvi fronte, viene provocato stress (Caprara, Borgogni, 1988). Lo stress non colpisce tutte le persone in ugual modo ma esistono delle caratteristiche di tipo psicologico, comportamentale e relazionale, che predispongono alcuni soggetti ad essere più o meno resistenti agli stressors. Ad esempio una persona che ha una buona autostima, una buona capacità di esprimere le proprie emozioni, una fiducia nella propria capacità di problem solving, che affronta la vita con ottimismo, ha una buona rete di supporto sociale, sa chiedere aiuto qualora ne avesse bisogno, vive il cambiamento come opportunità di crescita anziché di minaccia e conduce uno stile di vita salutare, avrà più probabilità di resistere allo stress e di non ammalarsi rispetto a chi non possiede, o possiede solo in maniera parziale, queste caratteristiche (Zucconi, Howell, 2003). Intorno alla metà degli anni Settanta negli Stati Uniti comincia a diffondersi il termine “burnout”, introdotto inizialmente da Freudenberger e poi ripreso e approfondito da Maslach. Il burnout è traducibile in italiano con espressioni del tipo “bruciato, esaurito, scoppiato, cortocircuitato”, in riferimento ad una situazione ben precisa che veniva osservata con frequenza sempre maggiore nelle cosiddette professioni di aiuto (helping professions) quali infermieri, medici, assistenti sociali, psicologi, operatori di ospedali psichiatrici, educatori. In queste attività vi è una relazione diretta tra operatore ed utente e le capacità personali sono implicate più di quelle professionali. Si era riscontrato che dopo un periodo di alcuni mesi di impegno, l’operatore manifestava un crollo di morale ed entusiasmo, una progressiva perdita di energia, di idealismo, di motivazione e interesse, atteggiamenti di nervosismo, apatia, indifferenza e, nel peggiore dei casi, cinismo nei confronti del proprio lavoro e dei fruitori del suo servizio (Rossati, Magro, 2001). Il termine burnout col passare del tempo è entrato nell’uso comune anche per riferirsi ad una forma di esaurimento emotivo da stress, caratterizzante 3 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 altre professioni non necessariamente di aiuto, perdendo il pieno significato per cui originariamente era stato creato. Il burnout potrebbe essere considerato un tipo di stress occupazionale, come risposta alla tensione cronica quotidiana, la cui caratteristica distintiva è il fatto che sorge dalla relazione tra l’operatore e il destinatario dell’aiuto(Maslach,1982). È importante precisare tuttavia che il concetto di stress e quello di burnout benchè simili non sono identici e che il burnout costituisce un esito possibile dello stress in presenza di determinate condizioni (Del Rio, 1990). Il burnout è il risultato non tanto dello stress in sé, che inevitabilmente è presente nelle helping professions, ma dello stress non mediato, dell’essere stressati senza via d’uscita, senza elementi di moderazione, senza sistema di sostegno. Tale fenomeno viene considerato una sindrome, cioè un insieme di segni e sintomi che, come vedremo più avanti, interessano diverse aree dell’individuo che ne è “affetto”. Tutti i principali studiosi che si sono occupati della sindrome del burnout sono concordi sull’importanza e sulla necessità di doverla considerare sempre e comunque un “processo” e non semplicemente un “evento”. Una delle figure più esperte sull’argomento a livello internazionale è Christina Maslach, la quale definisce il burnout come una sindrome caratterizzata da tre dimensioni tra loro relativamente indipendenti, che caratterizzano a loro volta tre fasi diverse di un processo: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale. Nell’ esaurimento emotivo vi è uno svuotamento di risorse emotive personali, una sensazione di essere inaridito dal rapporto con gli altri, di non avere più niente da offrire a livello psicologico, di essere incapace. La depersonalizzazione è invece espressa in atteggiamenti negativi di distacco, cinismo, freddezza e ostilità nei confronti degli utenti del proprio servizio. Infine, la ridotta realizzazione personale è la percezione della propria inadeguatezza e incompetenza nel lavoro causata dalla caduta dell’autostima e del proprio desiderio di successo. Per quanto riguarda le fasi vediamo come la prima si caratterizza per una situazione di sovraccarico, con conseguente esaurimento emotivo dove le richieste sono percepite eccessive rispetto alle risorse disponibili. Ciò determinerebbe una forma cronica di stress. L’operatore si sente svuotato e sfinito, gli manca l’energia per affrontare un altro giorno di lavoro, le sue risorse emozionali sono consumate, sente di non essere più in grado di dare qualcosa di sé agli altri, adotta una strategia tesa ad evitare coinvolgimenti emotivi, che le situazioni professionali impongono, assumendo un atteggiamento sempre più burocratico e di distacco, instaurando rapporti di fredda indifferenza verso i bisogni degli altri ed un cinico disinteresse per i loro sentimenti. Questo tipo di risposta segnala il passaggio ad una seconda fase di spersonalizzazione caratterizzata da atteggiamenti di rifiuto dell’operatore nei confronti dell’utenza, espressi da comportamenti di palese indifferenza che si manifestano in vari modi, come ad esempio sminuire gli altri, 4 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 denigrarli, rifiutarsi di essere cortese, ignorare le loro richieste ed esigenze, non dare l’aiuto o l’assistenza più idonei. Nella terza fase il sentimento di colpa e di ridotta realizzazione personale può indurre un auto-verdetto di fallimento e quindi diminuzione della propria autostima con possibili sintomi depressivi, che portano il soggetto o a chiedere un aiuto di tipo psicoterapico o a cambiare il tipo di occupazione. Per misurare le tre dimensioni indipendenti della sindrome del burnout nelle helping professions, Christina Maslach e Susan Jackson hanno costruito un questionario (Maslach Burnout Inventory) composto da 22 items dove ogni aspetto è misurato da una apposita sottoscala. La frequenza con cui il soggetto prova le reazioni relative a ciascuna sottoscala è saggiata usando una modalità di risposta a 6 punti, definiti da mai a ogni giorno (Zani, Palmonari, 1996). Agli stessi items si risponde successivamente indicando con quale intensità i sentimenti descritti vengano avvertiti su una scala da 0 (non viene avvertito) a 7 punti (massima intensità). La tabella 1 mostra i diversi items raggruppati secondo le tre dimensioni: Tabella 1 - Items del Maslach Burnout Inventory Esaurimento emotivo Mi sento emotivamente sfinito dal mio lavoro Mi sento sfinito alla fine di una giornata di lavoro Mi sento stanco quando mi alzo la mattina e devo affrontare un’altra giornata di lavoro Mi pare che lavorare tutto il giorno con la gente mi pesi Mi sento esaurito dal mio lavoro Sono frustrato dal mio lavoro Credo di lavorare troppo duramente Lavorare direttamente a contatto con la gente mi crea troppa tensione Sento di non farcela più Depersonalizzazione Mi pare di trattare alcuni utenti come se fossero degli oggetti Da quando ho cominciato a lavorare qui mi sento più insensibile con la gente Ho paura che questo lavoro mi possa indurire emotivamente Non mi importa veramente di ciò che succede agli altri utenti Ho l’impressione che i miei utenti diano la colpa a me per i loro problemi 5 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 Realizzazione personale Posso capire facilmente come la pensano i miei utenti Affronto efficacemente i problemi dei miei utenti Credo di influenzare positivamente la vita di altre persone attraverso il mio lavoro Mi sento pieno di energie Mi sento rallegrato dopo aver lavorato con i miei utenti Riesco facilmente a far sentire i miei utenti rilassati e a proprio agio Ho realizzato molte cose di valore nel mio lavoro Nel mio lavoro affronto i problemi emotivi con calma. Oltre alle ricerche della Maslach sono da annoverare gli studi di Cherniss o di Edelwick e Brodsky, i quali hanno trattato il fenomeno burnout, considerando i rapporti del lavoratore con l’equipe in cui è inserito, con i colleghi e con la struttura organizzativa. Cherniss (1980) propone un modello di processo del burnout, inteso come risposta di disimpegno allo stress lavorativo, distinto in tre fasi: dello stress lavorativo, dell’esaurimento e della conclusione difensiva. La prima fase è caratterizzata da uno squilibrio tra le risorse disponibili non sufficienti a rispondere in modo adeguato ai propri obiettivi e le richieste che provengono dalla struttura organizzativa o dall’utente. Nella seconda fase si ha una risposta emotiva a questo squilibrio che si esprime sotto forma di tensione emotiva, ansia, irritabilità, fatica, noia, disinteresse, apatia, dove l’ambiente lavorativo viene vissuto come logorante e l’attenzione viene deviata verso gli aspetti più tecnici e burocratici, piuttosto che clinici. Il soggetto si trova in una condizione di allarme e di continua tensione che, se non adeguatamente gestita, conduce alla disillusione e frammentazione dei propri ideali professionali, con conseguente incapacità a riprogrammare l’attività in funzione delle risorse disponibili. Infine, nella fase della conclusione difensiva si hanno cambiamenti nell’atteggiamento quali disinvestimento emotivo, rigidità comportamentale, cinismo, aventi come fine quello di limitare per quanto possibile i danni fisici e psichici che inevitabilmente ne derivano, nella speranza di riuscire a sopravvivere nella professione. Cherniss nel suo libro “La sindrome del burnout” presenta una lista delle manifestazioni fisiche e comportamentali che potrebbero essere riscontrate in un ipotetico operatore in burnout. 6 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 Nella tabella 2 sono elencate tali manifestazioni. Tabella 2 - Segni e sintomi del burnout negli operatori sociosanitari alta resistenza ad andare ogni giorno al lavoro alto assenteismo sensazione di fallimento senso di colpa e disistima senso di stanchezza insonnia irritabilità negativismo rimandare i contatti con gli utenti guardare frequentemente l’orologio sospetto e paranoia eccessivo uso di farmaci, tabacco e alcool frequenti mal di testa e disturbi gastrointestinali conflitti coniugali e familiari notevole affaticamento dopo il lavoro rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento perdita di disponibilità e di sentimenti positivi verso l’utente isolamento e ritiro dal lavoro evitare a tutti i costi discussioni con i colleghi di lavoro preoccupazione per sé frequenti mal di schiena tensione muscolare al collo frequenti raffreddori e influenze In un servizio dove si riscontra e viene percepito da parte degli operatori un alto livello di stress lavorativo si hanno effetti negativi come assenteismo, eccessivo turnover, maggior spreco di materiali, maggiori infortuni sul lavoro, maggiori costi, comunicazione distorta, sfiducia, diffidenza, rifiuto della responsabilità (Rossati, Magro, 2001). Altri autori come Edelwick e Brodsky (1980) descrivono il burnout come una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi, vissuta da operatori sociali, professionali e non, come risultato della condizione in cui lavorano. Essi hanno ipotizzato quattro stadi per definire il processo tipico del burnout: l’idealismo, la stagnazione, la frustrazione ed l’apatia. Nello stadio dell’idealismo e dell’entusiasmo i lavoratori canalizzano il proprio intero potenziale e dedicano molto tempo e risorse sul lavoro. Nel successivo stadio ossia quello della stagnazione, il lavoratore realizza che il lavoro non soddisfa pienamente le proprie aspettative e bisogni. Progressivamente, le solite preoccupazioni iniziano a diventare problemi, quali i tempi di lavoro, la carriera, il salario. Se le problematiche emergenti in questa fase sono affrontate con lucidità e coraggio è possibile che questo stadio venga superato senza troppi danni, soprattutto in un ambiente di lavoro aperto e creativo in cui ci sia solidarietà tra colleghi. In caso contrario si passa allo stadio successivo. 7 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 Nello stadio della frustrazione la persona si domanda se vale la pena svolgere il proprio compito sotto stress cronico e senza il riconoscimento degli altri. Essenzialmente, questo stadio è transizionale perché in genere i lavoratori decidono se continuare a lavorare modificando il proprio comportamento e le condizioni di lavoro, che causano stress, o separarsi dal posto di lavoro, adottando un atteggiamento di indifferenza o alienazione. Infine nello stadio dell’apatia che può essere definito quello del burnout vero e proprio, il lavoratore prova una forma di noia e disgusto verso quasi tutti gli aspetti che caratterizzano il suo lavoro, ha un progressivo disimpegno emozionale e sparisce in lui completamente il desiderio di aiutare gli altri. Harrison (1983) ha proposto un modello basato sulla competenza sociale, cioè su come un operatore si sente capace di interagire e influenzare l’ambiente sociale e su come percepisce la propria capacità di intervenire in situazioni di aiuto. Intervenire efficacemente comporta un aumento di motivazione, mentre la stessa decresce fino ad annullarsi, quando l’intervento viene percepito come inefficace. I fattori che concorrono a definire il senso di competenza, secondo l’autore, sono riconducibili sia alla sfera soggettiva dell’operatore, e quindi alle sue capacità professionali e comunicative, sia all’oggettività della situazione come ad esempio le risorse ambientali disponibili, l’entità dei problemi che l’utente pone, la cronicità della malattia, etc. Il senso di competenza si sviluppa in condizioni ottimali quando l’operatore è in grado di collegare i risultati ottenuti alla propria azione. Fattori di rischio del burnout Anche se gli studiosi del fenomeno nel ricercare i fattori di rischio si sono divisi nel passato tra coloro i quali sottolineavano l’importanza delle condizioni ambientali e quelli che invece mettevano soprattutto in evidenza i fattori individuali, negli ultimi anni è emersa una linea teorica unica che vede la sindrome del burnout come un fenomeno multidimensionale dove entrano in gioco diversi fattori (individuali, socio–ambientali, economici, politici, storici, organizzativi), che si intrecciano tra di loro in maniera complessa. A livello individuale, il burnout tende a privilegiare particolari categorie di soggetti: non solo empatici, umanitari, disponibili (people oriented), impegnati, idealisti, ma anche ansiosi, introversi, ossessivi, altamente entusiasti e suscettibili tanto da identificarsi fortemente con l’altro. Spesso le persone colpite da burnout sono persone molto meticolose che hanno avuto sempre bisogno di dimostrare agli altri e a se stessi di essere bravi, capaci e convinte che solo così possono ottenere l’approvazione degli altri. Maslach e Jackson(1984) sostengono che l’operatore vulnerabile al burnout è piuttosto debole e remissivo nei rapporti con gli altri, non sa mettere i giusti limiti tra coinvolgimento personale e professionale, controlla con difficoltà i propri impulsi ostili, viene facilmente frustrato dagli ostacoli, sviluppa un senso di impotenza acquisita (learned helplessness) conseguente al mancato raggiungimento di risultati. 8 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 Prendendo in considerazione il concetto di coping, definito da Lazarus e Folkman come l’insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali che l’individuo compie allo scopo di gestire situazioni che egli considera logoranti e dannose, vediamo come l’operatore “scoppiato” sia in effetti un coper inefficace nel senso che di fatto non trova una soluzione al suo problema percepito, ma colpevolizza se stesso o gli altri mettendo in atto comportamenti aggressivi o atteggiamenti di tipo passivo o depressivo. Anche il senso di autoefficacia (self-efficacy), termine introdotto da Albert Bandura per descrivere la convinzione personale di avere le capacità di organizzare e impiegare le proprie risorse necessarie per gestire le situazioni in maniera adeguata, è di livello molto basso nell’operatore a rischio di burnout. Prendendo a prestito il concetto di hardiness elaborato da Salvatore Maddi per descrivere “l’insieme di attitudini e competenze che migliorano in un individuo le prestazioni, l’autorevolezza, il morale e la salute nonostante le condizioni avverse” (Zucconi, Howell, 2003), possiamo dire che l’operatore a rischio è fondamentalmente poco “hardy”. Il soggetto a rischio burnout infine ha la percezione di poter controllare direttamente gli eventi della vita: ha cioè un locus of control interno. Si sente in pratica attivo e responsabile di ciò che accade, anziché pensare che gli eventi e i risultati possono dipendere da fattori esterni al di fuori del proprio controllo. La teoria dei costrutti di Kelly dimostra come categorie di pensieri e costrutti rigidi possano favorire un modo disfunzionale di relazionarsi col proprio ambiente lavorativo da parte dell’operatore, comportando conseguenze negative sulle sue emozioni, sui suoi comportamenti e sulla sua salute in generale. I seguenti costrutti possono essere deleteri in termini di salute in un ipotetico operatore socio-sanitario. “IO DEVO essere bravo e DEVO essere approvato dagli altri altrimenti non valgo nulla e non merito di essere considerato” porta a vissuti di ansia, depressione, sensazione di essere indegni, paura di sbagliare. “Gli altri DEVONO comportarsi bene verso di me altrimenti non meritano la mia considerazione” invece determina risultati quali ostilità, rabbia, aggressività nel rapporto con gli altri, rancore. “Le cose DEVONO andare come la penso IO altrimenti la società peggiorerà sempre di più” porta ad una bassa tolleranza alla frustrazione e tendenza ad autocommiserarsi. “Se mi faccio vedere per come SONO realmente, per quelle che sono le mie emozioni e i miei pensieri sarò rifiutato da tutti i miei colleghi e magari perderò il lavoro” aumenta la sfiducia in sé stessi e abbassa la propria autostima. Come anticipato prima, le caratteristiche personali dell’operatore non possono essere considerate come cause del burnout, se non in connessione con altri fattori più complessi. D’altra parte infatti, esistono diversi fattori ambientali che possono favorire l’insorgere del burnout che, a causa della loro complessità, sono difficilmente modificabili dal singolo individuo e richiedono specifici interventi e strategie organizzative. Tali fattori sono ad esempio la durata del 9 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 turno di lavoro, eventuale condizione di isolamento, carattere bisognoso dell’utente, misconoscimento del valore professionale da parte del pubblico, risorse insufficienti, mancanza di criteri per misurare l’efficacia degli interventi, richieste di produttività eccessive, training inadeguato, indifferenza oppure interferenza indebita nel lavoro da parte dei “livelli superiori”, compenso insufficiente, confusione di ruoli, crollo del senso di appartenenza ad una comunità e conflitto di valori Si è inoltre visto che alcune categorie di professioni sono più a rischio di altre perché richiedono un maggior dispendio di energie, perché presentano rischi più elevati, perché il contatto con l’utenza è più carico di emotività di non facile gestione: è stato dimostrato che i medici che lavorano negli ospedali sperimentano un più alto livello di burnout rispetto a quelli che lavorano in studi privati, istituti di ricerca, università, uffici pubblici ed organizzazioni. Medici e personale parasanitario che lavorano nei settori psichiatrici, oncologici e polmonari, oltre che nell’ambito delle malattie incurabili, croniche e terminali, con prognosi gravi, mostrano un livello di burnout molto più alto di quello dei loro colleghi degli altri dipartimenti (otorinolaringoiatria, ginecologia ed oftalmologia). La tabella 3 mostra quelli che vengono considerati dunque i principali fattori di rischio del burnout, i quali presentano una loro interdipendenza complessa. Tabella 3: Fattori di rischio del burnout Fattori personali Fattori organizzativi Stress addizionale legato alla specifica tipologia di lavoro Promuovere la salute nei servizi socio-sanitari per prevenire il fenomeno del burnout Per Promozione della Salute si intende la filosofia e le azioni finalizzate all’adozione e all’accettazione del Paradigma Biopsicosociale che, come detto prima, vede la salute non più come assenza di malattia ma come una costruzione sociale, determinata da diversi sistemi (biologico, psicologico e sociale) interagenti tra loro in maniera complessa. Promuovere la salute significa ridare potere (empowerment) agli individui e alle organizzazioni affinché prendano in prima persona la consapevolezza e la responsabilità della tutela della propria salute. Gli stili di vita, i comportamenti che mettiamo in atto, i luoghi in cui decidiamo di vivere o lavorare, i modi di pensare, le strategie che scegliamo per affrontare la vita, le percezioni delle nostre capacità, le nostre relazioni sociali influiscono positivamente o negativamente sulla nostra qualità di vita e sulla nostra salute. Il fatto che il modello biomedico è stato imperante nella nostra cultura per decenni, ha portato l’uomo comune a pensare erroneamente di non avere alcun potere decisionale o controllo rispetto alla propria salute, delegandola 10 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 passivamente, qualora venisse a mancare, a chi invece di salute se ne occupa da sempre (forse sarebbe meglio dire di malattia) e cioè al personale medico. La medicina tradizionale, caratterizzata da una visione dualistica di scissione tra mente e corpo, dalla concezione della salute vista come assenza di malattia, dalla considerazione meccanicistica del corpo umano (visto cioè come una macchina formata da un insieme di apparati distinti l’uno dall’altro che, se smettono di funzionare, vanno “riparati”), non ha fatto altro che specializzarsi in maniera sempre più capillare nelle diverse branche per il trattamento e la cura di malattie dei diversi apparati dell’organismo umano, perdendo di vista quella che è la cosa più importante: la persona nella sua totalità con le sue emozioni, con i suoi pensieri, con il suo corpo, con le sue relazioni familiari, i suoi bisogni, la sua realtà interiore. È questo il motivo per cui “il pubblico è sempre più insoddisfatto dell’attuale sistema di assistenza medica, rilevando che esso ha generato costi esorbitanti senza migliorare in misura significativa la salute della gente e lagnandosi che i medici curano le malattie ma non si interessano ai pazienti” (Capra, 1982). “… Di certo non manca oggi occasione ufficiale in cui non si dichiari da parte della medicina che il paziente è al centro del sistema; eppure quante volte ci appaiono ancora insormontabili l’incapacità della medicina di mantenere le promesse di cura, la scarsa disponibilità all’ascolto e al dialogo da parte dei servizi e degli operatori sanitari, la lontananza delle istituzioni dal vissuto della malattia. Tuttavia, per quanto anche i sistemi sanitari dei paesi più ricchi vivano una crisi di credibilità senza precedenti per di più tra la crescente domanda di salute della popolazione e l’esiguità delle risorse economiche e finanziarie disponibili, non pochi sono i segnali che indicano che ci si sta muovendo nella giusta direzione… ” (Sagramoso, 2001). È evidente da queste parole, tratte da una rinomata rivista di aggiornamento per gli operatori della ricerca e della sanità, che la medicina si sia accorta in questi ultimi anni di una crisi in atto dettata dal fatto che il paradigma presente in tutti questi decenni, adesso non è più in grado di rispondere a problematiche sempre più complesse, e che vi sia la necessità di una medicina centrata sulla persona fondata su un paradigma sistemico come quello Biopsicosociale. Il burnout nelle professioni di aiuto, che girano tutte intorno al concetto di salute, può essere visto come un fenomeno complesso e multifattoriale, che è conseguenza del vecchio modo di pensare e di intervenire in tema di salute. Se è evidente quanto sia opportuna e necessaria una medicina centrata sulla persona, è altrettanto evidente quanto questa debba essere a maggior ragione nello stesso tempo centrata su tutte le figure che lavorano al suo interno. L’operatore che manifesta segni e sintomi di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione è fondamentalmente una persona che non si riconosce alcun potere personale nella gestione della propria salute, ancora prima di riconoscerlo nell’altro. Esso è a sua volta inserito in una organizzazione lavorativa che non ha conoscenza e consapevolezza riguardo ai concetti di promozione della salute, delle sue potenzialità, dei benefici che essa comporta a tutti i livelli e che continua a curare e/o assistere malattie e malati, anziché avere come obiettivo il 11 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 miglioramento della qualità della vita e del benessere dei pazienti e del suo personale socio-sanitario. Promuovere la salute nei servizi socio-sanitari non significa solamente fare informazione rispetto al nuovo concetto di salute e ai rischi a cui si può andare incontro nell’aiutare gli altri, ma soprattutto attuare dei programmi che facciano una efficace formazione, orientata alla salute e alla crescita personale e professionale, rivolta alle diverse figure che lavorano al loro interno. Questa potrebbe avere tra gli obiettivi: • sviluppare tra gli operatori una modalità di comunicazione efficace da mettere in atto sia con i colleghi sia con gli assistiti, utilizzando le tecniche del metodo Gordon di ascolto attivo e di messaggio in prima persona. L’ascolto passivo e il messaggio in seconda persona aumentano la probabilità di sviluppare conflittualità e nervosismo all’interno della struttura in quanto creano giudizio. I conflitti sono inevitabili: tanto vale avere delle competenze efficaci per poterli gestire! • rendere consapevole l’operatore del fatto che un atteggiamento assertivo che mira ad affermare con decisione i propri bisogni e i propri diritti rispettando quelli dell’altro è sicuramente più funzionale e salutare rispetto ad un atteggiamento di tipo passivo o ancora peggio aggressivo. Avere un atteggiamento passivo porta l’operatore a vedere le richieste legittime dell’utente come una minaccia al proprio organismo e a percepire un senso di impotenza rispetto a queste e, dall’altra parte, avere un atteggiamento aggressivo porta l’operatore a vivere il suo lavoro con senso di colpa e autosvalutazione. • riconoscere i propri limiti ed accettarli spostando il locus of control dall’interno verso l’esterno. In questo modo l’operatore smorzerà il proprio senso di onnipotenza che porta inevitabilmente a un senso di fallimento. • creare un clima di rispetto, fiducia e accettazione reciproca dando la possibilità ad ognuno degli operatori di affermare se stesso senza per questo essere giudicato dagli altri. • insegnare alle persone a gestire lo stress che è inevitabile in ogni professione, e a maggior ragione in una professione di aiuto, attraverso l’esercizio fisico, lo sviluppo delle capacità di autorilassamento, la possibilità di esprimere le proprie emozioni, il cercare un supporto tra i colleghi o all’esterno, prendere momenti di svago, rielaborare i pensieri negativi di autodisconferma e bassa autostima e trasformarli in pensieri positivi, darsi dei crediti. • rendere consapevoli gli operatori delle strategie di coping che mettono in atto per affrontare i problemi del loro lavoro e qualora queste fossero riconosciute come poco salutari o disfunzionali, trovare e mettere in atto strategie più efficaci. • essere centrati sul cliente sviluppando le capacità empatiche e di accettazione nei sui confronti senza perdere di vista se stessi con il proprio mondo interiore fatto di emozioni, pensieri e sentimenti che hanno diritto di cittadinanza. 12 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 • far partecipare ogni operatore alle scelte importanti della struttura, in modo da aumentare il proprio senso di appartenenza, anziché sentirsi l’ultimo gradino di una scala gerarchica dove lui non ha alcun potere decisionale. • rendere consapevoli i servizi socio-sanitari del fatto che un posto dove ci sono turni troppo pesanti, dove non c’è possibilità e tempo di “ricaricarsi” e dove non vengono ascoltati i bisogni e le emozioni delle persone è un posto dove ci si ammala facilmente e le conseguenze sono negative a più livelli e non solo per chi lavora in prima persona. È intuibile che oltre ad una adeguata formazione di questo tipo è indispensabile per promuovere la salute anche una supervisione continua ed efficace all’interno delle strutture dove tutto l’organico abbia la possibilità di esprimere se stesso con tutte le paure, le debolezze, i sensi di colpa o di impotenza, i suoi modi personali di vedersi nel suo agire quotidiano, in un clima accettante, rispettoso e di fiducia reciproca beneficiando del supporto e del sostegno da parte di tutti, colleghi e superiori. Conclusioni Promuovere la salute nei servizi socio-sanitari rendendo consapevoli tutti gli attori sociali del fatto di avere un potere nella tutela e nella gestione della propria salute e del fatto che lavorare in un luogo “sano” porta dei benefici per tutti e a più livelli, può essere una buona strategia per contrastare il fenomeno del burnout nei professionisti di aiuto ridando loro nuovi stimoli e ridefinendo il significato del loro operare. A riguardo, sempre più oggi, la figura del promotore della salute all’interno delle realtà socio-sanitarie, acquista un ruolo decisivo ed indispensabile nel creare le condizioni adatte per un cambiamento del modo di pensare riguardo la salute, attuando così una vera e propria “rivoluzione paradigmatica” che porti benessere e soddisfazione professionale. Bibliografia APPLEY, M.H., TRUMBULL R. (a cura di) (1987) Dinamics of stress, Plenum Press, New York. BAKAL D.A. (1980) Psicologia e medicina (trad. t.), Roma, Armando, 1984. BERTINI M. (1988) Psicologia e salute. Prevenzione della patologia e promozione della salute, Nuova Italia Scientifica, Roma. CAPRA F. (1984) Il punto di svolta, Feltrinelli, Milano. CAPRARA G.V., BORGOGNI L. (1988) Stress e organizzazione del lavoro, «Bollettino di Psicologia Applicata», 187-188, pp. 5-23. CHERNISS C. (1980) Staff Burnout: Job Stress in the Human Services, Sage Publication Inc., Beverly Hills, Cal. 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