Il gipeto sulle Alpi Una bella realtà grazie al progetto internazionale

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Il gipeto sulle Alpi Una bella realtà grazie al progetto internazionale
IL GALILEO
Anno 3, Numero 7, luglio 2013 -
Mensile telematico. www.ilgalileo.eu
Mensile di scienza – tecnologia – politica – cultura
Il gipeto sulle Alpi
Una bella realtà grazie al progetto internazionale
di reintroduzione
di Giuditta Bricchi
Come la vita del gipeti non conosce frontiere, così il progetto della sua reintroduzione
coinvolge tutti i Paesi alpini. In passato questo splendido rapace era diffuso su tutta la
Catena alpina, ma poi scomparve tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento.
Oggi tra Austria, Svizzera, Italia e Francia, ne volano circa 150 esemplari. Per
poterne studiare le migrazioni, alcuni esemplari sono dotati di piccoli trasmettitori
satellitari.
Perseguitato per ignoranza
La scomparsa del gipeto barbuto dall’arco alpino va imputata principalmente
all’ignoranza. Noto in passato anche come
avvoltoio degli agnelli, venne perseguitato con
accanimento perché ritenuto un animale pericoloso.
Con i suoi occhi di un intrigante color rosso fuoco
e con le sue grandi dimensioni, è stato protagonista
di numerose credenze. A lungo è stato accusato di
uccidere gli agnelli piombando loro addosso con
repentine picchiate e di far precipitare camosci e
stambecchi nei dirupi. Si raccontava addirittura che
rapisse i bambini. Venne perseguitato con ogni
mezzo ed in ogni modo giungendo anche all’istituzione di specifiche taglie per la sua
uccisione. Oltre alla persecuzione, anche il collezionismo svolse un ruolo importante
nel suo sterminio. In passato infatti erano molto diffuse le collezioni di uccelli
imbalsamati. Diffuso in passato su tutta la Catena alpina, il gipeto scomparve tra la
fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento. L’ultimo abbattimento di cui si ha
notizia risale al 1913,
in Valle d’Aosta. Solo
nel 1939 con l’entrata
in vigore del Testo
Unico sulla Caccia, il
gipeto – caso unico tra
i rapaci – venne
protetto integralmente,
ma era ormai era
troppo tardi, la
scomparsa era già
avvenuta.
Un grande rapace
“spaccaossa”
Il gipeto barbuto (
nome scientifico
Gypaetus barbatus ) è
una delle quattro
grandi specie di
avvoltoi in Europa ed è
il più grande rapace europeo. L’attributo barbuto è dovuto al caratteristico ciuffo di
penne nere sotto il becco, che simula la barba. L’apertura alare può raggiungere i tre
metri. Raggiunge l‘ altezza di un metro e il peso varia tra i cinque e i sei
chilogrammi. Può vivere 45 anni. Il piumaggio è grigio argentato e presenta una
colorazione che passa dal marrone chiaro al ruggine, soprattutto nelle zone della
testa, del collo e delle zampe. E’ riconoscibile per il lungo becco adunco e la potente
coda lunga e cuneiforme. Il gipeto, come gli altri avvoltoi, è un necrofago, si
alimenta cioè di animali morti e delle loro carcasse che individua grazie alla vista
acutissima. Si ciba soprattutto di ossa, cioè di quanto rimane delle carcasse spolpate
da altri. Il tessuto osseo è molto ricco sia di proteine che di grassi ( quasi come la
carne fresca), ma risulta immangiabile per gli altri avvoltoi. Le ossa di piccole
dimensioni vengono ingerite direttamente, mentre quelle troppo lunghe vengono
spezzate, facendole cadere da grandi altezze sulle rocce. Questa sua
“specializzazione” gli è valsa il nomignolo di “spaccaossa”. Particolari adattamenti a
questa dieta ossivora, caratteristica del gipeto, sono costituiti dalla grande apertura
della bocca, dalla lingua a sgorbia, dall’esofago indurito e privo di gozzo e dallo
stomaco - dotato di succhi gastrici particolarmente acidi - in grado di “sciogliere”
totalmente il tessuto osseo.
Il progetto internazionale di reintroduzione
Nel 1978 un gruppo di ricercatori e ambientalisti di diverse istituzioni europee, come
l’Università di Vienna, la Società Zoologica di Francoforte, il WWF Austria , la
International Union for Conservation of Nature ( IUCN ), si ritrovarono a Morges, in
Svizzera, per gettare le basi del Progetto Internazionale di Reintroduzione del Gipeto
sulle Alpi. Il progetto, estremamente complesso ed articolato, ancora in corso, fu
reso operativo con il sostegno finanziario del WWF Internazionale, della IUCN,
della Società zoologica di Francoforte. Successivamente fu gestito dalla Fondazione
per la Conservazione del Gipeto (FCBV), ora confluita nella Fondazione per la
Conservazione degli Avvoltoi (VCF). L'obiettivo era quello di ricostituire una
popolazione naturale in grado di auto-mantenersi. Il progetto si articola in quattro
parti: allevamento, messa in libertà, monitoraggio, sensibilizzazione ed educazione
ambientale. Intorno agli anni '90 i responsabili dei parchi alpini europei, come il
Parco Nazionale francese del Mercantour, il Parco Nazionale Svizzero, il Parco
Naturale italiano delle Alpi Marittime e il Parco Nazionale dello Stelvio iniziarono la
campagna di ripopolamento.
I primi esemplari
Non potendo far riferimento a soggetti selvatici, venne deciso di utilizzare come
riproduttori gli esemplari presenti in cattività nei vari Zoo europei, liberando poi in
natura i giovani nati. La tecnica utilizzata per le liberazioni fu quella dell’hacking,
che prevede la liberazione dei giovani prossimi all’involo in falsi nidi ed un loro
breve sostentamento fino all’emancipazione. La prima liberazione ebbe luogo in
Austria, nella valle di Rauris - Parco nazionale degli Alti Tauri - il 25 maggio 1986.
Negli anni successivi vennero attivati altri tre siti di liberazione: nel 1987 in Francia,
Alta Savoia; nel 1991 in Svizzera, in Engadina nel Parco Nazionale Svizzero ed
infine nel 1993 venne attivato il sito italo-francese Mercantour – Alpi Marittime. Il
primo rilascio nel Parco Nazionale dello Stelvio risale al 2000. Da allora molte cose
sono cambiate.
Un successo a livello mondiale
Ora sono circa 150 i soggetti in vita sulle Alpi e 19 le coppie riproduttive formatesi
in vari settori alpini. Un quadro decisamente confortante, ma ancora non del tutto
rassicurante. Siamo ancora lontani dal raggiungimento di una popolazione alpina
stabile e ben distribuita sulle Alpi, in grado di automantenersi. Il ritorno del gipeto
sulle Alpi è il frutto di uno dei più riusciti interventi di reintroduzione mai attuati a
livello mondiale. Il programma, nonostante molte difficoltà, si può ritenere in gran
parte realizzato ed è quindi possibile constatarne la grande importanza. A trent’ anni
dai primi passi, si può affermare che la popolazione alpina di gipeti ha raggiunto la
capacità di autosostenersi e quindi c’è la possibilità di ridurre il numero di nuovi
rilasci. L’ attuale sviluppo positivo del progetto di reinserimento non deve però far
dimenticare il fatto che i rapaci hanno tempi di riproduzione molto lunghi. Bisogna
inoltre continuare a fare tutti gli sforzi possibili, affinché la soglia dei rischi
riconducibili all’ uomo (avvelenamenti, bracconaggio e così via) venga mantenuta a
livelli bassi.
Collaborazioni internazionali per un grande viaggiatore
Nei loro primi anni di vita i gipeti coprono lunghe distanze (fino a 700 km al giorno),
prima di divenire sedentari e stabilirsi in un territorio per iniziare a riprodursi.
Durante queste migrazioni, in pochi giorni, possono sorvolare l’intero arco alpino. Le
informazioni su queste scorribande erano molto lacunose, pur essendo assai
importanti. Esse rappresentano il punto di partenza per una protezione efficace di
questi magnifici rapaci. Ora istituzioni austriache, francesi, italiane, tedesche e
svizzere collaborano al progetto “Gipeto dove vai?”, coordinato dalla Fondazione Pro
Gipeto, per studiare, per la prima volta e con metodi scientifici , le migrazioni dei
giovani gipeti.
Gipeto dove vai?
Il progetto “Gipeto dove vai?” utilizza il sistema di telemetria satellitare Argos. Il
metodo viene impiegato già da alcuni anni con successo per studiare le specie molto
mobili e acquisire nuove informazioni sul loro utilizzo dello spazio vitale. I gipeti
barbuti in giovane età vengono muniti di piccoli trasmettitori satellitari, al fine di
poterne seguire gli spostamenti. Essi vengono anche contrassegnati in modo
visibile, schiarendo determinate piume della coda e delle ali. Così facendo è possibile
riconoscerli ed osservarli bene. I gipeti vengono localizzati con l’aiuto di diversi
satelliti che sorvolano la terra a circa 850 km di altezza lungo l’asse Nord-Sud.
L’applicazione delle emittenti satellitari è stata sperimentata su alcuni animali tenuti
in cattività presso il Parco naturale e faunistico di Goldau ( Svizzera ). Gli
esperimenti hanno dimostrato che le emittenti vengono tollerate bene dai gipeti, che
non mostrano praticamente nessuna reazione alla loro presenza. Vengono utilizzati
due sistemi di marcatura: l’emittente viene fissata su una piuma caudale oppure viene
legata attorno alla vita dell’uccello con un nastro elastico, fissato come
un’imbracatura da arrampicata.
Il gipeto nel Parco Nazionale dello Stelvio
Il Lago di Livigno, la Valle del Braulio e la Val Zebrù sono certamente i luoghi in
cui è più facile osservare il gipeto. In val Zebrù, nel cuore del Parco Nazionale dello
Stelvio, si snoda un itinerario alla portata di tutti: escursionisti e bikers possono
percorrere senza particolari difficoltà i 12 km di una delle più selvagge e affascinanti
vallate del gruppo Ortles-Cevedale (tra le montagne più alte d’Italia). Il torrente
Zebrù attraversa la valle, fiancheggiata da rigogliose pinete e sovrastata da picchi di
roccia che forniscono l’habitat ideale al gipeto. Camminando in silenzio e rispettando
la natura circostante, è possibile avere la ventura di osservare il volo maestoso di
questi rapaci.