sul film “Animali notturni” di Tom Ford | recensione di Enrico

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sul film “Animali notturni” di Tom Ford | recensione di Enrico
Il Diritto di Contare | di
Theodore Melfi | recensione
di Alessandro Faralla
Genere: Drammatico
Durata: 127 min.
Cast: Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin
Costner, Kirsten Dunst, Jim Parsons, Mahershala Ali, Aldis
Hodge, Glen Powell, Kimberly Quinn
Paese: USA
Anno: 2016
Passarsi un gesso è un’azione semplice, quasi innocua, se a
farlo però è un uomo bianco e a ricevere tra le mani
quell’oggetto è una donna afroamericana nella Virginia
segregazionista degli anni 60 quella piccola azione diventa il
segno di una legittimazione sempre rincorsa. È senz’altro il
momento di Il Diritto di Contare più simbolico in cui Theodore
Melfi (St.Vincent) sceglie di indugiare, facendo di un breve
attimo una grande scintilla di umanità.
Basato sul libro di Margot Lee Shetterly, Hidden Figures: The
Story of the African-American Women Who Helped Win the Space
Race Il Diritto di Contare racconta la storia vera di
Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughn (Octavia
Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monae), tre straordinarie
donne afroamericane, dipendenti della Nasa che lavorarono a
diversi progetti spaziali, il più famoso fu quello che portò
l’astronauta John Glenn a compiere il primo viaggio umano
nell’orbita terrestre.
Ma se John Glenn, il team del programma delle Operazioni
Spaziali guidato da Hal Arrison (Kevin Coster) e l’America
tutta sono riusciti a raggiungere “quell’oltre” lo devono non
semplicemente all’afroamericana Katherine, ma alla stoica e
brillantissima matematica che leggeva i numeri come se fossero
note di uno melodia fuori dal tempo, fuori dai pregiudizi,
dall’ignoranza di una Stato fieramente rigido nel ricordare le
differenze tra bianchi e neri, inclusi ma allo stesso tempo
esclusi da tutto. Con bagni per sole persone di colore, posti
a sedere, sugli autobus e a scuola, sempre nelle ultime file
il quotidiano vivere per la popolazione afroamericana era una
conquista dal sapore amaro, partecipi a metà di una realtà
vicina eppure lontanissima.
Era facile narrare tutto ciò con enfasi, retorica, situazioni
portate all’estremo ma tale visione avrebbe snaturato una
storia che del basso profilo, della sua calma,
dell’instancabile lavoro ha fatto la propria bussola morale.
Theodore Melfi adotta intelligentemente uno stile pacato che
senza tralasciare l’identità di ciascuna delle tre scienziate
conferisce al film il vestito più idoneo per lasciarsi
guardare. Non servono scenate, monologhi stucchevoli e
prevedibili sulla giustizia o toni sopra le righe. Quello che
Katherine e le sue compagne dovevano dimostrare lo fecero con
rigore, correndo per un kilometro ogni qual volta dovevano
fare pipì perché nel complesso che ospitava lo Space Task
Group non vi erano servizi igienici destinati ai colored.
Il Diritto di Contare descrive, grazie ad un cast funzionale
allo script, la grandezza delle tappe che portarono alla
conquista dello spazio con lo stesso equilibrio incarnato
dall’atteggiamento delle tre protagoniste a cui bastarono
talento, impegno e una pacifica perseveranza per scalfire il
muro di sopportazione che circondava la comunità
afroamericana, ottenendo il riconoscimento del loro valore
come persone ancora prima che Kennedy nel 1964 emanasse il
Civil Rights Act.
Perché se l’America e l’umanità hanno potuto sognare e poi
toccare le stelle lo devono a figure come Katherine Johnson,
Dorothy Vaughn e Mary Jackson e a tutti coloro che cercano di
fare un passo oltre le esclusioni, i diritti negati o concessi
a metà, oltre la cecità umana che dopo più di 50 anni non ha
ancora compreso la ricchezza del contributo che ogni individuo
può donare al mondo per fare della vita un viaggio verso la
luce.
Split | di M. Night Shyamalan
| recensione di Enrico Carli
Genere: Thriller
Durata: 116 min.
Cast: James McAvoy, Anya Taylor-Joy, Betty Buckley, Haley Lu
Richardson, Jessica Sula
Paese: USA
Anno: 2017
Split è in parte ispirato al caso di Billy Milligan,
schizofrenico affetto da disturbi dissociativi dell’identità
che negli anni settanta rapì e violentò tre studentesse, e
giudicato dal tribunale statunitense non colpevole per
infermità mentale (venne fuori che aveva 24 personalità).
Anche Kevin, interpretato dall’ottimo James McAvoy, ha
problemi identitari, anche lui si risolve a rapire tre
studentesse e a imprigionarle nei sotterranei di un luogo
imprecisato. Le tre ragazze avranno modo di conoscere alcuni
abitanti della sua mente, quelli in “luce”, tra cui
l’ossessivo-compulsivo Dennis (il responsabile del loro
rapimento), l’affettuosa Patricia e il giovanissimo Hedwig.
L’aspetto peggiore è però l’annunciato arrivo della Bestia (la
24° personalità dell’uomo), di cui loro tre sarebbero le
designate vittime sacrificali. Intanto la dottoressa Fletcher
è allarmata dalle strane email di Barry, abitante di Kevin che
a differenza degli altri non si presenta da un po’ nel suo
studio.
Dopo un paio di film minori (Lady in the Water; E venne il
giorno) e altrettanti film “sbagliati” (L’ultimo dominatore
dell’aria; After Earth), il regista indoamericano M. Night
Shyamalan, tornato finalmente in forma già dal penultimo,
interessante The Visit (2015), mantiene con Split le sue
ritrovate capacità di affabulazione, seduzione e inganno.
Il soggetto di Split dà modo al regista di affrontare un altro
aspetto della realtà percettiva, ispirazione che è alla base
dei più riusciti lavori precedenti, da Il sesto senso a The
Village. Si pensi ai suoi famosi finali ad effetto, laddove il
rivolgimento di prospettiva è la scoperta di una
percezione/condizione svelata, che si propone di portarci su
un altro livello di realtà. La realtà che conosciamo non
basta. La mente affollata di Kevin, dove coesistono bambini,
adulti di entrambi i generi, omosessuali – e quindi innocenza,
talento, diversità – è conseguenza della sfaccettata,
sorprendente complessità di modi in cui si può reagire agli
abusi, istituzione di un clan-famiglia in cui si ripetono le
dinamiche apprese e subite, sistema che si prefigge un
controllo che viene meno perché il sistema è aperto.
L’amorevole dottoressa Fletcher (Betty Buckley) spiega come
solo una delle personalità del suo paziente sia malata di
diabete e assuma insulina senza conseguenze per le altre
(nella realtà dei fatti una delle personalità di Billy
Milligan leggeva e scriveva correttamente l’arabo; un’altra
era jugoslava e conosceva il serbo-croato). La dottoressa
interpreta la dissociazione come una grande risorsa della
mente umana, capace di contenere più cervelli (diverse
attitudini, caratteri, fobie) nello stesso “contenitore”. La
malattia come condizione di superiorità e, contemporaneamente,
di insanabili conflitti istintivi e morali per la stessa
capacità di assimilare moltitudini.
Non è un caso che l’attenzione di una delle personalità in
luce di Kevin si focalizzi su quella di ragazze giovani, che
non conoscono la sofferenza e che, pertanto, sono “impure”
(come se la purezza passi solo attraverso il dolore). Fatta
eccezione per la malcapitata Casey (Anya Taylor-Joy) il cui
sguardo autentico le permette, dietro la paura, di vedere chi
ha davanti. Il suo dolore (che come vedremo porta scritto sul
corpo) la rende “adatta” a vivere. E il discorso adattivo si
estende a raggiera con la consueta presentazione graduale
degli elementi che tanto piace a Shyamalan – si pensi alla
cattività in cui vengono messe le ragazze, al personaggioidentità della Bestia e al luogo in cui sono (ci verrà
mostrato a tempo debito) – per tracciare alla fine un ordine
evidente, una plausibile spiegazione allo slittamento dei
piani del racconto.
Ma è nel doppio finale del film (spoiler) – in realtà
l’apertura al seguito di quella che non è ancora una trilogia
e che potrebbe essere ben più di ciò – che Shyamalan ci
manifesta la sua ultima intenzione: con Split abbiamo
assistito alla genesi di un villain così come Unbreakable – Il
predestinato (2000) era l’origine di un supereroe. A distanza
di diciassette anni Shyamalan prosegue la sua personale
creazione di una saga di supereroi dark (direttamente al
cinema bypassando l’edicola). Inoltre, giocando con i topoi
della super-categoria (genesi nemesi resa dei conti) e non
rivelando fin dal lancio la natura del progetto, egli
sperimenta la vertigine del genere nel genere. Trovarsi in un
“cinecomics” e non saperlo; in un seguito e non saperlo;
attribuisce al film che abbiamo visto una nuova, inusuale
appartenenza, di cui il thriller era solo un aspetto della sua
molteplice identità.
Paterson | di Jim Jarmusch |
recensione di Enrico Carli
Genere: commedia
Durata: 113 min.
Cast: Adam Driver, Golshifteh Farahani, Kara Hayward, Sterling
Jerins, Jared Gilman
Paese: USA
Anno: 2016
Paterson è un conducente di autobus di linea che vive a
Paterson, omonima città del New Jersey in cui sono vissuti i
poeti William Carlos Williams, Allen Ginsberg e Frank O’Hara,
ma anche il pugile Rubin “Hurricane” Carter, l’astronauta Mark
Polansky e l’anarchico italiano Gaetano Bresci, che tornò in
patria per uccidere Re Umberto I di Savoia. Della sua città
Paterson ha la semantica del nome iscritta nei geni, è padre e
figlio pur non avendo figli e a quanto pare nemmeno genitori
in vita. È tale in quanto spirito accorto della comunità:
devoto alla compagna, puntuale sul lavoro, generoso, umile.
Figlio che raccoglie le migliori virtù di un padre ideale,
Paterson (perfettamente in parte Adam Driver, con quella
faccia lì, gli enormi piedi e quel modo di camminare) è un
uomo che coltiva i semi della poesia su di sé: essere lieve e
gentile come un buon verso, custode pater familias delle
memorie degli antenati poeti e del calore domestico; e son,
figlio americano prescelto che ne incarna gli ideali di
rettitudine morale. Come si dice, nomen omen: il destino nel
nome.
Non c’è quasi conflitto nel racconto, Paterson è innamorato di
Laura – donna bella quanto una poesia non potrà mai essere
(l’iraniana Golshifteh Farahani, vista nel bellissimo About
Elly di Asghar Farhadi) – e altrettanto affettuosa, gentile,
creativa; non appena il suo personaggio sembra fuori fase o
superficiale e velleitario, subito la smentita: è capace,
davvero innamorata di Paterson, ama le sue poesie e anzi lo
sprona a donare a tutti i suoi versi, perché lui è discreto e
timido. Nella scansione temporale dei giorni della settimana,
il loro rapporto fila via liscio come quello irraccontabile di
una famiglia felice.
Il film di Jarmusch è tutto nella noiosa settimana feriale del
protagonista, fatta di piccoli riti quotidiani, conversazioni
origliate sull’autobus durante il lavoro, passeggiate col cane
e capatine al bar. Scorci di strade pacifiche, sempre
illuminate dal sole. E poesie: quelle che scrive Paterson
tutto il giorno nella sua mente e che poi trascrive sul
taccuino. C’è pure una cascata davanti alla quale ama fermarsi
durante la pausa pranzo. All’interno della marmitta, nel
coperchio, c’è la foto di Laura, e lo spuntino da lei
preparato comprende un dolce con le stesse fantasie a
ciambella dell’arredamento e delle tende di casa. La chiusura
del cerchio: l’orologio di Paterson apre e determina la sua
giornata, il tondo del boccale di birra la chiude.
Le sue poesie, di cui assistiamo a ogni fase, dall’idea alla
stesura finale, non nascondono un’anima inquieta, sono lo
specchio interiore di ciò che gli vediamo fare per strada: si
offre di fare compagnia a una ragazzina mentre aspetta che la
madre scenda da un edificio; dà soldi a un vagabondo;
interviene con coraggio nel bel mezzo di un tentato omicidio;
ascolta i problemi del collega e le molteplici trovate di
Laura, che da ultimo si è messa in testa di comprare una
chitarra e diventare cantautrice (l’attrice iraniana è davvero
una songwriter). Similmente, i suoi versi sono per l’amata
compagna di vita; per un pacchetto di fiammiferi emblema del
focolare domestico; per la consistenza tangibile dell’aria in
una percezione porosa-molecolare; sulla scoperta della
dimensione del tempo e del doppio delle cose: dalle persone (i
gemelli che ritornano dal sogno alla realtà) alle situazioni
speculari. L’unico conflitto è quello con il cane Marvin,
geloso dell’amore della sua padrona per Paterson.
Ma, come ogni ciambella che sia tale, c’è il buco in mezzo.
L’inquietudine esistenziale di cui Jarmusch è sempre stato
sottile cantore, un vuoto di senso che trova modo di
profilarsi nel suo cinema volutamente statico, che come il suo
protagonista sembra chiedersi ancora con meno, si può fare
poesia ancora con meno. Una scacchiera, un tavolo da
bigliardo, un boccale di birra e, sullo stesso piano, le
relazioni umane. Cosa farne di ciò?
Annidato da qualche parte anche nelle giornate più miti e
nelle persone che sembrano avere ben poco di cui lamentarsi,
c’è l’apparente, inutile ricorsività del cerchio, qualcosa che
è implicito nell’atto di fare poesia e di filtrare le cose
attraverso la loro deposizione in lettera, uno spirito
anarchico mai domo, ribelle nei confronti delle etichette:
autista, poeta, marito. La volontà di nascondere la propria
identità più intima agli occhi del mondo così che il mondo non
avrà ragione su di essa.
Il filosofo e critico letterario Benedetto Croce sosteneva che
fino a diciott’anni chiunque scrive poesie, e che solo due
categorie di persone continuano anche dopo: i poeti, e i
cretini. Non sappiamo se le poesie di Paterson abbiano valore
al di là del fatto che ne hanno per Laura. Sappiamo che,
costellando il film dell’interiorità del suo taciturno
protagonista, ci arrivano come le vere emozioni delle sue
giornate, autentiche espressioni personali di un mondo
sofisticato, altrimenti incomprensibile (ad ogni modo, quasi a
voler fugare ogni dubbio sono scritte dal poeta Ron Padgett).
E da alcune carrellate sui libri di Paterson sappiamo che fa
buone letture: dall’Infinite Jest di Foster Wallace passando
per Melville, il succitato Carlos Williams, come Paterson
poeta dal linguaggio semplice e cantore della città, e Wallace
Stevens, forse il più metafisico dei grandi poeti americani.
Questi sono i padri spirituali di cui è custode e figlio. Ma
Paterson potrebbe anche essere un cretino/idiota alla maniera
di quello dostoevskiano, più che un buono a nulla un troppo
buono. Eccessivamente remissivo nei confronti di una moglie
che vuole per lui ciò che egli non sembra desiderare; pronto a
perdonare al cane Marvin, come un buon padre, il doloroso
dispetto compiuto ai suoi danni. In ogni modo, che egli sia o
meno un Poeta maturo, non è questo importante. L’importante,
pare dirci Jarmusch, è avere sempre a disposizione un nuovo
taccuino, perché se a volte la vita ci fa inaspettatamente
dono di ciò che ci occorre, sta comunque ad ognuno di noi
tracciare il proprio piano di fuga dal tempo degli altri.
Discesa all’inferno senza
ritorno | sul film “Animali
notturni” di Tom Ford |
recensione di Enrico Carli
Genere: Thriller
Durata: 115 min.
Cast: Amy Adams, Jake Gyllenhaal, Michael Shannon, Aaron
Taylor-Johnson, Isla Fisher, Laura Linney
Paese: USA
Anno: 2016
Il secondo film dello stilista Tom Ford in un certo senso
racconta un altro A Single Man, mettendo in scena quello che è
anche un esercizio terapeutico non così scontato: scrivere
storie è trascendere la realtà attraverso l’elaborazione
simbolica di emozioni che hanno lasciato il segno.
Controindicazioni: per esigenze di libero ragionamento su un
film che pur avendo entusiasmato buona parte della critica non
manca di pareri discordanti, e quindi per meglio addentrarsi
nelle maglie di una storia stratificata che lascia spazio
all’interpretazione dello spettatore, l’articolo contiene
spoiler.
Susan Morrow è una gallerista a un punto morto sia nella
carriera che nella vita privata: ha smesso di credere in ciò
che fa e in chi la circonda. Il rapporto col suo secondo
marito Walker si è raffreddato e lui la tradisce, l’attrazione
artistica del suo ultimo vernissage – pingui modelle la cui
carne straborda fuori da tanga e bikini – non le sembra altro
che una provocazione fine a se stessa, una di quelle a cui lo
spettatore contemporaneo è assuefatto, nei confronti delle
quali è ormai tiepido o indifferente. La galleria, di
conseguenza, è più una spesa che un guadagno.
Quando Susan riceve il manoscritto di Edward, il suo ex marito
che non vede da vent’anni, si ferisce a un dito con la carta e
sanguina. L’avvertimento è subito chiaro: questo libro ti farà
male.
La storia che legge, apparentemente un thriller on the road,
comincia con Tony che si mette in viaggio con la moglie e la
giovane figlia. Durante la notte, in una delle interminabili
strade del Texas, la famiglia si imbatte in una banda di
teppisti il cui capo è il folle Ray Marcus (Aaron TaylorJohnson, unica prova attoriale che non convince del cast: i
suoi cambi d’espressione repentini sembrano la parodia di uno
psicopatico). Dopo averli mandati fuori strada, i balordi
rapiscono moglie e figlia, prendono l’auto e lasciano Tony nel
deserto.
Questa storia nella storia – Tony e Edward sono interpretati
entrambi da Jake Gyllenhaal – è una potente allegoria. Susan
ne è turbata al punto che, quando nel romanzo le cose si
mettono male per la figlia di Tony, chiama sua figlia al
telefono per sapere se sta bene. Susan, infatti, ha
abbandonato Edward pur amandolo, perché un aspirante scrittore
non poteva garantirle quella sicurezza economica che avrebbe
in seguito rimpianto – è la madre a persuaderla di questo e
anche a profetizzare alla riluttante Susan, che odia i
borghesi arricchiti e non vorrebbe mai essere come lei, che
ogni donna, che lo voglia o meno, è destinata a diventare
esattamente come la madre. In questa disposizione d’animo è
cosa semplice per Susan consolarsi nelle braccia
dell’attraente Walker. Trovato il coraggio dopo il valido
sostituto, liquida Edward con le stesse motivazioni che
deprecava e, incinta di lui, abortisce per chiudere ogni ponte
col passato e ricominciare una vita con meno incertezze. Così
è la natura, il forte prevarica il debole; diverse battute
sono spese per far capire che Edward è fragile in quanto
“troppo sensibile”. Ha però una forza che la stessa Susan gli
attribuisce: credere in se stesso, cioè nella sua capacità di
poter un giorno scrivere delle storie che siano spendibili.
Quel giorno è arrivato per Edward e per Susan, infatti
quest’ultima si perde nel suo romanzo emblematico e
perturbante: violenza, morte e deserto per tutti. Il passato e
i sensi di colpa riaffiorano e si fa strada la consapevolezza
già latente di aver operato le scelte sbagliate. È risaputo
che gli scrittori combinino i caratteri delle persone che
conoscono nei loro personaggi, forse un po’ meno che fanno
anche il contrario: da una sola persona plasmano
personaggi anche all’interno della stessa storia.
più
Nella finzione del romanzo di Edward “Animali notturni”, Susan
è rappresentata da Laura (Isla Fisher), la moglie di Tony,
colei che muore insieme alla figlia di morte violenta (del
resto ancora più dolorosa oltre che per loro anche per il
padre/marito), ma è anche, allo stesso tempo, lo schizofrenico
Ray Marcus, il responsabile del loro stesso supplizio. Come
Susan, egli è sdoppiato: non è chi gli altri credono che lui
sia ma dal momento che gli altri lo ritengono uno stupratore
lui riveste quel ruolo (lo dichiara lo stesso Marcus); Susan,
ribadiamolo, non vuole diventare come la madre ma segue
esattamente la strada indicatale fino ad avverarne la
predizione. Entrambi i personaggi si trasformano in chi si
vuole per loro: sono volubili o naturalmente predisposti alla
rapacità così come suggerisce il titolo del libro (e del film)
che gli è cucito addosso?
In questo senso il water fuori dalla porta della baracca di
Ray Marcus dove Tony lo “sorprende” seduto nell’atto di
svuotarsi è un’opera di stampo duchampiano degna della
galleria d’arte di Susan – dove le provocazioni che ormai
hanno ben poco di provocante si rifanno a un immaginario
kitsch, ovvero la produzione in ambito artistico di cose di
cattivo
gusto
come
gli
escrementi
della
performance/istallazione di Ray Marcus. Cosa è vero e cosa non
lo è nel racconto di uno stato d’animo che viene esteso a
metafora, romanzo?
Ricevuto il lungo messaggio criptato dal suo ex marito Edward
(la morte dell’amore e la propria stessa morte spirituale per
il dolore lancinante causato da ciò che gli è stato portato
via), Susan elabora il senso di colpa e riconquista la fiducia
perduta nel talento di Edward. Pronta per un probabile mea
culpa (“Vediamoci, ho tante cose da dirti”), gli scrive che
vuole incontrarlo e lui accetta.
Ma Edward non si presenterà all’appuntamento. Niente di tutto
ciò che potrebbe seguire verrebbe spontaneamente da Susan: è
stato il suo mondo violento e disperato ad averle aperto gli
occhi spalancati-chiusi (echi di un inconscio kubrickiano), ad
averla persuasa della sua tesi esistenziale sotto forma di
thrilling (tu sei morta e io sono morto: qui c’è solo morte e
nulla), e dunque sarà, coerentemente, quella del suo romanzosimbolo a lei dedicato l’ultima parola sull’argomento.
E se alcune cose paiono risolte un po’ semplicisticamente (che
fine fa il tenente Andes?* Perché non raggiunge Tony nemmeno
in un secondo momento? Ma come, Ray Marcus si da alla fuga e
solo qualche istante dopo è già a letto e per di più dove
possono trovarlo?! Edward non è poi uno scrittore così eccelso
se fa finire così il suo protagonista!) è forse perché non
hanno molta importanza nell’economia del meta-racconto, sono
personaggi/situazioni stampelle, propaggini delle uniche
soggettività che occupano lo spazio filmico e di cui queste
apparenti trascuratezze ne evidenziano invece l’importanza:
qui ci sono solo due protagonisti assoluti e tutto gira
intorno alla loro relazione perduta. Uno dei due è,
naturalmente, la notturna Susan; l’altro è il delegato di
Edward, Tony**, l’irraggiungibile moderno Orfeo “rovesciato”.
*Il
tenente
Bobby
Andes
(Michael
Shannon)
è
un
altro
personaggio simbolo, il doppio di Tony/Edward come Ray Marcus
lo è di Susan, un malato terminale che rappresenta la
determinazione fatalistica al regolamento dei conti, cosa che
Edward porterà a compimento anche fuori dal romanzo (anche se,
come vedremo, non di mera vendetta si tratta).
**Il romanzo di Austin Wright da cui è tratta la sceneggiatura
di Tom Ford s’intitola appunto Tony & Susan.
Neruda | di Pablo Larraín |
recensione di Enrico Carli
Genere: Biografico
Durata: 107 min.
Cast: Luis Gnecco, Gael García Bernal, Alfredo Castro,
Mercedes Morán
Paese: Argentina, Cile, Spagna, Francia
Anno: 2016
“La poesia è azione”. Nel Cile degli anni cinquanta due
giovani poeti, Alejandro Jodorowsky e Enrique Lihn, si
misurarono con questa affermazione del futurista Marinetti
decidendo di attraversare la città in linea retta, senza mai
deviare. Quando si imbattevano in un albero, si arrampicavano
in cima e continuando a conversare discendevano dall’altra
parte. Se sul loro percorso c’era un’auto, la scavalcavano
salendo sul parabrezza. Di fronte a una casa suonavano alla
porta e uscivano dal retro passando, se necessario, attraverso
una finestra. Questi aneddoti sono raccontati nel libro di
conversazioni con Jodorowsky Psicomagia. A questo punto
l’intervistatore chiede: “Chissà quanti problemi avete
avuto…”. Jodorowsky risponde così:
No, perché? Dimentichi che il Cile era un paese poetico.
Ricordo di aver suonato a una porta e di aver spiegato alla
signora che ci era venuta ad aprire che eravamo poeti in
azione e dovevamo attraversare la sua casa in linea retta. Lei
ha capito perfettamente e ci ha fatto uscire dal retro.
Questa introduzione per meglio comprendere, solo due anni
prima, l’emissione dell’ordine di arresto al poeta cileno
Pablo Neruda da parte del presidente Videla. La poesia, in
Cile, era pericolosa. Perché era amata, perché era azione,
perché il suo più celebre rappresentante era un senatore
comunista.
È da qui che prende il via il film di Pablo Larraín. Videla
incarica un investigatore di arrestare e umiliare Pablo
Neruda, e il poeta è costretto alla fuga e all’esilio che lo
porterà, tra gli altri luoghi, a “passare” per la finestra di
Michael Radford e Massimo Troisi nel film Il postino, che
idealmente si affaccia laddove questo sipario si chiude, nei
giorni dell’esilio di Neruda a Capri. Ma, prima, c’è la
Cordigliera delle Ande, l’Argentina e, attraversato l’oceano,
Parigi (nella capitale francese Neruda frequenterà Pablo
Picasso).
E questo è anche, più o meno, tutto ciò che c’è del biopic in
Neruda. Il resto ce lo mettono lo sceneggiatore Guillermo
Calderón e l’ormai quasi intoccabile regista cileno Pablo
Larraín, che a soli quarant’anni sembra già essere un maestro
indiscusso per l’impegno politico del suo cinema e il taglio
particolare con cui racconta le dittature che si sono
succedute in Cile (premi in ordine sparso: nomination
all’Oscar per il miglior film straniero nel 2012 con No – I
giorni dell’arcobaleno; Gran premio della giuria nel 2015 per
Il club al Festival internazionale del cinema di Berlino;
miglior film, Tony Manero, e migliore attore Alfredo Castro al
Torino Film Festival nel 2008).
Perché il resto, l’inseguimento e l’ostile ammirazione da
parte dell’ispettore di polizia Oscar Peluchoneau (Gael García
Bernal), nemesi di Pablo Neruda (Luis Gnecco), è invenzione
letteraria stratificata, voce narrante dal tono strampalato in
cui convivono invidia, sarcasmo, adorazione, superbia e
ricercatezza. Questo impettito esecutore del potere è deciso
ad ammanettare il poeta fuggitivo, è il suo compito e lui un
orgoglioso funzionario dello stesso governo che il poeta
comunista offende col suo essere prima ancora che un membro
del senato (un senato che include orinatoi e lavabi) un libero
pensatore e amante. “Le donne immaginano che Neruda faccia
l’amore con una rosa in bocca”, dice di lui il pragmatico
investigatore.
Se i colori desaturati e l’ambientazione retrò sono una
maniera consueta nell’opera del regista attraverso cui
raccontare la storia politica del suo paese, questa pervasiva
voice-over è nuova nel suo cinema laconico. Può ricondursi ad
opere più verbose, come per esempio Il club, nella
rappresentazione di individui che con le loro parole celano
agli altri l’orrore di cui sono imputabili, però nel caso di
Neruda nello spettatore viene come a insinuarsi, durante
l’ascolto
dell’irritante
soliloquio
dell’ispettore
Peluchoneau, uno stato d’animo che sebbene non sia privo di
affascinante ambiguità, di contro lascia troppo presto intuire
gli esiti del racconto di finzione.
Non è un cineasta da colpi di scena, Larraín, ed è certo più
interessato ad essere disturbante che accondiscendente verso
un cinema d’intrattenimento fine a se stesso, eppure qui si ha
la sensazione che questo programmatico proposito all’urticante
appesantisca uno dei suoi film altrimenti più libero e leggero
come i versi del poeta di cui narra.
Senza voler svelare altro della storia, che terminerà in un
tallonamento sulla Cordigliera delle Ande (“l’onda di terra
che aggetta sulla pianura argentina” la definisce, cito a
memoria, Peluchoneau), l’afflato allegorico del triste e
invidioso omuncolo vuole sì simboleggiare l’impotenza
dell’oppressore nei confronti della bellezza e della libertà,
che desidera a sua volta castrare per rendere più simile e
anzi inferiore a sé il poeta fingitore (“vattene pure così
passerò i prossimi vent’anni a scrivere su di te”, dice alla
moglie Delia uno sdegnato Neruda), e con lui quella parte di
Cile che capisce la poesia e la respira, ma dopo un po’, pur
essendo testo e sottotesto di innegabile buona fattura, ci si
annoia senza ricompensa finale, perché il discorso non va
oltre il già visto/sentito. La domanda interessante in questo
genere di epilogo, a me pare (ma anche la più pericolosa nel
suo svolgimento), non è tanto chi ha inventato chi, né in che
misura si deve onorare questa relazione, ma cosa succede
quando ci si trova al cospetto del proprio creatore.
In molti hanno già dato anche qui, è vero, ciò non toglie che
il demiurgo abbia di caso in caso le più diverse intenzioni,
l’ignoranza del personaggio di finzione è invece subordinata
allo scopo principale della sua ricerca, a maggior ragione
quando il punto di vista è “suo”. La narrazione si avvolge su
se stessa, in questo caso. I sei personaggi in cerca d’autore
di pirandelliana memoria, diventati uno, non hanno più dalla
loro una coscienza che indaga, ma solo l’agnizione ultima che
riconosce il “divino mandato”. Con buona pace del braccato
Neruda negli anni in cui Jodorowsky e Lihn tiravano dritto per
le strade.