sul film “Animali notturni” di Tom Ford | recensione di Enrico
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sul film “Animali notturni” di Tom Ford | recensione di Enrico
Il Diritto di Contare | di Theodore Melfi | recensione di Alessandro Faralla Genere: Drammatico Durata: 127 min. Cast: Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Kirsten Dunst, Jim Parsons, Mahershala Ali, Aldis Hodge, Glen Powell, Kimberly Quinn Paese: USA Anno: 2016 Passarsi un gesso è un’azione semplice, quasi innocua, se a farlo però è un uomo bianco e a ricevere tra le mani quell’oggetto è una donna afroamericana nella Virginia segregazionista degli anni 60 quella piccola azione diventa il segno di una legittimazione sempre rincorsa. È senz’altro il momento di Il Diritto di Contare più simbolico in cui Theodore Melfi (St.Vincent) sceglie di indugiare, facendo di un breve attimo una grande scintilla di umanità. Basato sul libro di Margot Lee Shetterly, Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race Il Diritto di Contare racconta la storia vera di Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughn (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monae), tre straordinarie donne afroamericane, dipendenti della Nasa che lavorarono a diversi progetti spaziali, il più famoso fu quello che portò l’astronauta John Glenn a compiere il primo viaggio umano nell’orbita terrestre. Ma se John Glenn, il team del programma delle Operazioni Spaziali guidato da Hal Arrison (Kevin Coster) e l’America tutta sono riusciti a raggiungere “quell’oltre” lo devono non semplicemente all’afroamericana Katherine, ma alla stoica e brillantissima matematica che leggeva i numeri come se fossero note di uno melodia fuori dal tempo, fuori dai pregiudizi, dall’ignoranza di una Stato fieramente rigido nel ricordare le differenze tra bianchi e neri, inclusi ma allo stesso tempo esclusi da tutto. Con bagni per sole persone di colore, posti a sedere, sugli autobus e a scuola, sempre nelle ultime file il quotidiano vivere per la popolazione afroamericana era una conquista dal sapore amaro, partecipi a metà di una realtà vicina eppure lontanissima. Era facile narrare tutto ciò con enfasi, retorica, situazioni portate all’estremo ma tale visione avrebbe snaturato una storia che del basso profilo, della sua calma, dell’instancabile lavoro ha fatto la propria bussola morale. Theodore Melfi adotta intelligentemente uno stile pacato che senza tralasciare l’identità di ciascuna delle tre scienziate conferisce al film il vestito più idoneo per lasciarsi guardare. Non servono scenate, monologhi stucchevoli e prevedibili sulla giustizia o toni sopra le righe. Quello che Katherine e le sue compagne dovevano dimostrare lo fecero con rigore, correndo per un kilometro ogni qual volta dovevano fare pipì perché nel complesso che ospitava lo Space Task Group non vi erano servizi igienici destinati ai colored. Il Diritto di Contare descrive, grazie ad un cast funzionale allo script, la grandezza delle tappe che portarono alla conquista dello spazio con lo stesso equilibrio incarnato dall’atteggiamento delle tre protagoniste a cui bastarono talento, impegno e una pacifica perseveranza per scalfire il muro di sopportazione che circondava la comunità afroamericana, ottenendo il riconoscimento del loro valore come persone ancora prima che Kennedy nel 1964 emanasse il Civil Rights Act. Perché se l’America e l’umanità hanno potuto sognare e poi toccare le stelle lo devono a figure come Katherine Johnson, Dorothy Vaughn e Mary Jackson e a tutti coloro che cercano di fare un passo oltre le esclusioni, i diritti negati o concessi a metà, oltre la cecità umana che dopo più di 50 anni non ha ancora compreso la ricchezza del contributo che ogni individuo può donare al mondo per fare della vita un viaggio verso la luce. Split | di M. Night Shyamalan | recensione di Enrico Carli Genere: Thriller Durata: 116 min. Cast: James McAvoy, Anya Taylor-Joy, Betty Buckley, Haley Lu Richardson, Jessica Sula Paese: USA Anno: 2017 Split è in parte ispirato al caso di Billy Milligan, schizofrenico affetto da disturbi dissociativi dell’identità che negli anni settanta rapì e violentò tre studentesse, e giudicato dal tribunale statunitense non colpevole per infermità mentale (venne fuori che aveva 24 personalità). Anche Kevin, interpretato dall’ottimo James McAvoy, ha problemi identitari, anche lui si risolve a rapire tre studentesse e a imprigionarle nei sotterranei di un luogo imprecisato. Le tre ragazze avranno modo di conoscere alcuni abitanti della sua mente, quelli in “luce”, tra cui l’ossessivo-compulsivo Dennis (il responsabile del loro rapimento), l’affettuosa Patricia e il giovanissimo Hedwig. L’aspetto peggiore è però l’annunciato arrivo della Bestia (la 24° personalità dell’uomo), di cui loro tre sarebbero le designate vittime sacrificali. Intanto la dottoressa Fletcher è allarmata dalle strane email di Barry, abitante di Kevin che a differenza degli altri non si presenta da un po’ nel suo studio. Dopo un paio di film minori (Lady in the Water; E venne il giorno) e altrettanti film “sbagliati” (L’ultimo dominatore dell’aria; After Earth), il regista indoamericano M. Night Shyamalan, tornato finalmente in forma già dal penultimo, interessante The Visit (2015), mantiene con Split le sue ritrovate capacità di affabulazione, seduzione e inganno. Il soggetto di Split dà modo al regista di affrontare un altro aspetto della realtà percettiva, ispirazione che è alla base dei più riusciti lavori precedenti, da Il sesto senso a The Village. Si pensi ai suoi famosi finali ad effetto, laddove il rivolgimento di prospettiva è la scoperta di una percezione/condizione svelata, che si propone di portarci su un altro livello di realtà. La realtà che conosciamo non basta. La mente affollata di Kevin, dove coesistono bambini, adulti di entrambi i generi, omosessuali – e quindi innocenza, talento, diversità – è conseguenza della sfaccettata, sorprendente complessità di modi in cui si può reagire agli abusi, istituzione di un clan-famiglia in cui si ripetono le dinamiche apprese e subite, sistema che si prefigge un controllo che viene meno perché il sistema è aperto. L’amorevole dottoressa Fletcher (Betty Buckley) spiega come solo una delle personalità del suo paziente sia malata di diabete e assuma insulina senza conseguenze per le altre (nella realtà dei fatti una delle personalità di Billy Milligan leggeva e scriveva correttamente l’arabo; un’altra era jugoslava e conosceva il serbo-croato). La dottoressa interpreta la dissociazione come una grande risorsa della mente umana, capace di contenere più cervelli (diverse attitudini, caratteri, fobie) nello stesso “contenitore”. La malattia come condizione di superiorità e, contemporaneamente, di insanabili conflitti istintivi e morali per la stessa capacità di assimilare moltitudini. Non è un caso che l’attenzione di una delle personalità in luce di Kevin si focalizzi su quella di ragazze giovani, che non conoscono la sofferenza e che, pertanto, sono “impure” (come se la purezza passi solo attraverso il dolore). Fatta eccezione per la malcapitata Casey (Anya Taylor-Joy) il cui sguardo autentico le permette, dietro la paura, di vedere chi ha davanti. Il suo dolore (che come vedremo porta scritto sul corpo) la rende “adatta” a vivere. E il discorso adattivo si estende a raggiera con la consueta presentazione graduale degli elementi che tanto piace a Shyamalan – si pensi alla cattività in cui vengono messe le ragazze, al personaggioidentità della Bestia e al luogo in cui sono (ci verrà mostrato a tempo debito) – per tracciare alla fine un ordine evidente, una plausibile spiegazione allo slittamento dei piani del racconto. Ma è nel doppio finale del film (spoiler) – in realtà l’apertura al seguito di quella che non è ancora una trilogia e che potrebbe essere ben più di ciò – che Shyamalan ci manifesta la sua ultima intenzione: con Split abbiamo assistito alla genesi di un villain così come Unbreakable – Il predestinato (2000) era l’origine di un supereroe. A distanza di diciassette anni Shyamalan prosegue la sua personale creazione di una saga di supereroi dark (direttamente al cinema bypassando l’edicola). Inoltre, giocando con i topoi della super-categoria (genesi nemesi resa dei conti) e non rivelando fin dal lancio la natura del progetto, egli sperimenta la vertigine del genere nel genere. Trovarsi in un “cinecomics” e non saperlo; in un seguito e non saperlo; attribuisce al film che abbiamo visto una nuova, inusuale appartenenza, di cui il thriller era solo un aspetto della sua molteplice identità. Paterson | di Jim Jarmusch | recensione di Enrico Carli Genere: commedia Durata: 113 min. Cast: Adam Driver, Golshifteh Farahani, Kara Hayward, Sterling Jerins, Jared Gilman Paese: USA Anno: 2016 Paterson è un conducente di autobus di linea che vive a Paterson, omonima città del New Jersey in cui sono vissuti i poeti William Carlos Williams, Allen Ginsberg e Frank O’Hara, ma anche il pugile Rubin “Hurricane” Carter, l’astronauta Mark Polansky e l’anarchico italiano Gaetano Bresci, che tornò in patria per uccidere Re Umberto I di Savoia. Della sua città Paterson ha la semantica del nome iscritta nei geni, è padre e figlio pur non avendo figli e a quanto pare nemmeno genitori in vita. È tale in quanto spirito accorto della comunità: devoto alla compagna, puntuale sul lavoro, generoso, umile. Figlio che raccoglie le migliori virtù di un padre ideale, Paterson (perfettamente in parte Adam Driver, con quella faccia lì, gli enormi piedi e quel modo di camminare) è un uomo che coltiva i semi della poesia su di sé: essere lieve e gentile come un buon verso, custode pater familias delle memorie degli antenati poeti e del calore domestico; e son, figlio americano prescelto che ne incarna gli ideali di rettitudine morale. Come si dice, nomen omen: il destino nel nome. Non c’è quasi conflitto nel racconto, Paterson è innamorato di Laura – donna bella quanto una poesia non potrà mai essere (l’iraniana Golshifteh Farahani, vista nel bellissimo About Elly di Asghar Farhadi) – e altrettanto affettuosa, gentile, creativa; non appena il suo personaggio sembra fuori fase o superficiale e velleitario, subito la smentita: è capace, davvero innamorata di Paterson, ama le sue poesie e anzi lo sprona a donare a tutti i suoi versi, perché lui è discreto e timido. Nella scansione temporale dei giorni della settimana, il loro rapporto fila via liscio come quello irraccontabile di una famiglia felice. Il film di Jarmusch è tutto nella noiosa settimana feriale del protagonista, fatta di piccoli riti quotidiani, conversazioni origliate sull’autobus durante il lavoro, passeggiate col cane e capatine al bar. Scorci di strade pacifiche, sempre illuminate dal sole. E poesie: quelle che scrive Paterson tutto il giorno nella sua mente e che poi trascrive sul taccuino. C’è pure una cascata davanti alla quale ama fermarsi durante la pausa pranzo. All’interno della marmitta, nel coperchio, c’è la foto di Laura, e lo spuntino da lei preparato comprende un dolce con le stesse fantasie a ciambella dell’arredamento e delle tende di casa. La chiusura del cerchio: l’orologio di Paterson apre e determina la sua giornata, il tondo del boccale di birra la chiude. Le sue poesie, di cui assistiamo a ogni fase, dall’idea alla stesura finale, non nascondono un’anima inquieta, sono lo specchio interiore di ciò che gli vediamo fare per strada: si offre di fare compagnia a una ragazzina mentre aspetta che la madre scenda da un edificio; dà soldi a un vagabondo; interviene con coraggio nel bel mezzo di un tentato omicidio; ascolta i problemi del collega e le molteplici trovate di Laura, che da ultimo si è messa in testa di comprare una chitarra e diventare cantautrice (l’attrice iraniana è davvero una songwriter). Similmente, i suoi versi sono per l’amata compagna di vita; per un pacchetto di fiammiferi emblema del focolare domestico; per la consistenza tangibile dell’aria in una percezione porosa-molecolare; sulla scoperta della dimensione del tempo e del doppio delle cose: dalle persone (i gemelli che ritornano dal sogno alla realtà) alle situazioni speculari. L’unico conflitto è quello con il cane Marvin, geloso dell’amore della sua padrona per Paterson. Ma, come ogni ciambella che sia tale, c’è il buco in mezzo. L’inquietudine esistenziale di cui Jarmusch è sempre stato sottile cantore, un vuoto di senso che trova modo di profilarsi nel suo cinema volutamente statico, che come il suo protagonista sembra chiedersi ancora con meno, si può fare poesia ancora con meno. Una scacchiera, un tavolo da bigliardo, un boccale di birra e, sullo stesso piano, le relazioni umane. Cosa farne di ciò? Annidato da qualche parte anche nelle giornate più miti e nelle persone che sembrano avere ben poco di cui lamentarsi, c’è l’apparente, inutile ricorsività del cerchio, qualcosa che è implicito nell’atto di fare poesia e di filtrare le cose attraverso la loro deposizione in lettera, uno spirito anarchico mai domo, ribelle nei confronti delle etichette: autista, poeta, marito. La volontà di nascondere la propria identità più intima agli occhi del mondo così che il mondo non avrà ragione su di essa. Il filosofo e critico letterario Benedetto Croce sosteneva che fino a diciott’anni chiunque scrive poesie, e che solo due categorie di persone continuano anche dopo: i poeti, e i cretini. Non sappiamo se le poesie di Paterson abbiano valore al di là del fatto che ne hanno per Laura. Sappiamo che, costellando il film dell’interiorità del suo taciturno protagonista, ci arrivano come le vere emozioni delle sue giornate, autentiche espressioni personali di un mondo sofisticato, altrimenti incomprensibile (ad ogni modo, quasi a voler fugare ogni dubbio sono scritte dal poeta Ron Padgett). E da alcune carrellate sui libri di Paterson sappiamo che fa buone letture: dall’Infinite Jest di Foster Wallace passando per Melville, il succitato Carlos Williams, come Paterson poeta dal linguaggio semplice e cantore della città, e Wallace Stevens, forse il più metafisico dei grandi poeti americani. Questi sono i padri spirituali di cui è custode e figlio. Ma Paterson potrebbe anche essere un cretino/idiota alla maniera di quello dostoevskiano, più che un buono a nulla un troppo buono. Eccessivamente remissivo nei confronti di una moglie che vuole per lui ciò che egli non sembra desiderare; pronto a perdonare al cane Marvin, come un buon padre, il doloroso dispetto compiuto ai suoi danni. In ogni modo, che egli sia o meno un Poeta maturo, non è questo importante. L’importante, pare dirci Jarmusch, è avere sempre a disposizione un nuovo taccuino, perché se a volte la vita ci fa inaspettatamente dono di ciò che ci occorre, sta comunque ad ognuno di noi tracciare il proprio piano di fuga dal tempo degli altri. Discesa all’inferno senza ritorno | sul film “Animali notturni” di Tom Ford | recensione di Enrico Carli Genere: Thriller Durata: 115 min. Cast: Amy Adams, Jake Gyllenhaal, Michael Shannon, Aaron Taylor-Johnson, Isla Fisher, Laura Linney Paese: USA Anno: 2016 Il secondo film dello stilista Tom Ford in un certo senso racconta un altro A Single Man, mettendo in scena quello che è anche un esercizio terapeutico non così scontato: scrivere storie è trascendere la realtà attraverso l’elaborazione simbolica di emozioni che hanno lasciato il segno. Controindicazioni: per esigenze di libero ragionamento su un film che pur avendo entusiasmato buona parte della critica non manca di pareri discordanti, e quindi per meglio addentrarsi nelle maglie di una storia stratificata che lascia spazio all’interpretazione dello spettatore, l’articolo contiene spoiler. Susan Morrow è una gallerista a un punto morto sia nella carriera che nella vita privata: ha smesso di credere in ciò che fa e in chi la circonda. Il rapporto col suo secondo marito Walker si è raffreddato e lui la tradisce, l’attrazione artistica del suo ultimo vernissage – pingui modelle la cui carne straborda fuori da tanga e bikini – non le sembra altro che una provocazione fine a se stessa, una di quelle a cui lo spettatore contemporaneo è assuefatto, nei confronti delle quali è ormai tiepido o indifferente. La galleria, di conseguenza, è più una spesa che un guadagno. Quando Susan riceve il manoscritto di Edward, il suo ex marito che non vede da vent’anni, si ferisce a un dito con la carta e sanguina. L’avvertimento è subito chiaro: questo libro ti farà male. La storia che legge, apparentemente un thriller on the road, comincia con Tony che si mette in viaggio con la moglie e la giovane figlia. Durante la notte, in una delle interminabili strade del Texas, la famiglia si imbatte in una banda di teppisti il cui capo è il folle Ray Marcus (Aaron TaylorJohnson, unica prova attoriale che non convince del cast: i suoi cambi d’espressione repentini sembrano la parodia di uno psicopatico). Dopo averli mandati fuori strada, i balordi rapiscono moglie e figlia, prendono l’auto e lasciano Tony nel deserto. Questa storia nella storia – Tony e Edward sono interpretati entrambi da Jake Gyllenhaal – è una potente allegoria. Susan ne è turbata al punto che, quando nel romanzo le cose si mettono male per la figlia di Tony, chiama sua figlia al telefono per sapere se sta bene. Susan, infatti, ha abbandonato Edward pur amandolo, perché un aspirante scrittore non poteva garantirle quella sicurezza economica che avrebbe in seguito rimpianto – è la madre a persuaderla di questo e anche a profetizzare alla riluttante Susan, che odia i borghesi arricchiti e non vorrebbe mai essere come lei, che ogni donna, che lo voglia o meno, è destinata a diventare esattamente come la madre. In questa disposizione d’animo è cosa semplice per Susan consolarsi nelle braccia dell’attraente Walker. Trovato il coraggio dopo il valido sostituto, liquida Edward con le stesse motivazioni che deprecava e, incinta di lui, abortisce per chiudere ogni ponte col passato e ricominciare una vita con meno incertezze. Così è la natura, il forte prevarica il debole; diverse battute sono spese per far capire che Edward è fragile in quanto “troppo sensibile”. Ha però una forza che la stessa Susan gli attribuisce: credere in se stesso, cioè nella sua capacità di poter un giorno scrivere delle storie che siano spendibili. Quel giorno è arrivato per Edward e per Susan, infatti quest’ultima si perde nel suo romanzo emblematico e perturbante: violenza, morte e deserto per tutti. Il passato e i sensi di colpa riaffiorano e si fa strada la consapevolezza già latente di aver operato le scelte sbagliate. È risaputo che gli scrittori combinino i caratteri delle persone che conoscono nei loro personaggi, forse un po’ meno che fanno anche il contrario: da una sola persona plasmano personaggi anche all’interno della stessa storia. più Nella finzione del romanzo di Edward “Animali notturni”, Susan è rappresentata da Laura (Isla Fisher), la moglie di Tony, colei che muore insieme alla figlia di morte violenta (del resto ancora più dolorosa oltre che per loro anche per il padre/marito), ma è anche, allo stesso tempo, lo schizofrenico Ray Marcus, il responsabile del loro stesso supplizio. Come Susan, egli è sdoppiato: non è chi gli altri credono che lui sia ma dal momento che gli altri lo ritengono uno stupratore lui riveste quel ruolo (lo dichiara lo stesso Marcus); Susan, ribadiamolo, non vuole diventare come la madre ma segue esattamente la strada indicatale fino ad avverarne la predizione. Entrambi i personaggi si trasformano in chi si vuole per loro: sono volubili o naturalmente predisposti alla rapacità così come suggerisce il titolo del libro (e del film) che gli è cucito addosso? In questo senso il water fuori dalla porta della baracca di Ray Marcus dove Tony lo “sorprende” seduto nell’atto di svuotarsi è un’opera di stampo duchampiano degna della galleria d’arte di Susan – dove le provocazioni che ormai hanno ben poco di provocante si rifanno a un immaginario kitsch, ovvero la produzione in ambito artistico di cose di cattivo gusto come gli escrementi della performance/istallazione di Ray Marcus. Cosa è vero e cosa non lo è nel racconto di uno stato d’animo che viene esteso a metafora, romanzo? Ricevuto il lungo messaggio criptato dal suo ex marito Edward (la morte dell’amore e la propria stessa morte spirituale per il dolore lancinante causato da ciò che gli è stato portato via), Susan elabora il senso di colpa e riconquista la fiducia perduta nel talento di Edward. Pronta per un probabile mea culpa (“Vediamoci, ho tante cose da dirti”), gli scrive che vuole incontrarlo e lui accetta. Ma Edward non si presenterà all’appuntamento. Niente di tutto ciò che potrebbe seguire verrebbe spontaneamente da Susan: è stato il suo mondo violento e disperato ad averle aperto gli occhi spalancati-chiusi (echi di un inconscio kubrickiano), ad averla persuasa della sua tesi esistenziale sotto forma di thrilling (tu sei morta e io sono morto: qui c’è solo morte e nulla), e dunque sarà, coerentemente, quella del suo romanzosimbolo a lei dedicato l’ultima parola sull’argomento. E se alcune cose paiono risolte un po’ semplicisticamente (che fine fa il tenente Andes?* Perché non raggiunge Tony nemmeno in un secondo momento? Ma come, Ray Marcus si da alla fuga e solo qualche istante dopo è già a letto e per di più dove possono trovarlo?! Edward non è poi uno scrittore così eccelso se fa finire così il suo protagonista!) è forse perché non hanno molta importanza nell’economia del meta-racconto, sono personaggi/situazioni stampelle, propaggini delle uniche soggettività che occupano lo spazio filmico e di cui queste apparenti trascuratezze ne evidenziano invece l’importanza: qui ci sono solo due protagonisti assoluti e tutto gira intorno alla loro relazione perduta. Uno dei due è, naturalmente, la notturna Susan; l’altro è il delegato di Edward, Tony**, l’irraggiungibile moderno Orfeo “rovesciato”. *Il tenente Bobby Andes (Michael Shannon) è un altro personaggio simbolo, il doppio di Tony/Edward come Ray Marcus lo è di Susan, un malato terminale che rappresenta la determinazione fatalistica al regolamento dei conti, cosa che Edward porterà a compimento anche fuori dal romanzo (anche se, come vedremo, non di mera vendetta si tratta). **Il romanzo di Austin Wright da cui è tratta la sceneggiatura di Tom Ford s’intitola appunto Tony & Susan. Neruda | di Pablo Larraín | recensione di Enrico Carli Genere: Biografico Durata: 107 min. Cast: Luis Gnecco, Gael García Bernal, Alfredo Castro, Mercedes Morán Paese: Argentina, Cile, Spagna, Francia Anno: 2016 “La poesia è azione”. Nel Cile degli anni cinquanta due giovani poeti, Alejandro Jodorowsky e Enrique Lihn, si misurarono con questa affermazione del futurista Marinetti decidendo di attraversare la città in linea retta, senza mai deviare. Quando si imbattevano in un albero, si arrampicavano in cima e continuando a conversare discendevano dall’altra parte. Se sul loro percorso c’era un’auto, la scavalcavano salendo sul parabrezza. Di fronte a una casa suonavano alla porta e uscivano dal retro passando, se necessario, attraverso una finestra. Questi aneddoti sono raccontati nel libro di conversazioni con Jodorowsky Psicomagia. A questo punto l’intervistatore chiede: “Chissà quanti problemi avete avuto…”. Jodorowsky risponde così: No, perché? Dimentichi che il Cile era un paese poetico. Ricordo di aver suonato a una porta e di aver spiegato alla signora che ci era venuta ad aprire che eravamo poeti in azione e dovevamo attraversare la sua casa in linea retta. Lei ha capito perfettamente e ci ha fatto uscire dal retro. Questa introduzione per meglio comprendere, solo due anni prima, l’emissione dell’ordine di arresto al poeta cileno Pablo Neruda da parte del presidente Videla. La poesia, in Cile, era pericolosa. Perché era amata, perché era azione, perché il suo più celebre rappresentante era un senatore comunista. È da qui che prende il via il film di Pablo Larraín. Videla incarica un investigatore di arrestare e umiliare Pablo Neruda, e il poeta è costretto alla fuga e all’esilio che lo porterà, tra gli altri luoghi, a “passare” per la finestra di Michael Radford e Massimo Troisi nel film Il postino, che idealmente si affaccia laddove questo sipario si chiude, nei giorni dell’esilio di Neruda a Capri. Ma, prima, c’è la Cordigliera delle Ande, l’Argentina e, attraversato l’oceano, Parigi (nella capitale francese Neruda frequenterà Pablo Picasso). E questo è anche, più o meno, tutto ciò che c’è del biopic in Neruda. Il resto ce lo mettono lo sceneggiatore Guillermo Calderón e l’ormai quasi intoccabile regista cileno Pablo Larraín, che a soli quarant’anni sembra già essere un maestro indiscusso per l’impegno politico del suo cinema e il taglio particolare con cui racconta le dittature che si sono succedute in Cile (premi in ordine sparso: nomination all’Oscar per il miglior film straniero nel 2012 con No – I giorni dell’arcobaleno; Gran premio della giuria nel 2015 per Il club al Festival internazionale del cinema di Berlino; miglior film, Tony Manero, e migliore attore Alfredo Castro al Torino Film Festival nel 2008). Perché il resto, l’inseguimento e l’ostile ammirazione da parte dell’ispettore di polizia Oscar Peluchoneau (Gael García Bernal), nemesi di Pablo Neruda (Luis Gnecco), è invenzione letteraria stratificata, voce narrante dal tono strampalato in cui convivono invidia, sarcasmo, adorazione, superbia e ricercatezza. Questo impettito esecutore del potere è deciso ad ammanettare il poeta fuggitivo, è il suo compito e lui un orgoglioso funzionario dello stesso governo che il poeta comunista offende col suo essere prima ancora che un membro del senato (un senato che include orinatoi e lavabi) un libero pensatore e amante. “Le donne immaginano che Neruda faccia l’amore con una rosa in bocca”, dice di lui il pragmatico investigatore. Se i colori desaturati e l’ambientazione retrò sono una maniera consueta nell’opera del regista attraverso cui raccontare la storia politica del suo paese, questa pervasiva voice-over è nuova nel suo cinema laconico. Può ricondursi ad opere più verbose, come per esempio Il club, nella rappresentazione di individui che con le loro parole celano agli altri l’orrore di cui sono imputabili, però nel caso di Neruda nello spettatore viene come a insinuarsi, durante l’ascolto dell’irritante soliloquio dell’ispettore Peluchoneau, uno stato d’animo che sebbene non sia privo di affascinante ambiguità, di contro lascia troppo presto intuire gli esiti del racconto di finzione. Non è un cineasta da colpi di scena, Larraín, ed è certo più interessato ad essere disturbante che accondiscendente verso un cinema d’intrattenimento fine a se stesso, eppure qui si ha la sensazione che questo programmatico proposito all’urticante appesantisca uno dei suoi film altrimenti più libero e leggero come i versi del poeta di cui narra. Senza voler svelare altro della storia, che terminerà in un tallonamento sulla Cordigliera delle Ande (“l’onda di terra che aggetta sulla pianura argentina” la definisce, cito a memoria, Peluchoneau), l’afflato allegorico del triste e invidioso omuncolo vuole sì simboleggiare l’impotenza dell’oppressore nei confronti della bellezza e della libertà, che desidera a sua volta castrare per rendere più simile e anzi inferiore a sé il poeta fingitore (“vattene pure così passerò i prossimi vent’anni a scrivere su di te”, dice alla moglie Delia uno sdegnato Neruda), e con lui quella parte di Cile che capisce la poesia e la respira, ma dopo un po’, pur essendo testo e sottotesto di innegabile buona fattura, ci si annoia senza ricompensa finale, perché il discorso non va oltre il già visto/sentito. La domanda interessante in questo genere di epilogo, a me pare (ma anche la più pericolosa nel suo svolgimento), non è tanto chi ha inventato chi, né in che misura si deve onorare questa relazione, ma cosa succede quando ci si trova al cospetto del proprio creatore. In molti hanno già dato anche qui, è vero, ciò non toglie che il demiurgo abbia di caso in caso le più diverse intenzioni, l’ignoranza del personaggio di finzione è invece subordinata allo scopo principale della sua ricerca, a maggior ragione quando il punto di vista è “suo”. La narrazione si avvolge su se stessa, in questo caso. I sei personaggi in cerca d’autore di pirandelliana memoria, diventati uno, non hanno più dalla loro una coscienza che indaga, ma solo l’agnizione ultima che riconosce il “divino mandato”. Con buona pace del braccato Neruda negli anni in cui Jodorowsky e Lihn tiravano dritto per le strade.