Etty Hillesum, un`“anima millenaria”

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Etty Hillesum, un`“anima millenaria”
Kasparhauser
Sul rappresentazionale 6 | 2013
Sul rappresentazionale
Kasparhauser
Sul rappresentazionale 6 | 2013
A cura di Jacopo Valli
Philosophical culture quarterly. Direzione: Marco Baldino, Francesca Brencio,
Giacomo Conserva, Jacopo Valli. Hanno collaborato: Sophia Lucrezia Vallii,
Gerardo Moscariello.
Pubblicazione on line protetta dal diritto d’autore. La distribuzione avviene a
mezzo rete ed è gratuita. Non è consentita la commercializzazione del materiale
qui raccolto.
Kasparhauser ISSN 2282-1031
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Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
Indice
Jean Hyppolite
Commentario sulla Verneinung di Freud
4
Jacopo Valli
Noia e senso
15
Tony Conrad
Sulla durata
17
Jacopo Valli
Essere suono luce
26
Peter Lamborn Wilson
Immediatismo
28
Jacopo Valli
Materia e narrativa
36
Stan Brakhage
Sulla visione
39
Paul Sharits
Cinema come cognizione: osservazioni preliminari
42
Kim Cascone
Errormanzia: glitch come divinazione
47
Jacopo Valli
Errormanzia nonduale
52
Jacopo Valli
Collocazione rappresentazionale dell'opera d'arte
54
Brian Ferneyhough
Sulla complessità
58
Bibliografia, sitografia e riferimenti accessori essenziali
61
3
Sul rappresentazionale
Gli autori
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Commentario sulla Verneinung di
Freud
di Jean Hyppolite
Innanzitutto, è mio dovere ringraziare il Dottor Lacan
della sua insistenza affinché vi presentassi quest‘articolo su
Freud, perché ciò mi ha procurato una notte di lavoro, ed
ha premesso ch‘io portassi a voi il frutto di questa notte.
Mi auguro che tutto questo sia di vostro gradimento.
Il Dottor Lacan è stato tanto gentile da inviarmi il testo
tedesco insieme a quello francese; la trovo una scelta
assennata, poiché credo che non sarei stato in grado di
comprendere nulla del testo francese, se non avessi potuto
usufruire di quello tedesco.
Non ero a conoscenza di questo scritto. Ha una
struttura assolutamente straordinaria, oltre che
estremamente enigmatica. La costruzione non è aulica:
non mi permetto di etichettarla come ―dialettica‖ ; la trovo
particolarmente sottile, e ciò mi ha imposto di
abbandonarmi, sia attraverso il testo tedesco, che
attraverso quello francese (la cui traduzione non è da
ritenersi esatta, nonostante, se paragonata ad altre, possa
essere considerata piuttosto onesta) ad un‘interpretazione
il più possibile veritiera.
È proprio questa interpretazione, che mi accingo a
proporvi. Trovo che essa sia valida, ma non per questo
dev‘essere intesa come l‘unica, e perciò, merita senza
dubbio di essere discussa.
Freud comincia col presentare il titolo ―Die
Verneinung‖, ed io mi sono accorto, apprendendolo
attraverso Lacan, che il miglior modo per tradurlo sia ―La
Denegazione‖.
Comunque, in seguito, voi vedrete impiegato ―Etwas im
Urteil verneinen‖, che non è la negazione di qualche cosa
nel giudizio, bensí una sorta di non-giudizio.
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Anno 2, Numero 6
Credo che, al fine di comprendere appieno il testo, sia
necessario attuare una distinzione tra la negazione interna
ad un giudizio e l‘attitudine alla negazione.
Lo scritto francese non mette abbastanza in rilievo lo
stile estremamente concreto, quasi divertente, degli esempi
di denegazione dai quali Freud prende spunto. Questo
testo, infatti, contiene delle proiezioni a cui voi potrete
facilmente attribuire il ruolo delle analisi perseguite in
questo seminario, e dove il malato — lo ―psicanalizzato‖ —
confessa al proprio analista: «Senz‘altro, voi penserete che
voglia dirvi qualcosa di offensivo, ma questo non è affatto
il mio intento».
Freud afferma che, in questo caso, noi comprendiamo
che si tratta del rigetto dell‘idea che sta emergendo
mediante la proiezione.
«Mi sono reso conto, nella vita quotidiana, che quando
— come spesso accade — sentiamo dire ―non voglio
assolutamente offendervi con ciò che sto per affermare‖ è
necessario tradurre la frase con ―la mia intenzione, è
quella di offendervi‖». Questa, è una volontà certa.
Tuttavia, questa osservazione porta Freud ad una
generalizzazione assai ardita, in cui va a porsi il problema
della denegazione, tanto che essa potrebbe venir
considerata come l‘origine dell‘intelligenza. In questo
modo, io sono stato in grado di capire il testo in tutta la
sua portata filosofica.
Allo stesso modo, Freud espone l‘esempio di colui che
asserisce: «Ho visto nel mio sogno quella persona. Voi vi
domandate di chi possa trattarsi. Certamente, non era mia
madre» : in quel caso, si può affermare con certezza, che
la persona in questione fosse proprio la madre.
Egli cita inoltre un procedimento adatto al metodo
dello psicanalista — in realtà, adatto a chiunque — per fare
chiarezza su ciò che è stato rimosso in una data situazione:
«Ditemi ciò che vi sembra, in questa situazione, dover
essere ritenuto il più inverosimile possibile; che vi sembra
tale a cento leghe di distanza».
E il paziente, o, più semplicemente, l‘avventore
occasionale, quello del salone o della tavola, se cede al
vostro tranello confidandovi ciò che gli sembra essere
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assolutamente incredibile, quel che dice è ciò a cui
bisognerà credere.
Ecco, dunque, un‘analisi dei processi concreti,
generalizzata a tal punto da ritrovare il suo fondamento in
un modo di presentare ciò che si è attraverso ciò che non
si è, poiché è proprio in questo che risiede il fondamento
stesso.
«Sto per dirvi ciò che non sono; attenzione: è
precisamente questo che sono».
È proprio così che Freud si introduce nella funzione di
denegazione, e, per farlo, utilizza un termine che non può
che essermi familiare — Aufhebung: vocabolo che ha avuto
diversi destini, non spetta certamente a me ricordarlo...
Dottor Lacan —«Ma sì: a chi, se non a voi, questo
termine potrà ri-tornare?»
Monsieur Hyppolite — «Si tratta del termine dialettico
utilizzato da Hegel, che significa negare, sopprimere e
conservare, e, fondamentalmente, sollevare. Nella realtà,
può essere l‘Aufhebung di una pietra, o anche la
cessazione del mio abbonamento ad un giornale. Freud
qui ci dice: ―La denegazione è un Aufhebung della
rimozione, ma non altrettanto un‘accettazione del
rimosso‖.
Qui comincia qualche cosa di straordinario nell‘analisi
freudiana, che si libera di questi aneddoti, che noi
avremmo potuto considerare come nulla di più che —
appunto — aneddoti: una portata filosofica prodigiosa che
io mi accingo immediatamente a riassumere.
Presentare ciò che si è attraverso ciò che non si è: a
partire da ciò, ci si avvicina a quell‘Aufhebung di
rimozione che non è un‘accettazione del rimosso. Colui
che parla, dice: ―Ecco quello che non sono‖: a questo
punto, non si potrebbe parlare di rimozione, se rimozione
significa incoscienza, poiché è inconscio; ma la rimozione
sussiste essenzialmente sotto la forma della nonaccettazione.
Ecco che Freud ci conduce verso un processo di
immensa sottigliezza filosofica, nei confronti del quale la
nostra attenzione sbaglierebbe a lasciar passare nella non
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riflessione del suo uso comune questa osservazione, alla
quale Freud si attacca quando l‘intellettuale si separa
dall‘affettivo. Questo perché si tratta, nel modo che
l‘autore ha di trattarla, di una scoperta veramente
profonda.
Io direi, spingendo la mia ipotesi, che per fare
un‘analisi dell‘intellettuale, Freud non mostra come
l‘intellettuale si separi dall‘affettivo, ma in che modo ,
l‘intellettuale sia una sorta di sospensione del contenuto al
quale non disconverrebbe in un linguaggio un po‘ barbaro
il concetto di ―sublimazione‖. Forse, ciò che qui nasce è il
pensiero come tale, ma questo non prima che il contenuto
sia stato influenzato da una denegazione».
Per ricordare un testo filosofico (quello di cui, per
l‘ennesima volta, mi scuso: ma il Dottor Lacan mi è qui il
garante di una tale necessità) posto alla fine di un capitolo
di Hegel, si tratta di sostituire la negatività vera all‘appetito
di distruzione che s‘impossessa del desiderio, e che è qui
concepito attraverso un modo profondamente mitico e
non psicologico; sostituirla, dico io, a questo appetito di
distruzione che s‘impossessa del desiderio e che è tale
che, all‘estrema uscita dalla lotta primordiale ove i due
combattenti si affrontano, nessuno sarà più in grado di
constatare la vittoria o la sconfitta dell‘uno o dell‘altro: una
negazione ideale.
La denegazione di cui parla Freud, per quanto sia
differente dalla negazione ideale dove si costituisce ciò che
è intellettuale, ci mostra, giustamente, questo tipo di genesi
di cui l‘autore, in conclusione, designa il vestigio
nell‘ambito del negativismo che caratterizza certi psicotici.
E noi ci rendiamo conto che, dal modo di trattare la
negatività, Freud procede sempre miticamente parlando.
È, a mio avviso, quel che è necessario ammettere per
arrivare a comprendere ciò di cui si sta parlando in questo
articolo sotto il nome di denegazione, sebbene questo non
sia ancora immediatamente visibile.
Similmente, bisogna riconoscere una dissimmetria
espressa nel testo di Freud mediante due diversi termini,
nonostante siano stati tradotti in francese, con il medesimo
vocabolo; distinguere, cioè, tra l‘affermazione a partire
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dalla tendenza unificatrice dell‘amore, e la genesi, a partire
dalla tendenza distruttrice, di questa denegazione, la cui
vera funzione sta nel generare l‘intelligenza e la posizione
stessa del pensiero.
Camminiamo più dolcemente, però.
Abbiamo visto che Freud poneva l‘intellettuale come
separato dall‘affettivo: che, se poi si aggiunge la
modificazione
desiderata
attraverso
l‘analisi,
―l‘accettazione del rimosso‖, la rimozione non è pertanto
soppressa. Cerchiamo di rappresentarci la situazione.
Prima tappa: ecco ciò che non sono. Si è concluso ciò
che sono. La rimozione sussiste sempre sottoforma di
denegazione.
Seconda tappa: lo psicanalista mi costringe ad accettare
nella mia intelligenza ciò ch‘io negavo in precedenza; e
Freud aggiunge, dopo un trattino: «Il processo stesso di
rimozione non è stato ancora sollevato da ciò
(Aufgehoben)».
Ciò che mi sembra assai profondo, se lo psicanalista
accetta, ritorna sulla sua denegazione, pertanto, la
rimozione c‘è ancora! Io ne concludo che si debba dare, a
ciò che si è prodotto, un termine filosofico, un termine
che Freud non ha enunciato: cioè la negazione della
negazione. Letteralmente, ciò che qui appare, è
l‘affermazione intellettuale, ma soltanto intellettuale, come
negazione della negazione.
Questi vocaboli non sono presenti in Freud, tuttavia,
credo che utilizzandoli si possa prolungare il suo pensiero.
È questo, ciò che s‘intende spiegare.
Arrivati a questo punto, Freud (prestiamo molta
attenzione a un testo tanto complicato!) è in grado di
mostrare come l‘intellettuale si separi [in atto]
dall‘affettivo, e di formulare una sorta di genesi del
giudizio; insomma, una genesi del pensiero.
Mi scuso con gli psicologi che sono qui, ma non sono
un grande amante della psicologia positiva in se stessa. Si
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potrebbe prendere questa genesi per della psicologia
positiva: mi sembra più profonda, nella sua portata, intesa
come afferibile all‘ordine della storia e del mito.
Ritengo, inoltre, visto il ruolo che Freud attribuisce a
questo affettivo primordiale, tanto che esso va a generare
l‘intelligenza, che si debba intenderlo come insegna il
Dottor Lacan: ovvero, che la forma primaria di relazione
che noi psicologicamente chiamiamo affettiva, è essa stessa
situata nel campo distintivo della situazione umana, e che,
se essa genera l‘intelligenza, questo comporta sin
dall‘inizio una storicità fondamentale.
Da un lato, non esiste l‘affettivo puro, tutto impegnato
nel reale; e, dall‘altro, l‘intellettuale puro, che se ne
disimpegna per riprenderlo.
Nella genesi qui descritta, io vedo una sorta di grande
mito, e, dietro l‘apparenza della positività in Freud, c‘è
questo grande mito a sostenerla.
Cosa significa? Dietro l‘affermazione, che cosa c‘è? C‘è
la Verneinung, ossia l‘Eros. E, dietro la denegazione
(attenzione: la denegazione intellettuale sarà qualcosa di
più) che cosa c‘è?
L‘apparizione, qui, di un simbolo fondamentale
dissimmetrico. L‘affermazione primordiale, non è
nient‘altro che affermare; ma negare, è più di voler
distruggere.
Il processo che ci porta, che si è tradotto per rifiuto,
senza che Freud faccia uso del termine Verwerfung, è
accentuato ancor più fortemente, poiché lui utilizza
Ausstossung, che significa espulsione.
In qualche modo, qui si ha [la coppia formale]
qualcosa di simile a due forze primarie: la forza di
attrazione e la forza di espulsione; entrambe, sembra, sotto
il dominio del principio del piacere.
Il giudizio ha, quindi, la sua prima storia, e Freud ne
distingue due tipi:
«Conformemente a ciò che ciascuno apprende dagli elementi di
filosofia, ci sono un giudizio di attribuzione e un giudizio di
esistenza».
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«La funzione del giudizio... Deve, di una cosa, dire o
disdire una proprietà, e questa deve, di una
rappresentazione, o confessare o contestare l‘esistenza
nella realtà».
E Freud, allora, mostra ciò che vi è dietro il giudizio di
attribuzione e dietro il giudizio di esistenza. Mi sembra
che, per comprendere il suo articolo, sia necessario
considerare la negazione del giudizio attributivo e quella
del giudizio di esistenza, al di là della negazione nel
momento in cui appare nella sua funzione simbolica. In
fondo, non c‘è ancora giudizio in questo momento
d‘emergenza; c‘è un primo mito del fuori e del dentro, ed
è questo che bisogna comprendere.
Voi sentite quale portata abbia questo mito della
formazione del fuori e del dentro: è quella dell‘alienazione
che si forma nel caso di questi due termini. Ciò che si
traduce nella loro opposizione formale, diventa
alienazione e ostilità tra di loro.
Ciò che rende così dense queste quattro o cinque
pagine, è dovuto al fatto che, come vedete, tutto viene
messo in causa, e che si parte da osservazioni concrete,
così spicciole in apparenza e così profonde nella loro
generalità, fino ad arrivare a qualche cosa che travolge tutta
una filosofia; noi avvertiamo tutta una struttura di
pensiero.
Dietro il giudizio di attribuzione, che cosa c‘è? C‘è il
«Io (mi) voglio appropriare, introiettare», oppure il «Io
voglio espellere».
C‘è ―all‘inizio‖, sembra dire Freud, ma ―all‘inizio‖ non
vuol dire altro, nel mito, che ―c‘era una volta‖ ...
In questa storia, c‘era una volta un Io (intendiamo qui
un soggetto) per il quale non c‘era ancora nulla di strano.
La distinzione tra lo straniero e il se stesso, è
un‘operazione, un‘espulsione. È ciò che rende
comprensibile una proposizione che, emergendo così
schiettamente, sembra, per un istante, contraddittoria:
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«Das Schlechte, ciò che è malvagio, Das dem Ich Fremde, ciò che è
estraneo all‘Io, Das Aussenbefindliche, ciò che si trova al di fuori,
istihm zunächst identisch, ciò che è sin dall‘inizio identico».
Dunque, poco fa Freud ha affermato che si introietta e
si espelle, e che c‘è, dunque, un‘operazione;
un‘operazione di espulsione senza la quale l‘operazione di
introiezione non avrebbe senso.
È quella, l‘operazione primordiale su cui si fonda ciò
che sarà il giudizio di attribuzione. Ma ciò che sta alla base
del giudizio di esistenza, è il rapporto tra la
rappresentazione e la percezione. Ed è qui assai difficile
non comprendere il senso nel quale Freud approfondisce
questo rapporto.
Ciò che importa, è che ―all‘inizio‖ è uguale e neutro
sapere se quella cosa c‘è oppure no. C‘è. Il soggetto
riproduce la sua rappresentazione delle cose partendo
dalla percezione primitiva che ne ha avuto. Quando,
adesso, egli dice che qualcosa esiste, la questione è di
sapere [non] se questa rappresentazione conservi ancora il
proprio stato nella realtà, ma se potrà o non potrà trovarla.
Tale è il rapporto dove Freud mette l‘accento [della prova]
della rappresentazione della realtà; [egli la fonda] sulla
possibilità di poter ritrovare nuovamente il suo oggetto.
Questa istanza, accentuata dalla ripetizione, dimostra che
Freud si muove in una dimensione più profonda rispetto a
quella in cui Jung si situa, essendo, quest‘ultima, una
dimensione maggiormente legata alla memoria.
È qui che non bisogna perdere il filo della sua analisi
(anche se io temo di farvelo perdere, vista la sua
complessità e minuziosità).
Ciò di cui si trattava nel giudizio di attribuzione, era di
espellere o di introiettare. Nel giudizio di esistenza, si
tratta di attribuire all‘Io, o, piuttosto, al soggetto (è più
comprensibile) una rappresentazione alla quale non
corrisponde più, ma ha corrisposto in un ritorno
posteriore, il suo oggetto. Ciò che qui è in causa, è la
genesi ―dell‘esteriore e dell‘interiore‖.
Si ha, qui, ci dice Freud, una ―visione sulla nascita‖ del
giudizio, ―a partire dalle pulsioni primarie‖. C‘è, quindi,
una sorta di ―evoluzione finalizzata a questa attribuzione
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Sul rappresentazionale
all‘Io e di questa espulsione fuori dall‘Io che conseguono
al principio del piacere‖.
―Die Bejahung‖, l‘affermazione, ci dice Freud, als
Ersatz der Vereinigung, tanto che è semplicemente
l‘equivalente dell‘unificazione, gehört dem Eros an, è il
fatto dell‘Eros‖: ciò che sta alla fonte dell‘affermazione,
per esempio, nel giudizio di attribuzione, è il fatto di
introiettare, di appropriarci del fuori anziché espellerlo.
Per la negazione, Freud non utilizza il termine Ersatz,
ma usa Nachfolge. Tuttavia, l‘autore francese lo traduce
con lo stesso significato di Ersatz. Il testo tedesco, invece,
dà: l‘affermazione è l‘Ersatz della Vereinigung, mentre la
negazione è la Nachfolge dell‘espulsione, o, più
precisamente,
dell‘istinto
di
distruzione
(Destruktionstrieb).
Tutto questo diventa, dunque, completamente mitico:
due istinti che sono, per così dire, intrecciati in questo
mito che porta il soggetto: l‘uno, quello di unificazione;
l‘altro, quello di distruzione.
Un grande mito, lo vedete, e che ne ripete altri. Ma la
piccola sfumatura per cui l‘affermazione non fa, in qualche
modo, che sostituirsi puramente e semplicemente
all‘unificazione, mentre la negazione risulta, da allora in
poi, dall‘espulsione, mi sembra la sola in grado di spiegare
la frase che segue, dove si tratta soltanto di negativismo e
di istinto di distruzione. Questo spiega, in effetti, che possa
esserci un piacere di negare, un negativismo che risulta
semplicemente dalla soppressione delle componenti
libidinose; cioè, ciò che è scomparso da questo piacere di
negare, (scomparso = rimosso) sono le componenti
libidinose.
Di conseguenza, anche l‘istinto di istruzione dipende
dal [principio del piacere] ? Io trovo che questo sia molto
importante, capitale per la tecnica. Soltanto, dice Freud, ―il
compimento della funzione di giudizio, non è reso
possibile che dalla creazione del simbolo della negazione‖.
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Come mai Freud non ci dice : «Il compimento della
funzione di giudizio è reso possibile dall‘affermazione»?
È che la negazione va a giocare un ruolo non come
tendenza alla distruzione, non all‘interno di una forma di
giudizio, ma come attitudine fondamentale di simbolicità
esplicitata.
«Creazione del simbolo della negazione che ha
permesso un primo grado d‘indipendenza dagli effetti
della rimozione e delle sue concatenazioni, e,
conseguentemente, della costrizione (Zwang) del principio
del piacere».
Frase il cui senso non mi creerebbe problemi, se non
avessi da subito riallacciato la tendenza alla distruzione al
principio del piacere.
C‘è, infatti, una difficoltà. Che cosa significa questa
dissimmetria tra la negazione e l‘affermazione? Significa
che tutto il rimosso possa essere ripreso e riutilizzato in
una specie di sospensione, e che, in qualche modo,
anziché essere sotto il dominio degli istinti di attrazione e
di repulsione, possa prodursi un margine di pensiero,
un‘apparizione dell‘esserlo sotto la forma del non esserlo,
che si produce con la denegazione, ossia dove il simbolo
di negazione è riallacciato all‘attitudine concreta della
denegazione.
Poiché è così che bisogna comprendere il testo se si
ammette la sua conclusione, la quale, inizialmente, mi è
parsa un po‘ strana.
«A questo modo di comprendere la denegazione,
corrisponde benissimo che non si scopra alcun ―non‖ a
partire dall‘inconscio...»
Tuttavia, vi si può trovare della distruzione. È
necessario, quindi, separare l‘istinto di distruzione dalla
forma di distruzione, perché, altrimenti, non si
comprenderebbe affatto ciò Freud intende dire.
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Sul rappresentazionale
Bisogna scorgere, nella negazione, un‘attitudine
concreta all‘origine del simbolo esplicito della negazione;
questo simbolo esplicito è il solo capace di rendere
possibile qualcosa come l‘utilizzo dell‘inconscio,
mantenendo comunque la rimozione.
Questo mi pare essere il senso della fine della frase
conclusiva : «... E che il riconoscimento dell‘inconscio da
parte dell‘Io si esprima con una formula negativa».
È là, il riassunto: non si trova, nell‘analisi, alcun ―non‖
a partire dall‘inconscio, ma il riconoscimento
dell‘inconscio da parte dell‘Io, mostra che lo ‗Io‖ è
sempre ignoranza; anche nella conoscenza da parte dell‘Io
si trova sempre, in forma negativa, l‘osservazione della
possibilità di detenere l‘inconscio, sempre rifiutandola.
«Non c‘è prova più forte che siamo riusciti a scoprire
l‘inconscio dal momento che l‘analizzato reagisce con
questa frase: ―Non ho pensato a questo‖ oppure ―sono
ben lungi dall‘aver [mai] pensato a quello‖».
C‘è, quindi, in questo testo di Freud di quattro o
cinque pagine, rispetto al quale mi scuso per aver mostrato
qualche difficoltà a trovare ciò che credo esserne il filo
conduttore, da una parte l‘analisi di questo tipo di
attitudine concreta, che si libera dall‘osservazione stessa
della denegazione; dall‘altra parte, la possibilità di vedere
l‘intellettuale dissociarsi in [atto] dall‘affettivo; infine, e
soprattutto, una genesi di tutto ciò che precede al livello
del primario, e, di conseguenza, l‘origine del giudizio e del
pensiero stesso (sotto la forma del pensiero come tale,
poiché il pensiero è già ben prima, nel primario, ma non è
inteso come pensiero) colta attraverso l‘intermediazione
della denegazione.
(Traduzione di Jacopo Valli e Sophia Lucrezia Valli)
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Noia e senso
di Jacopo Valli
La philosophie doit etre ontologie, elle ne peut pas etre autre
chose; mais il n‘y a pas d‘ontologie de l‘essence, il n‘y a d‘ontologie que
du sens.
(Gilles Deleuze)
Ogni umano — ma anche ogni altro ente/modo, con la
differenza che l‘umano, per ragioni neurofisiologiche, vive
la proiezione temporale in modo differente da altri
animali non umani, e da altri enti vegetali, minerali, et
cetera — è sia tempo che spazio, che in sé non esistono,
coincidentemente. Nondimeno: valutando la questione in
senso percezionale, antropologico, concernente le
modalità di produzione esistenziale, ritengo che gli umani
siano più temporali che spaziali; e aggiungo che la ferita
d‘accesso alla coscienza del proprio essere morenti, del
proprio essere il proprio stesso morire/vivere, è secondo
me la noia (e non serve stare in una baita nella foresta nera
per sentirla: va bene anche una spiaggia californiana, un
bistrot belga, una strada trafficata di Las Vegas o
Milano...), l‘oppressione di un indefinito senso del tempo
come Altro e schiacciante — e per Bataille il tempo è il
desiderio che il tempo non esista —, o meglio,
l‘oppressione di un desiderio ―represso‖ o forse non
cosciente, e disattivato (per Leopardi, la noia è il desiderio
di felicità allo stato puro: io non so cosa voglia dire puro;
anzi, ritengo non significhi nulla in sé; tuttavia, in questo
caso, intendo il termine ―puro‖ in un senso a mio parere
più corretto, al di là del comune senso attribuitogli, in un
senso più propriamente immanente e afferibile al
possibile): come nel passaggio dal ―nichilismo‖ passivo a
quello attivo: il chiaroveggente non vede ciò che crede di
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Sul rappresentazionale
vedere come Altro che prende per vero (questo è dei finti
visionari amanti del noumenico, ed è quanto troppo
spesso si ritiene accada ai chiaroveggenti intesi come
coloro che leggono il futuro e altre turpi dabbenaggini
exoterico-superstiziose), sulla scorta di tante precomprensioni e di una volontà di senso, irrazionale
[nondimeno mossa da desiderio, germinalmente estetico]:
egli vede che nulla di Altro c‘è da vedere; ossia, si disfa
della rappresentazione; o meglio, della rappresentazione
univoca e/o percepita come Verità particolare, stabile,
come senso/verità/forma del Mondo, come se questo non
fosse invece senso/verità/forma di se stesso, cioè senza
senso ma senso di sé (l‘assenza di senso non è il Nulla di
senso): possibile immanente — perché non si esce dalla
rappresentazione, ma ci si può disidentificare da essa, da
una rappresentazione cristallizzata in Verità, in senso
unico — e prende coscienza del fatto di non essere escluso
dal gioco che [anch‘egli] È, di non essere disattivato ed
impossibilitato ad agire in un contesto — immaginale,
anche, primariamente —, che, piatto, vede come statico e
inerte, come un possibile però visto come sbiadito, come
grigio, dove questo grigio non è riconosciuto come già
anche colore dantesi in complesse plurime nuances (se la
metafisica serve a far fuori la metafisica; se al metafisico
tutto può occorrere, gnosticamente: Henri Matisse ci/si
rivela che il nero è già anche colore; Gerhard Richter ci/si
ricorda che l‘occhio umano riconosce circa 400 sfumature
di grigio: anch‘esso colore, e non celeste condanna e
sciabola di boia).
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Sulla durata
di Tony Conrad
V‘è una persistente e stabile metafora per il tempo:
esso viene visto come una linea, come lineare. Il
modellare il tempo come fosse una linea, è così radicato in
noi che l‘idea di tempo e durata come distinte entità, con
differenti geometrie, a malapena si manifesta. Vorrei porre
una distinzione tra due modelli temporali parlando del
sistema di misurazione temporale socialmente riferito al
tempo, ed usando la nozione di durata per gli intervalli
temporali che sono riferiti al ―presente‖ soggettivo. Ciò per
chiarire cosa uno ordinariamente intenda dire con
espressioni come ―che ora è‖, mentre d‘altro canto
afferma che un particolare evento si prolungherà per una
certa durata. Il tempo, in questo caso, corrisponde al
sistema lineare della fisica, agli orologi e al calendario; la
durata si riferisce al soggettivo senso di estensione
concernente intervalli temporali di maggiore o minore
dimensione, riferiti al momento presente.
Certamente, noi usiamo le unità di tempo per misurare
la durata. Quindi, nell‘ordinario ciclo degli eventi
quotidiani, v‘è poca differenza tra tempo e durata. È
quando consideriamo durate estremamente brevi o
estremamente lunghe che gli schemi del tempo e della
durata divergono chiaramente. Per esempio, non v‘è nulla
come una durata più lunga di un centinaio di anni circa, a
dir poco, dal momento che nessuno vive più a lungo di
così. È se fosse appropriato parlare di una durata più
breve
di
un
nanosecondo,
anch‘essa
non
corrisponderebbe ad un‘esperienza che potesse essere
differenziata da quella di un picosecondo o di un
microsecondo. Pertanto, la durata ha la geometria di un
segmento di linea, mentre il tempo è misurato come
estendentesi infinitamente nel passato e nel futuro, e come
infinitamente divisibile.
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Sul rappresentazionale
Come sono le esperienze di diverse durate? Dacché
l‘esperienza è riferita alla percezione, il primo problema è
di trovare il nesso tra tempo e percezione, se stiamo
usando le unità di tempo per misurare la durata. La
percezione richiede tempo; differenti modalità sensoriali
hanno differenti latenze; e l‘interpretazione o
comprensione di un evento presente occupa una durata
che è notoriamente irregolare. Quindi, per semplificare,
assumiamo d‘essere attenti e di star osservando un evento
che debba essere percepito acusticamente. In questo caso,
le più brevi durate percepibili, se un numero di esse è
presentato da un‘estremità all‘altra, inizieranno a sembrare
indistinguibili l‘una dall‘altra; e gli eventi durevoli per
tempi molto più brevi non ―esisteranno‖ affatto come
durate. Il carattere della percezione è tale che essa
dipende dal tempo di risposta dei neuroni, e ci vuole circa
un decimo di secondo perché qualcosa avvenga all‘interno
del sistema nervoso. Gli eventi brevi potrebbero essere
percepiti, ma la registrazione di questi stessi eventi
richiede tempo. Ciò significa che una sequenza di brevi
durate, di eventi davvero brevi, non sarà registrata come
tale, ma come una singola durata indeterminatamente più
lunga della durata di ogni singolo evento individuale. In
termini matematici, pertanto, le durate sono non-lineari.
Allo stesso modo, anche le durate molto lunghe sono
virtualmente indistinguibili l‘una dall‘altra; ciò ha più che
altro a che fare con la variabilità dell‘esperienza soggettiva.
Noi potremmo avere un‘idea piuttosto valida di quanto sia
lungo un minuto, o un‘ora, o anche un giorno; ma
l‘esperienza di una durata di cinque anni è difficile da
distinguere da una di sei anni.
Fenomenologicamente, la durata è l‘inverso della
memoria: la durata indica continuità della presenza. La
―idea‖ di durata rappresenta un tentativo di oggettivare la
condizione dell‘essere ―già sempre‖. La durata evoca
anche un‘aspettativa sull‘esperienza futura; durare è
persistere e la radice di ―durata‖ intende lo stesso in
―durevole‖, duro [duration, durable, hard]. C‘è qualcosa di
etimologicamente perverso nel parlare di brevi durate. Nel
18
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
mondo materiale, se la durata è misurata attraverso il
cronometraggio, deve conseguentemente essere vista come
indistricabilmente connessa alla progressiva affermazione
della tecnologia industriale occidentale. L‘orologio, dalle
sue artigianali e (susseguenti) borghesi origini
rinascimentali in avanti, ha funzionato politicamente come
il primario strumento di disciplina e controllo sociale.
Sia il tempo sia l‘esperienza che uno ha di esso, nelle
società agrarie pre-industriali, aveva principalmente a che
fare col quotidiano ciclo del dormire, risvegliarsi, nutrirsi e
lavorare. Con strutture sociali più complesse si affermò
un‘estesa imposizione della temporalità: cicli riproduttivi,
cerimoniali e cicli religiosi, eventi annuali. La scoperta del
calendario, dell‘astronomia, e l‘effettivo cronometraggio
hanno sempre rappresentato un aspetto del controllo di
stato. L‘esperienza soggettiva della durata era connessa, in
queste società, all‘apparato sociale del rilevamento del
tempo, ma non nel grado in cui nei secoli più recenti
l‘industrializzazione e l‘invenzione dei lavori ha imposto il
cronometraggio di stato sul soggetto. Fino al
diciannovesimo secolo, per la maggior parte delle persone
era sufficiente avere le proprie ore regolate da poche
campane qui o là durante la giornata. La durata era
largamente riferibile all‘esperienza di ognuno su base
giornaliera; i tempi del giorno erano distribuiti secondo le
funzioni regolatorie delle osservanze religiose. Pertanto,
con l‘introduzione di un mercato di lavoro, e del
pagamento ad ore, divenne necessario per il capitale di
imporre calendarica ed orologica regolarità sulla forza
lavoro.
Come strumento di controllo e disciplina sociale, il
cronometraggio venne rapidamente ed effettivamente
adottato dai soggetti statali, come un concetto etico
connesso all‘auto-disciplina dell‘attività lavorativa.
Partendo dalla sua origine sociale, cioè, la misurazione
temporale si fuse con la soggettiva qualità della durata.
Interiorizzate, le misurazioni temporali trovarono il loro
posto nell‘economia libidinale del soggetto. Nel suo
rapporto col desiderare, la durata mobilita i desideri e le
19
Sul rappresentazionale
memorie del soggetto individuale. Così, all‘alba
dell‘industrializzazione, la durata venne trasfigurata in
un‘ossessione borghese per l‘esperienza individuale,
l‘introspezione ed il desiderio di mobilità sociale; quindi
venne incorporata dalla letteratura romantica, dalle
fissazioni sulla memoria personale e famigliare (fotografia),
e dalla idealizzazione del tempo libero (―vacanze‖ ed
escapismo nella musica o nel teatro).
Successivamente, l‘industrializzazione consusse alla
necessità d‘avere tabelle orarie per il coordinamento dei
trasporti, con particolare riferimento a quelle riguardanti il
trasporto ferroviario, in ordine di organizzare il flusso del
traffico. Eppure, durante quasi tutto il diciannovesimo
secolo, la regolazione del tempo in riferimento all‘ora o al
minuto era comunemente variabile in modo sostanzioso
da città a città; fino al 1883, mezzogiorno a Washington
D.C. erano le 12:02 a Baltimora, le 12:12 a New York, le
12:24 a Boston, eccetera. Il trasporto marittimo esigeva
requisiti anche più stringenti di quelli richiesti dalle
ferrovie, per un cronometraggio calendarico accurato —
non per evitare le collisioni, ma perché le distanze
longitudinali, e conseguentemente l‘accuratezza delle carte
marittime, poteva essere calcolata in un solo modo —
misurando gli esatti tempi di orologio di due differenti
punti sulla terra. Inevitabilmente, ciò significava che
precise osservazioni astronomiche dovessero presiedere al
sistema regolatorio del tempo d‘orologio.
Le impronte sociali della durata e della scienza
tracciano una significativa intersezione. Dai primordi,
persino precedentemente all‘antica invenzione Pitagoriana
dell‘espressione ―armonia delle sfere‖ — concetto che
autorizzava l‘armonia a colonizzare il cosmo —
l‘astronomia era la scienza che più avidamente era incline
ad occupare e dominare il soggetto. L‘invenzione degli
orologi durante il rinascimento espanse progressivamente
la capacità di effettuare misurazioni del tempo dal
calendarico reame dell‘astronomia verso misurazioni di
tempi più brevi, infine giungendo (col metronomo di
Maelzel) al territorio musicale del battito. Pertanto iniziò
20
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
un‘inversa colonizzazione dell‘armonia da parte del
cosmo.
Nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, si è
verificata una concentrata colonizzazione del soggetto da
parte della scienza; le nuove scienze composite come la
psicologia fisiologica e la biofisica hanno tentato di
―spiegare‖ o razionalizzare l‘esperienza soggettiva. Il ruolo
dell‘astronomia durante quest‘ultimo periodo è stato di
imporre la statalmente regolata misurazione del tempo
sulla durata. Supportati dall‘apparato politico dei sistemi
ferroviari e telegrafici, gli astronomi poterono introdurre il
sistema globale di minuziosamente accurate zone
temporali e ―tempi standard‖ che oggi accettiamo senza
riserve. Contemporaneamente, altri scienziati, guidati da
Hermann von Helmoltz, categorizzarono la minuzia della
durata soggettiva: i tempi di reazione, la ―persistenza della
visione‖, la fisiologia dei riflessi, e centinaia di altri
parametri riferibili alla psicologia percettiva a breve
termine furono misurati, categorizzati e ―spiegati‖ entro la
riserva esoterica del discorso scientifico.
La colonizzazione della soggettività da parte del
razionalismo scientifico affettò il pensiero artistico, prima
attraverso i pittori del pointillisme e quindi più
ampiamente nel ventesimo secolo, non appena la
tecnologia permise un sempre più accurato controllo sui
parametri temporali e percettivi sia della musica sia delle
immagini. Durante gli anni sessanta, le durate estese
furono introdotte nelle arti basate sul tempo (musica,
teatro, cinema) come tentativi di detronizzazione delle
forme convenzionali. Questi sfruttamenti di durate più
lunghe sbatterono direttamente contro il razionalismo
scientifico; essi attaccarono esattamente gli stessi topoi
tecnologici, musica e cinema, che erano stati occupati a
fondo dalla temporalità razionalistica, ma abbandonarono
ogni pretesa razionalistica; l‘opera di lunga durata era
precisamente, in questo senso, radicalmente soggettivista,
anti-illuminista; le opere rappresentarono tentativi di ciò
che stava per divenire il ―postmoderno‖.
21
Sul rappresentazionale
È rilevante che l‘opera musicale chiave nella sfida della
postura autoritaria del compositore fosse 4‘:33‖ di John
Cage, un pezzo esplicitamente compreso in una sola
durata. L‘interessato supporto anti-autoritario ed antiborghese (―contro-culturale‖) delle opere di durata estesa,
nella meditazione, nella psichedelia, nel movimento
hippie, nel Fluxus e nell‘Orientalismo, serve a rinforzare il
fatto che la durata fosse un marker dell‘autoritarismo
borghese dell‘età industriale.
Le durate lunghe furono portate nel contesto artistico
del Fluxus da La Monte Young, in particolare attraverso la
sua composizione Arabic Numeral (Any Integer) to H.F.
(1960). Questa fu seguita, durante la mia partecipazione al
gruppo collaborativo Dream Music (1962-65), dalle nostra
musica senza compositore dalla durata estesa. Il
―minimalismo‖ musicale inaugurò l‘uso di lunghe durate
per rompere i limiti formali in altre forme — danza,
performance art, teatro, e cinema. Le otto ore di film
muto di Empire di Andy Warhol (1964) divennero, come
nel caso di 4‘:33‖ di Cage, un‘opera nota a tutti, sebbene
quasi nessuno avesse davvero assistito ad una sua effettiva
proiezione. Fu, in effetti, una rappresentazione iconica
della pura durata in forma filmica.
Tuttavia, questi lavori di lunga durata non erano
semplicemente iconoclastici. La loro implicita connessione
con la controcultura delle droghe, della meditazione, e
dell‘Orientalismo (presto resa esplicita nel caso di Warhol
attraverso la sua sponsorizzazione dei Velvet Underground
ed un sacco di film influenzati da Jack Smith) introdusse
un paradosso fenomenologico all‘interno dell‘‖alta‖
cultura istituzionalizzata. Il paradosso si verificò attraverso
il controbilanciamento della linearità soggettiva che
occorreva quando il pubblico scivolava in ―stati alterati di
coscienza‖: il sogno, la trance, la rêverie, la meditazione, e
l‘assenza. Quando questo si verificava, gli spettatori e gli
auditori trovavano che la loro esperienza delle durate era
soggettivamente trasformata; la memoria e il ―presente‖
assumevano valori e velocità esperienziali che non erano
comparabili con il razionale tempo d‘orologio. In breve, le
22
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
durate lunghe divennero dimostrazioni della non-linearità
della durata esperibile.
L‘uso delle durate lunghe aveva evidentemente un
posto all‘interno dell‘ethos del modernismo artistico:
come un reinquadramento della portata dell‘opera, come
una manipolazione di dimensione o portata. Le relazioni
formali erano gli strumenti del mestiere degli artisti
minimalisti; Wittgenstein era ―un filosofo molto in auge tra
i minimalisti‖ [John Perreault]. Pertanto, era facile per la
critica, iniziando da una prospettiva analitica formalista,
collegare le durate lunghe agli altri approcci astratti o
formalisti. Di più: nel suo classico saggio modernista ―A,
B, C, ART‖, Barbara Rose, descrivendo il minimalismo
come in parte ―una reazione contro l‘autoindulgenza di
una sfrenata soggettività‖, riassume il tutto parlando
dell‘opera minimale come di un‘arte negativa del diniego e
della rinuncia, cerca do di evocare, sembrerebbe, quel
semi-ipnotico stato di vuoto di coscienza, della tranquillità
insignificante e dell‘anonimità che sia i monaci e gli yogi
Orientali sia i mistici occidentali, come Meister Eckhart e
Miguel de Molinos, desideravano.
Ella specificatamente suggerisce, in questo contesto,
che ―il ‗continuum‘ della Dream Music di La Monte
Young equivale nella sua infinitudine alla cosmologia
Maya o Hindu‖, allo stesso tempo localizzando l‘uso di
―durate di tempo molto più lunghe di quelle alle quali
siamo abituati‖ in Satie, e nelle sue allusioni religiose o
metafisiche, in Mondrian e Malevič — questi archetipi
dell‘astrazione formale che hanno preparato il
modernismo ad un‘irruzione di valori spirituali
nell‘esperienza artistica.
I dipinti, non v‘è bisogno di dirlo, rappresentavano
implicitamente eventi di lunga durata, anche se lo
spettatore comunemente si intratteneva su di una tela solo
pochi momenti. Ma l‘esplicito incorporamento di lunghe
durate in forme ―temporali‖ come il film introdusse questa
paradossale sospensione della presenza nel centro dei
discorsi che erano stati strutturati per servire altri fini. A
23
Sul rappresentazionale
differenza della pittura e della scultura, la musica ed il
teatro si sono manifestati entro la cultura borghese come
diversivi, come distrazioni dai problemi quotidiani — in
effetti, si trattava di meccanismi di fuga. La musica
occidentale era fondata sul principio della risoluzione
sospesa, entro il calcolo dell‘armonia dominante. Il teatro
occidentale ed anche il romanzo erano fondati sulle
dinamiche di risoluzione del conflitto, sull‘avvincente
capacità di tensione empatica. La ―trance‖ dei film teatrali
era similarmente costruita sull‘investimento dello
spettatore nella riduzione dell‘ansia; ma questa ―trance‖
non rappresentava l‘implementazione di compiacente
tranquillità, di riposo meditativo; era una ―trance‖ costruita
su invocazioni concatenate di brevi episodi, di eventi di
breve durata.
Quando le durate lunghe fecero la loro apparizione in
questo contesto culturale; il loro shock dialogico fu
immediatamente avvertito; esso giunse direttamente al
nucleo dei presupposto della struttura culturale borghese.
Le ragioni sociali della distrazione dello spettatore
emersero immediatamente: il contesto culturale borghese
era stato costruito sulla premessa che vi fosse una
disperata brama, diffusa fra le persone appartenenti alla
classe media, di liberazione dalla produzione di ansia che
mobilitava le loro esistenze, e che loro potessero essere
tentate a credere in questa risoluzione solo attraverso il
consigliato acquietamento che una dispersione delle ansie
in un ammasso di identificazioni fantastiche con
immaginari conflitti e ripetute, successive sovrapposizioni
ed intrecci avrebbero potuto fornire. La densa tappezzeria
di protezioni fu strappata via dalla logica temporale
minimalista delle lunghe durate. Al posto della distrazione
offerta dalle ondulazioni di conflitto e risoluzione che
aveva abitato gli spazi del teatro e della musica occidentale,
il pubblico venne pesantemente confrontato con
aspettative negate.
Conflitto e risoluzione avevano in effetti ridotto il
campo delle durate entro il contesto dell‘arte occidentale
incentrandosi sull‘uso della distrazione: della ripetitiva
24
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
risoluzione conflittuale e del continuo uso di novità o
variazione. Con le lunghe durate, il pubblico ritrovò se
stesso immerso in un altro e quasi opposto sistema di
anticipazione, un sistema catturato nell‘ordinato aperçu
psicologico per cui una pentola osservata sembra non
bollire mai. Questo ―mai‖ cattura pienamente il senso nel
quale le lunghe durate non erano solo ―lunghe‖, ma
implementavano un senso della durata che era anche più
lungo di ―lungo‖. La durata, cioè, era smascherata come
non-lineare, come paradossale; come capace di rovesciare
lo stato psicologico dell‘aspettativa borghese.
(Traduzione di Jacopo Valli)
25
Sul rappresentazionale
Essere suono e luce
di Jacopo Valli
Essere suono e luce: nulla di sensazionalistico, o —
tanto meno — mellifluo: è una questione fisiologica,
fisica, e ontologica, quindi totalmente razionale (non
nel senso di un razionalismo positivistico volgarizzato
e pratico).
Se noi è Essere e quest‘ultimo [ovvero noi, anche]
è energia eternamente vibrante a diversi gradi di
densità, è anche vero, non essendovi separazioni di
piano ontologico tra i modi dell‘Essere [non essendo
o potendo essere il Nulla], che noi è anche la luce
visibile.
«Noi è luce» : questa frase non vuole qui suonare
simile alla posa di chi proclama: «Dio è amore»,
intendendo conferire un qualche limitante e
definente attributo particolare e di natura del tutto
umana e culturale ad un ni-ente, che pertanto
particolari e tipici attributi avere non può. Intendo
dire che la luce non è ciò che vediamo, o non
solamente: noi vediamo i colori, e i colori sono fatti
di pigmenti che assorbono e rigettano luce. E questo
mi pare non sia differente dal fatto che noi è
vibrazione materica, che però allo stesso tempo (sic!)
si dà come Natura naturata, nei modi che noi siamo e
possiamo vedere, annusare, ascoltare, toccare, in
diversi modi e, magari, accordati in differenti tonalità,
in differenti stati di coscienza.
Se noi è fisicamente, matericamente luce, ha
razionalmente e fisicamente senso dire che «l‘occhio
è esso stesso luce» — e mi sovviene «l‘occhio in cui
vedo Dio è lo stesso in cui Dio mi vede» di Meister
Eckhart.
26
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
Se il Nulla non è e tutto è Zero singolare-plurale
[monismo come irriducibile pluralità modale e
differenziazione
orizzontale
del
molteplice
perpetuamente, eternamente attuale-virtuale], non v‘è
separazione di piano ontologico, e, pertanto, per
esempio, come l‘aria è bloccata da un vetro ma è
anche e allo stesso tempo il vetro; come la terra è
ontologicamente anche cielo [che peraltro —
bisognerebbe ricordarlo — non sta solo sopra ma
anche sotto i nostri piedi], così la luce non s‘arresta
sulla retina, o sulla palpebra chiusa, entrambe cose
che sono ontologicamente se stesse, e, allo stesso
tempo, anche la luce stessa, che non è Cosa.
Considerando infine i corpi stessi come vibrazione
energetica, come materia vibratile che è vibrazione
materiale, potremmo iniziare ad osservarli non solo
come sommatorie di organi inerti e attivi per forze
esclusivamente meccaniche [cosa non errata in sé, e
talora utile: basti considerare come tale piano di
riferimento prospettico stia alla base della moderna
medicina e chirurgia occidentale]: d‘altronde — ed è
pleonastico ricordare come ciò sia scientificamente, e,
più propriamente, medicalmente evidente —, in nervi
ed organi transita corrente elettrica e si sviluppano
reazioni chimiche, le quali trasformano la
materia/energia. Il cervello non governa un corpo
altro da sé; la mente è corpo; il sentire è continuo,
senza cesure, e del corpo stesso; il corpo è modo
dell‘Essere Ni-ente che È coincidente con lo stesso
che non è Cosa: ancora una volta energia/materia;
materia come materie/forze non da essa scisse o
distinte; tensione, frequenza, vibrazione, perpetua ed
eterna: luce e suono. Anche.
27
Sul rappresentazionale
Immediatismo
di Peter Lamborn Wilson
C‘è un tempo per io teatro. Quando la fantasia di un popolo viene
meno, sorge in esso la fantasia a farsi rappresentare sulla scena le sue
leggende, esso sopporta allora i grossolani surrogati della fantasia — ma
per quell‘età a cui appartiene il rapsodo epico, il teatro e il Fattore
travestito da eroe sono un ostacolo invece che un‘ala alla fantasia:
troppo vicini, troppo determinati, troppo pesanti, troppo poco sogno e
volo d‘uccello.
(Friedrich Nietzsche)
Eppure certamente il rapsode, che qui appare
essere indirettamente correlato allo shamano (―[...]
sono e volo d‘uccello‖), deve anche essere
considerato una sorta di medium o ponte stante tra
―un popolo‖ e la sua immaginazione. (Nota: useremo
il termine ―immaginazione‖ talvolta nel senso di
William Blake e talaltra nel senso di Gaston
Bachelard, senza optare per una determinazione
―spirituale‖ o ―estetica‖, e senza ricorso alla
metafisica). Un ponte trasmette (―traduce‖,
―metaforizza‖), ma non è l‘originale. E tradurre è
tradire. Anche il rapsode fornisce un poco di veleno
per l‘immaginazione.
L‘etnografia, tuttavia, ci permette di affermare la
possibilità di società dove gli sciamani non sono
specialisti dell‘immaginazione, ma dove ogni
individuo è un tipo speciale di sciamano. In queste
società, tutti i membri (eccezion fatta per i fisicamente
handicappati) agiscono come sciamani e bardi per se
stessi e per le loro genti. Per esempio: certe tribù
Amerinde delle Grandi Pianure svilupparono le più
complesse di tutte le società di caccia/raccolta
28
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
piuttosto tardi nella loro storia (forse in parte grazie
alla pistola e al cavallo, tecnologie adottate dalla
cultura Europea). Ogni persona acquisiva completa
identità e piena appartenenza a ―la Gente‖ solo
attraverso il Rito della Visione, e nella sua messa in
atto per la tribù. Perciò ogni persona diveniva un
―rapsode epico‖ nello scambio di questa individualità
con la collettività.
I Pigmei, tra le più ―primitive‖ culture, non
producono né consumano la loro musica, ma
divengono en masse ―la voce della foresta‖. Da
un‘altra parte, tra le società agricole più complesse,
come Bali all‘orlo del Ventesimo secolo, ―ognuno è
un artista‖ (e nel 1980 un mistico giavanese mi ha
detto: ―Ognuno deve essere un artista!‖).
Il fine dell‘Immediatismo giace da qualche pate
lungo la traiettoria grossolanamente descritta entro
questi tre punti (Pigmei, Grandi Pianure, Bali), che
sono tutti stati connesi al concetto antropologico di
―sciamanismo democratico‖. Gli atti creativi, essi
stessi
risultati
esteriori
dell‘interiorità
dell‘immaginazione, non sono mediati e alienati
quando sono trasmessi da ognuno per ognuno —
quando sono prodotti ma non riprodotti — quando
sono condivisi ma non feticizzati. Certamente, questi
atti sono prodotti attraverso una mediazione di
qualche tipo ed entità, poiché sono atti — ma essi non
sono divenuti forse di alienazione estrema tra
esperto/sacerdote/produttore da una parte e qualche
sventurato ―inesperto profano‖ o consumatore
dall‘altra.
Differenti media conseguentemente mostrano
differenti gradi di mediazione — e forse essi possono
anche essere organizzati su tale base. Qui ogni cosa
dipende dalla reciprocità, dal più o meno equivalente
29
Sul rappresentazionale
scambio di ciò che potrebbe essere chiamato ―quanti
di immaginazione‖. Nel caso del rapsode epico che
media visione per la tribù, una gran mole di lavoro —
o sogno attivo — rimane da compiere per gli uditori.
Essi debbono partecipare immaginativamente all‘atto
di raccontare/ascoltare, e debbono essi stessi evocare
immagini dalla propria riserva di potenza creativa per
completare l‘agire del rapsode.
Nel caso della musica Pigmea la reciprocità
diviene prossima alla massima forma di completezza,
dacché l‘intera tribù media visione solo e
precisamente per l‘intera tribù stessa; — mentre per il
Balinese, la reciprocità assume un‘economia più
complessa nella quale la specializzazione è altamente
articolata, nella quale ―l‘artista non è un tipo peciale
di persona, ma ogni persona è un tipo speciale di
artista‖.
Nel ―teatro rituale‖ di Voodoo e Santeria, ogni
presente deve partecipare visualizzando i Loa o
Orisha (archetipi immaginali), e richiedendone (con
canti e ritmi appropriati) la manifestazione. Ogni
presente può diventare un ―cavallo‖ o medium per
uno di questi santos, le cui parole ed azioni assumono
poi per i celebranti l‘aspetto della presenza degli
spiriti (per esempio, la persona posseduta non
rappresenta ma presenta). Questa struttura, che sta
alla base del teatro rituale indonesiano, può essere
presa come esemplare per la produzione creativa di
―sciamanesimo democratico‖. Al fine di costruire la
nostra scala immaginativa per tutti i media, potremmo
iniziare comparando questo ―teatro voodoo‖ col
teatro europeo del Diciottesimo secolo descritto da
Nietzsche.
Più tardi, nulla della originaria visione (o ―spirito‖)
è propriamente presente — tutto è ―mascherato‖. Non
30
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
ci si aspetta che alcun membro della compagnia o del
pubblico si ritrovi improvvisamente impossessato (o
anche solo ―ispirato‖ ad un certo grado) dalle
immagini del drammaturgo. Gli attori sono specialisti
o esperti della rappresentazione, mentre il pubblico è
composto da ―profani‖ ai quali le immagini sono
trasferite. Il pubblico è passivo, troppo è fatto per il
pubblico, che invero sta immobile al buio ed in
silenzio, immobilizzato dai soldi che ha pagato per
questa esperienza delegata.
Artaud, che realizzò tutto ciò, tentò di ripristinare
il teatro rituale voodoo (bandito dalla cultura
occidentale da Aristotele) — ma portò avanti il
tentativo entro i limiti della struttura propria
(attore/pubblico) del teatro aristotelico; egli provò a
distruggerlo o a mutarlo dall‘interno. Egli fallì e
impazzì dando avvio ad una serie di esperimenti che
culminarono nell‘assalto del Living Theater alla
barriera attore/pubblico, un effettivo assalto che tentò
di forzare i membri del pubblico a ―partecipare‖ al
rituale. Questi esperimenti produssero alcuni grandi
momenti tetrali, ma tutti i profondi propositi
fallirono. Nessuno riuscì ad abbattere l‘alienazione
che Artaud e Nietzsche ebbero a criticare.
Ciononostante, il teatro occupa maggior spazio
nella scala immaginale di quanto non facciano gli altri
e successivi media come il film. Almeno, nel teatro,
gli attori ed il pubblico sono fisicamente compresenti
nello stesso spazio, permettendo la creazione di ciò
che Peter Brook chiama ―l‘invisibile catena d‘oro‖
dell‘attenzione e dell‘empatia tra attori e pubblico —
la ben nota ―magia‖ del teatro. Col film, tuttavia, la
catena è spezzata. Ora il pubblico siede solo al buio
con nulla da fare, mentre gli attori assenti sono
rappresentati da icone giganti. Sempre allo stesso
modo indipendentemente dal numero di volte in cui
31
Sul rappresentazionale
viene ―mostrato‖, fatto per essere riprodotto
meccanicamente, privato di ogni ―aura‖, il film
propriamente vieta al pubblico di partecipare — il film
non ha bisogno dell‘immaginazione del pubblico.
Certamente, il film ha bisogno dei soldi del pubblico,
ed i soldi sono una sorta di residuo immaginale
concretizzato, dopo tutto.
Eisenstein farebbe notare che che il montaggio
stabilisce una tensiona dialettica nel film che
coinvolge la mente dello spettatore — intelletto ed
immaginazione — e Disney potrebbe aggiungere (se
fosse capace di ideologia) che l‘animazione aumenta
questo effetto perché essa, in effetti, è completamente
prodotta attraverso il montaggio. Anche il film ha la
sua ―magia‖. Ci mancherebbe. Ma dal punto di vista
della struttura abbiamo percorso una lunga via dal
teatro voodoo allo sciamanesimo democratico — e
siamo pericolosamente giunti nei pressi della
mercificazione dell‘immaginazione, e dell‘alienazione
delle relazioni di produzione. Abbiamo quasi del
tutto licenziato la nostra capacità di volare, anche col
sogno.
I libri? I libri come media trasmettono solo parole
— non suoni, visioni, odori o sensazioni tattili, tutte
cose che sono lasciate all‘immaginazione del lettore.
Bene... Ma non v‘è nulla di ―democratico‖ nei libri.
L‘autore/editore produce, tu consumi. I libri
interessano alla gente ―immaginativa‖, forse, ma tutta
l‘attività immaginale di tale gente è passiva, e
concerne il sedere soli con un libro, lasciando che
qualcun altro racconti la storia. La magia dei libri ha
qualcosa di sinistro in ciò, come si può dire della
libreria di Borges. L‘idea della Chiesa di un indice
dei libri proibiti probabilmente non si spinge
abbastanza lontano — poiché in un certo senso tutti i
libri sono condannati. Lo eros del testo è una
32
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
perversione — sebbene, tuttavia, una perversione alla
quale noi siamo assuefatti, e della quale non abbiamo
alcuna fretta di sbarazzarci.
E per quanto concerne la radio, essa è
chiaramente un medium di assenza — come il libro
ma ancor di più, giacché i libri ti lasciano da solo alla
luce; la radio, al buio. La più esacerbata passività
dell‘‖ascoltatore‖ è rivelata dal fatto che gli iserzionisti
paghino per gli spots radiofonici, e non per avere
spots nei libri (o non così tanto). Tuttavia, la radio
lascia una mole di ―lavoro‖ immaginativo
all‘ascoltatore ben più grande di quella che, per
esempio, la televisione lascia allo spettatore. La magia
della radio: uno può usarla per ascoltare le radiazioni
provenienti dalle macchie solari, le tempeste su
Giove, il ronzio delle comete. La radio è fuori moda;
in ciò giace la sua seduttività. Il predicatore
radiofonico: ―Mettete le vostre maaani sulla radio,
fratelli e sorelle, e sentite il potere cuuuratiiivo della
―Parola ―. Radio Voodoo?
(Una simile analisi può essere fatta per la musica
registrata: per esempio, essa è alienante ma non
ancora alienata. I dischi hanno rimpiazzaro la musica
amatoriale prodotta in famiglia. La musica registrata è
ubiqua e troppo facile da reperire — al punto che che
ciò che non è presente non è raro. E ancora molto
v‘è da dire sui vecchi 78 giri scricchiolanti suonati
dalle stazioni radio a notte fonda — un lampo
d‘illuminazione che sembra balenare attraverso tutti i
livelli di mediazione raggiungendo una paradossale
presenza).
È in questo senso che potremmo forse dare
credito alla altrimenti dubbiosa affermazione: ―la
radio è buona e la televisione è cattiva!‖. Poiché la
televisione occupa l‘ultimo gradino della scala
33
Sul rappresentazionale
riguardante media ed immaginazione. No, non è
vero. La ―Realtà Virtuale‖ occupa un gradino ancor
più basso. Ma la TV è il media al quale i situazionisti
si riferiscono quando parlano di ―Spettacolo‖. La
televisione è il media che l‘Immediatismo intende
propriamente abbattere. I libri, il teatro, il film e la
radio pertengono tutti a ciò che Benjamin chiamò ―la
traccia utopica‖ (almeno in potentia) — l‘ultimo
vestigio di un impulso contro l‘alienazione, l‘ultimo
profumo di immaginazione. Ad ogni modo, la TV
ebbe inizio cancellando anche quella traccia. Non
sorprende che i primi broadcasters furono i Nazisti.
La TV è per l‘immaginazione ciò che il virus è per il
DNA. La fine. Oltre la TV giace solo il reame inframediale del non-tempo/non-spazio, dell‘instantaneità
e estasi della CommTech, la pura velocità, il
downloading di coscienza nella macchina e nel
programma — in altre parole, l‘inferno.
Ciò significa che l‘Immediatismo voglia ―abolire la
televisione‖? No, certamente no — perché
l‘Immediatismo vuole essere un gioco, non un
movimento politico, e certamente non una
rivoluzione col potere di abolire qualsivoglia medium.
Il fine dell‘Immediatismo deve essere positivo, non
negativo. Non sentiamo la vocazione ad eliminare
qualche ―mezzo di produzione‖ (o anche di riproduzione) che potrebbe dopo tutto in qualche
modo ricadere nelle mani della ―gente‖.
Abbiamo analizzaro i media interrogandoci su
quanto l‘immaginazione sia coinvolta in ognuno di
essi, e sui rapporti di reciprocità implicati,
esclusivamente al fine di rendere per noi stessi
effettivi i più efficaci mezzi di risoluzione del
problema delineata da Nietzsche e vissuto così
dolorosamente
da
Artaud,
il
problema
dell‘alienazione. Per questo fine, abbiamo bisogno di
34
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
una rozza gerarchia dei media, un mezzo per
misurare il loro potenziale in relazione ai nostri fini.
Volgarmente, quindi, più l‘immaginazione è liberata e
condivisa, più il medium è servibile
Forse non possiamo più invocare spiriti affiché ci
posseggano, o viaitare i loro regni come gli sciamani
facevano. Forse spiriti del genere non esistono, o
forse siamo troppo ―civilizzati‖ per riconoscerli. O
forse no. L‘immaginazione creativa, in ogni caso,
rimane per noi una realtà — ed una realtà che
dobbiamo sperare, anche nella vana speranza della
nostra salvezza.
(Traduzione di Jacopo Valli)
35
Sul rappresentazionale
Materia e narratività
di Jacopo valli
La narrazione implica e presuppone la visione:
non si dà narrazione senza immagini. Cionondimeno,
le immagini, primariamente afferibili ad una
dimensione presentazionale ed antenarrativa, non ne
implicano necessariamente una narrativa.
La narrazione si colloca al di fuori delle immagini,
e nemmeno sembra essere indispensabilmente legata
a determinabili [e simulacriche] condizioni culturali,
sociali, storiche, ideologiche, benché necessaria sia
ogni
perpetua
contestualizzazione
materiale
immanente, e fatale l‘ingerenza simbolica del
linguaggio e del regime arbitrario di comune
significanza dei termini, nel migliore dei casi
sorvegliato da razionali tensioni critiche di ordine
nominalista-convenzionalista.
Christian Metz pone in questione la narratività in
relazione al problema cinematografico, indicandola
come esterna alle immagini ed organizzata secondo
codici non specifici.
Una tensione apologetica rispetto alla narrazione
che tentasse di ricollocarla in un rapporto di
determinatezza e corrispondenza immediata alle
immagini attraverso l‘affermazione di una sintassi
visiva, si risolverebbe nuovamente in un‘ambigua
arbitrarietà rappresentazionale.
La questione narrativa procede dal problema
percezionale: Jean Mitry, più tardi ripreso da
Deleuze, ragiona sul rapporto di complementarietà
tra guardante e guardato, rivelandosi affine ad un
punto di vista semi-soggettivo per cui il guardante è
assieme al guardato; prospettiva che si produce in un
gioco di rifrazioni ricusanti la tensione ordinante e
36
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
significante
imposta
oggettività/soggettività.
dalla
dialettica
Quel che costantemente si schianta sulla retina (e
in aiònica immanenza, cosa divide immaginemovimento
e
immagine-azione?)
non
è
irrimediabilmente Altro; e la materia, che È, coincide
con una formalità/sostanzialità che è senso senza
averne, e che non necessariamente implica
significanza.
A differenza del dato narrativo, ritengo che l‘atto
percettivo sia anche immanente alle immagini, alla
datità materiale, che è assieme del guardante e del
guardato.
La questione percezionale, e, di lì, significantenarrativa travolge tutta la materia, che è tutto come
cantoriana molteplicità inconsistente che ―l‘Essere‖
come Ni-ente che è, È. Quindi, anche tutti i grafemi e
fonemi, e, più generalmente, anche i suoni, stanati
e/o manipolati: Ahata Nāda e Anāhata Nāda; il canto
dei cardellini siberiani e le incandescenti modulazioni
di Coltrane; lo stormire veemente delle piogge
tropicali e le trasmutazioni armoniche di Murail o i
clangori e nastri trattati di Asmus Tietchens. Senza
dualizzanti cesure (se Nāda è Brahmā che è Ātman
che è Māyā che è Brahmān — tautologicamente).
Interessante è rilevare come, debellate la
limitazione significante-narrativa e la dicotomia
oggettività/soggettività,
anche
la
questione
dell‘alienazione prodotta dai media, sollevata da
Lamborn Wilson in relazione all‘Immediatismo e
particolarmente diretta al medium televisivo, venga
destituita, o almeno depotenziata.
Ogni medium è dispositivo avente ―il suo regime
di luce‖; tuttavia, materialmente e per le ragioni
sopraesposte, l‘individuo intrattenente una relazione
37
Sul rappresentazionale
col medium non è insanabilmente Altro da esso ed
indispensabilmente da esso diretto e gestito, ordinato:
sovvengono il Video Buddha di Nam June Paik, e le
sperimentazioni di Grifi e Baruchello, in qualche
modo intessute con le esperienze DADA, surrealiste,
Bauhaus, che io ritengo germinalmente afferibili a
sistemi, o strategie mistico-sapienziali dove in gioco
sono una Natura naturans ed una Natura naturata
finalmente ad un tempo indivise ed irriducibili a
monolitica rappresentazione umiliante; dove l‘Essere
stesso, che È senza essere Cosa, è il possibile caotico
non superiore alle singole parti o alla loro somma,
ma già da/per sempre con ognuna di esse
coincidente. Nessuna pregiudiziale costrizione;
nessuna vergogna.
38
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
Sulla visione
di Stan Brakhage
Immaginate un occhio non governato dalle
umanamente prodotte leggi della prospettiva, un
occhio non pregiudicato dalla logica composizionale,
un occhio che non risponde al nome di ogni cosa ma
che deve conoscere ogni cosa incontrata nella vita
attraverso un‘avventura di percezione. Quanti colori
ci sono in un prato, per il bambino gattonante non
avente la nozione di ―Verde‖? Quanti arcobaleni può
creare la luce, per l‘occhio inistruito? Quanto,
quell‘occhio, può essere consapevole delle variazioni
interne alle onde calde? Immaginate un mondo vivo
di oggetti incomprensibili sfavillante in un‘infinita
varietà di movimento ed innumerevoli gradazioni
cromatiche. Immaginate un mondo prima dello ―In
principio era il Verbo‖.
Vedere è trattenere — osservare attentamente.
L‘eliminazione di tutta la paura sta nella vista — alla
quale bisogna tendere. Una volta che la visione può
essere consegnata — cosa che sembra inerente
all‘occhio dell‘infante, un occhio che riflette la perdita
d‘innocenza più eloquentemente di ogni altra
caratteristica umana, un occhio che impara presto a
classificare le visioni, un occhio che rispecchia il
movimento dell‘individuo verso la morte attraverso la
sua aumentante incapacità di vedere.
Ma non è mai possibile tornare indietro,
nemmeno nell‘immaginazione. Dopo la perdita
d‘innocenza, solo il culmine della conoscenza può
bilanciare il traballante asse. Ancora: io suggerisco vi
sia un perseguimento della conoscenza straniero al
39
Sul rappresentazionale
linguaggio e fondato sulla comunicazione visuale,
necessitante uno sviluppo della mente ottica, e
dipendente dalla percezione intesa nel senso più
profondo ed originario del termine.
Supponete la Visione del santo e dell‘artista come
frutto di un‘incrementata capacità di vedere-visione.
Permettete alla cosiddetta allucinazione di accedere
al reame della percezione, permettendo all‘umanità
di trovare sempre una terminologia derogatoria per
ciò che non sembra prontamente utilizzabile;
accettate le visioni oniriche, diurne o notturne, come
ciò che voi indichereste come cosiddette scene reali,
anche permettendo che le astrazioni che si muovono
così dinamicamente quando teniamo saldate le
palpebre chiuse siano davvero percepite. Divenite
consapevoli del fatto che non siete solo influenzati dal
fenomeno visuale sul quale siete focalizzati e provate
a sondare le profondità di tutta l‘influenza visuale.
Non è necessario che l‘occhio della mente sia
indebolito dopo l‘infanzia, eppure ancora in questi
tempi lo sviluppo dell‘apprendimento visuale è più o
meno universalmente trascurato.
Questa è un‘età che non ha altro simbolo per la
morte che il teschio e le ossa ad un certo grado di
decomposizione... Ed è un‘età che vive nel terrore
della totale annichilazione. È un tempo infestato da
sterilità sessuale eppure quasi universalmente
incapace di percepire la natura fallica di ogni
distruttiva manifestazione di sé. È un‘età che cerca
artificialmente
di
proiettare
se
stessa
materialisticamente nello spazio astratto e di
realizzare se stessa meccanicamente poiché ha reso se
stessa quasi completamente cieca alla realtà esterna
entro la sua capacità visiva e alla consapevolezza
organica delle proprietà fisiche di movimento della
sua stessa percettibilità.
40
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
I primi disegni rupestri scoperti dimostrano che
l‘uomo primitivo aveva una più alta comprensione di
quanto non abbiamo noi circa il fatto che l‘oggetto
della paura debba essere oggettivizzato. L‘intera storia
della magia erotica è una storia di possesso della
paura attraverso la sua osservazione. Il cumlmine
della ricerca visualizzativa è stato diretto verso Dio al
di fuori della più profonda capacità di comprensione
umana circa il fatto che non possa esservi amore dove
c‘è paura. Eppure, in questa contemporaneità, quanti
di noi addirittura lottano per accorgersi
profondamente dei propri figli?
L‘artista ha trascinato la tradizione della visione e
della visualizzazione attraverso le epoche. Nel
presente, pochissimi hanno continuato il processo di
percezione visuale nel suo senso più radicale e
trasformato le loro ispiriazioni in esperienze
cinematiche. Essi creano un nuovo linguaggio reso
possibile dall‘immagine in movimento. Essi creano
dove la paura prima di loro ha creato la più grande
necessità. Essi sono essenzialmente ossessionati da- e
s‘intrattengono con- nascita, sesso, morte e ricerca di
Dio.
(Traduzione di Jacopo Valli)
Postilla sul visionario chiaroveggente
Di Jacopo Valli
Come colui che sa di non sapere ancora lascia in vita l‘Altro,
almeno nella presenza della sua assenza
Così colui che vede non ancora è libero dalla duale alterità
oggettuale
Come colui che sa di non sapere cogniuntamente sapendo che
nulla d‘Altro v‘è
Così colui che invero vede sa di essere il suo stesso vedere, la stessa
sua visione attiva, che Altro da vedere non v‘è.
41
Sul rappresentazionale
Cinema come cognizione:
osservazioni preliminari
di Paul Sharits
Premessa: v‘è la possibilità di sintetizzare vari, o
addirittura contradditori concetti di percezionecoscienza/conoscenza-senso in un modello sistemico
unificato e aperto (auto-riorganizzantesi), attraverso
un‘analisi rigorosa ed accurata dei più fondamentali
livelli di ciò che io chiamo ―cinema‖. Bisogna
guardare ―al di sotto‖ del livello di utilizzo del cinema
(le sue tipiche funzioni di ―documentazione‖ e
―narrazione‖) verso le sue infrastrutture, verso le sue
particelle significanti elementari. I film devono esser
fatti in modo da amplificare le infrastrutture generali
del cinema. Tale operazione è insolita in quanto, da
un lato, bisogna (speculativamente) analizzare il
cinema — costruendo modelli micromorfologici di
struttura/funzione — in modo da ricostruire il cinema
stesso.
Due
implicite
sub-premesse
sono
―ciberneticamente‖ legate l‘un l‘altra. Primariamente:
il cinema è sistema concettuale; secondariamente: vi è
un senso sommerso afferibile ai livelli materialiprimari (―supporto‖) dell‘apparato cinematografico.
In quest‘ottica, sia il tipo di analisi ―strutturalista‖
(anti-fenomenologica) proposta da Lévi-Strauss, sia
l‘analisi ―fenomenologica‖ proposta in precedenza da
Husserl, devono essere in qualche modo interfacciate
per quanto improbabile possa sembrare.
Dopo svariati anni di coinvolgimento con la
pittura, dai primi anni fino alla metà del 1960, ho poi
abbandonato questo sistema, poiché non mi
sembrava essere sufficientemente complesso per
42
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
un‘indagine
filosofica
generalizzata.
La
temporalizzazione di ciò che io chiamo ―segni‖ nel
cinema e l‘ironia ri-rappresentazionale della
proiezione del film-segno (la ―granulosità‖ che si vede
sullo schermo primariamente significa la granulosità
stessa dell‘emulsione della pellicola e solo
successivamente
significa,
indicativamente,
formazioni iconiche afferibili a precedenti spazio–
tempi) presta all‘impresa filmica un corredo di
caratteristiche che ricordano i processi della
conoscenza umana. Quando il cinema è visto nel
modo che propongo, la sua analisi diventa così
difficile e complessa da richiedere un team di ricerca
investigativa che adoperi gli strumenti della linguistica,
della matematica, dell‘informazione, della teoria,
dello strutturalismo, della fenomenologia, della
psicofisiologia, della cibernetica, dei sistemi generali e
della semiologia (incluse le sue implicazioni psicoanalitico-politiche). Lo studio di una qualsiasi di tali
materie è necessariamente l‘ossessione di una vita ed
io non ho pretese di aver pienamente compreso
nemmeno una di queste. Cionondimeno sono più
interessato al pensiero di certe figure come
Wittgenstein, Peirce, Husserl, von Bertalanffy,
Chomsky, Saussure e Derrida piuttosto che a certi
storici o critici dell‘arte. Non è sempre stato così, ma,
dal 1971, ho considerato l‘‖arte‖ meramente come
strumento, conveniente strumento, per generare un
corpo di lavori filmici che fosse proposizionale
(piuttosto che formale o espressionale).
Mi è stata posta la domanda: «Da quando l‘Arte
Concettuale impiega svariate note scritte, è, per lei,
l‘uso del film un sostituto del linguaggio scritto o una
semplice ―registrazione‖ delle sue performance
fisiche?» («Questa domanda è probabilmente più
utile per gli Artisti Concettuali che fanno film. Ma è
difficile definire la sua posizione tra artista e
43
Sul rappresentazionale
filmmaker. Non trova?») [lettera da Ester Carla de
Miro d‘Ajeta, Università di Genova, Italia]. Poiché ho
imparato la forma, e rispetto il lavoro di entrambi
questi ―gruppi‖, mi risulta complicato rispondere alla
domanda. Nonostante il fatto che i miei lavori più
filosoficamente inquadrati, dal 1971 in avanti —
spogliati delle strutture psicologico-drammaticoemozionali e delle ―tattiche formaliste‖ dei miei lavori
dal 1965 al 1971 — siano stati meglio accolti in
contesti di gallerie d‘arte museali piuttosto che in
contesti di arte teatrale (―film-making‖), non guardo a
me stesso sia come ―film-maker‖ che come ―artista
che fa i film‖; piuttosto, guardo la mia attività come
prototeoretica e mi considero un artigiano del cinema
infrastrutturale. Se i miei modelli proposizionali
falliscono nell‘equivalere ad oggetti filosofici, allora
sono, dovrei sperare, ponderati documenti analitici di
rappresentazione temporalizzata. Ad ogni modo, in
tutta umiltà, sono particolarmente grato al mondo
delle gallerie-museo per avermi fornito le più fruibili
ubicazioni, entro le quali, i miei più ambiziosi display
proposizionali potessero funzionare. Secondo me, il
modo teatrale lineare-direzionale-finito dello schermo
filmico è strutturalmente antitetico rispetto alle più
generali previsioni che avrei voluto progettare.
Eppure, molti dei miei lavori sono fatti per questo
modo di studio spazio temporale, proprio come le
mie frasi ed i miei discorsi hanno la loro
sequenzialità, e inizi e fini; ma, questi lavori, come le
mie frasi ed i miei discorsi, sono solo frammenti,
frammenti che, in una prospettiva eventuale,
dovranno sincronicamente riflettersi vicendevolmente
e quello che è deflesso verso l‘esterno, attraverso
questo indubbiamente fallace sistema paradigmatico,
equivarrà forse alla definizione di cognizione.
Innecessario specificare che una buona parte di ciò
che costituisce il paradigma non saranno singoli o
molteplici film proiettati ma anche diagrammi, film
44
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
come oggetti, linguaggi scritti e qualsiasi altra cosa
fosse necessaria a formare l‘unione e l‘interruzione
tra i lavori proiettati, cosa che permetterà loro d‘esser
letti da altri.
Le mie esibizioni ―locazionali‖ possono essere
pensieri di un microcosmo concernenti il tipo di
paradigma che ho proposto. In uno spazio ―galleria–
museale‖ posso mostrare insieme non solo l‘esito di
un‘indagine (un film o un frammento di svariati
continuanti, riciclanti, film variazionali-permutazionali
in-relazione-l‘un-l‘altro) ma l‘intera intenzione e
processo creativo che ha formato il/i film/s
(l‘infrastrutturale ―Blow Up‖). In uno spazio
approssimativo chiunque può osservare: graffi che
hanno generato il film; film come oggetto (visto come
nastri fisici serialmente arrangiati ed incapsulati in
fogli di Plexiglass); la proiezione della mia mia analisi
del suddetto film oggetto. Potrebbero anche esserci, a
seguire, diagrammi e disegni riguardanti le risultante
dell‘indagine. Il critico di ―mentalità estetica‖
potrebbe trovare una tale simultanea presentazione di
concetti, sconcertante o fastidiosa, poiché egli rifiuta
di collocare il significato di tale presentazione in un
oggetto o in una gerarchia d‘oggetti ed anche perché
la riflettività sincronica delle parti implica l‘intendere
l‘intenzionalità come un problema. Ad ogni modo, il
critico, può facilmente ignorare il design
paradigmatico dell‘esibizione e godere nell‘osservare
gli elementi del sistema come oggetti discontinui.
Questa lettura [del film-oggetto], tradizionale ed
estetica, è in qualche misura comprensibile; Eppure,
così come ho tentato di spiegare in queste note, è la
logica paradigmatica ad essere coinvolta nella
tipologia di film che mi interessa.
45
Sul rappresentazionale
Sono interessato alle domande che possono
suggerire non domande come ―Cosa costituisce uno
scatto?‖ o ―Che codice è impiegato nella ―funzione
zoom‖?‖, ma domande profonde, riguardanti la
particella granulare, il fotogramma e la sua durata,
l‘otturatore e la sua rotazione ed altre unità
infrastrutturali dell‘informazione, la significanza e il
senso.
(Traduzione di Jacopo Valli e Gerardo Moscariello)
46
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
Errormanzia: glitch come
divinazione
di Kim Cascone
[...] divinare con gli aspetti dell‘aria, la direzione dei venti, gli
arcobaleni, gli aloni lunari, le nuvole, le immagini che si delineano nelle
nuvole, le visioni aeree.
(Heinrich Cornelius Agrippa)
Per la mente umana, il glitch è un artefatto non
voluto, un‘interruzione momentanea dell‘atteso
comportamento da parte di un sistema guasto. In un
istante esso cambia la relazione tra l‘utente e quel
sistema. Un glitch instilla sospetto, indicando che il
sistema è inaffidabile, corrotto, inattendibile.
Questa è la visione più comunemente conservata
dalla mente mentale-razionale, una coscienza
prodotta dal vivere in una società meccanicistica
tecnologica. Attraverso una forma di trattamento
shock, siamo stati allenati ad entrare in panico
quando qualcosa non va per il verso giusto. Dopo
aver appreso gli elementi fissi di un sistema,
impariamo a reagire a questi eventi intrusivi
richiamando un elenco di suggerimenti risolutori,
rapportandoli al problema sperando che uno di essi
possa risolverlo.
Agli albori della storia dei media digitali, quando la
scienza della correzione degli errori era nella sua
infanzia, gli artisti scoprirono che i glitches potevano
molto spesso produrre splendidi artefatti. E pertanto,
più o meno come avveniva per la tecnica del ―cutup‖, che essi potevano dar luogo a nuove
47
Sul rappresentazionale
giustapposizioni apparentemente senza logica. Come
se fossero invocate o evocate da un tiro di dadi.
Ma la fortuna è una severa signora che appare solo
quando se la sente; così, piuttosto che attendere che i
glitches si verificassero, i content creators
collezionarono e forgiarono accuratamente imitazioni
di glitches — rendendole disponibili come presets,
plug-in, e clips in librerie multimediali. I falsi glitches
poterono ora essere richiamati in ogni momento
attraverso la semplice pressione di un pulsante.
Come risultato della sua facilità di riproduzione, il
glitch proliferò come un elegante simbolo di
disfuzione tecnologica, evocante un futuro distopico
dove il controllo della macchina fosse finito male. Il
glitch ha inoltre il beneficio aggiunto di rendere
l‘operatore un tecnico sofisticato, un cyber-artist
agente ai limiti estremi della tecnologia.
Attraverso il suo abuso diffuso, da pubblicità
televisive di profumi a remixes elettronici trendy, il
glitch è stato neutralizzato, reso inefficace come
effetto. È divenuto un tag di genere su iTunes.
Per contro, alcuni artisti usano il glitch non come
artefatto ma come medium per prestigiare o divinare.
Sapendo che un glitch si serve parassiticamente di un
sistema come condotto per la consegna di inaspettata
saggezza, essi si servono del glitch come dispositivo
per la divinazione.
Errormante
When You cut into the present the future leaks out.
(William Burroughs)
48
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
Per la mente medievale un dispositivo divinatorio
agiva come un medium attraverso il quale le profezie,
i presagi e le benedizioni arrivavano: esso non
produceva tali messaggi autonomamente, di per sé.
La divinazione era un modo per vedere nel regno
al di là del mondo naturale, un mondo nascosto alla
maggior parte degli individui e considerato vivo ed
intelligente.
La mente medievale non vedeva l‘universo come
azionato da forze meccaniche, ma dalla sottile
triangolazione di ―metalli, nebulose e stelle‖.
La superficie splendente di una lastra per la
cristallomanzia, il fioco tremolio di una torcia in una
camera buia, il nebuloso interno di una sfera di
cristallo — questi dispositivi agivano come ricevitori,
trasportando frammenti di saggezza da una realtà atemporale, non-spaziale, non-manifesta: il reame
superno del mundus imaginalis.
Nelle mani dell‘artista adatto, il glitch può dar
luogo a una breve rottura nel continuum spaziotempo,
ridistribuendo
lo
spazio
psichico
dell‘osservatore, permettendo all‘artista di stabilire un
diretto contatto col reame superno.
Questa connessione è un potente strumento per
qualsiasi artista, poiché permette la creazione di
nuove permutazioni, combinazioni, residui e
palinsesti.
Coordinate decomposte
[...] c‘est aujourd‘hui le territoire dont les lambeaux pourrissent
lentement sur l‘étendue de la carte.
(Jean Baudrillard)
49
Sul rappresentazionale
Il glitch può fare di più che agire come dispositivo
di divinazione, aprendo momentaneamente un
portale sul reame superno — i glithces possono essere
accumulati come data points ed essere usati come
coordinate su di una mappa.
I glitches possono fornirsi come dati accidentali,
deformi parole chiave, etichette recise, geroglifici
criptati. Ogni successivo glitch aiuta più in là a
definire il precedente constantemente affinando un
confuso fulcro.
Un cluster di glitches può delineare un contorno,
definire un‘area, tracciare una strada attraverso uno
spazio inesplorato. Questo spazio è uno ―spazio
potenziale‖ n-dimensionale ed i glitches possono
essere utilizzati per navigarlo, scovando inaspettati
patterns e fortuite giustapposizioni, svelando
contenuti subliminali.
È molto facile quando si opera con nuovi
strumenti multimediali riempire dischi rigidi di files
sonori, sessioni di lavoro su worksations audio
digitali, foto e video da fotocamere digitali,
esperimenti Photoshop, illustrazioni e disegni, et
cetera. Cartelle in cartelle di versioni, revisioni, studi
ed esperimenti scartati.
Siccome si tratta solo di dati possiamo modellarne
il contenuto come uno spazio o terreno fisico.
Navigare questo spazio coi glitch può aiutare a
scoprire un‘essenza, una venatura nascosta nei dati —
più o meno come una bacchetta da rabdomante è
utilizzata per scovare sacche d‘acqua sotto terra.
Operare coi glitches può modellare un sentiero
attraverso questo terreno, tracciare un approccio,
formulare un‘obliqua strategia.
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Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
Piuttosto che usare una preconfezionata idea
dimensionale di come un glitch appaia o suoni, gli
artisti dovrebbero utilizzare strumenti che
permettessero loro di evocare glitches aprendo il
processo di scopertà alla probabilità — senza
intenzionalità. In altre parole, questi strumenti
funzionerebbero come l‘I-Ching per Cage o la
Oblique Strategy di Eno piuttosto che come un
deterministico e ripetibile/ripetitivo effetto prodotto
ad arte dai content creators.
Quando si usano questi strumenti per navigare lo
spazio della possibilità è importante ricordare che
l‘artista lavora solo sul piano meccanico o fisico.
In ordine di operare al massimo potenziale, ogni
opera d‘arte deve essere sviluppata su tre livelli: il
mentale, l‘inconscio e il fisico. L‘uso di uno di questi
senza gli altri rende l‘opera incompleta ed inadatta a
fornire il massimo potenziale disponibile all‘artista.
Usati assieme, essi possono agire come un potente
conduttore creativo e di prestigiazione simbolica.
(Traduzione di Jacopo Valli)
51
Sul rappresentazionale
Errormanzia nonduale
di Jacopo Valli
Monisticamente, risulta essere dualizzante fallo
considerare la presenza effettiva di un ―reame
superno‖, di diversi livelli esperienziali (fisico,
mentale e — sic! — inconscio), di alterità disconnesse
— seppure connettibili — non integrate, e, in ultimo,
coincidenti ad un unico piano: potenza dell‘Essere,
―spazio potenziale‖.
Cascone parla di divinazione, sebbene in senso
creativo e non di certo superstizioso. Egli parla anche
di prestigiazione, e, più precisamente, di
prestigiazione simbolica.
Ora, contro ogni dualismo, il mundus imaginalis
sopra evocato non è Altro, superno o infero come vi
fossero un sopra e un sotto — divergenti —,
propriamente meta-fisico: esso non si dà fuori dal
mondo che È, che pure ognuno di noi, individui, È,
al di là di ogni dipartizione. E nemmeno sussiste e
rimane un‘interiorità, alla fine dell‘interiorità: così
svaniscono scissioni tra livelli e piani, che pure
permettono il riaffacciarsi di retromondi essenziali
fallaci, proiettivi e gerenti, come anche l‘inconscio
sarebbe.
S‘è il corpo che È, e il pensare, razionale o
irrazionale, è della mente, che è corpo, che è mondo:
che È.
Specialmente
interessante
è
il
ricorso
all‘espressione ―prestigiazione simbolica‖, che — mi
pare — ben si integra anche in una visione nonduale,
che, contro ogni ingerenza verticale, si desse come
dissacratoria, profanatoria rispetto al simbolico,
52
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
riconsegnando ogni simbolo al suo essere
originariamente arbitrario segno (questione greve,
questa, se si pensa a quanto una dinamica esteticopolitica come quella situazionista della deprivazione
simbolica, rovesciante, pervertente ma non ancora
radicalmente decostruente il simbolico, sia finita nelle
maglie stesse del Recupero spettacolare), e segno il
cui aspetto, la cui datità materiale è già anche
significata nella propria materialità a/significante
stessa, potenziale.
Distrutta ogni valenza originale ed univoca
corrispondenza, il glitch, l‘errore, la disfunzione,
nemmeno più è tale.
Liberato il territorio dai restrittivi vincoli
cartografici, ri- disvelata è la potenza stessa, quel
potenziale stesso, che, attraverso inversioni, rotture,
cambi di prospettiva imprevisti, immanenti, desiderati
e/o fortuiti, creati ad arte o evocati (ancora: indotti o
scovati), si rende a sé, al proprio usarsi, rivelando/si
incostretta e splendente — come gli specchi d‘ossiana
aztechi di John Dee; o sangue di bove sulle tele di
Hermann Nitsch; come scorza di etrog giudaico; o
radica d‘ebano di violoncello bolognese: è lo stesso.
53
Sul rappresentazionale
Collocazione rappresentazionale
dell‘opera d‘arte
di Jacopo Valli
Sono
necessarie
contestualizzazione
e
ricostruzione storica in funzione della comprensione
di un‘opera o di un autore?
Certamente, possono essere importanti o tornare
utili, per ragioni eminentemente cronicistiche, o
afferibili a eventuali intenzionalità ―autoriali‖; tuttavia,
la questione storica ed il contesto particolare
sfumano, se e quando la questione si fa ontologica e
fenomenologica.
Le opere sono altro rispetto ai loro autori, che non
sono autori, ma mediatori della materia che sono
attraverso la materia che sono, che È. E può inoltre
darsi che un ―autore‖ sia mosso da intenzionalità inattuali, da desiderio estetico secessionista rispetto non
tanto al suo tempo (suo? Di chi? Quale?), ma al
tempo Kronos stesso: questo è di colui che Zolla
chiamava il Classico: colui che è mosso da odio del
tempo.
È una questione proiettiva, e così, in arte —
semmai l‘arte fosse una cosa — non v‘è evoluzione,
vettorialità cronologica, ma trasformazione: ancorché
specialmente le avanguardie credano e vogliano il
contrario [ma le amate avanguardie si fottono in
partenza, se tendono alla ri-costruzione: se
distruggere è già anche costruire, perché ri-costruire?
La programmaticità, la tensione ideale castra e
reinnesta in una rappresentazione limitante, in una
forma chiusa. E se con Adorno non v‘è cultura che
non sia critica, e critica anche verso se stessa; e se con
Malraux l‘arte attiene al regno della trasformazione
della forma e non a quello della sua eternizzazione; e
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Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
se pure, stando a Lyotard, il Postmoderno non è il
Moderno alla sua fine, ma il Moderno al suo inizio —
mi viene da dire —, nella sua presenza trasformatrice,
distruttrice del preteso immutabile ed ideale; allora, al
di là del godimento estetico individuale, che non ha
restrizioni, ritengo massimamente interessanti le
avanguardie nel loro momento distruttore, negativo —
oserei dire genuinamente avanguardistico —, che
nondualisticamente ed antidialetticamente intenderei
già anche positivo].
Proiettiva è anche ogni visione della Storia come
avente una ragion d‘essere fondata all‘origine
(posizione teontologica), o come risultato (posizione
nondimeno teologica).
E le storie? Esse stanno nella misura delle
prospettive e dell‘erranza — nei due sensi del verbo
errare — del ricordo; erranza che testimonia
l‘impossibilità, direi ontologico-neurofisiologica, di
portare a termine anche una semplice pretesa
biografica o autobiografica; impossibilità che è anche
dei ritratti, dopo Matisse; impossibilità che,
riconosciuta, apre la strada alla borgesiana sincerità
della finzione, che non si prende per verità essendo
appunto vera finzione, gioco e giocherellante
anamorfosi.
La natura? La vita? Ancora proiezioni.
Rimane ora la questione materiale: il problema
dello spazio e delle attese (penso a Fontana) viene da
me sovente considerato in termini nonduali. Pensare
ad un lavoro sullo spaziotempo come liberazione
della materia da se medesima, è inganno manifesto.
Lo spirito, l‘idea [che non può darsi in sé], hanno
una loro materialità, non scissa dalla materia che È.
Lo spazio come l‘Essere stesso e l‘Attesa, nella
loro/sua materialità, come presenza dell‘assenza —
55
Sul rappresentazionale
per dirla con Guattari — che si soddisfa da sé,
blanchottianamente, sono la materialità stessa,
liberata dal giogo formale trasferitole dall‘alto, per
finzione volontaristico-rappresentativa ideale.
Non v‘è, né può esservi, ontologicamente, una
cadaverica staticità: semmai è defunta la staticità come
cadaverica [gli dèi nascono dalla separazione
dualistica, fallace, delle forze, che parimenti in sé non
esistono, dalla materia, per dirla con Artaud].
Ora, se vita, natura, tempo, spazio e uomo non si
danno in sé?
Interessante circa il rapporto materia/autore/opera
è il resoconto che dà il compositore Franco Donatoni
in Antecedente X, dove l‘Antecedente non è che
accidentale e l‘opera non è mai davvero opera e non
si dà che in modo incompiuto [o — direi — compiuto
nella incompiutezza ad essa immanente e con essa
coincidente: incompiutezza che è la stessa potenza in
atto del Molteplice che È. Donatoni usa il termine
―Dono‖ al posto di ―Opera‖: io sospetto in lui un uso
batailliano, o, meglio ancora, blanchottiano del
termine; tuttavia, preferisco evitare tale termine per le
sue implicazioni immaginali cronologiche e
gerarchiche. E mi differenzio da Donatoni anche in
una valutazione del razionalismo che si insedia là
dove lui indica ciò che rimane superate le pretese
iper-razionalistiche (questo è secondo me un
residuale fallo dualistico, cartesiano — anche —, pure
per ciò che implica il problema dell‘intuizione, e,
quindi, dell‘Altro, rispetto al quale concordo con
l‘Adorno della Metacritica della teoria della
conoscenza: eppure, un riferimento esplicito di
Donatoni è Baudrillard, il quale sentenzia che Chaos
e ragione non sono invero diametralmente
contrapposti)].
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Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
Finalmente: contrariamente a Croce, ritengo che
l‘arte non necessariamente sia simbolica, poiché,
nondualisticamente, ritengo possa darsi anche un‘arte
che sia Essere rappresentante se medesimo, e, quindi,
sim-bolo di sé: ma attraverso sé prodotto: quindi,
immagine, o immagine di immagine, o icona senza
immagine ovvero icona di sé senza Altro e senza
fondo che non sia già ―lì‖ presente in uso presso il
suo stesso usarsi che è l‘Essere stesso che È.
Ancora: non credo che l‘opera d‘arte sia fatta per
essere vista, né che tale debba necessariamente
essere: semmai, essa sta nel vedere, ma/e non è che
debba essere vista, né vista da questi o da questi altri,
né che debba — in definitiva — qualcosa. E se per noi
non esiste che ciò che osserviamo, è anche vero che
ciò non significa che non esistano altre cose: se uno
crepa, finisce lui, finisce il suo mondo, e finisce anche
il mondo come fine senza fine che è l‘Essere che È:
ma nulla finisce nel Nulla, che non può darsi; e non è
che prima della mia fine non finissero cose che io
non avevo visto e che peraltro erano con me extramodalmente coincidenti. E questa parzialità è infinita,
è il Tutto: non v‘è un vero e proprio Resto, e
nemmeno persiste la sua mancanza, la presenza di
quell‘assenza di Resto.
57
Sul rappresentazionale
Sulla complessità
di Brian Ferneyhough
Non v‘è necessaria e sufficiente relazione tra questi
due termini [complessità ed intricatezza]. La
complessità è una risultante funzione dell‘interazione
di connessi ma distinti aspetti, mentre l‘intricatezza è,
nella migliore delle ipotesi, un possibile indizio
rivolto verso una certa alleanza. Solo qualora
assumessimo l‘altamente dubitabile affermazione per
cui gli oggetti intricatamente modellati rivelano
complessi regimi interni di riferimento, potrebbe, la
relazione di cui sopra, sussistere. Per contro, certi
livelli di lavoro dettagliato potrebbero in ultimo dar
luogo a complesse o ambigue appercezioni [...].
La compelessità mi pare caratterizzata dalla sua
passiva ambiguità di importazione (e con ciò non
intendo fornire alcun giudizio di valore a riguardo); le
strutture complesse, d‘altra parte, tendono ad una
attiva proiezione di molteplicità (nel senso che
incorporano alternative e concorrenti traiettorie come
costituenti contraddizioni denuncianti un essenziale
elemento
della
loro
sostanza
espressiva).
Chiaramente, la reazione ai fenomeni riduttivi può
risultare essere altamente differenziata; ciò che viene
evocato da complesse costellazioni può, allo stesso
modo, essere piatto ed indifferenziato.
È la difficoltà una modalità della comunicazione?
Chiaramente la è, almeno nella misura in cui è
percepita come tale, ed è perciò distinta da alternativi
modi d‘organizzazione. V‘è una particolare texture o
58
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
sostanzialità nella lentezza della comprensione
attraversata dal mercuriale raggio scansionale che non
è riproducibile altrimenti. La natura disgiunta del
sonetto in Mallarmé è un buon esempio a riguardo,
come lo sono (nei loro modi molto differenti) le
vivaci tessiture semantiche di Tender Buttons di
Gertrude Stein, o le infinitamente prolisse ripetizioni
dei suoi ultimi testi, come Ida o gran parte di The
Making of Americans. In Mallarmé, come nella più
aforistica Stein, la complessità risiede nella sensazione
di istantaneità fornita dalla (taciuta) elisione, l‘ultima
tendenza corrodente le momentanee fioriture della
memoria contro le infinitamente rinviate espansioni
dello spazio semantico. Entrambi gli aspetti —
aforistico e discorsivo/permutazionale — della
scrittura della Stein hanno esplicitamente a che fare
con la nozione di velocità, sia in riferimento al
―naturale grado di fioritura‖ implicato da particolari
materiali che in riferimento ai mezzi attraverso i quali
l‘autore
incoraggia
il
lettore
a
deviare
significativamente da queste implicate norme. Tutto
ciò può essere del tutto vero anche per la musica, ed
essa rappresenta uno dei miei interessi.
In ogni caso, una distinzione dovrebbe essere fatta
tra difficoltà ed oscurità. Un testo può ad un tempo
essere alquanto convenzionale nella sua struttura (per
esempio, un sonetto), ed opporsi alla comprensione
in ragione della mancanza di chiarezza di significato
dei termini impiegati. Oppure, il contenuto
semantico manifesto del testo potrebbe essere oscuro
perché investente diversi significati a livelli
sensibilmente differenti [...]. In questi casi, la
complessità della situazione giace al di fuori
dell‘oggetto, almeno in parte. Essa implica il parziale
intrecciarsi di diversi campi di produzione
significante. La difficoltà, per me, è qualcosa che è
59
Sul rappresentazionale
anche essenzialmente relazionale per natura, ma che
si sviluppa a partire dalla interazione di piani di
ordinamento, che, in misura preponderante, sono
immanenti al lavoro.
(Traduzione di Jacopo Valli)
60
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
Bibliogarfia, sitografia e riferimenti accessori
essenziali
BIBLIOGRAFIA
Adorno Theodor W.
Metacritica della teoria della conoscenza, Mimesis
Edizioni, Sesto San Giovanni 2004
Agrippa Enrico Cornelio
La filosofia occulta o la magia. Vol. 1: La magia naturale,
Edizioni Mediterranee, Roma 1972
Artaud Antonin
Eliogabalo o l‘anarchico incoronato, Adelphi, Milano
1991
Bataille Georges
La parte maledetta – La nozione di dépense, Bollati
Boringhieri, Torino 2003
Battcock Gregory
Minimal Art: A Critical Anthology, E.P. Dutton & Co. ,
New York City 1968
Baudrillard Jean
Parole Chiave, Armando Editore, Roma 2002
Baudrillard Jean
Simulacre et simulation, Éditions Galilée, Paris 1981
Brakhage Stan
Metaphors on vision, Anthology Film Archives, New York
City 1976
Burroughs William S.
Breakthrough in the Grey Room, Sub Rosa, Bruxelles
1986 (album)
Juliet Charles
61
Sul rappresentazionale
Conversations with Samuel Beckett and Bram Van Velde,
Dalkey Archive Press, Champaign 1995
Croce Benedetto
Breviario di estetica – Aesthetica in nuce, Adelphi, Milano
1990
Deleuze Gilles
Cinema. Vol. 1: L‘Immagine–movimento, Ubulibri, Roma
1993
Deleuze Gilles
L‘Île déserte et autres textes, Éditions de minuit, Paris
2002
Donatoni Franco
Antecedente X, Adelphi, Milano 1980
Eckhart (Meister)
Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 1985
Ferneyhough Brian
Collected writings, Harwood Academic Publishers,
Amsterdam 1995
Hyppolite Jean
Écrits, Editions du Seuil, Paris 1966
Leopardi Giacomo
Zibaldone di pensieri, Mondadori, Milano 2004
Lyotard Jean–François
La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere,
Feltrinelli, Milano 2002
Mallarmé Stéphane
Sonetti, SE, Milano 2002
Malraux André
Antimémoires, Gallimard, Paris 1972
62
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
Metz Christian
Semiologia del cinema: saggi sulla significazione del
cinema, Garzanti, Milano 1972
Nietzsche Friedrich Wilhelm
Opere filosofiche, Utet, Torino 2002
Richter Gerhard
Ohne Farbe, Harje Cantz, Ostfildern 2005
Rilke Rainer Maria
Elegie duinesi, Feltrinelli, Milano 2006
Stein Gertrude
Ida, Yale University Press, New Heaven 2012
Stein Gertrude
The making of americans, Dalkey Archive Press,
Champaign 1995
Peter Lamborn Wilson (Hakim Bey)
The Radio Sermonettes, The Libertarian Book Club, New
York City 1992
Zolla Elémire
Che cos‘è la tradizione, Adelphi, Milano 1998
SITOGRAFIA
Conrad
Duration, 2004, in tonyconrad.net
Sharits
Cinema as Cognition: Introductory Remarks, 1975,
in mikehoolboom.com
The Hermetic Library
hermetic.com
63
Sul rappresentazionale
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AMM
1966: AMMMUSIC, 1966
Autechre
Quaristice, 2008
Borges Jose Luis
Finzioni, Adelphi, Milano 2003
Brakhage Stan
Glaze of Chatexis, 1990
Brakhage Stan
Reflections on black, 1955
Cabaret Voltaire
The Crackdown, 1982
Can
Tago Mago, 1971
Cascone Kim
cathodeFlower, 1999
Cascone Kim / Scanner
The crystalline address, 2002
Coil
Musick to play in the dark, Vol. 1, 1999
Coil
Time Machines, 1998
Coltrane John
A love supreme, 1965
Coltrane John
Meditations, 1966
64
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
Conrad Tony
Fifty–one years on the infinite plain, 1972–2013
Daumal René
La gran bevuta, Adelphi, Milano 1985
Duchamp Marcel
La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-23
Ferneyhough Brian
Lemma–Icon–Epigram, 1982
Ferneyhough Brian
Mnemosyne, 1986
Fontana Lucio
Concetti spaziali. Attese
Gong
Camembert Electrique, 1971
Grifi Alberto / Baruchello Gianfranco
Verifica incerta, 1964
MacLise Angus
The cloud doctrine
Malevič Kazimir
―Quadrato nero su sfondo bianco‖, 1915
Matisse Henri
Intérieur à la fougère noire, 1948
Matisse Henri
Liseuse sur fond noire, 1939
Michaux Henri
Brecce, Adelphi, Milano 1984
Mondrian Piet
65
Sul rappresentazionale
Composition 8, 1914
Mondrian Piet
Zomer, Duin in Zeeland, c.1910
Murail Tristan
Désintégrations, 1982
Newman Barnett
Untitled 2, 1948
Nurse With Wound
Ostranenie 1913, 1983
Oliveros Pauline / Dempster Stuart / Panaiotis
Deep listening, 1989
Paik Nam June
TV Buddha, 1974
Pink Floyd
Ummagumma, 1969
Richter Gerhard
Grau, 2006
Richter Gerhard
Sils, grau, 2003
Rothko Mark
Untitled, 1969
Satie Erik
Gymnopédies, 1888
Satie Erik
Vexations, 1893
Sharits Paul
Epileptic seizure comparison, 1976
66
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
Sharits Paul
N.O.T.H.I.N.G. , 1968
Sharits Paul
Tails, 1976
Skrjabin Aleksandr Nikolaevič
Sinfonia n. 4 op. 54 – Le poème de l‘extase, 1905–08
Tietchens Asmus
Former Letzter Hausmusik, 1984
Velvet Underground, The
The Velvet Underground & Nico, 1967
Velvet Underground, The
White Light/White Heat, 1968
Vijñābhairava, Adelphi, Milano 1989
Warhol Andy
Empire, 1964
Wire
154, 1979
Wou–Ki Zao
Sans titre, 1968
Young La Monte
Arabic Numeral (Any Integer) to H.F. , 1960
Young La Monte
The tortoise, his dreams and journeys, 1964–present
Young La Monte
The Well–Tuned Piano, 1964–73–81–present.
Gli autori
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Sul rappresentazionale
Stan Brakhage, Kansas City, 14 gennaio 1933 — Victoria, 9
marzo 2003. Èstato un regista statunitense, considerato
uno dei maggiori e più influenti filmakers sperimentali del
XX secolo. Il suo primo film, Interim, è del 1952.
Gradualmente, i suoi film si discostano sempre più dal
racconto tradizionale, e la maggior parte dei suoi lavori
sono in pellicola 8mm o 16mm, che spesso egli usava
trattare dipingendo a mano o graffiando direttamente
l‘emulsione, o, qualche volta, ricorrendo a tecniche di
collage. Dal 1969 ha insegnato storia ed estetica del
cinema presso l‘Art Institute of Chicago e dal 1981 presso
l‘Università del Colorado.
Kim Cascone, 21 dicembre 1955. È un compositore,
sound artist, musicista, professore e scrittore americano.
Nel 1989 diviene assistant music editor per il regista David
Lynch. Ha rilasciato più di quaranta albums di musica
elettonica ed elettroacustica dal 1984, ed ha collaborato
con figure quali Merzbow, Keith Rowe, John Tilbury,
Tony Conrad, Scanner, Pauline Oliveros. Vive nella San
Francisco Bay Area con sua moglie Kathleen e suo figlio
Cage.
Tony Conrad, 1940. È un video-artista, filmaker,
musicista/compositore, sound artist, professore e scrittore
americano legato agli ambienti dell‘avanguardia e della
sperimentazione. I primi lavori video e le prime
performances di Conrad risalgono agli anni settanta. È
stato membro del Theatre of Eternal Music, noto anche
come The Dream Syndicate, assieme a John Cale, Angus
MacLise, La Monte Young, and Marian Zazeela. È
professore presso la State University of New York.
Brian Ferneyhough, Coventry, 16 gennaio 1943. È un
compositore inglese generalmente associato al movimento
della New Complexity. Di formazione sostanzialmente
autodidatta, dalla fine degli anni sessanta ha frequentato
spesso i corsi estivi di Darmstadt, dove ha partecipato
68
Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
Anno 2, Numero 6
come docente dal 1976, e dal 1984 al 1994 è stato
nominato coordinatore dei corsi di composizione.
Jean Hyppolite, Jonzac, 1907 — Parigi, 1968. È stato un
filosofo francese, conosciuto per la sua difesa del lavoro di
Hegel e di altri filosofi tedeschi, e per aver contribuito alla
formazione di alcuni tra i più eminenti pensatori del
periodo post–bellico. Nel 1939 pubblicò la prima
traduzione in francese della Fenomenologia dello Spirito
di Hegel. Dopo la guerra divenne professore all‘Università
di Strasburgo, dove scrisse Genesi e struttura della
―Fenomenologia dello Spirito‖ di Hegel (1947) prima di
spostarsi alla Sorbona nel 1949. Nel 1952, Hyppolite
pubblicò Logica ed esistenza, un lavoro che avrebbe avuto
grande influenza su quello che sarebbe divenuto famoso
come Postmodernismo.
Peter Lamborn Wilson (Hakim Bey), New York City,
1945. È un filosofo, anarchico, saggista, poeta e scrittore
statunitense, conosciuto principalmente come primo
propositore del concetto delle Zone Temporaneamente
Autonome (TAZ), basate sulla rivisitazione storica delle
Utopie Pirata. A volte scrive sotto lo pseudonimo di
Hakim Bey. Ha passato due anni in India, Pakistan e
Afghanistan e sette anni in Iran (dove divenne un affiliato
dell‘Accademia Iraniana Imperiale di Filosofia), che lasciò
durante la Rivoluzione islamica. Nel 1980 le sue idee
evolsero dal Guenonismo neo–tradizionalista a una sintesi
di anarchismo e situazionismo con mistioni di sufismo e
neopaganesimo. Descrive le sue idee come ―anarchismo
ontologico‖ o ―immediatismo‖.
Paul Sharits, Denver, 7 febbraio 1943 — Buffalo, 8 luglio
1993. È stato un artista visuale. Noto soprattutto per la sua
attività di filmaker sperimentale, viene comunemente
associato al movimento dello structural film accanto a
figure come quelle di Tony Conrad, Hollis Frampton e
Michael Snow. Un tempo allievo di Stan Brakhage alla
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Sul rappresentazionale
School of Art della University of Denver, è stato
professore presso il Maryland Institute College of Art,
l‘Antioch College, e la University at Buffalo (The State
University of New York).
Jacopo Valli, Mantova, 1985. Dopo il diploma di maturità
linguistica, si iscrive alla facoltà di scienze giuridiche, senza
portare nulla a conclusione; quindi, si iscrive al DAMS col
medesimo esito; infine, si iscrive a filosofia, senza
nemmeno considerarsi studente. Forse entrerà al
conservatorio. Stacanovista dell‘ozio e del non-fare,
manierista
dell‘inconcludenza
e
dell‘in-disciplina,
intenderebbe riuscire a circondarsi fino alla morte della
compagnia di cose belle e piacevoli, senza dover ricorrere
alla sottomissione al lavoro. Si intrattiene con diversi
strumenti e non-strumenti musicali, e forse a breve aprirà
un piccolo studio di registrazione personale. Colleziona
dischi, ma non per venderli o tenerli sotto chiave. Tra le
altre cose, odia le scarpe da ginnastica, i maglioni azzurri, e
la gerarchia. Tra le altre cose, ama i velluti, i profumi
all‘ambra grigia, e la psichedelia. Col progetto Geometric
Horsehair, concepito come flessibile ed antigerarchico,
indugia in un lavoro concettuale, gnostico razionale, che si
esprime attraverso le diverse cosiddette forme artistiche.
Ha pubblicato alcuni lavori ―poetico-speculativi‖ tra cui
Vajra e Chaosmografie. Coredige, dal 2012, la rivista on
line ―Kasparhauser‖. Non crede nemmeno al suo nome,
ma si concede d‘usarlo.
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