east19_Dossier.Fame_d`energia

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PER VENT’ANNI L’EUROPA ANDRÀ A GAS di Donato Speroni
BENVENUTI IN ITALIA di Paolo Scaroni
LA MOSSA DELL’UNIONE IN DIFESA DELL’AMBIENTE di Antonio Villafranca
UN PACCHETTO PER RISANARE IL CLIMA di Stefania Amorosi
CLINI: BIOCOMBUSTIBILI VERSO LA COMMODITY di Antonio Barbangelo
Fame d’energia
Corbis
DOSSIER
IDOSSIER
profondi cambiamenti nei mercati internazionali dell’energia e i rischi legati al riscaldamento
globale stanno ridefinendo le agende politiche dei leader di tutto il mondo. Fino a qualche anno
fa si trattava di temi affrontati principalmente da esperti del settore, che solo raramente riuscivano ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Ma gli aumenti del prezzo del petrolio – e quin-
DOSSIER
Per vent’anni
l’Europa andrà a gas
di Donato Speroni
Secondo il più recente scenario di riferimento dell’Aie, il gas sarà l’unico
combustibile fossile il cui impiego in Europa continuerà a crescere fino al
2030. Fino a coprire il 30% del fabbisogno di energia primaria rispetto al
24% di oggi. Entro il 2030 verranno bruciati dagli europei 733 chilometri cubi di gas, contro i 533 del 2005
Un periodo di transizione. È quello che ci aspetta, tra l’era dei combustibili fossili più inquinanti e quella delle energie alternative. Per gli
esperti di energia, i prossimi due decenni saranno caratterizzati da
una serie di fattori ormai prevedibili:
■ I consumi energetici continueranno a crescere: anche se si riuscirà
a indurre i Paesi industrializzati a comportamenti più virtuosi nell’epoca del dopo Kyoto (cioè oltre il 2012) la fame di energia dei Paesi in
via di sviluppo farà sì che i quantitativi consumati (e i gas serra
immessi nell’atmosfera) continueranno ad aumentare. Per livellarsi,
si spera, dopo il 2030.
■ Stiamo già raggiungendo il mitico picco di Hubbert, cioè il
momento della massima produzione petrolifera, che le riserve esistenti non riusciranno più a sostenere in futuro.
■ Aumenterà nel mondo il ricorso al carbone, unico combustibile
che può soddisfare il bisogno di energia della Cina, e si costruiranno
nuove centrali nucleari.
■ Crescerà l’uso delle fonti rinnovabili e delle biomasse, ma partendo
da livelli così bassi che una crescita anche esponenziale consentirà
comunque nel 2030 di coprire una frazione ridotta dei consumi energetici.
Per l’Europa questo quadro lascia scoperta una fetta importante di
fabbisogni: il carbone è troppo inquinante, almeno con le attuali tecnologie, di centrali nucleari sarà assai difficile costruirne un numero
sufficiente nel vecchio continente, né ci sono spazi significativi per le
biomasse, che contenderebbero le aree coltivabili al crescente bisogno
di cereali e di foraggio. E così il ruolo centrale nella copertura dei consumi verrà svolto dal gas naturale.
Secondo il più recente scenario di riferimento dell’Agenzia
Internazionale per l’Energia, il gas sarà l’unico combustibile fossile il
cui impiego in Europa continuerà a crescere da qui al 2030, fino a
coprire il 30% dei fabbisogni di energia primaria, rispetto al 24% di
oggi: quasi 733 chilometri cubi di gas che nel 2030 (nel 2005 erano
533) saranno bruciati nelle centrali e nei fornelli dell’Unione
Europea. Sarà insomma il metano a darci una mano, trattandosi di un
di di gas e benzina – hanno creato una nuova consapevolezza. E nel dopo Kyoto l’Unione Europea,
forte del suo ruolo di più grande mercato del mondo capace di creare standard applicabili su scala globale, si schiera in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici. Ma non tutte le aree del
mondo sono allineate, e se gli Usa temporeggiano e i Paesi asiatici accantonano il problema...
LE REGOLE DEL GIOCO
Il metano pone problemi politici non meno complessi di quelli del
petrolio che ha dominato la geopolitica del Ventesimo secolo.
L’Europa infatti dispone di quantità decrescenti di gas, perché i giacimenti più importanti, in Olanda e nel Mare del Nord, sono destinati
a esaurirsi. Il gas deve essere quindi importato, ma trasportare metano è più complicato che caricare una petroliera e mandarla in giro per
il mondo.
Proprio per questa difficoltà, fino a qualche anno fa buona parte
del metano che fuoriusciva insieme al petrolio da tutti i giacimenti
lontani dai mercati di consumo veniva bruciato a bocca di pozzo.
L’Eni ebbe il merito di realizzare alcuni dei primi gasdotti intercontinentali, collegando l’Europa all’Urss e successivamente l’Italia
all’Algeria con metanodotti che suscitarono all’epoca grandi preoccupazioni politiche perché ci legavano indissolubilmente a Paesi profondamente diversi da noi, ma che si rilevarono indispensabili per il
nostro approvvigionamento energetico.
In alternativa ai metanodotti, il gas naturale può essere liquefatto
all’origine a una temperatura di – 160°, trasformato in Lng (liquified
natural gas) e trasportato in forma compressa in navi metaniere per
essere poi rigasificato nei Paesi di destinazione. In questa forma il
sistema di trasporto del gas viene ad avere una flessibilità paragonabile al sistema petrolifero internazionale, che consente alle petroliere
di approvvigionarsi dove il greggio è disponibile o conveniente, senza
la rigidità dei tubi.
Le metaniere costano molto di più delle petroliere, e quindi il Lng
presuppone investimenti importanti. Però la liquefazione non è una
tecnologia particolarmente complicata: la Esso italiana, per esempio,
varò il primo (e per ora unico) impianto destinato all’Italia, che portava a Panigaglia in Liguria il metano di Marsa el Brega (Libia) già nel
1968. Le opposizioni ambientaliste hanno finora bloccato la costruzione di nuovi rigasificatori. La mappa (Iea 4.4) mostra però quale
importanza avrà il Lng in futuro: gli Stati Uniti, per esempio, prevedono di ricevere massiccie importazioni di Lng dal Medio Oriente, dal
Sud America e dall’Africa. Il governo americano vorrebbe spingere
anche l’Europa verso l’opzione Lng, che consente più flessibilità di
approvvigionamento; nel vecchio continente, però, anche se numerosi
rigasificatori sono in costruzione o in programma, consentendo per
Corbis
combustibile pochissimo inquinante (anche se contribuisce al riscaldamento globale), disponibile ancora in grandi quantità a prezzi competitivi e che senza complessi trattamenti può essere destinato a quasi
tutti gli usi, dalle centrali termoelettriche ai consumi domestici,
finanche all’autotrazione, anche se richiede bombole assai più voluminose del gpl, il gas di petrolio liquefatto che è invece un prodotto
di raffineria.
DOSSIER
esempio di approvvigionarsi dalla lontana Nigeria, l’approvvigionamento via tubo sembra l’opzione prevalente. E si torna così alla
domanda politica fondamentale per la politica energetica dei prossimi
anni: quali tubi vogliamo, stringendo accordi con chi, passando per
quali Paesi e a quali condizioni?
È una partita complessa, che impegna tutti i protagonisti della
scena mondiale: la Russia col ruolo di primattore, ma anche altri produttori più lontani, comunque chiamati in causa, dal Venezuela ai
Paesi del Medio Oriente; l’Europa, tutt’altro che unita nelle sue strategie, gli Stati Uniti, preoccupati dall’eccessiva dipendenza europea
della Russia e a loro volta in cerca di gas; i Paesi minori ex sovietici,
che vorrebbero autonomia dall’orso del Cremlino, ma che per crescere hanno un disperato bisogno di valorizzare i loro giacimenti; infine
i grandi giganti asiatici, alla cui fame energetica serve anche il gas
naturale.
_La politica energetica dei prossimi anni è
una partita complessa cher impegna tutti i
protagonisti della scena mondiale. In primis
la Russia con il ruolo di primattore, ma anche
produttori più lontani, l’Europa e gli Usa
I PADRONI DEL GAS
La scelta dipende poco dal libero mercato e molto dalla politica.
Nell’immaginario collettivo, il sistema petrolifero internazionale è
dominato dalle cosiddette “sette sorelle”, le grandi multinazionali che
dominarono il mercato per gran parte del Ventesimo secolo. Negli
anni Settanta, controllavano il 75% delle riserve e l’80% della produzione di greggio. Oggi le cosiddette Ioc (International oil companies) controllano rispettivamente il 6 e il 24 percento. Ha scritto
“Limes”, nel suo numero del 2007 dedicato al “Clima dell’energia”:
“dall’Aramco saudita alla Lnoc libica, passando per la Nioc iraniana,
la Gazprom russa e la Petrochina, il 66% delle riserve mondiali
appartiene alle prime dieci compagnie controllate dai Paesi produttori”. Il futuro, dunque, non è più delle Ioc, ma delle Noc, National oil
companies, che gestiscono quasi tutto il gas naturale e i cui governi
cercano di dettare le condizioni.
Va anche aggiunto che i Paesi produttori tendono a rafforzare il
loro controllo, rinegoziando gli accordi precedenti o addirittura
rovesciando il tavolo: lo ha fatto Vladimir Putin silurando la Jukos,
non solo perché il suo leader Mikhail Khodorkovskij (imprigionato)
aveva progettato di entrare in politica, ma anche perché era il partner
privilegiato delle major americane. Ma ne ha fatto le spese anche
_La Russia a Occidente vuole rafforzare i rapporti con l’Europa, mentre in Siberia e nell’Artico punta ad accrescere la produzione per
far fronte ai consumi interni e alla domanda
di Cina, Corea e Giappone
Corbis (2)
l’Eni, che nel corso del 2007 ha dovuto accettare una revisione degli
accordi precedenti in Kazakistan per lo sfruttamento del giacimento
di Kashagan. Due situazioni totalmente diverse, ma che insieme a
molte altre denotano la volontà dei governi dei Paesi ex Urss di
rafforzare il proprio controllo sulla produzione e la vendita degli
idrocarburi.
La strategia russa si muove su due fronti. A occidente vuole
rafforzare i rapporti con l’Europa: la Gazprom prevede di fornire
entro il 2015 un terzo del fabbisogno europeo di gas e intende entrare anche nel business della distribuzione. In Siberia e nell’Artico
punta ad accrescere sostanzialmente la produzione per far fronte a
due esigenze: il forte aumento dei consumi interni, soprattutto nelle
nuove regioni, e la domanda estera, da soddisfarsi con forniture alla
Cina, alla Corea e al Giappone, ma anche attraverso la distribuzione
di Lng su rotte più lunghe.
La Gazprom ha cominciato a entrare sul mercato europeo, cedendo in cambio quote del suo azionariato. Possiede per esempio il 35%
di Wingas, una società tedesca di distribuzione, ha il 10% del gasdotto che collega Gran Bretagna e Belgio e vuole partecipare a progetti
europei nel campo dell’elettricità, del petrolio e del Lng. D’altra parte,
la Ruhrgas tedesca possiede il 7% di Gazprom e ha un suo rappresentante nel consiglio d’amministrazione.
L’Unione Europea ha visto con preoccupazione l’offensiva commerciale di Mosca, e ha cercato di porre paletti alla penetrazione nelle
reti di distribuzione attraverso il principio dell’unbundling, cioè della
separazione tra produttori e distributori, che dovrebbe assumere
carattere stringente col cosiddetto terzo pacchetto di direttive energetiche, in vigore dopo il 2012. L’unbundling, oltre a rispondere a un
principio generale di stampo liberista nel campo della forniture dei
servizi, è considerato necessario per impedire a una società che è
diretta espressione del Cremlino di assumere il controllo ancorché
parziale di una rete vitale come quella del gas.
La questione ha messo apertamente in conflitto la commissione di
Bruxelles e i governanti russi. Al World Energy Congress di Roma,
nel novembre scorso, il vice presidente di Gazprom Alexander
Medvedev ha avvertito che l’applicazione del principio “comporterebbe cessioni obbligate di beni patrimoniali, incompatibili con la prote-
DOSSIER
zione della proprietà privata in un’economia di mercato”. Il richiamo
può apparire curioso da parte di un russo, espressione di un Paese i
cui governanti non si sono mai fatti troppi scrupoli a intervenire nell’economia, ma si basa su considerazioni storiche e giuridiche. La storia ci dice infatti che mai i sovietici o i russi, in cinquant’anni di forniture di gas all’Europa, hanno modificato i patti in essere; quindi
hanno il diritto di chiedere altrettanto. Il diritto si riferisce agli accordi già conclusi con molte delle maggiori società europee, che sembrano poco disposte a tornare indietro e quindi si schierano contro
Bruxelles, con l’appoggio dei rispettivi governi.
Insomma, la questione dell’unbundling è una patata bollente che
divide anche i Paesi europei. Il 1° febbraio di quest’anno il tema è
stato discusso in un incontro presso la Commissione industria del
Parlamento europeo, con la partecipazione di numerosi esperti, ma
come dice anche il resoconto ufficiale, “consensus was hard to come
by”: tutti sono rimasti della loro idea.
LA GUERRA DEI TUBI
Nella sua politica del gas verso l’Europa, la Russia vuole evitare il
condizionamento delle sue ex province e Stati satelliti. Vuole cioè
poter gestire direttamente le forniture agli stati della Csi senza mettere a repentaglio quelle all’Europa. Il perché di questa politica si è visto
nel 2006, quando a seguito della vittoria nelle elezioni ucraine di
Viktor Yuschenko, con il forte sostegno degli Stati Uniti e dell'Unione
Europea, Gazprom ha quasi quintuplicato il prezzo del gas alla ex provincia sovietica. Il governo di Kiev ha minacciato di rivalersi sul gas in
transito verso occidente, l’Europa ha rischiato un inverno al freddo e la
Russia una violazione dei suoi obblighi di fornitura.
Ora Mosca è vicina a un nuovo accordo con Kiev, ma per evitare
che episodi di questo genere possano ripetersi progetta nuovi tubi che
bypassano gli Stati ex satelliti. I più importanti di questi progetti
sono i gasdotti North Stream e South Stream. Il North Stream, in
fase avanzata di progettazione, si alimenterà dai giacimenti della
Siberia Occidentale, arriverà a Vyborg sul Baltico, passerà sotto il
mare e rifornirà l’Europa dalla Germania. Ha avuto una vita politica
difficile (e non a caso i russi hanno voluto alla presidenza l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder) per le molte obiezioni che ha sollevato. Quelle ambientali provengono soprattutto da Finlandia e
Svezia, preoccupate degli effetti su un ecosistema chiuso come quello
del Baltico. Sono forse eccessive, quando per esempio paventano il
rischio di andare a smuovere i depositi bellici affondati nel Baltico
durante la Seconda guerra mondiale. Ma si saldano con le obiezioni
politiche. Perché infatti si è voluto scegliere un costoso percorso sottomarino quando sarebbe stato più facile fornire il gas via terra, attraverso Bielorussia e Polonia? È chiara l’intenzione di evitare il rischio
di coindizionamenti. E non è un caso che gli Stati Uniti osteggino
fortemente il nuovo progetto e che i polacchi parlino addirittura di un
nuovo patto Molotov Ribbentrop alle loro spalle.
Il gasdotto South Stream è destinato invece ai Paesi balcanici per
arrivare poi a Trieste. Il percorso è studiato per non toccare l’Ucraina,
passando sotto il Mar Nero, dalla stazione russa di Beregovaya fino al
porto bulgaro di Varna, avendo acquisito la disponibilità del governo
di Sofia. Al progetto è interessato l’Eni, che nel novembre scorso ha
creato una società mista con Gazprom per gli studi tecnici sul progetto. Anche questo tubo ha però i suoi avversari. La commissione di
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Bruxelles, preoccupata dall’eccessiva dipendenza dal gas sovietico, ha
infatti sovvenzionato lo studio di fattibilità del progetto Nabucco, un
gasdotto al quale partecipano tra gli altri la OMV austriaca (capofila)
e la RWE tedesca e la BOTAS turca, per portare in Europa il gas di
Iran, Kazakistan, Turkmenistan, Egitto e Siria. Il Nabucco partirà da
Erzurum, in Turchia, per entrare nella rete europea a Baumgarten in
Austria. Sarà alimentato dal gasdotto che proviene da Tabriz in Iran
che a sua volta dovrebbe essere collegato col gasdotto del Trans
Caspio. Ma molti dubitano che verrà mai realizzato.
“Sul mercato c’è posto sia per il South Stream che per il
Nabucco”, ha dichiarato l’amministratore delegato dell’Eni Paolo
Scaroni, rispecchiando l’esigenza dell’Eni di gestire i rapporti sia con i
russi che con gli altri produttori asiatici. Ma i tubi virtuali si moltiplicano: esiste anche un progetto “White stream” che sotto il Mar Nero
collegherebbe la Georgia alla Romania, tutti in concorrenza per
distribuire il gas proveniente soprattutto dalll’Azerbijan. E molti altri.
IL MERCATO DEL FUTURO
Dietro a molti di questi progetti c’è uno zampino americano, perché il governo di Washington è preoccupato dell’eccessiva dipendenza
europea da Mosca. Negli Usa si guarda anche come fumo negli occhi
al possibile emergere di un “Opec del gas” in funzione antioccidentale. L’esperto di Medio Oriente della Heritage Foundation Ariel Cohen
ha segnalato l’emergere di un “cartello segreto” che ha avuto un battesimo informale nel Qatar il 9 aprile 2007, alla quale hanno partecipato rappresentanti di Russia, Algeria,Venezuela e Iran. Anche se i
leader russi dichiarano di essere contrari a una organizzazione “contro qualcuno”, riconoscono la necessità di un’azione concertata in
un mercato che si va globalizzando. E nella riunione di Doha hanno
tenuto a battesimo la creazione di un Gruppo di Alto Livello per condurre ricerche sui modelli di prezzo del gas.
Ma siamo davvero alla vigilia della nascita dell’Ogec? Un Gas
Exporting Countries Forum (Gecf) esiste in realtà dal 2001, ma ben
difficilmente potrà diventare un vero e proprio cartello, perché il
mercato del gas è profondamente diverso da quello del petrolio. Nel
caso del greggio infatti i prezzi all’origine possono essere modificati
continuamente, mentre quelli del gas sono solitamente fissati a lungo
LE FONTI DI ENERGIA PER L’UNIONE EUROPEA
(Le misure di quantità sono espresse in mtoe, milioni di tonnellate di equivalente petrolio. Un mtoe è equivalente a 1125 milioni di metri cubi di gas)
SCENARIO DI RIFERIMENTO
Domanda di energia
Domanda totale di energia primaria
Carbone
Petrolio
Gas naturale
Nucleare
Idro
Biomasse e rifiuti
Altre rinnovabili
Fonte: World Energy Outlook 2007
SCENARIO ALTERNATIVO
Quote
% di crescita
annuale
2030 2005- 20052015 2030
100
0,5
0,4
14 -0,8 -0,6
33
0,1 -0,0
30
1,4
1,3
8 -0,8 -2,0
2
2,8
1,4
9
4,3
3,2
4 10,0
7,2
1990
2005
2015
2030
2005
2015
1653
451
626
295
207
25
46
3
1814
317
671
444
260
26
83
13
1910
291
678
509
239
34
127
33
2006
275
670
610
159
37
182
72
100
17
37
24
14
1
5
1
100
15
35
27
13
2
7
2
Domanda di
energia
Quote
2015
2030
2015
1846
218
650
492
269
34
143
38
1844
142
595
529
230
39
213
97
100
12
35
27
15
2
8
2
% di crescita
annuale
2030 2005- 20052015 2030
100
0,2
0,1
8 -3,7 -3,2
32 -0,3 -0,5
29
1,0
0,7
12
0,3 -0,5
2
2,8
1,6
12
5,5
3,8
5 11,5
8,5
BENVENUTI IN ITALIA
di Paolo Scaroni *
Forse non lo avrete notato, ma il vostro hotel
a Roma è quasi sicuramente alimentato a
gas, così come lo sono tre hotel italiani su
quattro. Le luci di questa stanza e di ogni
altra stanza sono accese grazie al gas.
Infatti, il 60% della produzione
termoelettrica italiana è alimentata a gas. In
questo Paese, quando crediamo soltanto di
premere un interruttore della luce, stiamo in
realtà aprendo un gasdotto. È un fatto
bizzarro per un Paese che produce sempre
meno gas e ha ormai poche riserve.
Quando ha scelto di andare a gas, l’Italia ha
compiuto una scelta ardita: nel 2006 ogni
cittadino italiano ha “importato” più di 1300
metri cubi di gas, circa il doppio della media
dell’Unione Europea. Ma l’Europa ci sta
raggiungendo in fretta.
Pensate che la produzione di gas europea è
soltanto l’8% di quella mondiale – un valore
destinato a diminuire, se consideriamo che
abbiamo solo l’1% delle riserve mondiali di
gas. Nonostante questo, gli europei hanno
scelto e continuano a scegliere di utilizzare il
gas ovunque risulti possibile.
Il settore elettrico ne è l’esempio più
evidente: l’80% della nuova capacità
termoelettrica installata in Europa negli
ultimi 10 anni è alimentata a gas. Oggi
l’Europa dipende dal gas per il 20% della
sua produzione elettrica, rispetto al 7% degli
anni ’80.
Lo stesso è avvenuto nel settore residenziale.
Negli anni Ottanta, nelle nostre case
usavamo soprattutto prodotti petroliferi e,
addirittura, in una casa su cinque, il
carbone. Oggi nessuno brucia più carbone
nelle caldaie condominali e una casa
europea su due va a gas naturale.
Anche nel settore industriale negli ultimi 25
90
termine o già indicizzati a quelli del petrolio. Inoltre, i grandi produttori fanno già ricorso ad accordi di oligopolio. Per esempio, a Doha i
membri del Gefc secondo Cohen hanno già stipulato intese di spartizione: “Se la Russia accetta di non sfidare la posizione di mercato
dell’Algeria in Spagna, l’Algeria non cercherà di raggiungere la
Germania”.
“I grandi esportatori non possono mettere nell’angolo il mercato
globale del gas perché, purtroppo, questo mercato non esiste”, ha ironizzato l’”Economist”. In quel “purtroppo” del giornale liberista
inglese c’è il senso della partita che si giocherà nei prossimi anni in
Europa. Le posizioni sono sostanzialmente due.
Da una parte c’è la tesi del libero mercato, favorita dalla
Commissione europea, dagli americani (almeno quando si parla di
Europa) e dall’Ocse. Sostiene che la dimensione raggiunta dal business del gas impone regole nuove, con molta maggiore flessibilità.
Per esempio, collegando tutte le reti europee e sfruttando ampiamente le opportunità di approvvigionamenti alternativi offerte dai rigasificatori di Lng. È appunto la logica dell’unbundling: come nelle telecomunicazioni, anche nei gasdotti, il prodotto che circola in rete non
deve essere di un solo produttore e in tal modo l’utente può scegliere
il fornitore più conveniente.
La posizione alternativa è quella del business as usual, sostenuta
dalle grandi compagnie di bandiera europee col supporto della Russia,
che considera la liberalizzazione del gas “l’idea più assurda nella storia dell’economia mondiale”. Secondo questa tesi, le reti del gas comportano investimenti a lungo termine alle quali deve corrispondere
un sistema di prezzi stabile. I contratti poliennali che legano i fornitori e le società di distribuzione sono l’unico modo certo di assicurare
all’Europa il metano di cui avrà bisogno nei prossimi vent’anni.
Anche lo spauracchio dell’insufficienza del gas russo può giocare a
favore dell’una o dell’altra tesi. È sicuro che la Russia nei prossimi
anni dovrà far fronte a una forte crescita dei suoi consumi interni e
che finora gli investimenti per lo sviluppo di nuovi giacimenti sono
andati a rilento. Per far fronte ai futuri fabbisogni la Russia si è assicurata anche il gas del Turkmenistan, ma ci sono analisti che sostengono che questo Paese ha già venduto il doppio del metano che sarà
in grado di produrre dopo il 2009. Mosca ripone anche grandi speranze nei giacimenti dell’Artico, nel mare di Barents e addirittura sui
fondali verso il Polo Nord. Ci vogliono però tecnologie complesse e
ingenti capitali prima che questie risorse siano messe in produzione.
E nel frattempo? “Non leghiamoci troppo le mani con i russi e cerchiamo altre fonti”, rispondono i liberalizzatori. “Tutt’altro: dobbiamo essere noi a legare le mani ai russi con accordi di lungo termine,
perché nella stretta non ci tolgano il gas”, ribattono i fautori degli
accordi diretti.
È difficile dire come andrà a finire il dibattito ed è arduo affermare con certezza che la ragione stia tutta dall’una o dall’altra parte. Una
cosa è certa: questa partita determinerà il nostro futuro energetico, la
sicurezza deille riserve, il prezzo a cui pagheremo il gas nelle nostre
case. Vale anche la pena di cercare alternative energetiche alla eccessiva dipendenza da una fonte esterna al nostro continente. La stessa Iea
propone al 2030 per l’Unione Europea uno scenario alternativo, basato su un più rapido sviluppo del nucleare e delle rinnovabili: ne deriverebbe una diminuzione delle emissioni di CO2 di oltre il 20%.
Quanto al gas, ne basterebbero in questa ipotesi “soltanto” 635 km3.
La mossa dell’EU
in difesa dell’ambiente
di Antonio Villafranca
In una situazione in cui appare del tutto incerta la negoziazione internazionale sul dopo Kyoto, cioè dal 2013 in poi, l’Unione Europea si
schiera in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici ponendosi
non solo obiettivi più ambiziosi ma anche di più lunga durata rispetto
a Kyoto. Lo strumento principale per raggiungere la riduzione dei gas
serra è rappresentato dall’ETS
I profondi cambiamenti nei mercati internazionali dell’energia e i
rischi legati al riscaldamento globale stanno ridefinendo le agende politiche dei leader di tutto il mondo. Fino a qualche anno fa si
trattava di temi affrontati principalmente da tecnici ed esperti del
settore che solo sporadicamente riuscivano ad attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica. I continui aumenti del prezzo del
petrolio – e conseguentemente del prezzo della benzina e delle
bollette – uniti ai moniti degli scienziati sui disastri naturali che
le emissioni nocive potrebbero causare già nei prossimi decenni,
hanno cambiato radicalmente le cose creando una nuova e diffusa
consapevolezza nell’opinione pubblica mondiale.
Eppure le reazioni da parte delle singole aree del mondo sono
notevolmente diverse. Se da un lato gli USA prendono tempo,
restando addirittura fuori dal Protocollo di Kyoto, e i Paesi asiatici accantonano il problema, impegnati come sono a sostenere i
propri elevati ritmi di crescita, dall’altro l’Unione Europea decide di perseguire propri obiettivi indipendentemente (o quasi,
come vedremo in seguito) da quello che fanno gli altri. Si tratta
di una scelta coraggiosa che si basa su un approccio lungimirante. L’Unione Europea può infatti far pesare di essere il più grande mercato del mondo capace di creare standard che poi vengono applicati su scala globale. Porre dei piani di riduzione unilaterale delle emissioni nocive e stimolare gli investimenti in
fonti di energia rinnovabile rispondono alla duplice esigenza di
sganciarsi dalla dipendenza dall’approvvigionamento extraeuropeo delle risorse energetiche (soprattutto di origine fossile)
e stimolare processi produttivi innovativi che possano costituire
in futuro standard mondiali. Che la sfida dei cambiamenti climatici rappresenti quindi non solo un rischio ma anche una
grande opportunità sembra ormai chiaro in buona parte
dell’Europa. Non è un caso infatti che la Commissione europea
nel giro di pochi mesi – da settembre 2007 a gennaio 2008 –
abbia presentato un Pacchetto sull’energia e uno sull’ambiente
che avranno un grosso impatto sul sistema delle imprese e, in
generale, su tutti i cittadini.
L’AZIONE EUROPEA
Volendo focalizzarci sulle questioni ambientali il punto di partenza non può che essere rappresentato dalla decisione del
Consiglio del 1993 in cui sono stati approvati gli obiettivi della
“United Nations Framework Convention on Climate Change”
(UNFCCC), che avrebbe contribuito nel 1997 alla firma, da parte
anni, il consumo di gas è cresciuto
drasticamente, a spese dell’olio combustibile
e del carbone.
L’effetto combinato di queste scelte è stato
che il consumo europeo di gas è raddoppiato
negli ultimi 25 anni, mentre quello di olio
combustibile e carbone è diminuito del 20
percento. Oggi, circa un quarto del
fabbisogno di energia primaria in Europa è
soddisfatto dal gas.
Perché ritengo che puntare sul gas sia stata
una scelta ardita? Perché una volta che si
decide di “andare a gas” è molto difficile,
nel medio termine, tornare sui propri passi.
Le centrali a gas non bruceranno mai
carbone. Le caldaie a gas non funzioneranno
se alimentate a olio combustibile.
L’esplosione dei consumi di gas, in un
contesto di produzioni europee declinanti e
riserve modeste, ci ha portato
inevitabilmente a una massiccia dipendenza
dalle importazioni. Oggi, infatti, il 60% del
gas utilizzato nell’Unione Europea è
importato.
Naturalmente, la decisione di andare a gas
ha enormi implicazioni. Ma, allora, chi ha
deciso di imboccare questa strada a tutta
velocità?
La risposta è nessuno. Non è stata una
decisione politica, presa collettivamente a
Bruxelles o in un’altra capitale europea. È
stata semplicemente il risultato spontaneo di
un insieme di decisioni di investimento
autonomamente assunte da singoli
investitori e consumatori.
Dal punto di vista del singolo investitore, la
scelta del gas ha avuto un senso. Era un
combustibile pulito, efficiente e anche
economico. Inoltre, le alternative erano
difficili da percorrere. Dopo tutto, nessuno
vuole una centrale a carbone o nucleare nel
cortile di casa. Tuttavia, la somma di tutte le
scelte dei singoli ha prodotto una
rimodulazione del mix energetico europeo,
che ha importanti implicazioni economiche e
politiche.
A pensarci oggi, sembra incredibile che
l’Unione Europea, che discute e legifera su
ogni aspetto della nostra esistenza – inclusa
la forma delle banane – non abbia colto il
senso della trasformazione che avveniva in
un settore di così vitale importanza per i
cittadini. Ma è esattamente ciò che è
accaduto. Di fatto, l’Unione Europea ha
concentrato i suoi sforzi nella definizione di
91
dettaglio delle regole di funzionamento del
mercato interno, senza contrastare le
minacce esterne.
Questa visione limitata, tra l’altro, non è
nemmeno stata efficace. La liberalizzazione
del mercato interno, infatti, non determina di
per sé prezzi più bassi per i consumatori, se i
fornitori si trovano al di fuori del mercato
liberalizzato, specie se sono molto pochi.
L’Europa è riuscita a dormire sonni tranquilli
per molti anni, prima che qualche
campanello d’allarme iniziasse a suonare.
Fino a quando, però – precisamente il 1
gennaio 2006 – tutto è cambiato. Con l’inizio
della crisi fra Russia e Ucraina, l’Europa si è
svegliata improvvisamente e si è trovata nel
mezzo di un campo di battaglia – e in una
posizione per niente buona.
È stato un brusco risveglio. In un momento, è
stato chiaro che eravamo esposti a un
equilibrio molto fragile. Abbiamo capito che
la gran parte delle nostre forniture di gas ci
arriva da un numero piuttosto limitato di
paesi produttori, attraverso una manciata di
gasdotti. E abbiamo scoperto a nostre spese
che questi gasdotti attraversano altri Paesi,
e che ciascuno di questi paesi di transito
può, nel perseguire i propri scopi, minare
seriamente la sicurezza delle nostre forniture.
E tutto in un solo giorno, fra l’altro dopo il
veglione di San Silvestro!
Da quel giorno fatidico in poi, il problema
della sicurezza è stato al centro
dell’attenzione dei media e all’ordine del
giorno del dibattito politico. Ma purtroppo,
siamo ancora lontani dalla soluzione.
Da allora, si è molto discusso sulle
contromisure da mettere in campo, in
particolare puntando sullo sviluppo di fonti
alternative al gas, prima di tutto il nucleare
e le rinnovabili.
Ma se è vero che sia il nucleare che le
rinnovabili potranno essere parte della
soluzione, è ingenuo pensare che possano
risolvere il problema per intero.
Partiamo dalla nuclear renaissance. È vero, il
nucleare ha grandi potenzialità, poiché
fornisce energia sicura, abbondante e pulita.
Ma, se volessimo alimentare anche soltanto
la domanda incrementale di energia elettrica
europea interamente da nucleare, avremmo
bisogno di costruire 70 nuove centrali, in
altri termini 115 GW di nuova capacita da
qui al 2020. E dato che negli ultimi dieci
anni, nell’intera Unione Europea, siamo
92
Corbis
DOSSIER
di oltre 160 Paesi, del Protocollo di Kyoto sulla riduzione dei gas
a effetto serra. In questo Protocollo i Paesi industrializzati e i
maggiori Paesi in transizione verso economie di mercato si sono
complessivamente impegnati a ridurre sei tipi di gas a effetto
serra di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo di
piena applicazione del Protocollo (dal 2008 al 2012).
Dopo il ritiro degli Usa (che pure avevano firmato il documento) il Protocollo è entrato in vigore nel 2005, grazie alla fondamentale ratifica da parte della Russia. Per perseguire gli obiettivi di Kyoto l’Unione ha predisposto nel 2003 una direttiva che
introduce lo “European Emission Trading System” (ETS), che
analizzeremo meglio in seguito. Un decisivo passo avanti è stato
compiuto dal Consiglio europeo di Bruxelles di marzo 2007 in cui
è stata lanciata – su iniziativa della Presidenza tedesca – la formula del “20, 20, 20 entro il 2020”, ovvero la riduzione del 20%
delle emissioni di CO2, l’utilizzo di risorse rinnovabili per almeno il 20% dei consumi di energia e l’incremento del 20% dell’efficienza energetica. Lo scorso 23 gennaio la Commissione ha presentato un Pacchetto ambiente – costituito da due Direttive e una
Decisione – che indica gli strumenti da utilizzare e il contributo
di ogni Stato membro al raggiungimento degli obiettivi posti dal
Consiglio.
Corbis
_La sfida imposta dai cambiamenti climatici rappresenta
non solo un rischio, ma anche una grande opportunità. In
grado di stimolare processi produttivi innovativi che in futuro costituiranno standard mondiali
ETS E NUOVO “PACCHETTO AMBIENTE”
In una situazione in cui appare del tutto incerta la negoziazione
internazionale sul dopo Kyoto (ovvero il periodo dal 2013 in poi),
l’Unione Europea si schiera in prima linea nella lotta ai cambiamenti
climatici ponendosi non solo obiettivi più ambiziosi ma anche di più
lunga durata rispetto a Kyoto. Lo strumento principale che l’Ue ha
predisposto – già dal 2003 – per raggiungere l’obiettivo di tagliare le
emissioni dei gas a effetto serra è rappresentato dall’ETS. Si tratta di
un meccanismo che prevede l’assegnazione di crediti di inquinamento alle imprese (secondo la logica del “grandfathering”) che al
momento avviene a titolo gratuito in oltre il 90% dei casi. Il funzionamento dell’ETS si basa sul meccanismo del “cap and trade”,
secondo il quale dopo aver posto un vincolo massimo alle emissioni
(“cap”), le aziende che inquinano meno rispetto al passato possono
vendere alle aziende che invece emettono più agenti inquinanti i
propri crediti (“trade”). Nello specifico la Commissione identifica gli
riusciti a installare solamente 9 GW di nuova
capacità, è facile capire come l’impresa sia
quasi disperata.
Passando alle rinnovabili, la prospettiva è
ancora più fosca. Se volessimo utilizzare
soltanto energia eolica e fotovoltaica per
soddisfare il fabbisogno europeo
incrementale di energia elettrica, dovremmo
installare fino a quindicimila pale eoliche –
una fila di turbine da Roma a Pechino – e
50.000 campi di calcio di pannelli
fotovoltaici. E tutto questo ogni anno!
C’è in realtà una terza opzione: il carbone.
Ma qui, noi europei ci siamo legati le mani,
sulla scia del Protocollo di Kyoto, noncuranti
del trade-off esistente tra obiettivi
ambientali e sicurezza energetica.
In sintesi, sembra chiaro che queste
alternative non potranno coprire neppure la
domanda incrementale di energia elettrica
da qui al 2020. Una gran parte di questa
crescita sarà inevitabilmente soddisfatta dal
gas. Ma attenzione, non dovremo soltanto
preoccuparci di alimentare la domanda
incrementale. In realtà, nel prossimo
decennio, circa il 25% della attuale capacità
installata europea potrà essere dismesso; si
tratta soprattutto di impianti ormai obsoleti
a carbone e a olio combustibile e di qualche
vecchio impianto nucleare.
Con cosa verranno rimpiazzati questi
impianti? Date le politiche ambientali
europee, la difficoltà di realizzare nuova
capacità nucleare e i limiti delle rinnovabili,
è molto probabile che una buona fetta di
queste nuove centrali sarà a gas. Tuttavia,
rimpiazzare la produzione di un quarto
dell’attuale capacità produttiva con impianti
gas-fired significherà consumare oltre 130
miliardi di metri cubi di gas in più all’anno.
Pertanto, se sommiamo alla crescita attesa
della domanda anche la maggiore domanda
che deriverebbe dal rimpiazzo delle centrali
più vecchie con impianti alimentati a gas, la
domanda europea complessiva nel 2020
rischia di essere del 40% più alta di quella
attuale. Nello stesso periodo, è previsto che
la produzione di gas dell’Unione Europea si
dimezzi. Ne deriverebbe una drammatica
crescita del fabbisogno di importazioni: dagli
attuali 300 bcm a oltre 600 bcm nel 2020.
Un’impresa veramente ardua. Tanto più se
consideriamo che la concorrenza per
assicurarsi le forniture di gas è destinata a
inasprirsi. In alcuni tradizionali Paesi
93
DOSSIER
consumatori, come il Nord America, la
produzione interna è in declino mentre la
domanda continua a crescere
costantemente. Inoltre, nuovi Paesi
consumatori si stanno affacciando sul
mercato internazionale del gas. La Cina è un
esempio particolarmente significativo, poiché
può rappresentare per la Russia – nostro
fornitore chiave – un mercato alternativo
all’Europa.
Infine, anche i consumi dei Paesi produttori
di gas stanno crescendo a dismisura, con
l’ovvio effetto di ridurre le quantità
disponibili per l’esportazione. Il Medio
Oriente, per esempio, utilizzerà 200 mld mc
di gas in più nel 2020 rispetto a oggi, sotto
la spinta della crescita demografica e
industriale, ma anche a causa della
reiniezione del gas nei giacimenti petroliferi
per aumentarne il tasso di recupero. E con il
prezzo del petrolio che oscilla intorno ai 100$
a barile, questo rimane uno degli usi più
profittevoli del gas.
Unendo la nostra crescente domanda, alla
nostra dipendenza dalle importazioni alla
aspra competizione per le forniture, appare
evidente che potremmo correre il rischio di
una carenza di gas nel prossimo futuro.
Ma una shortage di gas rappresenta davvero
un rischio troppo serio. Per l’Europa il gas
significa luce, riscaldamento, produzione
industriale. Restare senza gas è un pericolo
che non ci possiamo permettere di correre.
Non c’è un’unica soluzione magica per
affrontare tale minaccia. Ma ci sono alcune
contromisure che possiamo adottare.
1. La prima è assicurare che l’Europa abbia
accesso a quanto più gas possibile, e che
questo sia disponibile dove e quando serve
Questo obiettivo si può conseguire
accrescendo e diversificando le fonti
d’approvvigionamento, sia via gasdotto che
via GNL. Ma occorre anche minimizzare i
rischi di transito, diversificando le rotte
d’importazione. In questa ottica vanno
inquadrati i progetti di gasdotti come il North
Stream e il South Stream che consentono di
far giungere il gas russo direttamente in
Europa.
Infine, dobbiamo migliorare le
interconnessioni all’interno dell’Europa, per
assicurare che il gas arrivi dove ce n’è
bisogno, e investire in nuova capacità di
stoccaggio che consenta di far fronte alla
94
obiettivi per ciascun Paese e i settori industriali per i quali applicare
l’ETS , ma spetta poi ai singoli Paesi la scelta sulla più opportuna
suddivisione dell’onore tra i vari settori mediante la predisposizione
di Piani nazionali annuali. Nel 2005, ovvero il primo anno della
cosiddetta “warm-up phase” dell’ETS (2005-2007), sono stati negoziati crediti pari a 362 milioni di tonnellate di CO2 valutati in oltre 7
miliardi di euro. Tali crediti sono stati negoziati per il 57% da broker
specializzati, per il 15% tramite mercati ad hoc (il più importante è
il Climate Exchange) e per il restante 28% mediante negoziazioni
bilaterali. Il prezzo medio di ogni credito di inquinamento (pari a 1
tonnellata di CO2) è stato pari a 19,9 euro e si è caratterizzato per
una elevata volatilità (come peraltro spesso accade in mercati non
ancora maturi che scambiamo quantità relativamente modeste) . Gli
elementi che sembrano contribuire maggiormente a tale volatilità
riguardano aspetti regolamentari (per esempio i ritardi nell’approvazione dei piani nazionali), gli eventi climatici e il prezzo delle risorse
energetiche impiegate nella produzione dell’energia elettrica. L’ETS
ha coinvolto nel 2005 poco meno di 1.000 siti industriali italiani che
rientrano tra gli oltre 11.500 siti interessati in tutta Europa (responsabili di circa il 45% delle emissioni di CO2). In Italia emergono
ritardi e inadempienze che rischiano di far scattare le sanzioni (pari a
40 euro per tonnellata di CO2 in eccesso nel primo periodo e 100
euro per il periodo 2008-2012). Il pagamento delle sanzioni peraltro
non esonererà le imprese dall’obbligo di acquisire i crediti entro l’anno successivo e sono previsti anche meccanismi di “naming and shaming”. L’ETS viene ulteriormente sviluppato dal nuovo Pacchetto
della Commissione secondo il quale – a partire dal 2013 – l’assegnazione dei crediti (fino a due terzi) avverrà attraverso aste a pagamento. Si stima che in questo modo potranno ricavarsi entro il 2020 fino
a 75 miliardi di euro (circa lo 0,5% del Pil europeo) che, almeno in
parte, potrebbero essere investiti in iniziative a difesa dell’ambiente.
Viene inoltre ulteriormente estesa rispetto a oggi la lista delle
imprese per le quali verrà applicato l’ETS, includendo anche il settore dell’aviazione, la chimica, l’alluminio, le centrali elettriche (si
coprirà così fino al 50% dell’intera economia europea). La
Commissione è comunque conscia dei rischi che soprattutto le
aziende energivore installate in Europa corrono (spostamento della
produzione verso Paesi senza vincoli di inquinamento e minor costo
di prodotti importati da Paesi senza tali vincoli) e ha previsto la possibilità – se non verrà raggiunto un accordo post-Kyoto – di concedere loro crediti gratuiti o di obbligare le imprese extra-europee ad
acquistare dei crediti per i prodotti che vogliono immettere sul territorio europeo. Si tratta di misure che vanno incontro alle richieste
degli imprenditori europei (come Eurofer, lobby europea del ferro e
dell’acciaio, che ha però bocciato l’intero Pacchetto), ma che non
hanno mancato di suscitare aspre critiche anche in vista della loro
compatibilità con le regole del WTO.
Specifica attenzione dovrà essere assegnata ai cosiddetti “windfall
profits”, dovuti al fatto che le aziende riescono a scaricare sui cittadini i “costi” dei permessi di inquinamento, che oggi però in gran
parte ricevono gratuitamente e che – secondo la “power company”
britannica Centrica – tra il 2008 e il 2012 ammonteranno a circa 110
miliardi di euro. L’auspicio è che durante il passaggio al Parlamento
e al Consiglio si introducano opportuni meccanismi di monitoraggio
di tali pratiche.
Corbis
variabilità della domanda e a temporanee
interruzioni nell’offerta.
Riguardo ai settori invece esclusi dall’ETS (trasporti, rifiuti, agricoltura, climatizzazione degli edifici), il Pacchetto pone l’obiettivo
della riduzione del 20% (rispetto al 1990) dei gas a effetto serra da
loro originati. Ciascun Paese membro contribuirà al raggiungimento
di tale obiettivo in maniera diversa nel rispetto di un principio solidaristico. Se infatti un Paese membro – come tutti i Paesi di nuova
adesione - ha un Pil pro-capite piuttosto basso (e di conseguenza un
tasso di crescita atteso elevato), esso contribuirà proporzionalmente
di meno al raggiungimento dell’obiettivo complessivo. Per il conseguimento dei singoli obiettivi nazionali si possono anche utilizzare
(fino a un terzo dell’intero sforzo di riduzione entro il 2020) i crediti
ottenuti per nuovi progetti di riduzione di gas serra realizzati da
imprese europee sia presso Paesi in via di sviluppo che presso altri
Paesi industrializzati (meccanismi già previsti dal Protocollo di
Kyoto, ma per i quali bisognerà verificare cosa accadrà per il periodo
post-Kyoto) . Sarà anche in questo caso auspicabile un monitoraggio
costante della Commissione sulla validità di questi crediti, per evitare di includere progetti in Paesi extra-Ue che avrebbero comunque
dovuto essere realizzati (a prescindere cioè dall’obiettivo di riduzione
delle emissioni), rappresentando così un escamotage per inquinare di
più in casa (il cosiddetto “false positive”).
Infine va segnalato il forte impegno nei confronti delle energie
rinnovabili, con l’obiettivo che esse rappresentino il 20% dei consumi energetici nei settori dei trasporti, dell’elettricità e del condizionamento delle abitazioni entro il 2020 (il dato medio di partenza
della Ue nel 2005 è l’8,5% e per l’Italia, in particolare, il 5,2%). Per
il settore dei trasporti si stabilisce inoltre che il 10% dell’aumento
debba derivare dall’utilizzo dei biocarburanti. Si tratta senza dubbio
di una presa di posizione molto forte su cui però è auspicabile che
Parlamento e Consiglio facciano ulteriori riflessioni, soprattutto
nella parte in cui si definiscono i biocarburanti, verificando peraltro
la concreta capacità del mercato di fornire nei prossimi anni, a prezzi
ragionevoli, biocarburanti di seconda generazione che non utilizzano
risorse destinabili all’alimentazione (anche per evitare effetti distorsivi sui prezzi dei prodotti agricoli).
UNA SCELTA CORAGGIOSA
Gli interventi della Commissione, seppur lacunosi in alcuni
punti, possono essere definiti “coraggiosi” nella misura in cui pongono degli obiettivi che prescindono dall’esito delle negoziazioni
internazionali sul dopo Kyoto. Ma proprio tale coraggio può intral-
2. La seconda cosa di cui abbiamo bisogno
è ridurre l’importanza del gas nel nostro
mix energetico
Questo significa tornare a scommettere sul
nucleare e rilanciare la ricerca nelle
rinnovabili. Sebbene nessuna di queste
misure possa da sola risolvere nel breve
termine i nostri problemi, si tratta comunque
di pezzi importanti di un unico puzzle. Le
rinnovabili, in particolare, potranno
rappresentare una risorsa inestimabile nel
lungo termine. Pensate alle potenzialità del
solare: riuscire a catturare una quota
maggiore dell’energia che proviene dal sole
potrebbe fornirci un’alternativa concreta
all’utilizzo delle fonti fossili.
Analizzando le alternative al gas, non
dobbiamo dimenticarci del carbone, che è
abbondante e ampiamente disponibile. Qui
la sfida sarà di mettere a punto un sistema
efficiente ed efficace di cattura e stoccaggio
dell’anidride carbonica che ci consentirebbe
di far affidamento sul carbone senza mettere
a rischio il nostro pianeta.
3. La terza cosa da fare è risparmiare
energia
L’efficienza energetica è la migliore fonte
“alternativa” di cui disponiamo: riduce
immediatamente la domanda di energia, le
importazioni, gli investimenti e le emissioni
di CO2. È immediata, pulita e generalmente
non costa niente. Anzi, si traduce in un
vantaggio economico per il consumatore. E le
sue potenzialità sono immense.
Nel solo settore residenziale, secondo la
Commissione Europea, potremmo
risparmiare l’equivalente di 100 mld mc di
gas all’anno. In altre parole, semplicemente
adottando alcuni accorgimenti potremmo
risparmiare un terzo delle nostre importazioni
incrementali di gas da oggi al 2020.
E alcuni di questi accorgimenti sono davvero
di piccola portata: semplicemente spegnendo
lo stand-by dei nostri apparecchi potremmo
risparmiare fino a 30 TWh l’anno,
l’equivalente della produzione annuale di due
centrali nucleari.
In definitiva, per affrontare il problema della
sicurezza degli approvvigionamenti di gas
dovremo fare leva su tre linee di azione:
massimizzare la disponibilità di gas,
sviluppare fonti energetiche alternative e
95
DOSSIER
risparmiare quanta più energia possibile.
Non si tratta di opzioni alternative. Abbiamo
bisogno di tutte e tre le cose insieme.
Ma dobbiamo sapere che anche se faremo
tutto questo, resteremo comunque ancora
fortemente dipendenti da un ristretto numero
di fornitori di gas. L’Algeria e, in particolare
la Russia, continueranno a essere i pilastri
della nostra sicurezza energetica nei
prossimi anni.
Solo per dare un’idea della dipendenza
dell’Unione Europea dal gas russo, la Russia
attualmente fornisce il 100% del gas
importato in Finlandia, Slovacchia, Lituania,
Lettonia, Estonia, Bulgaria, Romania e
Ungheria. Fornisce l’80% del gas importato
in Austria, Repubblica Ceca, Polonia e
Grecia, il 40% di quello importato in
Germania – e la dipendenza aumenterà al
60% – e il 30% di quello importato in Italia
e Francia. La situazione non cambierà nel
breve termine. Anzi, la nostra dipendenza
potrebbe anche aumentare.
Date queste circostanze, è importante che
l’Unione Europea instauri e salvaguardi
rapporti di collaborazione e cooperazione con
i suoi principali fornitori e, in particolare, con
la Russia a cui è naturalmente legata da
fattori geografici, storici e culturali, un
legame reso ancora più profondo da decenni
di relazioni commerciali reciprocamente
vantaggiose.
È precisamente sulla base di questo
principio di cooperazione reciproca che
l’Unione Europea, i Paesi membri e le
compagnie energetiche europee devono
lavorare per creare forti e durature relazioni
commerciali con questi Paesi. A questo
scopo, i Paesi membri devono fornire ai
Commissari Piebalgs e Solana gli strumenti
che consentano all’Unione Europea di
adottare e perseguire una vera politica
estera energetica comune. Rinsaldare le basi
della nostra sicurezza energetica è, infatti,
una delle sfide più importanti che dobbiamo
affrontare, sia individualmente che – e forse
è ancora più importante – collettivamente.
Per concludere, sappiamo cosa c’è da fare
perché la prossima volta che avremo
l’opportunità di ospitare il Congresso
Mondiale dell’Energia in Europa, quelli di voi
che si troveranno in hotel alimentati a gas
non abbiano nulla di cui preoccuparsi.
* presidente dell’Eni
96
ciare l’approvazione del Pacchetto da parte del Consiglio e del
Parlamento. La discussione non mancherà certamente di essere
molto accesa nella seconda parte del 2008, ovvero durante il semestre di presidenza della Francia, la quale ha già affermato di voler
rivedere il proprio obiettivo (il 23% dei consumi energetici entro il
2020) per l’utilizzo delle risorse rinnovabili (critiche ancora più aspre
sono state riservate al Pacchetto energia).
Un altro elemento che merita grande attenzione è rappresentato
dal costo del Pacchetto ambiente. Il presidente Barroso nel presentare tale Pacchetto ha affermato che il costo per persona a settimana
sarà pari a 3 euro, ovvero circa 60 miliardi di euro all’anno fino al
2020. Ciò potrebbe comportare un aumento delle tariffe elettriche
del 10-15% e un taglio del Pil europeo dello 0,4-0,6%. Si tratta di
cifre sicuramente considerevoli ma che, nelle intenzioni della
Commissione, sono modeste se comparate con il costo potenziale
dell’inazione (1.500-3.000 euro pro-capite all’anno). Andranno inoltre considerati i benefici derivanti dal taglio della fattura petrolifera
europea e la minore dipendenza da paesi extra-europei (la cui affidabilità nel tempo non è certamente elevata). Sarebbe però interessante inserire tali valutazioni sui costi nell’attuale dibattito relativo alla
revisione delle Prospettive finanziarie dell’Unione 2007-2013.
Rispetto a questi ambiziosi obiettivi europei si potrebbe infatti
auspicare l’attivazione di nuove e consistenti linee di bilancio (per
esempio per il finanziamento di progetti potenzialmente benefici a
più Paesi europei); cosa che tuttavia appare oggi del tutto improbabile stante l’esiguità del bilancio stesso. Destinare al bilancio comunitario una parte degli introiti derivanti dall’asta dei crediti di emissione potrebbe rappresentare un valido aiuto, ma è evidente che in questo caso più che il “coraggio” della Commissione conta la volontà dei
leader politici europei.
Va infine rilevato che malgrado, in linea di principio, sia assolutamente apprezzabile lo sforzo compiuto dalla Commissione per perseguire unilateralmente gli obiettivi in campo ambientale, troppe
incognite (che dal punto di vista economico si traducono in maggiore incertezza e, quindi, minori investimenti) permangono in merito
al loro perseguimento, data la necessità di attendere l’esito delle
negoziazioni sul post-Kyoto (si pensi per esempio alle deroghe
all’ETS prospettate dalla Commissione per le aziende energivore in
caso di fallimento dei negoziati internazionali). In questo clima di
incertezza un punto comunque appare chiaro: affinchè l’Ue trasmetta fermezza nel perseguimento dei propri obiettivi per il 2020 deve
rispettare appieno gli obiettivi di Kyoto già nel 2012. A questo
riguardo va evidenziato che malgrado l’ETS abbia appena iniziato a
funzionare, l’ingresso nella Ue dei nuovi Paesi membri (che hanno
ridotto le proprie emissioni nocive rispetto al 1990 di circa il 22% in
poco più di 10 anni) spinge a un moderato ottimismo. Questi ultimi
Paesi potranno infatti rendere facilmente disponibili quantità significative di crediti (peraltro al momento in gran parte gratuiti) per i
Paesi della vecchia Ue a 15.
Nonostante dunque le tanti luci e ombre del Pacchetto ambiente,
esso va accolto positivamente. Bisogna tuttavia avere piena consapevolezza che su temi strategici e delicati come l’energia e l’ambiente
la mossa della Commissione dovrà essere supportata da un impegno
collettivo di tutti gli Stati membri che si basi su risultati concreti e
non su altisonanti dichiarazioni di intenti.
Olycom
Clima: un pacchetto
per risalire la china
di Stefania Amorosi
_Con il nuovo ETS i diritti annuali di emissione saranno via via ridotti fino a raggiungere
l’obiettivo di un -21% di emissioni nel 2020.
Ciò significherebbe immettere nell’atmosfera
1.720 milioni in meno di tonnellate equivalenti di CO2
La Commissione Europea indica la strada per concretizzare gli impegni assunti dal Consiglio Europeo di Berlino nella primavera del
2007: un pacchetto di misure contro il cambiamento climatico e a
favore del nostro Pianeta, ma anche a favore dell’economia europea
e dei cittadini dell’Unione
“Sono molto soddisfatto, anzi sono felice, perché oggi la
Commissione Europea ha preso decisioni veramente storiche con un
ampio consenso”. Con queste parole il presidente José Manuel Durão
Barroso ha salutato l’adozione di un pacchetto integrato di proposte
normative per l’energia e la lotta ai cambiamenti climatici. Un pacchetto che, ci tiene a sottolineare Barroso, non deve essere percepito
solo come un importante strumento per la salvaguardia dell’ambiente,
ma anche come un volano per lo sviluppo di un mercato energetico
europeo più sicuro negli approvvigionamenti, più competitivo a livello
globale e più sostenibile nel lungo periodo, con un indubbio vantaggio
anche per i cittadini e i consumatori.
Le misure proposte dalla Commissione (vedere anche articolo precedente) traducono in azioni concrete gli ambiziosi obiettivi condivisi lo
scorso 9 marzo, a Berlino, dai capi di Stato e di governo dei Paesi
membri dell’Unione Europea. Obiettivi che possono riassumersi nella
ormai nota formula “20, 20, 20 entro il 2020”, ossia: il taglio delle
emissioni di gas a effetto serra nella misura del 20%, con un pari
aumento dell’efficienza energetica e della quota di energie rinnovabili
sul totale della produzione energetica, entro il 2020.
Le misure proposte dalla Commissione saranno ora valutate dal
Parlamento Europeo e dal Consiglio e se ne prevede l’adozione entro
un anno. Il pacchetto include: una revisione del sistema che regola gli
scambi delle quote di emissione (Emissions Trading Scheme), obiettivi
nazionali di riduzione delle emissioni per i settori attualmente esclusi
da tale sistema, una nuova direttiva sulle energie rinnovali, una direttiva sulla cattura e lo stoccaggio geologico della CO2, nonché nuovi
orientamenti in materia di aiuti di Stato a finalità ambientale.
97
DOSSIER
UN NUOVO EMISSIONS TRADING SCHEME
La proposta di revisione dell’Emissions Trading Scheme (ETS)
prevede un sistema centralizzato a livello europeo per l’assegnazione
delle quote di emissione: ossia dei diritti conferiti ad alcune categorie
di impianti industriali – tra cui cartiere, raffinerie e fabbriche metallurgiche – di emettere, nell’ambito del proprio ciclo produttivo, un
certo quantitativo di CO2.
Introdotto con la Direttiva 2003/87/CE, il metodo del cap and
trade attualmente in vigore (e valido fino al 2012) impone a ogni
Stato membro di sottoporre a Bruxelles un Piano Nazionale di
Assegnazione nel quale viene fissato il quantitativo massimo di emissioni consentito su base annuale. I gestori degli impianti interessati
dall’ETS possono operare solo se muniti di autorizzazione, ma, se virtuosi, hanno la facoltà di vendere sul mercato le quote non utilizzate,
creando così una vera e propria Borsa delle emissioni.
A partire dal 2013, le quote saranno invece concesse a livello
comunitario, secondo regole uniche valide per tutti e stabilite dalla
Commissione Europea in un apposito regolamento la cui adozione è
prevista entro il 2010. L’UE spera così di superare quello che si è
dimostrato essere il principale limite dell’attuale sistema: la maggior
parte degli Stati, fra cui l’Italia, ha infatti sovrastimato i potenziali di
emissione, con il risultato che gli impianti soggetti a controllo non
hanno avuto grandi difficoltà a “risparmiare” le quote loro assegnate
e a riversarne un gran numero sul mercato. Il valore delle quote si è,
conseguentemente, ridotto, con un inevitabile effetto negativo sugli
obiettivi finali di incentivare l’impiego di tecnologie pulite e di ridurre le emissioni.
Con il nuovo ETS, inoltre, i diritti annuali di emissione saranno
via via ridotti fino a raggiungere l’obiettivo di un -21% di emissioni
nel 2020 rispetto ai livelli del 2005. Secondo le stime della
Commissione, ciò significherebbe immettere nell’atmosfera 1.720
milioni in meno di tonnellate equivalenti di CO2.
Un sistema d’asta per la vendita delle quote agli impianti verrà
poi creato a partire dal settore energetico, per poi essere gradualmente esteso anche agli altri settori industriali, compreso quello aereo che
sempre di più è oggetto di particolare attenzione da parte della commissione per l’impatto negativo che ha sull’ambiente.
Polemiche, specie tra gli ambientalisti, ha invece suscitato la decisione di
continuare, per il momento, ad asseEMISSIONS TRADING SCHEME (ETS)
gnare gratuitamente quote di emissione alle industrie energivore. Il commisSISTEMA OPERATIVO OGGI (DAL 2005)
SISTEMA PREVISTO DAL 2013
sario europeo per l’ambiente, Stavros
Quote fissate da ogni Stato membro nel proprio Quote distribuite dalla Commissione Europea
Dimas, ha però ricordato che l’Europa
Piano Nazionale di Assegnazione (approvato ai Paesi membri sulla base delle emissioni
è l’unico attore internazionale a essersi
poi dalla Commissione Europea). Quote distri- registrate nel 2005 e del PIL pro capite
imposto obiettivi tanto ambiziosi e che
buite dalla Commissione Europea ai Paesi
membri sulla base delle emissioni registrate
la finalità perseguita con l’adozione di
nel 2005 e del PIL pro capite
questo pacchetto è una riduzione delle
emissioni di gas climalteranti a livello
Attribuzione gratuita delle quote agli impianti Progressiva cessione tramite procedure d’asta
Progressiva cessione tramite procedure d’asta
planetario, senza pregiudicare la competitività dell’economia europea.
Iscrizione dei diritti di emissione (EUAS) in un Iscrizione delle EUAS in un registro europeo e
registro nazionale e loro commercializzazione a creazione di una borsa delle emissioni unica
Secondo Dimas, la cessione onerosa di
livello domestico. Iscrizione delle EUAS in un per tutta la UE
quote alle grandi imprese avrebbe, in
registro europeo e creazione di una borsa delle
questo momento, l’unico risultato di
emissioni unica per tutta la UE
spingerle a delocalizzare la loro produ98
zione là dove non esistono particolari vincoli ambientali.
Continuerebbero pertanto a inquinare l’atmosfera danneggiando, al
contempo, il mercato europeo, che si vedrebbe privato di importanti
produzioni e, quindi, di posti di lavoro.
Il nuovo ETS verrà infine esteso ad altri due gas a effetto serra:
l’ossido di azoto (N2O) derivante dalla produzione di alcuni acidi e i
perfluorocarburi (PFC) dell’alluminio. Rimarranno ancora esclusi gas
climalteranti quali il metano, gli idrofluorocarburi e l’esafluoro di
zolfo e, quindi, interi comparti produttivi, così come gli impianti
industriali che emettono meno di 10.000 tonnellate di CO2 equivalente all’anno e la cui potenza calorifica di combustione è inferiore a
20 MW.
SEMPRE PIÙ ENERGIE RINNOVALI
La prima novità della direttiva proposta in tema di energie rinnovabili consiste nel riunire l’intero settore sotto un unico cappello normativo, superando l’attuale divisione tra energie verdi e biocombustibili e disciplinando, per la prima volta, la produzione di calore da biomassa, la geotermia e il solare termico.
Per raggiungere gli obiettivi prefissati, l’uso di energie rinnovabili
nei consumi finali dovrà essere incrementato mediamente dell’11,5
percento. L’Italia, in particolare, è chiamata a passare dal 5,2% del
2005 al 17% nel 2020.
Ogni Stato sarà libero di scegliere il proprio mix energetico, ma
dovrà presentare un piano nazionale d’azione che consentirà di dare
maggiore stabilità al mercato, nonché di verificare, per tappe intermedie, i risultati conseguiti.
È anche prevista la creazione di un mercato telematico delle energie rinnovabili a livello europeo e a partecipazione volontaria.
Sull’esempio dei certificati verdi, ai produttori di energia pulita verranno rilasciati dei titoli (garanzia di origine) commerciabili su tutto
il territorio comunitario.
Nel settore dei trasporti, la nuova direttiva impone poi un incremento del 10% del consumo di biocombustibili rispetto ai carburanti
fossili. L’effetto domino scatenato sul mercato internazionale dalla
produzione industriale di agroenergie ha però indotto l’UE a stabilire
dei criteri minimi di sostenibilità. Innanzitutto, viene fissato al 35% il
tasso minimo di miglioramento delle performance di riduzione delle
emissioni rispetto a benzina e diesel. Inoltre non potranno essere
qualificati come “bio” quei combustibili la cui produzione abbia cau-
Corbis
OBBLIGHI DI RIDUZIONE ANCHE FUORI DALL’ETS
Diversamente dal passato, le misure proposte dalla Commissione
imporranno anche ai settori esonerati dall’ETS – come l’edilizia, i trasporti, l’agricoltura e quello dei rifiuti – una riduzione delle emissioni
pari al 10% rispetto ai valori del 2005.
L’attribuzione delle quote ai singoli Paesi sarà ispirata ai principi
di equità e solidarietà per tutelare le economie meno solide e tecnologicamente più arretrate, ma anche per premiare gli Stati che più si
sono impegnati in politiche a favore del clima. I diritti di emissione
saranno calcolati in proporzione al PIL pro capite, oscillando tra un
potenziale +20% per i nuovi Stati membri e per il Portogallo e un
-20% per gli altri Paesi. Per l’Italia, ciò si tradurrà in un taglio del
13% rispetto al 2005, cui andranno ad aggiungersi gli impegni assunti in ambito Kyoto di un -6,5% rispetto al 1990.
99
DOSSIER
sato perdita di biodiversità o disboscamento forestale. Infine, la
Commissione si è impegnata a monitorare costantemente gli effetti
sociali delle proprie politiche a sostegno dei biocombustibili, specialmente in rapporto al prezzo dei cereali.
CATTURARE E STOCCARE CO2
La grande novità tra le misure varate dalla Commissione è però
rappresentata dalla promozione di tecnologie per la cattura e lo stoccaggio di CO2 nel sottosuolo e nei fondali marini, dove, con il tempo,
il gas si autosigilla diventando roccia.
L’esempio di paesi come la Cina, l’India o il Brasile ha infatti
dimostrato che, nonostante gli sforzi profusi nella diversificazione
energetica, le economie mondiali continueranno a basarsi essenzialmente sui carburanti fossili. Per questo, non si può prescindere dalla
ricerca di soluzioni ambientalmente sostenibili per confinare la CO2
di origine industriale in appositi “pozzi” evitandone, così, la dispersione nell’atmosfera.
In questo ambito, l’obiettivo della Commissione è quello di realizzare fino a 12 impianti pilota, di cui uno a Marghera, entro il 2015.
Sulla base del principio di complementarietà dell’azione tra organi
comunitari e nazionali (la c.d. sussidiarietà), la direttiva relativa a questo tema fissa competenze e responsabilità per lo stoccaggio della CO2.
Spetterà infatti agli Stati membri individuare i siti, rilasciare – sentita
la Commissione – le necessarie autorizzazioni e vigilare sul rispetto
degli standard minimi di sicurezza e sulla tenuta dei registri attestanti,
per ogni sito, i quantitativi di CO2 immagazzinati, nonché le caratteristiche, l’origine, il produttore e il trasportatore della stessa. La
Commissione vigilerà, dal canto suo, sulla corretta applicazione della
direttiva sulla base dei rapporti triennali presentati dai singoli Stati.
AIUTI DI STATO “AMBIENTALI”
Completano il pacchetto i nuovi orientamenti in materia di aiuti
di Stato, braccio finanziario delle misure introdotte. Sempre nel
rispetto della libera concorrenza, i Paesi membri potranno erogare
incentivi a favore dell’efficienza energetica, dell’utilizzo di fonti rinnovabili e di tecnologie pulite e per la “cattura” e lo stoccaggio di
CO2. Tali aiuti sono destinati a correggere le distorsioni del mercato e
potranno coprire i sovraccosti derivanti dall’adozione di standard
ambientali più elevati rispetto a quelli imposti dalla legge.
UNA SCELTA SCONTATA
L’attuazione di queste misure richiederà certamente grandi sforzi
da parte dell’Europa e un investimento complessivo stimato in 60
miliardi di euro, ma, d’altro canto, non sembrano profilarsi reali alternative se si considera che un atteggiamento passivo nei confronti di
questo fenomeno avrebbe conseguenze funeste non solo sull’ambiente e sulla salute umana, ma anche sulla competitività del sistema economico europeo. Si prevede infatti che, in caso di inazione, le attuali
politiche di adattamento ai cambiamenti climatici avranno un’incidenza sul PIL dei 27 Paesi membri compresa tra i 5 e i 20 punti percentuali. Per intenderci, ogni anno il singolo cittadino europeo si troverebbe a dover pagare tra i 1.500 e i 3.000 euro, laddove l’applicazione del pacchetto costerebbe, invece, solo come tre pieni di benzina in
un anno. Se questi sono i numeri, la scelta sulla strada da intraprendere appare scontata.
100
Clini: biocombustibili
verso la commodity
a cura di Antonio Barbangelo
Il pieno sviluppo delle potenzialità dei biocombustibili richiede il superamento di limiti ambientali e sociali e la rimozione di barriere commerciali, che ostacolano lo sviluppo di un mercato globale. Va affrontato il conflitto potenziale tra produzione di biocombustibili, protezione
dell’ambiente, sviluppo sostenibile e sicurezza alimentare delle popolazioni più povere. È quanto sostiene Corrado Clini, direttore generale
del ministero dell’Ambiente e presidente del Global Bioenergy
Partnership
“La Russia non può semplicemente essere un leader energetico.
Deve ritagliarsi un posto speciale anche tra i produttori di biocarburanti”. è quanto ha affermato l’11 marzo scorso il presidente russo
uscente, Vladimir Putin. Su 20 milioni di ettari di terreni agricoli
attualmente inattivi nella Federazione, 10 milioni dovrebbero essere
utilizzati per la produzione di combustibile biologico. Un nuovo
player che si prepara a giocare sul terreno delle bioenergie. E si
aggiunge a Stati Uniti, Brasile, Canada, Australia e pochi altri attori
veramente di rango. "Sul fatto che la Russia intenda essere uno dei
grandi fornitori mondiali di biocarburanti, la dice lunga sulla prospettiva che cominciano ad avere questi prodotti nel mercato mondiale dell'energia, come combustibili che integrano i combustibli fossili", osserva Corrado Clini, direttore generale del ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, e presidente
della Global Bioenergy Partnership (Gbep, vedere box a pagina 105).
Tra i maggiori esperti della materia, Clini negli ultimi anni ha coordinato e presieduto vari organismi internazionali sui temi dei cambiamenti climatici e delle energie rinnovabili. Di mercato delle bioenergie si parla molto. È un tema dove non mancano gli aspetti controversi e le polemiche (danni ambientali provocati dalla deforestazione per produrre piante da olio, certificazioni di qualità, competizione tra le colture “fuel” e i terreni destinati all’alimentazione); ma
è un mercato che presenta anche diversi benefici (alternativa al
petrolio a costi minori, abbattimento delle emissioni nocive di anidride carbonica). Con l'aiuto del presidente della Gbep, osserviamo
da vicino questo mondo composito. E cerchiamo di capire in quale
direzione si sta andando.
Dottor Clini, cominciamo a guardare la situazione in Italia e in
Europa. Come stanno di salute i biocarburanti?
Consideriamo le due tipologie: biodiesel ed etanolo. Il primo è
prodotto in vari Paesi d'Europa, soprattutto in Germania, con le
materie prime vegetali possibili: olio di colza o di girasole. In Italia il
biodiesel ha una certa tradizione, ma la quantità prodotta è modesta.
È un carburante utilizzato per i servizi pubblici, però nella Penisola
non abbiamo mai visto un’effettiva promozione dal punto di vista
industriale del biodiesel. Anche perché ci sono state molte difficoltà
da parte dei costruttori di automobili e di autobus, per problemi
imputati alla compatibilità e all'efficienza dei motori. Inoltre, la
disponibilità di materia prima in Italia non è elevata. E poi – paralle101
Corbis (2)
_Biodiesel ed etanolo sono a oggi le due principali tipologie di biocarburanti. Il primo è
prodotto in vari Paesi europei con materie prime vegetali quali olio di colza e girasole. Il
bioetanolo, invece, che non ha mercato in Italia, può essere sostitutivo della benzina fino
all’85 percento
lamente al periodo in cui doveva essere sperimentato il biodiesel –
l’Italia ha messo in campo un’altra soluzione, chiamata Gecam
(vedere il box a pag. 104), che viene utilizzata ancora oggi nei servizi
pubblici. Il Gecam non è biodiesel, ma un’emulsione di acqua e gasolio, che riduce le emissioni di particolato.
E il bioetanolo?
Il bioetanolo è l'altro biocarburante. Può essere sostitutivo della
benzina fino all'85 percento. Non ha mercato in Italia, ma questa è
una situazione tendenzialmente europea.
Perché in Italia e in Europa non abbiamo assistito a un decollo dei
due carburanti biologici?
Sul biodiesel e sul bioetanolo vanno fatte due considerazioni. La
prima riguarda un dato molto evidente, legato all'esperienza di questi anni: immaginare che il biocarburante sia un prodotto che può
essere generato a livello nazionale per il consumo nazionale è un
errore. Perché c'è un problema di disponibilità di aree. E l'obiettivo
europeo di avere entro il 2020 il 10% di biocombustibile nel portafoglio energetico richiederebbe, per esempio, che l'Italia avesse a
disposizione 5 milioni di ettari da destinare a produzione di biocombustibile. Però la disponibilità e solo del 15-20 percento. Quindi in
Europa c’è un primo gap tra l’obiettivo – auspicabile – di aumentare
il ruolo dei biocombustibili nel portafoglio energetico e la disponibiità fisica nel territorio
Diceva due considerazioni...
Il secondo punto è che, necessariamente, per avere sul mercato
interno europeo una quantità di bioconbustbile pari al 10% dei consumi, il biocombustibile va importato. Cioè va slegata l'ulitizzazione
dei biocombustibili dalla produzione locale degli stessi. Questo è un
aspetto controverso. Perché, invece, secondo l'opinione di molti – che
forse non avevano fatto bene i conti – il biocombustibile doveva
102
essere inserito all'interno di quella che viene chiamata la filiera corta
delle bioenergie.
Cosa vuol dire filiera corta nelle bioenergie?
La cosiddetta filiera corta immagina che la bioenergia debba essere consumata là dove viene prodotta.
Per evitare lunghi trasporti che contribuiscono a inquinare?
Una delle motivazioni è che così si evitano i trasporti lunghi.
Ma questa è una motivazione ridicola. Se abbiamo un combustibile alternativo ai prodotti fossili – che è di fatto alternativo, perché ha emissioni di ossido di carbonio più basse – e poi applichiamo un criterio che non viene richiesto ai combustibili fossili... è
evidente che c'è una contraddizione. Oggi sono i combustibili
fossili che viaggiano sulle lunghe distanze. Non si capisce perché
i biocombustibili dovrebbero avere un vincolo che non hanno i
prodotti fossili.
Che senso ha allora la “filosofia” della filiera corta?
Questo aspetto della filiera corta nasconde molti interessi. Che
sono tutt'altro che ambientali. Il primo è quello di mantenere alti i
sussidi all'agricoltura, sia in Europa come negli Usa. Il ragionamento
che si fa è analogo da una parte e dall'altra dell'Atlantico. Quando si
dice: le bioenergie vanno usate là dove vengono prodotte, si dice che
il passaggio da produzioni agricole-alimentari ad agricole-energetiche mantiene intatto il sistema di sussidi oggi in vigore nell'agricoltura europea e americana. In altre parole, questa è una misura protezionistica.
D'accordo. Ma intanto non abbiamo forse una serie di vantaggi?
Per esempio sulle minori emissioni nocive nell'aria...
Guardi che l'esperienza degli americani sulla produzione di bioetanolo dal mais – che molti vorrebbero riprendere anche in Europa –
103
DOSSIER
I BIOCOMBUSTIBILI PULITI
Biodiesel
Il biodiesel è un biocombustibile
ottenuto interamente da olio vegetale
(colza, girasole o altri). Ha una
viscosità simile a quella del gasolio
per autotrazione. Il biodiesel puro può
essere utilizzato in un motore diesel
predisposto, anche se viene più
comunemente utilizzato in
concentrazioni inferiori. Usato come
additivo al gasolio, ne migliora il
potere lubrificante. Per l'utilizzo del
biodiesel in un motore è necessario
che gran parte delle sue componenti
siano compatibili.
Bioetanolo
Il bioetanolo è etanolo prodotto
mediante un processo di
fermentazione dei prodotti agricoli
ricchi di zucchero (cereali, colture
zuccherine, amidacei). Può essere
miscelato alle benzine fino al 20%
senza modificare il motore, o anche
puro nel Motore Flex. In Brasile viene
utilizzato alla pompa come alternativa
alla benzina. La produzione nel Paese
sudamericano è di 5 miliardi di litri,
copre il 20% dei consumi di
carburante dei trasporti interni.
Gecam
Il Gecam è detto anche gasolio bianco.
È un'emulsione composta per l’88%
da gasolio, il 10,3% da acqua
demineralizzata e l’1,7% da uno
specifico mix di additivi, che ne
garantisce la stabilità nel tempo. Può
essere utilizzato per la trazione e il
riscaldamento civile. La sua formula
si basa sul concetto che l'aggiunta di
acqua nei prodotti petroliferi ne
migliora la combustione con una
riduzione delle principali emissioni
inquinanti (le polveri sottili).
non è positiva. Prima di tutto dal punto di vista energetico: a parità
di chilometri percorsi, il bioetanolo da mais consente di ridurre la
benzina solo tra il 10-15 percento. In secondo luogo, il bioetanolo da
mais richiede un considerevole uso del territorio, con forti consumi
di acqua per l'irrigazione e un vasto consumo di fertilizzanti. Quindi
c'è un effetto ambientale non positivo. E in terzo luogo, la produzione di bioetanolo da mais in Paesi come gli Usa mette il mais energetico in competizione con il mais alimentare. Riduce la disponiblità di
mais per le produzioni alimentari e ne fa aumentare il prezzo. Come
è già avvenuto, per esempio, in Messico, dove il prezzo del mais è
aumentato di tre volte.
Quanto accade in Usa cosa vuol dire?
Che c’è una politica protezionistica messa in atto negli Usa, in
vigore anche in Europa. Che è alla base della “filolsofia” della filiera
corta.
Quale indirizzo dovrebbe prendere il mercato?
Se l’obiettivo è quello di ridurre il consumo di combustibili fossili (benzina, gas naturale, gasolio), e di ridurlo attraverso l’uso di prodotti alternativi. Che sono alternativi, intanto, perché non sono prodotti fossili; e che sono alternativi perché – come nel caso nelle bioenergie – sono in qualche misura “carbon neutral”. Se questo è l'obiettivo, la prospettiva non può che essere quella di una commodity
globale dei biocombusibili. Cioè, un mercato globale dove i biombustibili sono disponibili così come oggi lo è il petrolio. Che sono generati laddove è più facile produrli. E dove, soprattutto, sono più efficienti.
Come accade, per esempio, in Brasile?
Ecco, prendiamo il Brasile. Dove la produzione di biocombustibile
da canna da zucchero consente di ottenere un'efficienza molto alta.
Se l'efficienza del bioetanolo da mais è del 10-15%, quella del bioetanolo da canna da zucchero è del 90 percento. Cioè a parità di chilometri percorsi, utilizzando un litro di bioetanolo da canna da zucchero, si può ridurre il consumo di benzina di circa il 90 percento. Una
differenza enorme.
Parliamo di prezzi. Quanto è competitivo il bioetanolo?
L'altro tema interessante del bioetanolo brasiliano è che la canna
da zucchero è competitiva con un prezzo del petrolio pari a circa 30
dollari al barile; mentre il bioetanolo da mais è competitivo con un
costo del barile superiore a 85 dollari. Quindi, da tempo – non solo
con con gli attuali prezzi del petrolio – il bioetanolo da canna da zucchero è altamente competitivo. Tanto che in Brasile gran parte del
mercato è coperto dai biocarburanti. Si trova regolarmente il bioetanolo alla pompa dal distributore di benzina.
Il Brasile si trova nella fascia tropicale. Quali sono gli altri Paesi
dove è possibile produrre bioetanolo altrettanto competitivo?
Certo. L'altro aspetto da considerare riguarda i luoghi di produzione, nel senso che la canna da zucchero è un tipico prodotto
delle zone tropicali. Sono aree che hanno il più basso consumo
procapite di energia del mondo. Questo fatto ci dice che ottenere
bioetanolo nelle zone tropicali significa pensare all'esportazione.
104
Il carburante, infatti, serve solo in minima parte al consumo locale. E siccome nelle zone tropicali ci sono anche i Paesi con le economie più povere del pianeta, la possibilità di far crescere la produzione di bioetanolo – per esportazione – in questi Paesi, rappresenta anche una grande opportunità per il loro sviluppo economico.
Ma questo fatto sposterebbe il baricentro della produzione di energia
nel mondo...
Esatto. In questo modo si avrebbe anche la possibilità di cambiare
la geografia della produzione dell'energia a livello globale. Il potenziale di generazione di biocombustibile nelle zone tropicali è tale da
coprire il 25% della domanda globale: è chiaro che questo diventa
un fattore di competizione molto elevato.
Il potenziale è del 25%. Oggi quanto lo sfruttiamo?
Oggi siamo molto al di sotto: tra il 2,5 e il 3 percento.
Quali sono i più importanti Paesi produttori di biocarburanti?
I grandi produttori sono Brasile e Usa con il bioetanolo. Poi
molto meno l'Europa, con il biodiesel.
Come si muove l'Opec di fronte al mercato dei biocombustibili?
L'Opec si è scagliata contro tutte le politiche che tendono a
incentivare la produzione di biocombustibile.
LA GBEP, PARTNERSHIP MONDIALE
SULLE BIOENERGIE
La Global Bionergy Partnership
(Gbep) è un’iniziativa internazionale
tra governi e istituzioni promossa dai
Paesi G8 +5 (Brasile, Canada, Cina,
Francia, Germania, Giappone, Gran
Bretagna, India, Italia, Messico,
Russia, Stati Uniti d'America, Sud
Africa) in occasione del vertice di
Gleneagles nel 2005 per “sostenere
un più ampio ed efficiente uso delle
biomasse e dei biocombustibili, in
particolare nei Paesi in via di
sviluppo, dove l’uso delle biomasse è
prevalente”. Il vertice G8 di
Heiligendamm del 2007 ha rinnovato
il mandato alla Gbep per “continuare
il suo lavoro sui biocarburanti e
garantire uno sviluppo sostenibile
delle bioenergie”. La Partnership è
presieduta da Corrado Clini, direttore
generale del ministero dell'Ambiente.
E adesso anche Putin pensa ai biocarburanti...
Putin è stato l'ultimo, finora, in ordine di tempo a manifestare il
suo interesse. Ma non è l'unico. Ci sono grandi gruppi, come per
esempio la BP, che sta investendo molto sui biocarburanti. Come
anche la Shell. Ma è necessario l'abbattimento delle politiche protezionistiche americane ed europee. Vediamo che allora questi temi si
legano: sviluppo dei biocombustibili, crescita economica dei Paesi più
poveri, apertura dei mercati a questi prodotti.
Cosa sta facendo l'Europa per arrivare al 10% entro il 2020?
L’Europa potrà raggiungere l'obiettivo del 10% entro il 2020 solo
aprendo il mercato alle importazioni da Paesi terzi. Oggi questo è un
tema all’attenzione dell'Unione Europea. Ci sono due elementi interessanti. Prima di tutto, a livello europeo comincia essere presente –
soprattutto presso le imprese energetiche del Vecchio Continente –
la grande opportunità derivante dalla produzione di biocombustibili
nei mercati terzi. Cioè, attori europei che investono nelle zone tropicali – a cominciare da quelle africane – per generare biocombustibili
da esportare in Europa. Che troveranno un mercato molto interessante.
L’altro punto?
È questo: l’Ue comincia giustamente a preoccuparsi della modalità di produzione di biocombustibili. Non c’è dubbio, infatti, che ci
sono molti rischi ambientali connessi alla produzione dei carburanti
biologici. A parte quelli già noti negli Usa con il mais, sono presenti
tutti i problemi connessi all’utilizzo di aree che vengono sottratte
alla forestazione. Il rischio di deforestazione nelle zone tropicali per
produrre biocombustibili è alto.
105
Ma non si può avere biocombustibile senza tagliare alberi?
Certo che si può. Nelle zone tropicali il 75% del territorio è
disponibile per produzioni agricole finalizzate alla generazione di
biocombustibile, senza mettere a rischio il patrimonio forestale.
Perché sono zone marginali, non utilizzate. È ovvio che se vengono
utilizzate zone coperte dalle foresete si crea un grave danno
ambientale. Come è accaduto in Indonesia, dove hanno abbattuto
gran parte della foresta pluviale e piantato palme per avere olio di
palma.
Quindi in Europa possiamo essere abbastanza ottimisti...
In parallelo alle iniziative che si stanno prendendo per abbattere
le barriere commerciali, stiamo lavorando sulla definizione degli
standard di produzione sostenibile di biocombustibili. Nelle zone
temperate, ma soprattutto in quelle tropicali.
Cosa sono i biocombustibili di seconda generazione?
Entro i prossimi 15/20 anni ci aspettiamo che siano disponibili
sul mercato globale i cosiddetti biocombustibili di seconda generazione. Su questi “nuovi” biocombustibili c’è oggi un grande interesse. Per esempio negli Usa, con programmi di ricerca sostenuti da
fondi pubblici e con la partecipazione di grandi impese private. E
comincia a manifestarsi un notevole interesse in Europa; oltreché in
Brasile, dove hanno capito che si dovrà andare oltre questa fase
inziale.
Qual è il principio dei biocombustibili di seconda generazione?
Il principio è dato dal fatto che si può ottenere biocarburante da
tutte le specie vegetali che hanno cellulosa. Perciò da tutte le biomasse, utilizzando la lignina che è presente nella cellulosa. Ma anche dai
rifiuti che contengono cellulosa o lignina. Significa che si possono
utilizzare produzioni agricole marginali – o residui di produzioni
agricole – per ottenere biocarburanti di seconda generazione. È la
prospettiva sulla quale oggi si concentra la ricerca sui nuovi biocombustibili. Ed è una sfida che l'industria europea dovrebbe cogliere
con attenzione.
Chi si sta muovendo concretamente in Italia su questo terreno?
In Italia vediamo diversi attori interessati. Tra le aziende più attive c’è la Mossi & Ghisolfi (M&G, Ndr), in provincia di Alessandria.
È un’impresa chimica che opera sui mercati internazionali, che sta
avviando un progetto innovativo da realizzare in Piemonte per il
primo impianto su scala industriale italiano – ma credo europeo –
per generare biocarburanti di seconda generazione. Vengono utilizzati prodotti agricoli locali, perché nel caso di biocombustibili di
seconda generazione la filiera corta è più facile rispetto a quelli nati
nella prima fase. La M&G sta lanciando il progetto con un grande
investimento privato.
Chi altro se ne sta occupando al di fuori dell'Italia?
Le grandi compagnie internazionali stanno investendo parecchio
nei combustibili di seconda generazione. Per esempio, Dupont, Bp,
Shell. Ma anche in Russia e in Giappone. Siamo in una fase iniziale.
Questi combustibili sono oggetto, per ora, di progetti di ricerca, che
utilizzano tutte le componenti. Comprese le alghe.