Il mio Yemen IX e fine

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Il mio Yemen IX e fine
Il mio Yemen (1955 - 1968)
di cinta del giardino e arrampicandosi poi sui tetti delle case vicine: da lì, fra tetti
e giardini, poterono uscire dalla città; qualcuno procurò dei cavalli, con i quali
galoppando vertiginosamente si eclissarono nella notte verso i confini con l’Arabia
Saudita.
Il colonnello Sallal era il Presidente della nuova Repubblica.
A Taiz non ci furono sparatorie. I rivoltosi, durante la notte, occuparono, senza
colpo ferire, tutti i punti strategici della città, cogliendo completamene di sorpresa
le Autorità imamiali.
Ci svegliammo, la mattina, ignari di quanto era avvenuto. Lo sapemmo dal nostro
Dahan, che accolse la cosa con notevole indifferenza: per la povera gente non si
trattava di una questione politica o di grandi principii; si badava, soprattutto, a
garantirgli la pagnotta quotidiana.
Arrivai in ospedale giusto in tempo per vedere una jeep carica di soldati che arrestavano Alì Humed e lo portavano via. Seppi poi che l’Ambasciatore etiopico si era
mosso fulmineamente per Alì, che era somalo. In quei primi momenti della rivoluzione, un minuto di ritardo poteva essere fatale.
I giovani ufficiali che avevano il potere non potevano accusare Alì di niente, salvo
che di essere stato persona di fiducia dell’Imam: era sempre stato onestissimo e
più che corretto. Dopo una settimana Alì Humed fu liberato e non subì più angherie di nessun genere. Andai, quella stessa mattinata, a Medina per parlare con gli
amici dell’Ambasciata e avere notizie sulla situazione a Sanaà. A Bab el Musa c’era
un posto di blocco agguerritissimo.
Camion militari e jeep correvano avanti e indietro, non si sa bene dove e perché.
Percorsi tutto il suk: negozi chiusi, poca gente in giro. Poco più in là incrociai un
camion che stava portando via il Governatore, che era genero dell’Imam. Lo conoscevo bene. Era un bell’uomo, non molto simpatico, molto fiero, duro, ma di modi
signorili. Gli avevano lasciato addosso solo un lungo camicione bianco che svolazzava mentre lui, dritto in piedi fra la torma di soldati che lo portavano via, ostentava un atteggiamento sprezzante che non dimenticherò mai: il disprezzo di un
nobile francese portato alla ghigliottina dai sanculotti. I nostri sguardi si incrociarono per un attimo. Fece con la testa un impercettibile segno di addio e mi sorrise.
Pensavo che lo portassero a Sanaà, ma dopo pochi chilometri, nelle immediate
vicinanze di Taiz, fu fatto scendere dal camion e fucilato.
Era troppo odiato.
Dopo qualche giorno i nostri due Ambasciatori fecero ritorno a Taiz. Guillet ripartì
subito per Roma, dove avrebbe personalmente illustrato la situazione che si era
venuta a creare nel Sud-arabico.
Come era stato previsto, Nasser mise subito in opera un suo piano strategico,
inviando in Yemen, su formale richiesta di aiuti da parte della Repubblica, un forte
contingente di truppe scelte, calcolato a più di 40.000 uomini, dotato di mezzi
bellici notevoli: aerei, cannoni, carri armati, etc.
Un mistero insoluto resta il fatto che, al loro attivo, gli Egiziani ritirarono tutte le
monete d’argento in circolazione, sostituendole con moneta carta, di cui erano già
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forniti. Erano stampate dal Poligrafico dello Stato a Roma!
L’occupazione egiziana mi ricordava il nostro 8 settembre. Sembrava, sotto non
pochi aspetti, di essere ritornati agli anni duri della guerra.
In ospedale venne instaurato un ferreo controllo egizio, con un Direttore che faceva il Reis assoluto.
Proprio in quei giorni, o forse proprio a causa di quelle drammatiche giornate che
avevano portato il lavoro di Benardelli al diapason della tensione nervosa, l’Ambasciatore mi mandò a prendere con la sua macchina.
“Ho un dolorino qui alla bocca dello stomaco, roba da poco, ma desidererei che lei
mi vedesse”.
Detta da lui, cioè da un friulano tutto d’un pezzo che scalava montagne, dormiva
all’addiaccio nel sacco a pelo, mai si lamentava di niente, questa sintomatologia
poteva destare sospetti.
Infatti, fatto un elettrocardiogramma, vennero fuori i segni di un piccolo infarto. Si
apriva un problema difficile: come dire, tout court, che era un infarto? Allo stesso
tempo come bloccare la frenetica attività dell’Ambasciatore, per lo meno sul piano
dello sforzo fisico? L’andirivieni fra la sua stanza, al secondo piano, e gli uffici, era
la prima cosa da eliminare. La gentile e attivissima signora Luciana era in Italia.
Dissi, quindi, che c’era stato un campanello d’allarme coronarico e, visto il caos
di quei giorni, bisognava che si curasse come se avesse avuto un infarto. Riposo,
almeno fisico. Tutta la parte operativa degli uffici fu trasferita nella sua stanza da
letto.
Questo provvedimento e una terapia adeguata riportarono le condizioni cardiache
a livelli accettabili.
Era appena finita la preoccupazione che assolute necessità contingenti costrinsero
l’Ambasciatore ad andare a Sanaà, ove tutte le sedi diplomatiche dovevano trasferirsi. Sanaà infatti era tornata ad essere capitale.
L’alta quota che doveva affrontare non era certo indicata in quel momento. Cercai
di convincere Benardelli di trovare una scusa con il Presidente Sallal e di rinviare
un trasferimento così pericoloso per lui. Niente da fare. L’Ambasciatore era talmente ligio al suo dovere che affrontò calmissimo quel rischio.
Per fortuna tutto andò bene.
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13. La Repubblica Araba Yemenita del colonnello Sallal
Tutto ha una fine
Il problema fondamentale della nuova Repubblica era quello di costituire rapidamente un esercito. A parte i giovani ufficiali, promotori della rivoluzione, e il
colonnello Sallal, in tutto il resto del Paese i vecchi guerrieri delle varie tribù erano
in genere per la Monarchia imamiale. Sallal era un nome troppo nuovo per avere
grande ascendente nell’esercito: sembrava più una pedina che un protagonista nel
gioco di forza che era iniziato. Venne a Taiz, di passaggio, dopo qualche mese dal
colpo di stato.
Io e Parrinello fummo chiamati al suo capezzale per fare un esame elettrocardiografico. Restammo sorpresi dalla realtà: il colonnello era prigioniero di eventi assai
più grandi di lui. Aveva l’aria di una brava persona, non certo quella di uomo forte
del nuovo regime. Era contornato da Egiziani che lo sorvegliavano strettamente:
dalla scorta a un medico personale che cercava di non “mollarlo” mai.
Il Presidente ebbe modo di dirci, di nascosto, qualche parola in italiano che confermò
quanto appariva palesemente. Era e si sentiva prigioniero.
L’aspetto dei guerrieri egizi era, a prima vista, ineccepibile: ragazzi alti, muscolosi,
con divise da paracadutisti di grande effetto. Ma, come detto, erano, nella stragande maggio- ranza, “grandi, grossi e frollocconi”, per usare una efficace espressione
pariolina all’epoca del Marc’Aurelio. C’era fra loro qualche grande sportivo, qualche campione, impacchettato e spedito in Yemen per fare un po’ di propaganda
sulle riviste e i rotocalchi di moda nel mondo arabo. L’idea non era nuova: ricordavo, durante la guerra, le foto del grande Max Schmeling, gloria della boxe tedesca,
mentre, bardato da paracadutista, si stava per lanciare, sorridendo, su Creta.
Alì Giaesh mi chiamò, una volta, molto emozionato e felice, per presentarmi ad un
grande campione di boxe egiziano - mi sembra dei pesi medio-massimi - affermato
anche a livello internazionale.
Era circondato da una folla plaudente di giovani, nel cortile dell’Ospedale, e distribuiva autografi.
Alì se lo trascinò dietro sino al mio studio perché gli dessi un’occhiata. Non ricordo
che dolori accusasse, ricordo però che si trattava di una smaccata simulazione per
cercare di tornarsene a casa. Il giro dimostrativo in Yemen aveva esaurito la sua
funzione propagan- distica: ora il povero campione che non mi nascondeva affatto
la sua paura temeva di essere utilizzato sul serio nelle zone calde del conflitto.
Se queste erano le truppe scelte di Nasser, figuriamoci il resto....
Per reclutare nuove leve repubblicane si fece di tutto. Alì Giaesh, che era un attivista del nuovo corso, si occupava a fondo del problema nella zona di Taiz. A
un certo punto misero in piedi un Ufficio Reclutamento. Chiesi all’Ambasciatore
Benardelli se potevo aderire alla richiesta che mi era stata fatta di esaminare, due
volte alla settimana, i volontari. Al suo benestare mi misi a fare questo lavoro, nel
pomeriggio.
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Sfilavano davanti a me giovani e giovanissimi che si erano arruolati. Un certo nerbo consistente di truppa venne creato. Erano ragazzi inesperti, non so come avrebbero potuto fronteggiare i guerrieri degli altopiani. Gli Egiziani si dissanguarono in
una guerriglia durissima. Impiegarono tutte le armi più moderne e persino le bombe incendiarie al napalm e i gas causticanti, ma gli avversari erano imprendibili,
tendevano continue imboscate, attaccavano fulminei all’arma bianca con le loro
micidiali jambie. Si parlava di perdite molto consistenti. Forse diecimila uomini.
Le truppe monarchiche armate dall’Arabia Saudita vivevano di niente: un pugno di
riso, qualche dattero, pochissima acqua. Solo il qat, tonico-euforizzante, era abbondante, per sostenere la fatica e la fame. Arrivarono, a un certo punto, a circondare Sanaà che fu sottoposta a un duro martellamento con i bazooka.
Benardelli ordinò lo sgombero di tutti gli italiani colà residenti, che sfollarono a
Taiz e ci raccontarono delle loro durissime condizioni di vita: problemi di viveri, di
acqua; finestre protette da sacchetti di sabbia, oscuramento totale, colpi di bazooka
e di piccoli mortai a ripetizione.
Le notizie più contraddittorie piovevano a destra e a sinistra. I Sauditi appoggiavano i Monarchici offrendo loro anche le basi di partenza per le loro azioni. La situazione rimaneva incerta e confusa.
Come c’era da aspettarsi, l’atteggiamento dei consiglieri egiziani spingeva il nuovo
governo contro gli occidentali.
Proprio in quel periodo drammatico venne in testa all’ambasciatore USA di organizzare una grande soirée di bridge al nostro Club.
Feci presente che vigeva un severo coprifuoco dalle 9 di sera. Il Club era in aperta
campagna, a 4-5 km da Taiz. Non era più opportuno anticipare il torneo di bridge
al pomeriggio? Ma l’ambasciatore USA era molto sicuro di sé: “Basta tornare tutti
insieme, in colonna. Mi metto io davanti, con la macchina dell’Ambasciata”.
Tornammo, infatti, “in formazione” di colonna. Saranno state le 11,30 di sera.
All’estrema periferia di Taiz un grande posto di blocco ci fermò. L’ambasciatore
USA scese dalla sua macchina, che era davanti alla mia, e andò a protestare col comandante, un giovane ufficiale delle nuove leve, assai poco cordiale. Ben presto la
situazione si fece grave. L’ambasciatore sosteneva che, essendo incolonnati dietro
la sua macchina, avevamo pieno diritto di passare. Tornavamo da una riunione
amichevole al nostro Club e avevamo tutti i diritti di rientrare alle nostre case; non
parliamo di lui - l’ambasciatore - che doveva rientrare in Ambasciata.
Il giovane ufficiale non si dilungò molto nella discussione e gli disse “papale-papale”: “Le dò un minuto di tempo per tornare indietro. Altrimenti spariamo”.
Sentii che dava ordini poco rassicuranti ai suoi uomini. Scesi immediatamente
dalla macchina e mi feci vedere dai soldati. Lo stesso fece Bucci. Avevamo scelto la
via giusta. Sentimmo gente che ci chiamava: ci avevano riconosciuto.
“Ma questo è l’Akim Dakalia (il medico internista)!”
“Ma questo è l’Akim Algirà (il chirurgo)!”
“Mia moglie sta meglio, Akim!”
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“Devo portare all’Ospedale mia figlia!” L’atmosfera si era disgelata di colpo.
“Sentite, amici, fateci tornare a casa questa sera, se no, domani mattina, all’ospedale chi ci va?”
Tutto si appianò. Ci fecero passare tutti, compreso l’Ambasciatore.
Venne, poi, l’ora della “grande cacciata”.
Un americano, nostro caro amico, fu accusato di essere una spia, arrestato e sbattuto in prigione. Si temette per la sua sorte. Poi fu rilasciato, ma, contemporaneamente fu decretata l’espulsione di tutti gli americani da mettere in atto in 48 ore.
Il “Campo” americano fu messo sotto stretta sorveglianza: vietato entrare e uscire.
Con Ennio Parrinello trovammo il modo di infrangere l’ordine (prendendoci, poi,
una solenne ramanzina formale da parte dell’Ambasciatore).
Andammo, così, a salutare gli amici più intimi con cui avevamo diviso tanti giorni
sereni... All’uscita dal Campo la Land Rover di Ennio, su cui eravamo, fu perquisita con sospetto da cima a fondo. Non portavamo via dal Campo nulla, salvo una
pesante malinconia per quanto stava accadendo.
In quei giorni, sobillati dagli Egiziani, ci furono assalti e incendi alle Ambasciate.
Prima a quella inglese, poi a quella USA ed a quella della Germania Ovest. I Tedeschi occidentali erano accusati di aver dato agli Israeliani ventimila maschere
antigas. Feci notare ad Ali Giaesh che, dopo aver fatto fuori milioni di Ebrei nelle
camere a gas, il fatto non mi sembrava potesse costituire reato.
Nessun incidente al personale delle Ambasciate.
Mia moglie era rimasta a casa e si preoccupò, giustamente, della situazione quando
fu assalita una Ambasciata vicina a noi. Prese la bambina, si vestirono con jeans e
scarpe da tennis, mettendo i valori in una borsa a tracolla, pronte a fuggire in caso
di necessità. Una vicina di casa, araba, le invitò nella sua veranda, per maggior
sicurezza, ma non accadde nulla.
Un giorno mi chiamarono d’urgenza al mio Reparto. Mentre mi avviavo, sentii
qualche colpo d’arma da fuoco molto lontano, in direzione di Giamalia, verso Nord
Est.
Subito gli Egiziani che erano di guardia davanti all’ospedale si misero a sparare
all’impazzata in aria con i loro mitragliatori. Arrivai al portone d’ingresso e stavano, indecisi e preoccupati, con le armi in pugno, pronti a una seconda raffica a
vuoto.
“Ma che diavolo fate, amici? A chi sparate se non c’è in vista nessuno? I colpi venivano da Giamalia! Non sprecate le pallottole! Costano tanti soldi! Credete che al
vostro Reis (Nasser) gliele regalino?”
E così dicendo, feci l’atto di togliere il mitra di mano al soldato più vicino. “Volete
far arrabbiare Nasser?”
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La sceneggiata fece effetto e riportarono le armi a tracolla dopo aver messo la sicura. La stupenda scuderia di cammelli da guerra dell’Imam era sparita. Probabile
che fosse stata trasportata al Cairo, come si diceva.
Erano cammelli straordinari, bianchi, strigliati in modo perfetto, d’una potenza,
eleganza e agilità di movimento nettamente superiore ai comuni cammelli. Sembravano macchine di formula uno rispetto ai loro colleghi più umili. La loro velocità di crociera era davvero impressionante: divoravano letteralmente il terreno
con leggerezza incredibile, guidati da “specialisti” provetti. Si poteva comprendere
come gli antichi yemeniti preferissero trasportare le spezie sino al Mediterraneo,
una volta giunte via mare dall’India, con le loro carovane di cammelli. Avevano il
monopolio delle spezie ed anche quello dell’allevamento di cammelli di gran razza.
Nessun altro popolo arabo arrivava a tanto.
Pino Gasparini, che apprezzava molto i cammelli e se ne andava in giro, nei giorni
festivi, in groppa a qualche esemplare imamiale, seguito da Theresa e da William,
aveva ideato un programma bellissimo.
Formare una carovana di cammelli e ripercorrere l’antica via delle spezie sino al
Mediterraneo. Durante il lunghissimo viaggio si sarebbe fatto un accurato “dépistage” alla ricerca dei lebbrosi. Vari Enti e Riviste illustrate americane avrebbero
sostenuto la spedizione che era previsto durasse circa tre mesi (gli antichi Sabei arrivavano al Mediterraneo in 70 giorni, secondo Strabone). Purtroppo, con la nuova
situazione in Yemen e il conflitto in Palestina e sulle sponde del Canale di Suez,
pensare ad una iniziativa del genere era diventato una vera follia!
Il ritiro dalla circolazione delle monete d’argento mi faceva ricordare con nostalgia
il glorioso vecchio tallero di Maria Teresa e le sterline d’oro (di conio originale o
milanese) che ci portavamo appresso andando in Europa.
Fra i molti episodi mi ricordavo l’affannoso viaggio sino all’Hospital Cantonal di
Ginevra, in piena guerra del Canale del ’56, che bloccava il transito aereo, in occasione della nascita di mia figlia.
Appena giunti a Ginevra, dopo sette giorni di strapazzi, iniziarono le doglie di mia
moglie. Con un taxi corremmo all’Hospital Cantonal.
La Clinica Ostetrica era diretta, proprio da quell’anno, dal prof. de Vatteville, che
sarebbe divenuto celebre in tutto il mondo risolvendo brillantemente casi difficili di alcune grandi dive, a cominciare da Sofia Loren. Avevo scritto da Taiz a de
Vatteville per ogni precauzione, ma il professore non c’era. Arrivammo all’ospedale
in condizioni deplorevoli. Le nostre valigie erano rimaste, per sbaglio della Compagnia aerea, a Roma. I nostri vestiti di cotone erano ridotti in pessimo stato, sporchi
e acciaccati.
Ci guardarono con comprensibile diffidenza.
Capii immediatamente l’antifona e, aprendo davanti agli occhi sbalorditi della
segretaria, la custodia della mia Voitglander, rimestai con una mano nel grosso
mucchietto di sterline d’oro che conteneva.
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La diffidenza cadde di colpo. Spiegammo la situazione. Dissi che ci doveva essere la
mia lettera scritta da Taiz al professore. Fummo trattati al meglio. La Capo-clinica,
una energica dottoressa, fu bravissima.
All’alba nacque una bella bambina. Era il 26 agosto 1956.
Andando ad iscriverla all’anagrafe pensai di aggiungere al nome già scelto, Mira,
un attributo ginevrino. Nella fretta e nella emozione del momento, anziché scrivere Genève, scrissi Geneviève. Un dolcissimo nome, in francese, ma, tradotto in
italiano, Genoveffa. Be’ - pensai - e chi lo traduce? E’ Geneviève e Geneviève resta,
anche in Italia. Mira Geneviève è un gran bel nome”.
Ma mia figlia non me lo ha ancora perdonato.
Dopo qualche tempo, una volta, andammo al Castello di Chillon, proprio a picco
sul Lago di Ginevra, nella sponda meridionale. Era stato il caposaldo principale dei
Savoia nel loro dominio medievale della regione. Poi la popolazione si era violentemente ribellata ed era riuscita a cacciarli. Il Castello era davvero splendido e perfettamente conservato. Visto da fuori sembrava un magnifico giocattolo, fiabesco.
Ben diversamente concreto era l’interno, che si rivelava per quello che era stato:
uno spietato strumento di potere. I Savoia, almeno da quelle parti, non avevano
certo avuto la mano leggera: le carceri con le borchie di ferro infisse al muro per
tenere incatenati i prigionieri, la stanza della tortura con uno scivolo a lago che si
apriva in un angolo del pavimento: questo era fatto per scaricare in acqua i cadaveri dei giustiziati o per uccidere direttamente, in quel modo, i prigionieri. Tutto era
Chillon, salvo che un’immagine oleografica del dominio savoiardo.
Al confronto il significato della macchia scura che segnava il centro del campo
sportivo di Taiz era, tutto sommato, poca cosa.
La nuova guerra sul Canale di Suez si scatenò, improvvisa, nel 1965. Tutto l’apparato propagandistico di Nasser si mise in moto in maniera martellante: Radio
Cairo diffondeva un bollettino di vittoria dopo l’altro, intramezzati da musica
marziale.
Di fronte a questa valanga radiofonica che si riversava per le piazze, per le strade,
con altoparlanti a tutto volume piazzati su camion, dalle finestre aperte delle case,
dalle radioline portate in giro dai passanti, gli yemeniti raggiunsero lo stato di
ubriachezza...
Persone calmissime, come il nostro vecchio ascari e boy, Dahan, correvano agitate
e festanti, ogni dieci/quindici minuti, ad annunciare:
“Dieci aerei israeliani kalàs (finiti, distrutti)!” “Cinquanta aerei israeliani kalàs!”
“Duecento......!”
“Cinquecento....!
“Ormai sono più di mille...!”
Tutti avevano perso la testa in questa orgia trionfalistica. Verso sera il tema degli
aerei distrutti fu sostituito da avanzate vertiginose oltre il Canale.
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Tutta la notte il bombardamento di notizie dell’emittente egiziana si mantenne su
questi toni.
Il giorno dopo si incominciò ad avvertire qualche pausa. Il terzo giorno le musiche marziali erano più delle parole. La notte seguente cadde dall’etere un silenzio
impressionante, tanto più corposo dopo la bagarre dei giorni precedenti. Tornando
a piedi da Medina, la notte, eravamo le uniche persone per strada. Da una finestra
aperta e illuminata di una casetta araba si sentì, improvvisamente, la ripresa del
collegamento con il Cairo. Una folla immensa sgomenta attendeva nelle piazze la
parola del Reis. Nasser fu grande sul serio. Disse al popolo che era stato sconfitt
e, quindi, era lui, come capo supremo, il responsabile della disfatta. Se ne sarebbe
andato. Avrebbe ancora combattuto, sino alla morte, ma come semplice soldato.
Parlava con un tono di voce che non dimenticherò mai: molto lentamente, come se
ogni parola che gli usciva di bocca gli costasse dolore e fatica. Non dubitava minimamemnte nel futuro del Paese: con gente così non si poteva che superare quel
tragico momento e ritornare alla vittoria.
“Ora è il momento di lasciarvi” - disse così o qualcosa del genere.
Fu un colpo da maestro. La gente urlò con quanto fiato aveva in gola e con sincero
slancio: “No! No! Resta! Resta! Sei sempre il nostro Reis!”
Al confronto, i famosi discorsi del Duce dal balcone di Palazzo Venezia, in adunate
“oceaniche”, erano esercizi da dilettante.
Durante le prime trionfalistiche giornate c’era in giro aria brutta verso gli Occidentali. L’Ambasciatore Benardelli ebbe ordine dalla Farnesina di ospitare in Ambasciata tutti gli italiani. A noi sembrava una misura precauzionale inutile ed anche
poco intelligente: farsi vedere in giro con i materassi sul tetto della macchina per
andarsi a rifugiare in Ambasciata non era un sistema per attirare su di noi l’attenzione di tutti? E perché ci rifugiavamo se eravamo lì come amici, per lavorare per
lo Yemen?
All’Ambasciata fu creato un dormitorio utilizzando i grandi corridoi che dividevano gli Uffici. La sera ci fu un “rancio cameratesco” preso con allegria per la stramba
situazione in cui eravamo venuti a trovarci.
La mattina, nel dare una mano per preparare un buon caffè per tutti, caddi per le
scale e mi fratturai il gomito sinistro. Venne fuori un tale ematoma che dovettero
tagliare la manica della camicia per liberare il braccio e immobilizzarlo con una
sciarpa al collo.
Chiesi a Benardelli di rientrare a casa e all’Ospedale, per lo meno per farmi sistemare bene il braccio. Con me vennero a riprendere servizio anche gli altri medici.
In Ospedale fummo accolti cordialmente: non si erano capacitati della nostra andata in Ambasciata. Noi italiani eravamo sì occidentali, ma amici sul serio. I colleghi russi ci sfotterono un po’ ed uno di loro mi regalò una bottiglia di vodka:
“Così potrai tirarti su in questi brutti giorni in cui ce l’hanno con voi” - mi disse
ridendo e dandomi grandi pacche affettuose sulla schiena.
Un paio di giorni dopo Radio Cairo disse che la sconfitta era imputabile ai Russi
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che avevano fornito al povero Reis armi e carri armati vecchi e sgangherati. Ci fu
una improvvisa ondata xenofoba antirussa. Se non ci fosse stato il pronto intervento delle autoblinde, una folla inferocita avrebbe assaltato anche l’Ambasciata
URSS.
Due giorni dopo in Ospedale, andai a consolare il mio amico russo che, assieme
agli altri medici sovietici, aveva avuto ordine di non recarsi a lavorare sino a che le
acque non fossero tornate tranquille.
Gli regalai una bella bottiglia di wisky e, battendogli grandi pacche affettuose sulla
schiena, come lui aveva fatto con me:
“Questa volta i cattivi siete voi, caro Tovarich” - dissi - “Bevici sopra!” Ci mettemmo a ridere simultaneamente, con sincera spontaneità.
La guerra del Canale produsse un effetto magico: l’immediato ritiro delle truppe
egiziane dallo Yemen. Come ho detto, erano truppe scelte e farne a meno in un
momento così tragico per la vita dell’Egitto sarebbe stata una follia.
Rimasti soli a fronteggiarsi fra di loro, senza stranieri interessati fra i piedi, il
miracolo avvenne: pian piano la guerra civile finì per spegnersi. Con enorme buon
senso - ritengo frutto del grande retaggio storico dell’antichissima loro civiltà - odi
e vendette personali e tribali furono messi da parte. Il nuovo Presidente della giovane Repubblica, eletto quando io già ero rientrato in Italia, era persona di grande
prestigio morale, il Cadi Eriani. Una figura accostabile al nostro Einaudi.
La vita a Taiz aveva ripreso un andamento normale, ma aveva perso il sapore di
una volta. Sulla spinta dei recenti sconvolgimenti c’era l’ansia, più che giustificata, di instaurare un nuovo ciclo storico, più moderno. Naturalmente, ciò andava
bene sul piano commerciale, con nuove iniziative di tutti i tipi (alberghi, piccole
industrie semi-artigianali, ecc.), ma non certo su quello del mantenimento di quei
valori ambientali che avevano costituito il fascino del “mio” Yemen.
Le case e i palazzotti moderni, di infami e sgargianti colori, erano l’espressione più
vistosa di quel nuovo mondo europeizzante che stava nascendo.
Un giovane venne, una notte di Ramadàn, a bussare alla porta del mio giardino.
Saranno state le tre e mezzo. Era vestito all’europea. Parlò in inglese dicendo che
sua moglie aveva fatto una colecistografia un mese prima, tutto era a posto, ma
voleva la mia opinione. Solo la mia opinione.
“La mia opinione? A quest’ora?” - pensai. “E vai in giro europeizzato?” Feci finta di
non conoscere l’inglese. Ci riprovò in francese. Stessa scena. Ci riprovò in arabo.
Idem. Allora, disperato, mi chiese in arabo elementare: “Ma di che paese sei?”
Parlando ancora più rudimentalmente di quanto in realtà sapessi fare, risposi,
calmo calmo:
“Anà Sini” (io cinese) - “Man - Ciu - li”.
Mi venne spontaneo scoprire, in quell’attimo, che il mio, volendo, diventava veramente un cognome cinese.
Il giovane, allora, si arrese e mi lasciò in pace, allontanandosi nella notte.
Venne il tempo di ritornare in patria. Rizzoli mi voleva ancora con sé. Era una occasione di rientro da non perdere...
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Dalla corte dell’Imam alla corte del “Cummenda” - pensavo.
Partimmo, sereni e contenti; lo Yemen ci aveva dato molto, non tanto in termini
economici, ma in senso assai più profondo e sentito; ci aveva arricchiti dentro.
L’aeroporto di Taiz era poco cambiato dal lontano giorno del mio arrivo. Gli amici erano lì, a salutarci. Guardai la famigliare, massiccia mole del Gebel Saber con
una certa commozione. Addio qat, addio caffè Moka e Hodeidah! Il bimotore
dell’Ethiopian Airline rullò sulla pista, poi decollò col solito, spericolato tuffo nel
vallone.
Addio, Taiz!
Era una splendida giornata di marzo del 1968.
Carichi di bagagli, un vaporetto di linea ci portò dal molo Beverello a Ischia. Costeggiammo la collina di Posillipo, il Parco virgiliano, la Caiola, Nisida; tagliammo
il
golfo di Pozzuoli sfiorando Capo Miseno e da lì puntammo su Ischia.
Il Monte Epomeo dominava l’isola e ci fece ricordare il Gebel Saber. Superammo
Procida col suo Castello-Penitenziario e le sue casarelle allineate lungo la riva come
in un presepio napoletano del ‘700: bianche, rosa, celesti, rosso pompeiano, erano
dipinte a calce, con quelle tonalità morbide che solo questo tipo primitivo di pittura può dare.
Ecco Ischia! Il Castello Aragonese, sul suo scosceso isolotto roccioso (l’Insula Minor dell’alto Medioevo), era l’immagine beneaugurante di un felice ritorno a quegli antichi lidi. Il porto, perfettamente circolare, residuo di un cratere vulcanico,
era animato da un viavai di imbarcazioni di tutti i tipi. All’àncora c’erano yacht di
lusso: il Sereno di Rizzoli, quello di Marzotto, la Ultima Seconda, un bel brigantino
nero e oro, di Révlon....
Sbarcammo davanti alla Chiesa di Portosalvo.
Un lungo, importante capitolo di vita si era concluso.
Non era, certo, possibile fare, come dicono in Ancona, gli “Strolighi” e presagire
quali e quante dolci o amare pagine c’erano ancora da sfogliare!
Cosa si prova a rientrare in Patria dopo tanti anni? E’ bello, indubbiamente, ma il
disagio del reinserimento può essere, in certi casi, anche pesante.
La vita, il gusto, le abitudini, la mentalità corrente, la filosofia e la morale spicciola
cambiano giorno dopo giorno, insensibilmente per chi segue il flusso, non così per
chi ne sta fuori. Interrompere per anni i contatti significa trovarsi di fronte, al rientro, un mondo diverso, poco comprensibile, alle volte estraneo ed ostile.
Mi sentivo come il Centauro che in quel tempo l’amico Aldo Pagliacci stava dipingendo: all’angolo fra via dei Greci e via del Babbuino in una città desolatamente
vuota. Nella vetrina di un antiquario una graziosa e sorridente centauressa di marmo... Finalmente qualcuno simile con cui capirsi.. mi ricordai della Carla... Chissà
dov’era...!
***************** Fine ************
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La Rassegna d'Ischia n. 5/1993
Il mio Yemen (1955 - 1968)
Appendice
Tenacemente arroccato nella sua caratteristica forma di civiltà, lo Yemen restò
vigorosamente chiuso per secoli ad ogni viaggiatore straniero.
Le eccezioni a questa regola sono state, sino a pochi anni fa, così poche che
l’Encyclopaedia Britannica ed. 1963 può ancora scrivere: “The exploration of Arabia is virtually complete, except of part of the Yemen” (vol. 2, pag. 172).
Il primo europeo che riuscì a mettere piede in Yemen fu, nel 1501-1502, il gentiluomo (bolognese di nascita, romano d’elezione) Ludovico de Varthema. Fingendosi
musulmano, egli si avventurò nel Sud Arabico con le carovane partenti dalla Siria,
visitando (anche in ciò primo fra gli europei) i luoghi santi dell’Islam. Grandissimo
viaggiatore (il “viator” raffigurato, col suo fardello in spalla, in molte antiche carte geografiche, come motivo ornamentale e simbolo della tenacia umana), da lui
attinsero, citandolo, l’Ortelius, il Mercator, ed altri grandi geografi), acuto e gustoso narratore, il de Varthema si spinse in Persia, India, Giava, Borneo, sino alle
Molucche, ove per primo ebbe sentore dell’esistenza del continente australiano.
In India si dimostrò valoroso uomo d’armi combattendo a fianco dei Portoghesi: il
Vicerè don Francesco de Almeyda lo insignì, sul campo, dell’ordine cavalleresco al
merito, padrino Tristan da Cunha.
Al suo rientro in Italia, de Varthema pubblicò a Roma nel 1510 il suo Itinerario (1),
libro che ebbe vasto, immediato successo (40 edizioni in varie lingue). Un anno
prima, al centro dell’attenzione della Roma cinquecentesca, egli era a Marino alla
corte di Vittoria Colonna, alla quale inviava in omaggio il manoscritto del testo. (Il
libro è dedicato alla madre di Vittoria, Agnese di Montefeltro, moglie del celebre
Fabrizio Colonna).
In Yemen, pur essendo stato riconosciuto come cristiano, de Varthema riuscì a cavarsela, con accorgimenti degni di una novella del Boccaccio, grazie alla protezione
di una delle giovani mogli del Sultano di Aden.
“In dicto paese (Sanaà) nasce di molti fructi come al paese nostro... Le case sono
bellissime ad usanza nostra. Dentro la dicta cità sono molte vigne et giardini
alla usanza nostra”. “... et andai ad un’altra cità chiamata Taesa (Taiz), la quale
è distante da Sanaà prefata III giornate et è posta pure in montagna (pendici
del Gebel Saber). Questa cità è bellissima et abundata de ogni gentilezza... La
fama di questa cità è che sia antiquissima, dove sta un tempio, facto come Sancta
Maria Rotonda di Roma” (edificio ancora esistente, eretto forse dai copti abissini
nel corso della loro dominazione sul Paese nel VI secolo d. c.). “Tutte queste cità
sopradicte sono sottoposte al Soldano degli Ammanni (Yamaniin, Yemeniti), zoè
Soldan della Arabia felice, el quale se chiama Sechamir. Secho vien a dir sancto,
Amir signore. Et la rason perché lo chiamano sancto si è questa: che lui non fece
mai morir persona alcuna, reservato se non fusse in guerra”.
Nel 1513 un portoghese che serviva sotto Alfonso d’Albuquerque (2) tentò un
1) De Varthema L. - Itinerario de Ludovico De Varthema Bolognese nello Egypto, nella Suria,
nella Arabia deserta et felice, nella Persia, nella India et nella Ethiopia. La fede, el vivere et costumi de tutte le prefate Provincie. Stampato in Roma per Maestro Stefano Guillireti ad istantia
de maestro Lodovico de Henricis de Corneto Vicentino. Nell’anno MDX a dì VI de Decembrio.
2) Albuquerque D’A. - Commentaries. Hakluyt Soc. Ed. Cambridge 1877.
La Rassegna d'Ischia n. 5/1993
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Massimo Mancioli
attacco navale contro Aden e quindi veleggiò lungo le coste yemenite riuscendo ad avere
qualche nozione delle regioni costiere.
Un secolo dopo, nel 1609, un intraprendente agente della East India Company, John
Jordain (3), sbarcato ad Aden dal vascello Ascension, visitò lo Yemen da Ibb, attraverso il
passo di Sumara e Damar, sino a Sanaà (ove si incontrò col Governatore turco) e quindi
da Sanaà a Taiz, Musa ed infine Mocha, ove si imbarcò sulla Ascension, che lo attendeva
all’àncora. Il diario del Jordain è scritto con notevole precisione ed acume.
Un altro secolo passò prima che altri stranieri - i francesi La Roque (4) e De La Grelaudière - mettessero piede in Yemen (1709-1712). Il secondo, chirurgo della marina, fu
invitato a scendere a terra per curare un importante personaggio, residente nell’interno
del Paese.
Nella seconda metà del secolo XVIII un altro francese, il Cloupet (5) riuscì a visitare l’Arabia del Sud. Solo nel 1761, per interessamento del Primo ministro danese von
Bernstorff e sotto gli auspici del re Federico V di Danimarca, fu possibile attuare una
spedizione scientifica che aveva come obbiettivo principale lo Yemen, in quel momento
indipendente dalla dominazione turca. Organizzata e diretta con grande capacità e rigore
scientifico dal geografo Karsten Niebhur, di Hannover, e composta dal naturalista Peter
Forskal, dal filologo e orientalista De Haven, dal medico Gramer e dal disegnatore Baurenfeind, la spedizione ottenne risultati di tale rilievo che per molti aspetti può essere
tuttora considerata insuperata. Il successo scientifico fu pagato a carissimo prezzo: dei
cinque membri della spedizione partiti da Copenaghen il 7 gennaio 1761, solo il Niebhur
fece ritorno in Europa, nel 1764; gli altri morirono per malattia nel corso delle lunghe e
faticose ricerche.
Dopo un soggiorno in Egitto ed una esplorazione del Massiccio del Sinai, la spedizione
giunse in Yemen via mare, sbarcando a Lohaya, a Nord di Hodeida nel dicembre del
1762. Da qui percorse tutto il Tehama (bassopiano yemenita) sino a Mocha, facendo nel
contempo sistematiche escursioni verso l’interno montagnoso.
Con base a Beit el-Faqih, si procedette all'esplorazione del medio piano ad Est e delle
montagne che dominano la cittadina di Hadie. Fu in tale zona che per la prima volta la
spedizione poté osservare le piantagioni di caffè e di qat e fu qui che Forskal descrisse e
classificò per primo l’arbusto dandogli il nome di Catha (edulis) (6).
Proseguendo nell’esplorazione sistematica del bassopiano e mediopiano la spedizione
giunse a Taiz (giugno 1763) ed infine si diresse verso gli altopiani centrali puntando su
Sanaà. Al passo di Sumara (circa 3000 m. s. m.) Forskal, stremato dalla fatica e probabilmente da febbri malariche contratte nella zona di Taiz, cedette; fu trasportato in cammello a Yarim e lì, pochi giorni dopo, morì. Malgrado le precauzioni prese dai suoi compagni,
la misera tomba del grande naturalista fu subito manomessa e distrutta da predoni che
ritenevano vi fosse nascosto un tesoro.
3) Jordain J. - The Journal of John Jourdain en edited by William Foster. Hakluyt Soc. Ed. Cambridge.
4) La Roque J. - A voyage to Arabia the happy by the way of the Eastern Ocean and the Straits of the
Red Sea, performed by the French for the first time in A. D. 1708, 1709 and 1710; together with a relation of the journey Yemen from the port of Mokka to the Court of the King of in A. D. 1711, 1712, and
1713; also an account of the Coffee Tree; London 1726.
5) Cloupet, de l’Isle de France - Nouveau voyage dans l’Arabie heureuse en 1788. Annales des Voyages,
de la Geographie et de l’Histoire. Vol. X, Paris 1810.
6) Forskal P. - Flora Aegyptiaco-Arabica, sive Descriptiones Plantarum quas per Aegyptum inferiorem
et Arabiam felicem detexit, illustravit Petrus Forskal, Prof. Haun. Post mortem auctoris edidit Carsten
Niebhur. Haniae 1775.
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La Rassegna d'Ischia n. 5/1993
Il mio Yemen (1955 - 1968)
Niebhur e gli altri superstiti (il De Haven era morto precedentemente a Mocha)
proseguirono la marcia e giunsero a Sanaà, capitale del Paese, ove furono amichevolmente accolti dall’Imam el- Mahdi Abbas.
L’esplorazione dello Yemen fu infine conclusa con la lunga marcia di ritorno da Sanaà a Mocha, compiuta su di un percorso diverso da quello prescelto per l’andata.
Da Mocha a Niebhur salpò per Bombay (durante il viaggio e in questa città morirono gli ultimi suoi due compagni). Dopo qualche escursione in India, tornò ancora in Arabia, visitando l’Oman; passò quindi all’altra sponda del Golfo Persico
spingendosi nello Shiraz e visitando anche le rovine di Persepoli. Sbarcato infine
a Bassorah, attraversò e visitò la Mesopotamia, la Siria, la Palestina, rientrando in
Danimarca via Cipro, Anatolia, Turchia europea dell’epoca e Polonia.
Oltre alla relazione del viaggio ed a numerosi altri dati pubblicati (7), Niebhur
(che nei suoi lavori diede al qat la denominazione di “Catha edulis Forsk” in onore dell’amici scomparso) curò personalmente l’edizione, in tre volumi, delle note
postume di Forskal. Uscì, così a Copenaghen, nel 1775, il bel volume Flora Aegyptiaco-arabica.
Nel 1810-11 il naturalista tedesco Ulrich Jaspar Seetzen (8), al servizio della corte
russa, sulla base di vaghe indicazioni raccolte dal Niebhur circa la presenza in Yemen di antiche e misteriose iscrizioni, raggiunse il Paese della Palestina, travestito
da arabo: riuscì a trovare ed a copiare alcune iscrizioni (purtroppo in modo errato)
ma fu poi trucidato nei pressi di Taiz.
Nella prima metà del XIX secolo l’interesse politico ed archeologico per il Sud Arabico si acuì: nel 1834 il luogotenente inglese James R. Wellsted (9), nel corso di
rilievi effettuati lungo le coste yemenite (Aden fu occupata dagli inglese nel 1839),
riuscì in rapide escursioni a rintracciare avanzi archeologici ed a copiare antiche
iscrizioni in lingua ignota. Due anni dopo C. Y. Cruttenden (10), un altro ufficiale
del gruppo, si recò a Sanaà in missione ufficiale e sul materiale epigrafico da lui
trovato ebbe inizio la decifrazione delle iscrizioni pre-islamiche.
Paul Emile Botta, il medico e agente diplomatico francese che nel 1842 doveva
acquistare fama universale con la scoperta della civiltà mesopotamica (scavi del
Palazzo di Sargon II a Khorsabad), nel suo viaggio in Yemen del 1836-37 si interessò particolarmente al qat (11). Pochi anni dopo nel 1843, il farmacista francese
Thomas Joseph Arnaud, al servizio del Kedivè d’Egitto Mohammed Ali, riuscì a
soggiornare a Mareb, il più importante centro archeologico dell’antico Yemen,
famoso per l’imponente diga Sabea (che appunto il nostro farmacista si era offerto
di riparare onde avere un pretesto per le sue osservazioni archeologiche) (12).
7) Niebhur C. - Voyage en Arabie et dans d’autres pays circonvoisins. Amsterdam 1776. —
Niebhur C.: Description de l’Arabie faite sur des observations et des avis recuellis dans les
lieux mêmes. Amsterdam 1774.
8) Seetzen U. J. - Reisen dürch Syrien, Pälastin, Arabien, Aegypt. Berlin 1855-1857.
9) Wellsted J. R. - Travels in Arabia. London 1838.
10) Cruttenden C. J. - Journal of an Excursion to Sanaà, the Capital of Yemen. J. Bombay Geogr. Soc. Settembre- novembre 1838.
11) Botta P. E. - Notice sur un voyage dans l’Arabie heureuse. Arch. Mus. Nat. Paris. Vol. XI —
Botta P. E. : Relation d’un voyage botanique en Egypte, dans les trois Arabies, en Palestine et
Syrie. Ann. Soc. Nat. II serie, vol. XI, 1884.
12) Arnaud T. J. - Relation d’un voyage à Mareb (Saba) dans l’Arabie méridionale, entrepris en
1843. Journ. Asiat. IV ser. tom. 5.
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Massimo Mancioli
Ricerche epigrafiche ed archeologiche che sono considerate un vanto per la scienza
del XIX secolo e che aprirono finalmente la conoscenza delle civiltà pre-islamiche
del Sud Arabico fuorno compiute, attraverso difficoltà e pericoli di ogni genere, dallo
studioso francese, ebreo di Adrianopoli, Joseph Halévy (13) nel 1869-70 e, nei suoi
quattro viaggi, dal 1882 al 1894, dall’archeologo austriaco Eduard Glaser (14).
Il bottino culturale di questi tre ricercatori fu veramente imponente: Arnaud riuscì a
trascrivere 50 iscrizioni, 685 ne trascrisse Halévy e poco meno della metà Glaser.
Grazie a Gabriella Moscati Steindler dell’Istituto Orientale di Napoli, è stata recentemente messa in luce una figura sinora quasi completamente trascurata, ma che,
al contrario, risulta di primaria importanza nella dinamica delle difficili ricerche
archeologiche di Halévy e di Glaser, compiute in un ambiente decisamente ostile e
sospettoso: quella dell’ebreo yemenita Havvim Habsus, un intelligente e astuto fabbroferraio di Sanaà (15). Habsus aveva scritto un interessante libro di ricordi sulla
sua preziosa collaborazione alle ricerche dei due archeologi, ricca di osservazioni
e rilievi di grande interesse. La traduzione di questa opera da parte della MoscatiSteindler, con un accurato commento, ci dà una angolatura viva tutta particolare
delle classiche relazioni dei due ricercatori. In pratica, senza l’intelligente collaborazione di Habsus mai sarebbe stato possibile ad Halèvy svolgere le sue ricerche. Non
dimentichiamo che Halèvy era ebreo. Molte volte, quindi, se ne restava nascosto
nelle casette dei suoi correligionari e mandava allo scoperto Habsus che andava a
ricopiare diligentemente le antiche iscrizioni, mantenendo comunque la massima
cautela. Molte delle osservazioni di Habsus hanno un valore notevole e completano
quelle di Halèvy. Ad esempio, nella descrizione dettagliata dei luoghi di ricerca, ove
è evidente il fatto che era solo Habsus ad averli visti con i propri occhi.
Gli Ebrei yemeniti speravano molto da Halévy per sollevarsi dalle loro miserevoli
condizioni di vita. Fu una speranza vana e Habsus lo ricorda amaramente nel suo
libro, che scrisse dopo aver collaborato, con la stessa intelligenza, all’attività dell’austriaco Glaser, che subentrava ad Halèvy nella ricerca epigrafica.
La sincerità di Habsus è, in alcuni punti, disarmante. Persona fondamentalmente
onesta, faceva spesso la “cresta” sulle commissioni affidategli da Halévy. Il padrone
stabiliva una cifra per ogni pezzo di iscrizione? E lui, per aumentare l’introito (“Ma
erano tempi così tristi e bisognava pur vivere!”) le spezzava in modo di aumentare i
pezzi e quindi guadagnare di più. Gabriella Moscati Steindler (16) ha, infatti, avuto
modo di notare che “la composizione di alcune copie di iscrizioni dell’Halèvy, confrontate con quelle di Glaser, rende evidente la frammentarietà e lo spezzettamento
delle prime rispetto alle altre".
Questo sistema, del resto, era abituale anche nello Yemen dei miei tempi. Se si
comperavano frammenti di alabastro a rilievo dai mercanti che venivano a casa
13) Halévy J. - Rapport sur une mission archeologique dans le Yemen. Paris 1872.
14) Glaser E. - Von Hodeidah nach San’a, vom April bis i May 1885. Petermanns’ Mitteilungen
Ann. 1886. — Glaser E.: Die Kastengliederung im Yemen. Ausland, ‘“ Band, I-II, 16 marzo 1885.
— Glaser E.: Travel in Arabia. geogr. Magazine 291, 1887.
15) Moscati Steindler G. (a cura di) - Haym Habsus: Immagine dello Yemen. Ist. Orientale di
Napoli, 1976.
16) Moscati Steindler G.: Su un graffito di Hirran (Yemen). Annali Ist. Orientale di Napoli, 32,
519 - 1972.
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Il mio Yemen (1955 - 1968)
per offrire “ricordi di Belqis” (cioè della Regina di Saba), bisognava stare attenti a non
richiedere altri frammenti stabilendo, in partenza, un tanto a pezzo, altrimenti i pezzi
si moltiplicavano a danno del frammento originale. Habsus non conosceva le antiche
lingue sud arabiche: la sua preziosa, intelligente collaborazione nel copiare le iscrizioni
pre-islamiche fu puramente manuale, nulla togliendo al valore scientifico dell’pera di
Halèvy.
Prima descrizione scientifica del qat (Catha edulis)
secondo la trattazione di P. Forskal
CATHA
Catha - Monogynia, 5 - petala, infera.
Descriz. Arbor. Rami alterni, axillares; ramuli virides, annui, articulati. Folia bipoll.
ovato- lanceolata, serrata, glabra, plana, nitida, patentia, rigida, opposita; in ramis
magnis alterna; Petiolus superne planus, brevis. Pedunculi axillares, oppositi, terminales, folitarii ad angulos rectos, dense dichotomo, flosculo parvo pedicellaro ex singulis
dichotomia, & sub illa squamae 2 parvae, lanceolatae, oppositae. Calyx crateriformis,
monophyllus, 5 - dentatus, margine villoso-fuseus, orbusus, viridis, corolla triplo brevior. Corolla 5 - petala, infera, alba, erecto-patens, ovalis,obtusa.
Nettarium cyathi-forme, inter stamina & germen, annulatum, viride breve, a germine
divergens, margine undulatum. Stamina erecta, corolla breviora. Germen globosum.
Stylus brevis. Stigma acutum. Pericarpium, capsula oblongo-cylindrica,trilocularis;
monosperma in quovis lculo.
Arab. Gat vel Kat
In Yemen colitur iisdem hortis cum Coffea. Stipitibus plantatur. Arabes folia viridia
avide edunt, multum eorum vires venditantes, qui copiosius comederit, vel totam
vigilet noctem: asseverant quoque pestem ea loca non intrare, ubi haec colitur arbor:
& hominem ramum Cathae in sinu gestantem, tuto posse inter infectos peste versari.
Gustus tamen foliorum tantam virtutem indicare non videtur.
***
Nella prima metà del XIX secolo il qat fu osservato e descritto da diversi autori: così
nel 1834, in Africa del Sud, da Ecklen e Zeyher che lo chiamarono Methyscophyllum
glaucum; nel 1837 in Yemen da P. E. Botta; nel 1839-1843 in Etiopia da R. Petit che lo
denominò Catha forskali, da A. Richard e da Ferret e Galinier che gli diedero il nome di
Celastrus edulis.
Ricerche botaniche in Yemen, ma limitate alla zona di Hodeida, ove non esistono culture di qat, furono eseguite nel 1830-31 da N. Bové, direttore dei “giardini” di Hibrahim Pascià al Cairo.
Particolarmente interessante il viaggio in Yemen, nel 1836-37, di Paul Emile Botta,
medico, naturalista e agente diplomatico francese che doveva, pochi anni dopo, divenire celebre per la scoperta della civiltà mesopotamica (17).
17) Botta P. E. - Vedi nota n. 11
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Massimo Mancioli
Impegnato in ricerche per conto del Museo di
Storia Naturale di Parigi, Botta raccolse in Yemen un erbario di circa 500 specie in gran parte
inedite e si interessò in modo particolare al qat
che, per scopo scientifico, usò a lungo nel corso
del suo soggiorno yemenita. Sbarcato a Hodeida
verso la fine di settembre del 1836, egli giunse
sino a Mocha ed a Taiz, esplorando quind il massiccio del Gebel Saber, sovrastante questa città.
Notato che le piantagioni di qat della zona rappresentavano la cultura di gran lunga più estesa,
si interessò ai metodi di coltivazione e di raccolta
nonché agli agenti economici e commerciali del
qat. La descrizione che Botta fa delle sensazioni
soggettive provate usando le foglie è da considerare come il primo valido contributo alla conscenza dell’azione esercitata dal qat.
Osservazioni relative alla diffusione ed all’uso del
qat nel quadro delle tradizioni locali, nonché altri
rilievi interessanti, furono fatti in Yemen, nel
1877-80, da Renzo Manzoni, nipote di Alesandro
Manzoni.
Una ultima, grande “excursion botanique”, estesa agli altopiani ove Forskal e Botta non erano
potuti giungere, fu compiuta nel 1887 da A. Deflers che studiò attentamente anche il qat.
Phillips (20), lavorò con successo nel territorio
degli antichi reami di Qataban e Saba, fra l’altro
al grandioso “Tempio della Luna” (edificio ovale
la cui circonferenza è di 206 m, che fu datato al
secolo VIII a. C.
Nel 1965 il prof. G. Scortecci, Direttore dell’Istituto di Zoologia dell’Università di Genova, ha
potuto compiere un brillante e fruttuoso viaggio
di esplorazione biologica nel Paese (21).
Nel difficile quadro ambientale sin qui tracciato,
particolare rilievo acquista la regolare presenza
in Yemen, dal 1928, di medici italiani con incarichi di fiducia.
L’attività dei medici italiani in Yemen è regolarmente proseguita all’avvento della Repubblica ed
è inquadrata nel Servizio Cooperazione Scientifica e Tecnica Internazionale del nostro Ministero
degli affari Esteri.
Anche nel XX secolo lo Yemen è restato in gran
parte inaccessibile: vanno ricordati i viaggi di
H. F. Jacob, A. J. Wavell e soprattutto di G. Wiman Bury che compì esplorazioni per conto della
Royal Geographycal Society.
Nel 1928, due illustri ricercatori, C. Rathjens (18)
e H. von Wissmann (19), condussero scavi archeologici di notevole interesse.
Nel 1937 H. Scott, con E. B. Britton, compì ricerche nell’alto Yemen per conto del British natural
history museum.
Nel 1950-52, tra rischi non lievi, la “American
Foundation for the Study of Man”, diretta da W.
Nel nuovo clima instauratosi in Yemen, le autorità locali collaborano al piano internazionale di
ricerche in corso; in quest’ambito, agli archeologi italiani sono assegnati compiti di particolare
impegno anche nel delicato settore della salvaguardia dei Centri Storici più importanti, come a
Sanaà, e nell’organizzazione del museo Nazionale
di Archeologia nella stessa città.
18) Rathjens C. - Sabaeica, Bericht über die archäologischen Ergebnisse seiner zweiten, dritten und vierten Reise
nach Südarabien I; e Der Reisebericht II. Die unlokalisierten Funde. Mitteilungen aus dem museum für Völkerkunde in Hamburg 24. Hamburg 1953-1955.
19) Wissmann von H. e Höfner M. - Beiträge zur historische Geographie des vorslamische Südarabien. Cit. da
Grohmann A.
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Di notevole interesse infine le ricerche archeologiche compiute nel 1967-70 dall’Ambasciatore
d’Italia in Yemen, Gualtiero Benardelli, e dal Dr
Ennio Antonino Parrinello, anch’egli membro
dell’Italian Thecnical Assistance in quel paese,
che hanno per la prima volta messo in luce reperti megalitici nella Pen. Araba (22).
20) Phillips W. - Qataban and Sbeba. Exploring ancient
kingdoms on the Biblical spice routes of Arabia. V. Gollancz Ltd. Ed. London 1955.
21) Sccortecci G. - Relazione di un viaggio di esplorazione
biologica nello Yemen. Estratto dal Bollettino dei Musei
22) Bernardelli G., Parrinello A. E., Nte su alcune località archeologiche dello Yemen -Annali
Ist. Orientale di Napoli, 30, 117, 1970.