Etty Hillesum, un`“anima millenaria”
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Etty Hillesum, un`“anima millenaria”
Kasparhauser Sul rappresentazionale 6 | 2013 Sul rappresentazionale Kasparhauser Sul rappresentazionale 6 | 2013 A cura di Jacopo Valli Philosophical culture quarterly. Direzione: Marco Baldino, Francesca Brencio, Giacomo Conserva, Jacopo Valli. Hanno collaborato: Sophia Lucrezia Vallii, Gerardo Moscariello. Pubblicazione on line protetta dal diritto d’autore. La distribuzione avviene a mezzo rete ed è gratuita. Non è consentita la commercializzazione del materiale qui raccolto. Kasparhauser ISSN 2282-1031 2 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Indice Jean Hyppolite Commentario sulla Verneinung di Freud 4 Jacopo Valli Noia e senso 15 Tony Conrad Sulla durata 17 Jacopo Valli Essere suono luce 26 Peter Lamborn Wilson Immediatismo 28 Jacopo Valli Materia e narrativa 36 Stan Brakhage Sulla visione 39 Paul Sharits Cinema come cognizione: osservazioni preliminari 42 Kim Cascone Errormanzia: glitch come divinazione 47 Jacopo Valli Errormanzia nonduale 52 Jacopo Valli Collocazione rappresentazionale dell'opera d'arte 54 Brian Ferneyhough Sulla complessità 58 Bibliografia, sitografia e riferimenti accessori essenziali 61 3 Sul rappresentazionale Gli autori 68 Commentario sulla Verneinung di Freud di Jean Hyppolite Innanzitutto, è mio dovere ringraziare il Dottor Lacan della sua insistenza affinché vi presentassi quest‘articolo su Freud, perché ciò mi ha procurato una notte di lavoro, ed ha premesso ch‘io portassi a voi il frutto di questa notte. Mi auguro che tutto questo sia di vostro gradimento. Il Dottor Lacan è stato tanto gentile da inviarmi il testo tedesco insieme a quello francese; la trovo una scelta assennata, poiché credo che non sarei stato in grado di comprendere nulla del testo francese, se non avessi potuto usufruire di quello tedesco. Non ero a conoscenza di questo scritto. Ha una struttura assolutamente straordinaria, oltre che estremamente enigmatica. La costruzione non è aulica: non mi permetto di etichettarla come ―dialettica‖ ; la trovo particolarmente sottile, e ciò mi ha imposto di abbandonarmi, sia attraverso il testo tedesco, che attraverso quello francese (la cui traduzione non è da ritenersi esatta, nonostante, se paragonata ad altre, possa essere considerata piuttosto onesta) ad un‘interpretazione il più possibile veritiera. È proprio questa interpretazione, che mi accingo a proporvi. Trovo che essa sia valida, ma non per questo dev‘essere intesa come l‘unica, e perciò, merita senza dubbio di essere discussa. Freud comincia col presentare il titolo ―Die Verneinung‖, ed io mi sono accorto, apprendendolo attraverso Lacan, che il miglior modo per tradurlo sia ―La Denegazione‖. Comunque, in seguito, voi vedrete impiegato ―Etwas im Urteil verneinen‖, che non è la negazione di qualche cosa nel giudizio, bensí una sorta di non-giudizio. 4 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Credo che, al fine di comprendere appieno il testo, sia necessario attuare una distinzione tra la negazione interna ad un giudizio e l‘attitudine alla negazione. Lo scritto francese non mette abbastanza in rilievo lo stile estremamente concreto, quasi divertente, degli esempi di denegazione dai quali Freud prende spunto. Questo testo, infatti, contiene delle proiezioni a cui voi potrete facilmente attribuire il ruolo delle analisi perseguite in questo seminario, e dove il malato — lo ―psicanalizzato‖ — confessa al proprio analista: «Senz‘altro, voi penserete che voglia dirvi qualcosa di offensivo, ma questo non è affatto il mio intento». Freud afferma che, in questo caso, noi comprendiamo che si tratta del rigetto dell‘idea che sta emergendo mediante la proiezione. «Mi sono reso conto, nella vita quotidiana, che quando — come spesso accade — sentiamo dire ―non voglio assolutamente offendervi con ciò che sto per affermare‖ è necessario tradurre la frase con ―la mia intenzione, è quella di offendervi‖». Questa, è una volontà certa. Tuttavia, questa osservazione porta Freud ad una generalizzazione assai ardita, in cui va a porsi il problema della denegazione, tanto che essa potrebbe venir considerata come l‘origine dell‘intelligenza. In questo modo, io sono stato in grado di capire il testo in tutta la sua portata filosofica. Allo stesso modo, Freud espone l‘esempio di colui che asserisce: «Ho visto nel mio sogno quella persona. Voi vi domandate di chi possa trattarsi. Certamente, non era mia madre» : in quel caso, si può affermare con certezza, che la persona in questione fosse proprio la madre. Egli cita inoltre un procedimento adatto al metodo dello psicanalista — in realtà, adatto a chiunque — per fare chiarezza su ciò che è stato rimosso in una data situazione: «Ditemi ciò che vi sembra, in questa situazione, dover essere ritenuto il più inverosimile possibile; che vi sembra tale a cento leghe di distanza». E il paziente, o, più semplicemente, l‘avventore occasionale, quello del salone o della tavola, se cede al vostro tranello confidandovi ciò che gli sembra essere 5 Sul rappresentazionale assolutamente incredibile, quel che dice è ciò a cui bisognerà credere. Ecco, dunque, un‘analisi dei processi concreti, generalizzata a tal punto da ritrovare il suo fondamento in un modo di presentare ciò che si è attraverso ciò che non si è, poiché è proprio in questo che risiede il fondamento stesso. «Sto per dirvi ciò che non sono; attenzione: è precisamente questo che sono». È proprio così che Freud si introduce nella funzione di denegazione, e, per farlo, utilizza un termine che non può che essermi familiare — Aufhebung: vocabolo che ha avuto diversi destini, non spetta certamente a me ricordarlo... Dottor Lacan —«Ma sì: a chi, se non a voi, questo termine potrà ri-tornare?» Monsieur Hyppolite — «Si tratta del termine dialettico utilizzato da Hegel, che significa negare, sopprimere e conservare, e, fondamentalmente, sollevare. Nella realtà, può essere l‘Aufhebung di una pietra, o anche la cessazione del mio abbonamento ad un giornale. Freud qui ci dice: ―La denegazione è un Aufhebung della rimozione, ma non altrettanto un‘accettazione del rimosso‖. Qui comincia qualche cosa di straordinario nell‘analisi freudiana, che si libera di questi aneddoti, che noi avremmo potuto considerare come nulla di più che — appunto — aneddoti: una portata filosofica prodigiosa che io mi accingo immediatamente a riassumere. Presentare ciò che si è attraverso ciò che non si è: a partire da ciò, ci si avvicina a quell‘Aufhebung di rimozione che non è un‘accettazione del rimosso. Colui che parla, dice: ―Ecco quello che non sono‖: a questo punto, non si potrebbe parlare di rimozione, se rimozione significa incoscienza, poiché è inconscio; ma la rimozione sussiste essenzialmente sotto la forma della nonaccettazione. Ecco che Freud ci conduce verso un processo di immensa sottigliezza filosofica, nei confronti del quale la nostra attenzione sbaglierebbe a lasciar passare nella non 6 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 riflessione del suo uso comune questa osservazione, alla quale Freud si attacca quando l‘intellettuale si separa dall‘affettivo. Questo perché si tratta, nel modo che l‘autore ha di trattarla, di una scoperta veramente profonda. Io direi, spingendo la mia ipotesi, che per fare un‘analisi dell‘intellettuale, Freud non mostra come l‘intellettuale si separi dall‘affettivo, ma in che modo , l‘intellettuale sia una sorta di sospensione del contenuto al quale non disconverrebbe in un linguaggio un po‘ barbaro il concetto di ―sublimazione‖. Forse, ciò che qui nasce è il pensiero come tale, ma questo non prima che il contenuto sia stato influenzato da una denegazione». Per ricordare un testo filosofico (quello di cui, per l‘ennesima volta, mi scuso: ma il Dottor Lacan mi è qui il garante di una tale necessità) posto alla fine di un capitolo di Hegel, si tratta di sostituire la negatività vera all‘appetito di distruzione che s‘impossessa del desiderio, e che è qui concepito attraverso un modo profondamente mitico e non psicologico; sostituirla, dico io, a questo appetito di distruzione che s‘impossessa del desiderio e che è tale che, all‘estrema uscita dalla lotta primordiale ove i due combattenti si affrontano, nessuno sarà più in grado di constatare la vittoria o la sconfitta dell‘uno o dell‘altro: una negazione ideale. La denegazione di cui parla Freud, per quanto sia differente dalla negazione ideale dove si costituisce ciò che è intellettuale, ci mostra, giustamente, questo tipo di genesi di cui l‘autore, in conclusione, designa il vestigio nell‘ambito del negativismo che caratterizza certi psicotici. E noi ci rendiamo conto che, dal modo di trattare la negatività, Freud procede sempre miticamente parlando. È, a mio avviso, quel che è necessario ammettere per arrivare a comprendere ciò di cui si sta parlando in questo articolo sotto il nome di denegazione, sebbene questo non sia ancora immediatamente visibile. Similmente, bisogna riconoscere una dissimmetria espressa nel testo di Freud mediante due diversi termini, nonostante siano stati tradotti in francese, con il medesimo vocabolo; distinguere, cioè, tra l‘affermazione a partire 7 Sul rappresentazionale dalla tendenza unificatrice dell‘amore, e la genesi, a partire dalla tendenza distruttrice, di questa denegazione, la cui vera funzione sta nel generare l‘intelligenza e la posizione stessa del pensiero. Camminiamo più dolcemente, però. Abbiamo visto che Freud poneva l‘intellettuale come separato dall‘affettivo: che, se poi si aggiunge la modificazione desiderata attraverso l‘analisi, ―l‘accettazione del rimosso‖, la rimozione non è pertanto soppressa. Cerchiamo di rappresentarci la situazione. Prima tappa: ecco ciò che non sono. Si è concluso ciò che sono. La rimozione sussiste sempre sottoforma di denegazione. Seconda tappa: lo psicanalista mi costringe ad accettare nella mia intelligenza ciò ch‘io negavo in precedenza; e Freud aggiunge, dopo un trattino: «Il processo stesso di rimozione non è stato ancora sollevato da ciò (Aufgehoben)». Ciò che mi sembra assai profondo, se lo psicanalista accetta, ritorna sulla sua denegazione, pertanto, la rimozione c‘è ancora! Io ne concludo che si debba dare, a ciò che si è prodotto, un termine filosofico, un termine che Freud non ha enunciato: cioè la negazione della negazione. Letteralmente, ciò che qui appare, è l‘affermazione intellettuale, ma soltanto intellettuale, come negazione della negazione. Questi vocaboli non sono presenti in Freud, tuttavia, credo che utilizzandoli si possa prolungare il suo pensiero. È questo, ciò che s‘intende spiegare. Arrivati a questo punto, Freud (prestiamo molta attenzione a un testo tanto complicato!) è in grado di mostrare come l‘intellettuale si separi [in atto] dall‘affettivo, e di formulare una sorta di genesi del giudizio; insomma, una genesi del pensiero. Mi scuso con gli psicologi che sono qui, ma non sono un grande amante della psicologia positiva in se stessa. Si 8 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 potrebbe prendere questa genesi per della psicologia positiva: mi sembra più profonda, nella sua portata, intesa come afferibile all‘ordine della storia e del mito. Ritengo, inoltre, visto il ruolo che Freud attribuisce a questo affettivo primordiale, tanto che esso va a generare l‘intelligenza, che si debba intenderlo come insegna il Dottor Lacan: ovvero, che la forma primaria di relazione che noi psicologicamente chiamiamo affettiva, è essa stessa situata nel campo distintivo della situazione umana, e che, se essa genera l‘intelligenza, questo comporta sin dall‘inizio una storicità fondamentale. Da un lato, non esiste l‘affettivo puro, tutto impegnato nel reale; e, dall‘altro, l‘intellettuale puro, che se ne disimpegna per riprenderlo. Nella genesi qui descritta, io vedo una sorta di grande mito, e, dietro l‘apparenza della positività in Freud, c‘è questo grande mito a sostenerla. Cosa significa? Dietro l‘affermazione, che cosa c‘è? C‘è la Verneinung, ossia l‘Eros. E, dietro la denegazione (attenzione: la denegazione intellettuale sarà qualcosa di più) che cosa c‘è? L‘apparizione, qui, di un simbolo fondamentale dissimmetrico. L‘affermazione primordiale, non è nient‘altro che affermare; ma negare, è più di voler distruggere. Il processo che ci porta, che si è tradotto per rifiuto, senza che Freud faccia uso del termine Verwerfung, è accentuato ancor più fortemente, poiché lui utilizza Ausstossung, che significa espulsione. In qualche modo, qui si ha [la coppia formale] qualcosa di simile a due forze primarie: la forza di attrazione e la forza di espulsione; entrambe, sembra, sotto il dominio del principio del piacere. Il giudizio ha, quindi, la sua prima storia, e Freud ne distingue due tipi: «Conformemente a ciò che ciascuno apprende dagli elementi di filosofia, ci sono un giudizio di attribuzione e un giudizio di esistenza». 9 Sul rappresentazionale «La funzione del giudizio... Deve, di una cosa, dire o disdire una proprietà, e questa deve, di una rappresentazione, o confessare o contestare l‘esistenza nella realtà». E Freud, allora, mostra ciò che vi è dietro il giudizio di attribuzione e dietro il giudizio di esistenza. Mi sembra che, per comprendere il suo articolo, sia necessario considerare la negazione del giudizio attributivo e quella del giudizio di esistenza, al di là della negazione nel momento in cui appare nella sua funzione simbolica. In fondo, non c‘è ancora giudizio in questo momento d‘emergenza; c‘è un primo mito del fuori e del dentro, ed è questo che bisogna comprendere. Voi sentite quale portata abbia questo mito della formazione del fuori e del dentro: è quella dell‘alienazione che si forma nel caso di questi due termini. Ciò che si traduce nella loro opposizione formale, diventa alienazione e ostilità tra di loro. Ciò che rende così dense queste quattro o cinque pagine, è dovuto al fatto che, come vedete, tutto viene messo in causa, e che si parte da osservazioni concrete, così spicciole in apparenza e così profonde nella loro generalità, fino ad arrivare a qualche cosa che travolge tutta una filosofia; noi avvertiamo tutta una struttura di pensiero. Dietro il giudizio di attribuzione, che cosa c‘è? C‘è il «Io (mi) voglio appropriare, introiettare», oppure il «Io voglio espellere». C‘è ―all‘inizio‖, sembra dire Freud, ma ―all‘inizio‖ non vuol dire altro, nel mito, che ―c‘era una volta‖ ... In questa storia, c‘era una volta un Io (intendiamo qui un soggetto) per il quale non c‘era ancora nulla di strano. La distinzione tra lo straniero e il se stesso, è un‘operazione, un‘espulsione. È ciò che rende comprensibile una proposizione che, emergendo così schiettamente, sembra, per un istante, contraddittoria: 10 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 «Das Schlechte, ciò che è malvagio, Das dem Ich Fremde, ciò che è estraneo all‘Io, Das Aussenbefindliche, ciò che si trova al di fuori, istihm zunächst identisch, ciò che è sin dall‘inizio identico». Dunque, poco fa Freud ha affermato che si introietta e si espelle, e che c‘è, dunque, un‘operazione; un‘operazione di espulsione senza la quale l‘operazione di introiezione non avrebbe senso. È quella, l‘operazione primordiale su cui si fonda ciò che sarà il giudizio di attribuzione. Ma ciò che sta alla base del giudizio di esistenza, è il rapporto tra la rappresentazione e la percezione. Ed è qui assai difficile non comprendere il senso nel quale Freud approfondisce questo rapporto. Ciò che importa, è che ―all‘inizio‖ è uguale e neutro sapere se quella cosa c‘è oppure no. C‘è. Il soggetto riproduce la sua rappresentazione delle cose partendo dalla percezione primitiva che ne ha avuto. Quando, adesso, egli dice che qualcosa esiste, la questione è di sapere [non] se questa rappresentazione conservi ancora il proprio stato nella realtà, ma se potrà o non potrà trovarla. Tale è il rapporto dove Freud mette l‘accento [della prova] della rappresentazione della realtà; [egli la fonda] sulla possibilità di poter ritrovare nuovamente il suo oggetto. Questa istanza, accentuata dalla ripetizione, dimostra che Freud si muove in una dimensione più profonda rispetto a quella in cui Jung si situa, essendo, quest‘ultima, una dimensione maggiormente legata alla memoria. È qui che non bisogna perdere il filo della sua analisi (anche se io temo di farvelo perdere, vista la sua complessità e minuziosità). Ciò di cui si trattava nel giudizio di attribuzione, era di espellere o di introiettare. Nel giudizio di esistenza, si tratta di attribuire all‘Io, o, piuttosto, al soggetto (è più comprensibile) una rappresentazione alla quale non corrisponde più, ma ha corrisposto in un ritorno posteriore, il suo oggetto. Ciò che qui è in causa, è la genesi ―dell‘esteriore e dell‘interiore‖. Si ha, qui, ci dice Freud, una ―visione sulla nascita‖ del giudizio, ―a partire dalle pulsioni primarie‖. C‘è, quindi, una sorta di ―evoluzione finalizzata a questa attribuzione 11 Sul rappresentazionale all‘Io e di questa espulsione fuori dall‘Io che conseguono al principio del piacere‖. ―Die Bejahung‖, l‘affermazione, ci dice Freud, als Ersatz der Vereinigung, tanto che è semplicemente l‘equivalente dell‘unificazione, gehört dem Eros an, è il fatto dell‘Eros‖: ciò che sta alla fonte dell‘affermazione, per esempio, nel giudizio di attribuzione, è il fatto di introiettare, di appropriarci del fuori anziché espellerlo. Per la negazione, Freud non utilizza il termine Ersatz, ma usa Nachfolge. Tuttavia, l‘autore francese lo traduce con lo stesso significato di Ersatz. Il testo tedesco, invece, dà: l‘affermazione è l‘Ersatz della Vereinigung, mentre la negazione è la Nachfolge dell‘espulsione, o, più precisamente, dell‘istinto di distruzione (Destruktionstrieb). Tutto questo diventa, dunque, completamente mitico: due istinti che sono, per così dire, intrecciati in questo mito che porta il soggetto: l‘uno, quello di unificazione; l‘altro, quello di distruzione. Un grande mito, lo vedete, e che ne ripete altri. Ma la piccola sfumatura per cui l‘affermazione non fa, in qualche modo, che sostituirsi puramente e semplicemente all‘unificazione, mentre la negazione risulta, da allora in poi, dall‘espulsione, mi sembra la sola in grado di spiegare la frase che segue, dove si tratta soltanto di negativismo e di istinto di distruzione. Questo spiega, in effetti, che possa esserci un piacere di negare, un negativismo che risulta semplicemente dalla soppressione delle componenti libidinose; cioè, ciò che è scomparso da questo piacere di negare, (scomparso = rimosso) sono le componenti libidinose. Di conseguenza, anche l‘istinto di istruzione dipende dal [principio del piacere] ? Io trovo che questo sia molto importante, capitale per la tecnica. Soltanto, dice Freud, ―il compimento della funzione di giudizio, non è reso possibile che dalla creazione del simbolo della negazione‖. 12 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Come mai Freud non ci dice : «Il compimento della funzione di giudizio è reso possibile dall‘affermazione»? È che la negazione va a giocare un ruolo non come tendenza alla distruzione, non all‘interno di una forma di giudizio, ma come attitudine fondamentale di simbolicità esplicitata. «Creazione del simbolo della negazione che ha permesso un primo grado d‘indipendenza dagli effetti della rimozione e delle sue concatenazioni, e, conseguentemente, della costrizione (Zwang) del principio del piacere». Frase il cui senso non mi creerebbe problemi, se non avessi da subito riallacciato la tendenza alla distruzione al principio del piacere. C‘è, infatti, una difficoltà. Che cosa significa questa dissimmetria tra la negazione e l‘affermazione? Significa che tutto il rimosso possa essere ripreso e riutilizzato in una specie di sospensione, e che, in qualche modo, anziché essere sotto il dominio degli istinti di attrazione e di repulsione, possa prodursi un margine di pensiero, un‘apparizione dell‘esserlo sotto la forma del non esserlo, che si produce con la denegazione, ossia dove il simbolo di negazione è riallacciato all‘attitudine concreta della denegazione. Poiché è così che bisogna comprendere il testo se si ammette la sua conclusione, la quale, inizialmente, mi è parsa un po‘ strana. «A questo modo di comprendere la denegazione, corrisponde benissimo che non si scopra alcun ―non‖ a partire dall‘inconscio...» Tuttavia, vi si può trovare della distruzione. È necessario, quindi, separare l‘istinto di distruzione dalla forma di distruzione, perché, altrimenti, non si comprenderebbe affatto ciò Freud intende dire. 13 Sul rappresentazionale Bisogna scorgere, nella negazione, un‘attitudine concreta all‘origine del simbolo esplicito della negazione; questo simbolo esplicito è il solo capace di rendere possibile qualcosa come l‘utilizzo dell‘inconscio, mantenendo comunque la rimozione. Questo mi pare essere il senso della fine della frase conclusiva : «... E che il riconoscimento dell‘inconscio da parte dell‘Io si esprima con una formula negativa». È là, il riassunto: non si trova, nell‘analisi, alcun ―non‖ a partire dall‘inconscio, ma il riconoscimento dell‘inconscio da parte dell‘Io, mostra che lo ‗Io‖ è sempre ignoranza; anche nella conoscenza da parte dell‘Io si trova sempre, in forma negativa, l‘osservazione della possibilità di detenere l‘inconscio, sempre rifiutandola. «Non c‘è prova più forte che siamo riusciti a scoprire l‘inconscio dal momento che l‘analizzato reagisce con questa frase: ―Non ho pensato a questo‖ oppure ―sono ben lungi dall‘aver [mai] pensato a quello‖». C‘è, quindi, in questo testo di Freud di quattro o cinque pagine, rispetto al quale mi scuso per aver mostrato qualche difficoltà a trovare ciò che credo esserne il filo conduttore, da una parte l‘analisi di questo tipo di attitudine concreta, che si libera dall‘osservazione stessa della denegazione; dall‘altra parte, la possibilità di vedere l‘intellettuale dissociarsi in [atto] dall‘affettivo; infine, e soprattutto, una genesi di tutto ciò che precede al livello del primario, e, di conseguenza, l‘origine del giudizio e del pensiero stesso (sotto la forma del pensiero come tale, poiché il pensiero è già ben prima, nel primario, ma non è inteso come pensiero) colta attraverso l‘intermediazione della denegazione. (Traduzione di Jacopo Valli e Sophia Lucrezia Valli) 14 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Noia e senso di Jacopo Valli La philosophie doit etre ontologie, elle ne peut pas etre autre chose; mais il n‘y a pas d‘ontologie de l‘essence, il n‘y a d‘ontologie que du sens. (Gilles Deleuze) Ogni umano — ma anche ogni altro ente/modo, con la differenza che l‘umano, per ragioni neurofisiologiche, vive la proiezione temporale in modo differente da altri animali non umani, e da altri enti vegetali, minerali, et cetera — è sia tempo che spazio, che in sé non esistono, coincidentemente. Nondimeno: valutando la questione in senso percezionale, antropologico, concernente le modalità di produzione esistenziale, ritengo che gli umani siano più temporali che spaziali; e aggiungo che la ferita d‘accesso alla coscienza del proprio essere morenti, del proprio essere il proprio stesso morire/vivere, è secondo me la noia (e non serve stare in una baita nella foresta nera per sentirla: va bene anche una spiaggia californiana, un bistrot belga, una strada trafficata di Las Vegas o Milano...), l‘oppressione di un indefinito senso del tempo come Altro e schiacciante — e per Bataille il tempo è il desiderio che il tempo non esista —, o meglio, l‘oppressione di un desiderio ―represso‖ o forse non cosciente, e disattivato (per Leopardi, la noia è il desiderio di felicità allo stato puro: io non so cosa voglia dire puro; anzi, ritengo non significhi nulla in sé; tuttavia, in questo caso, intendo il termine ―puro‖ in un senso a mio parere più corretto, al di là del comune senso attribuitogli, in un senso più propriamente immanente e afferibile al possibile): come nel passaggio dal ―nichilismo‖ passivo a quello attivo: il chiaroveggente non vede ciò che crede di 15 Sul rappresentazionale vedere come Altro che prende per vero (questo è dei finti visionari amanti del noumenico, ed è quanto troppo spesso si ritiene accada ai chiaroveggenti intesi come coloro che leggono il futuro e altre turpi dabbenaggini exoterico-superstiziose), sulla scorta di tante precomprensioni e di una volontà di senso, irrazionale [nondimeno mossa da desiderio, germinalmente estetico]: egli vede che nulla di Altro c‘è da vedere; ossia, si disfa della rappresentazione; o meglio, della rappresentazione univoca e/o percepita come Verità particolare, stabile, come senso/verità/forma del Mondo, come se questo non fosse invece senso/verità/forma di se stesso, cioè senza senso ma senso di sé (l‘assenza di senso non è il Nulla di senso): possibile immanente — perché non si esce dalla rappresentazione, ma ci si può disidentificare da essa, da una rappresentazione cristallizzata in Verità, in senso unico — e prende coscienza del fatto di non essere escluso dal gioco che [anch‘egli] È, di non essere disattivato ed impossibilitato ad agire in un contesto — immaginale, anche, primariamente —, che, piatto, vede come statico e inerte, come un possibile però visto come sbiadito, come grigio, dove questo grigio non è riconosciuto come già anche colore dantesi in complesse plurime nuances (se la metafisica serve a far fuori la metafisica; se al metafisico tutto può occorrere, gnosticamente: Henri Matisse ci/si rivela che il nero è già anche colore; Gerhard Richter ci/si ricorda che l‘occhio umano riconosce circa 400 sfumature di grigio: anch‘esso colore, e non celeste condanna e sciabola di boia). 16 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Sulla durata di Tony Conrad V‘è una persistente e stabile metafora per il tempo: esso viene visto come una linea, come lineare. Il modellare il tempo come fosse una linea, è così radicato in noi che l‘idea di tempo e durata come distinte entità, con differenti geometrie, a malapena si manifesta. Vorrei porre una distinzione tra due modelli temporali parlando del sistema di misurazione temporale socialmente riferito al tempo, ed usando la nozione di durata per gli intervalli temporali che sono riferiti al ―presente‖ soggettivo. Ciò per chiarire cosa uno ordinariamente intenda dire con espressioni come ―che ora è‖, mentre d‘altro canto afferma che un particolare evento si prolungherà per una certa durata. Il tempo, in questo caso, corrisponde al sistema lineare della fisica, agli orologi e al calendario; la durata si riferisce al soggettivo senso di estensione concernente intervalli temporali di maggiore o minore dimensione, riferiti al momento presente. Certamente, noi usiamo le unità di tempo per misurare la durata. Quindi, nell‘ordinario ciclo degli eventi quotidiani, v‘è poca differenza tra tempo e durata. È quando consideriamo durate estremamente brevi o estremamente lunghe che gli schemi del tempo e della durata divergono chiaramente. Per esempio, non v‘è nulla come una durata più lunga di un centinaio di anni circa, a dir poco, dal momento che nessuno vive più a lungo di così. È se fosse appropriato parlare di una durata più breve di un nanosecondo, anch‘essa non corrisponderebbe ad un‘esperienza che potesse essere differenziata da quella di un picosecondo o di un microsecondo. Pertanto, la durata ha la geometria di un segmento di linea, mentre il tempo è misurato come estendentesi infinitamente nel passato e nel futuro, e come infinitamente divisibile. 17 Sul rappresentazionale Come sono le esperienze di diverse durate? Dacché l‘esperienza è riferita alla percezione, il primo problema è di trovare il nesso tra tempo e percezione, se stiamo usando le unità di tempo per misurare la durata. La percezione richiede tempo; differenti modalità sensoriali hanno differenti latenze; e l‘interpretazione o comprensione di un evento presente occupa una durata che è notoriamente irregolare. Quindi, per semplificare, assumiamo d‘essere attenti e di star osservando un evento che debba essere percepito acusticamente. In questo caso, le più brevi durate percepibili, se un numero di esse è presentato da un‘estremità all‘altra, inizieranno a sembrare indistinguibili l‘una dall‘altra; e gli eventi durevoli per tempi molto più brevi non ―esisteranno‖ affatto come durate. Il carattere della percezione è tale che essa dipende dal tempo di risposta dei neuroni, e ci vuole circa un decimo di secondo perché qualcosa avvenga all‘interno del sistema nervoso. Gli eventi brevi potrebbero essere percepiti, ma la registrazione di questi stessi eventi richiede tempo. Ciò significa che una sequenza di brevi durate, di eventi davvero brevi, non sarà registrata come tale, ma come una singola durata indeterminatamente più lunga della durata di ogni singolo evento individuale. In termini matematici, pertanto, le durate sono non-lineari. Allo stesso modo, anche le durate molto lunghe sono virtualmente indistinguibili l‘una dall‘altra; ciò ha più che altro a che fare con la variabilità dell‘esperienza soggettiva. Noi potremmo avere un‘idea piuttosto valida di quanto sia lungo un minuto, o un‘ora, o anche un giorno; ma l‘esperienza di una durata di cinque anni è difficile da distinguere da una di sei anni. Fenomenologicamente, la durata è l‘inverso della memoria: la durata indica continuità della presenza. La ―idea‖ di durata rappresenta un tentativo di oggettivare la condizione dell‘essere ―già sempre‖. La durata evoca anche un‘aspettativa sull‘esperienza futura; durare è persistere e la radice di ―durata‖ intende lo stesso in ―durevole‖, duro [duration, durable, hard]. C‘è qualcosa di etimologicamente perverso nel parlare di brevi durate. Nel 18 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 mondo materiale, se la durata è misurata attraverso il cronometraggio, deve conseguentemente essere vista come indistricabilmente connessa alla progressiva affermazione della tecnologia industriale occidentale. L‘orologio, dalle sue artigianali e (susseguenti) borghesi origini rinascimentali in avanti, ha funzionato politicamente come il primario strumento di disciplina e controllo sociale. Sia il tempo sia l‘esperienza che uno ha di esso, nelle società agrarie pre-industriali, aveva principalmente a che fare col quotidiano ciclo del dormire, risvegliarsi, nutrirsi e lavorare. Con strutture sociali più complesse si affermò un‘estesa imposizione della temporalità: cicli riproduttivi, cerimoniali e cicli religiosi, eventi annuali. La scoperta del calendario, dell‘astronomia, e l‘effettivo cronometraggio hanno sempre rappresentato un aspetto del controllo di stato. L‘esperienza soggettiva della durata era connessa, in queste società, all‘apparato sociale del rilevamento del tempo, ma non nel grado in cui nei secoli più recenti l‘industrializzazione e l‘invenzione dei lavori ha imposto il cronometraggio di stato sul soggetto. Fino al diciannovesimo secolo, per la maggior parte delle persone era sufficiente avere le proprie ore regolate da poche campane qui o là durante la giornata. La durata era largamente riferibile all‘esperienza di ognuno su base giornaliera; i tempi del giorno erano distribuiti secondo le funzioni regolatorie delle osservanze religiose. Pertanto, con l‘introduzione di un mercato di lavoro, e del pagamento ad ore, divenne necessario per il capitale di imporre calendarica ed orologica regolarità sulla forza lavoro. Come strumento di controllo e disciplina sociale, il cronometraggio venne rapidamente ed effettivamente adottato dai soggetti statali, come un concetto etico connesso all‘auto-disciplina dell‘attività lavorativa. Partendo dalla sua origine sociale, cioè, la misurazione temporale si fuse con la soggettiva qualità della durata. Interiorizzate, le misurazioni temporali trovarono il loro posto nell‘economia libidinale del soggetto. Nel suo rapporto col desiderare, la durata mobilita i desideri e le 19 Sul rappresentazionale memorie del soggetto individuale. Così, all‘alba dell‘industrializzazione, la durata venne trasfigurata in un‘ossessione borghese per l‘esperienza individuale, l‘introspezione ed il desiderio di mobilità sociale; quindi venne incorporata dalla letteratura romantica, dalle fissazioni sulla memoria personale e famigliare (fotografia), e dalla idealizzazione del tempo libero (―vacanze‖ ed escapismo nella musica o nel teatro). Successivamente, l‘industrializzazione consusse alla necessità d‘avere tabelle orarie per il coordinamento dei trasporti, con particolare riferimento a quelle riguardanti il trasporto ferroviario, in ordine di organizzare il flusso del traffico. Eppure, durante quasi tutto il diciannovesimo secolo, la regolazione del tempo in riferimento all‘ora o al minuto era comunemente variabile in modo sostanzioso da città a città; fino al 1883, mezzogiorno a Washington D.C. erano le 12:02 a Baltimora, le 12:12 a New York, le 12:24 a Boston, eccetera. Il trasporto marittimo esigeva requisiti anche più stringenti di quelli richiesti dalle ferrovie, per un cronometraggio calendarico accurato — non per evitare le collisioni, ma perché le distanze longitudinali, e conseguentemente l‘accuratezza delle carte marittime, poteva essere calcolata in un solo modo — misurando gli esatti tempi di orologio di due differenti punti sulla terra. Inevitabilmente, ciò significava che precise osservazioni astronomiche dovessero presiedere al sistema regolatorio del tempo d‘orologio. Le impronte sociali della durata e della scienza tracciano una significativa intersezione. Dai primordi, persino precedentemente all‘antica invenzione Pitagoriana dell‘espressione ―armonia delle sfere‖ — concetto che autorizzava l‘armonia a colonizzare il cosmo — l‘astronomia era la scienza che più avidamente era incline ad occupare e dominare il soggetto. L‘invenzione degli orologi durante il rinascimento espanse progressivamente la capacità di effettuare misurazioni del tempo dal calendarico reame dell‘astronomia verso misurazioni di tempi più brevi, infine giungendo (col metronomo di Maelzel) al territorio musicale del battito. Pertanto iniziò 20 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 un‘inversa colonizzazione dell‘armonia da parte del cosmo. Nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, si è verificata una concentrata colonizzazione del soggetto da parte della scienza; le nuove scienze composite come la psicologia fisiologica e la biofisica hanno tentato di ―spiegare‖ o razionalizzare l‘esperienza soggettiva. Il ruolo dell‘astronomia durante quest‘ultimo periodo è stato di imporre la statalmente regolata misurazione del tempo sulla durata. Supportati dall‘apparato politico dei sistemi ferroviari e telegrafici, gli astronomi poterono introdurre il sistema globale di minuziosamente accurate zone temporali e ―tempi standard‖ che oggi accettiamo senza riserve. Contemporaneamente, altri scienziati, guidati da Hermann von Helmoltz, categorizzarono la minuzia della durata soggettiva: i tempi di reazione, la ―persistenza della visione‖, la fisiologia dei riflessi, e centinaia di altri parametri riferibili alla psicologia percettiva a breve termine furono misurati, categorizzati e ―spiegati‖ entro la riserva esoterica del discorso scientifico. La colonizzazione della soggettività da parte del razionalismo scientifico affettò il pensiero artistico, prima attraverso i pittori del pointillisme e quindi più ampiamente nel ventesimo secolo, non appena la tecnologia permise un sempre più accurato controllo sui parametri temporali e percettivi sia della musica sia delle immagini. Durante gli anni sessanta, le durate estese furono introdotte nelle arti basate sul tempo (musica, teatro, cinema) come tentativi di detronizzazione delle forme convenzionali. Questi sfruttamenti di durate più lunghe sbatterono direttamente contro il razionalismo scientifico; essi attaccarono esattamente gli stessi topoi tecnologici, musica e cinema, che erano stati occupati a fondo dalla temporalità razionalistica, ma abbandonarono ogni pretesa razionalistica; l‘opera di lunga durata era precisamente, in questo senso, radicalmente soggettivista, anti-illuminista; le opere rappresentarono tentativi di ciò che stava per divenire il ―postmoderno‖. 21 Sul rappresentazionale È rilevante che l‘opera musicale chiave nella sfida della postura autoritaria del compositore fosse 4‘:33‖ di John Cage, un pezzo esplicitamente compreso in una sola durata. L‘interessato supporto anti-autoritario ed antiborghese (―contro-culturale‖) delle opere di durata estesa, nella meditazione, nella psichedelia, nel movimento hippie, nel Fluxus e nell‘Orientalismo, serve a rinforzare il fatto che la durata fosse un marker dell‘autoritarismo borghese dell‘età industriale. Le durate lunghe furono portate nel contesto artistico del Fluxus da La Monte Young, in particolare attraverso la sua composizione Arabic Numeral (Any Integer) to H.F. (1960). Questa fu seguita, durante la mia partecipazione al gruppo collaborativo Dream Music (1962-65), dalle nostra musica senza compositore dalla durata estesa. Il ―minimalismo‖ musicale inaugurò l‘uso di lunghe durate per rompere i limiti formali in altre forme — danza, performance art, teatro, e cinema. Le otto ore di film muto di Empire di Andy Warhol (1964) divennero, come nel caso di 4‘:33‖ di Cage, un‘opera nota a tutti, sebbene quasi nessuno avesse davvero assistito ad una sua effettiva proiezione. Fu, in effetti, una rappresentazione iconica della pura durata in forma filmica. Tuttavia, questi lavori di lunga durata non erano semplicemente iconoclastici. La loro implicita connessione con la controcultura delle droghe, della meditazione, e dell‘Orientalismo (presto resa esplicita nel caso di Warhol attraverso la sua sponsorizzazione dei Velvet Underground ed un sacco di film influenzati da Jack Smith) introdusse un paradosso fenomenologico all‘interno dell‘‖alta‖ cultura istituzionalizzata. Il paradosso si verificò attraverso il controbilanciamento della linearità soggettiva che occorreva quando il pubblico scivolava in ―stati alterati di coscienza‖: il sogno, la trance, la rêverie, la meditazione, e l‘assenza. Quando questo si verificava, gli spettatori e gli auditori trovavano che la loro esperienza delle durate era soggettivamente trasformata; la memoria e il ―presente‖ assumevano valori e velocità esperienziali che non erano comparabili con il razionale tempo d‘orologio. In breve, le 22 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 durate lunghe divennero dimostrazioni della non-linearità della durata esperibile. L‘uso delle durate lunghe aveva evidentemente un posto all‘interno dell‘ethos del modernismo artistico: come un reinquadramento della portata dell‘opera, come una manipolazione di dimensione o portata. Le relazioni formali erano gli strumenti del mestiere degli artisti minimalisti; Wittgenstein era ―un filosofo molto in auge tra i minimalisti‖ [John Perreault]. Pertanto, era facile per la critica, iniziando da una prospettiva analitica formalista, collegare le durate lunghe agli altri approcci astratti o formalisti. Di più: nel suo classico saggio modernista ―A, B, C, ART‖, Barbara Rose, descrivendo il minimalismo come in parte ―una reazione contro l‘autoindulgenza di una sfrenata soggettività‖, riassume il tutto parlando dell‘opera minimale come di un‘arte negativa del diniego e della rinuncia, cerca do di evocare, sembrerebbe, quel semi-ipnotico stato di vuoto di coscienza, della tranquillità insignificante e dell‘anonimità che sia i monaci e gli yogi Orientali sia i mistici occidentali, come Meister Eckhart e Miguel de Molinos, desideravano. Ella specificatamente suggerisce, in questo contesto, che ―il ‗continuum‘ della Dream Music di La Monte Young equivale nella sua infinitudine alla cosmologia Maya o Hindu‖, allo stesso tempo localizzando l‘uso di ―durate di tempo molto più lunghe di quelle alle quali siamo abituati‖ in Satie, e nelle sue allusioni religiose o metafisiche, in Mondrian e Malevič — questi archetipi dell‘astrazione formale che hanno preparato il modernismo ad un‘irruzione di valori spirituali nell‘esperienza artistica. I dipinti, non v‘è bisogno di dirlo, rappresentavano implicitamente eventi di lunga durata, anche se lo spettatore comunemente si intratteneva su di una tela solo pochi momenti. Ma l‘esplicito incorporamento di lunghe durate in forme ―temporali‖ come il film introdusse questa paradossale sospensione della presenza nel centro dei discorsi che erano stati strutturati per servire altri fini. A 23 Sul rappresentazionale differenza della pittura e della scultura, la musica ed il teatro si sono manifestati entro la cultura borghese come diversivi, come distrazioni dai problemi quotidiani — in effetti, si trattava di meccanismi di fuga. La musica occidentale era fondata sul principio della risoluzione sospesa, entro il calcolo dell‘armonia dominante. Il teatro occidentale ed anche il romanzo erano fondati sulle dinamiche di risoluzione del conflitto, sull‘avvincente capacità di tensione empatica. La ―trance‖ dei film teatrali era similarmente costruita sull‘investimento dello spettatore nella riduzione dell‘ansia; ma questa ―trance‖ non rappresentava l‘implementazione di compiacente tranquillità, di riposo meditativo; era una ―trance‖ costruita su invocazioni concatenate di brevi episodi, di eventi di breve durata. Quando le durate lunghe fecero la loro apparizione in questo contesto culturale; il loro shock dialogico fu immediatamente avvertito; esso giunse direttamente al nucleo dei presupposto della struttura culturale borghese. Le ragioni sociali della distrazione dello spettatore emersero immediatamente: il contesto culturale borghese era stato costruito sulla premessa che vi fosse una disperata brama, diffusa fra le persone appartenenti alla classe media, di liberazione dalla produzione di ansia che mobilitava le loro esistenze, e che loro potessero essere tentate a credere in questa risoluzione solo attraverso il consigliato acquietamento che una dispersione delle ansie in un ammasso di identificazioni fantastiche con immaginari conflitti e ripetute, successive sovrapposizioni ed intrecci avrebbero potuto fornire. La densa tappezzeria di protezioni fu strappata via dalla logica temporale minimalista delle lunghe durate. Al posto della distrazione offerta dalle ondulazioni di conflitto e risoluzione che aveva abitato gli spazi del teatro e della musica occidentale, il pubblico venne pesantemente confrontato con aspettative negate. Conflitto e risoluzione avevano in effetti ridotto il campo delle durate entro il contesto dell‘arte occidentale incentrandosi sull‘uso della distrazione: della ripetitiva 24 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 risoluzione conflittuale e del continuo uso di novità o variazione. Con le lunghe durate, il pubblico ritrovò se stesso immerso in un altro e quasi opposto sistema di anticipazione, un sistema catturato nell‘ordinato aperçu psicologico per cui una pentola osservata sembra non bollire mai. Questo ―mai‖ cattura pienamente il senso nel quale le lunghe durate non erano solo ―lunghe‖, ma implementavano un senso della durata che era anche più lungo di ―lungo‖. La durata, cioè, era smascherata come non-lineare, come paradossale; come capace di rovesciare lo stato psicologico dell‘aspettativa borghese. (Traduzione di Jacopo Valli) 25 Sul rappresentazionale Essere suono e luce di Jacopo Valli Essere suono e luce: nulla di sensazionalistico, o — tanto meno — mellifluo: è una questione fisiologica, fisica, e ontologica, quindi totalmente razionale (non nel senso di un razionalismo positivistico volgarizzato e pratico). Se noi è Essere e quest‘ultimo [ovvero noi, anche] è energia eternamente vibrante a diversi gradi di densità, è anche vero, non essendovi separazioni di piano ontologico tra i modi dell‘Essere [non essendo o potendo essere il Nulla], che noi è anche la luce visibile. «Noi è luce» : questa frase non vuole qui suonare simile alla posa di chi proclama: «Dio è amore», intendendo conferire un qualche limitante e definente attributo particolare e di natura del tutto umana e culturale ad un ni-ente, che pertanto particolari e tipici attributi avere non può. Intendo dire che la luce non è ciò che vediamo, o non solamente: noi vediamo i colori, e i colori sono fatti di pigmenti che assorbono e rigettano luce. E questo mi pare non sia differente dal fatto che noi è vibrazione materica, che però allo stesso tempo (sic!) si dà come Natura naturata, nei modi che noi siamo e possiamo vedere, annusare, ascoltare, toccare, in diversi modi e, magari, accordati in differenti tonalità, in differenti stati di coscienza. Se noi è fisicamente, matericamente luce, ha razionalmente e fisicamente senso dire che «l‘occhio è esso stesso luce» — e mi sovviene «l‘occhio in cui vedo Dio è lo stesso in cui Dio mi vede» di Meister Eckhart. 26 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Se il Nulla non è e tutto è Zero singolare-plurale [monismo come irriducibile pluralità modale e differenziazione orizzontale del molteplice perpetuamente, eternamente attuale-virtuale], non v‘è separazione di piano ontologico, e, pertanto, per esempio, come l‘aria è bloccata da un vetro ma è anche e allo stesso tempo il vetro; come la terra è ontologicamente anche cielo [che peraltro — bisognerebbe ricordarlo — non sta solo sopra ma anche sotto i nostri piedi], così la luce non s‘arresta sulla retina, o sulla palpebra chiusa, entrambe cose che sono ontologicamente se stesse, e, allo stesso tempo, anche la luce stessa, che non è Cosa. Considerando infine i corpi stessi come vibrazione energetica, come materia vibratile che è vibrazione materiale, potremmo iniziare ad osservarli non solo come sommatorie di organi inerti e attivi per forze esclusivamente meccaniche [cosa non errata in sé, e talora utile: basti considerare come tale piano di riferimento prospettico stia alla base della moderna medicina e chirurgia occidentale]: d‘altronde — ed è pleonastico ricordare come ciò sia scientificamente, e, più propriamente, medicalmente evidente —, in nervi ed organi transita corrente elettrica e si sviluppano reazioni chimiche, le quali trasformano la materia/energia. Il cervello non governa un corpo altro da sé; la mente è corpo; il sentire è continuo, senza cesure, e del corpo stesso; il corpo è modo dell‘Essere Ni-ente che È coincidente con lo stesso che non è Cosa: ancora una volta energia/materia; materia come materie/forze non da essa scisse o distinte; tensione, frequenza, vibrazione, perpetua ed eterna: luce e suono. Anche. 27 Sul rappresentazionale Immediatismo di Peter Lamborn Wilson C‘è un tempo per io teatro. Quando la fantasia di un popolo viene meno, sorge in esso la fantasia a farsi rappresentare sulla scena le sue leggende, esso sopporta allora i grossolani surrogati della fantasia — ma per quell‘età a cui appartiene il rapsodo epico, il teatro e il Fattore travestito da eroe sono un ostacolo invece che un‘ala alla fantasia: troppo vicini, troppo determinati, troppo pesanti, troppo poco sogno e volo d‘uccello. (Friedrich Nietzsche) Eppure certamente il rapsode, che qui appare essere indirettamente correlato allo shamano (―[...] sono e volo d‘uccello‖), deve anche essere considerato una sorta di medium o ponte stante tra ―un popolo‖ e la sua immaginazione. (Nota: useremo il termine ―immaginazione‖ talvolta nel senso di William Blake e talaltra nel senso di Gaston Bachelard, senza optare per una determinazione ―spirituale‖ o ―estetica‖, e senza ricorso alla metafisica). Un ponte trasmette (―traduce‖, ―metaforizza‖), ma non è l‘originale. E tradurre è tradire. Anche il rapsode fornisce un poco di veleno per l‘immaginazione. L‘etnografia, tuttavia, ci permette di affermare la possibilità di società dove gli sciamani non sono specialisti dell‘immaginazione, ma dove ogni individuo è un tipo speciale di sciamano. In queste società, tutti i membri (eccezion fatta per i fisicamente handicappati) agiscono come sciamani e bardi per se stessi e per le loro genti. Per esempio: certe tribù Amerinde delle Grandi Pianure svilupparono le più complesse di tutte le società di caccia/raccolta 28 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 piuttosto tardi nella loro storia (forse in parte grazie alla pistola e al cavallo, tecnologie adottate dalla cultura Europea). Ogni persona acquisiva completa identità e piena appartenenza a ―la Gente‖ solo attraverso il Rito della Visione, e nella sua messa in atto per la tribù. Perciò ogni persona diveniva un ―rapsode epico‖ nello scambio di questa individualità con la collettività. I Pigmei, tra le più ―primitive‖ culture, non producono né consumano la loro musica, ma divengono en masse ―la voce della foresta‖. Da un‘altra parte, tra le società agricole più complesse, come Bali all‘orlo del Ventesimo secolo, ―ognuno è un artista‖ (e nel 1980 un mistico giavanese mi ha detto: ―Ognuno deve essere un artista!‖). Il fine dell‘Immediatismo giace da qualche pate lungo la traiettoria grossolanamente descritta entro questi tre punti (Pigmei, Grandi Pianure, Bali), che sono tutti stati connesi al concetto antropologico di ―sciamanismo democratico‖. Gli atti creativi, essi stessi risultati esteriori dell‘interiorità dell‘immaginazione, non sono mediati e alienati quando sono trasmessi da ognuno per ognuno — quando sono prodotti ma non riprodotti — quando sono condivisi ma non feticizzati. Certamente, questi atti sono prodotti attraverso una mediazione di qualche tipo ed entità, poiché sono atti — ma essi non sono divenuti forse di alienazione estrema tra esperto/sacerdote/produttore da una parte e qualche sventurato ―inesperto profano‖ o consumatore dall‘altra. Differenti media conseguentemente mostrano differenti gradi di mediazione — e forse essi possono anche essere organizzati su tale base. Qui ogni cosa dipende dalla reciprocità, dal più o meno equivalente 29 Sul rappresentazionale scambio di ciò che potrebbe essere chiamato ―quanti di immaginazione‖. Nel caso del rapsode epico che media visione per la tribù, una gran mole di lavoro — o sogno attivo — rimane da compiere per gli uditori. Essi debbono partecipare immaginativamente all‘atto di raccontare/ascoltare, e debbono essi stessi evocare immagini dalla propria riserva di potenza creativa per completare l‘agire del rapsode. Nel caso della musica Pigmea la reciprocità diviene prossima alla massima forma di completezza, dacché l‘intera tribù media visione solo e precisamente per l‘intera tribù stessa; — mentre per il Balinese, la reciprocità assume un‘economia più complessa nella quale la specializzazione è altamente articolata, nella quale ―l‘artista non è un tipo peciale di persona, ma ogni persona è un tipo speciale di artista‖. Nel ―teatro rituale‖ di Voodoo e Santeria, ogni presente deve partecipare visualizzando i Loa o Orisha (archetipi immaginali), e richiedendone (con canti e ritmi appropriati) la manifestazione. Ogni presente può diventare un ―cavallo‖ o medium per uno di questi santos, le cui parole ed azioni assumono poi per i celebranti l‘aspetto della presenza degli spiriti (per esempio, la persona posseduta non rappresenta ma presenta). Questa struttura, che sta alla base del teatro rituale indonesiano, può essere presa come esemplare per la produzione creativa di ―sciamanesimo democratico‖. Al fine di costruire la nostra scala immaginativa per tutti i media, potremmo iniziare comparando questo ―teatro voodoo‖ col teatro europeo del Diciottesimo secolo descritto da Nietzsche. Più tardi, nulla della originaria visione (o ―spirito‖) è propriamente presente — tutto è ―mascherato‖. Non 30 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 ci si aspetta che alcun membro della compagnia o del pubblico si ritrovi improvvisamente impossessato (o anche solo ―ispirato‖ ad un certo grado) dalle immagini del drammaturgo. Gli attori sono specialisti o esperti della rappresentazione, mentre il pubblico è composto da ―profani‖ ai quali le immagini sono trasferite. Il pubblico è passivo, troppo è fatto per il pubblico, che invero sta immobile al buio ed in silenzio, immobilizzato dai soldi che ha pagato per questa esperienza delegata. Artaud, che realizzò tutto ciò, tentò di ripristinare il teatro rituale voodoo (bandito dalla cultura occidentale da Aristotele) — ma portò avanti il tentativo entro i limiti della struttura propria (attore/pubblico) del teatro aristotelico; egli provò a distruggerlo o a mutarlo dall‘interno. Egli fallì e impazzì dando avvio ad una serie di esperimenti che culminarono nell‘assalto del Living Theater alla barriera attore/pubblico, un effettivo assalto che tentò di forzare i membri del pubblico a ―partecipare‖ al rituale. Questi esperimenti produssero alcuni grandi momenti tetrali, ma tutti i profondi propositi fallirono. Nessuno riuscì ad abbattere l‘alienazione che Artaud e Nietzsche ebbero a criticare. Ciononostante, il teatro occupa maggior spazio nella scala immaginale di quanto non facciano gli altri e successivi media come il film. Almeno, nel teatro, gli attori ed il pubblico sono fisicamente compresenti nello stesso spazio, permettendo la creazione di ciò che Peter Brook chiama ―l‘invisibile catena d‘oro‖ dell‘attenzione e dell‘empatia tra attori e pubblico — la ben nota ―magia‖ del teatro. Col film, tuttavia, la catena è spezzata. Ora il pubblico siede solo al buio con nulla da fare, mentre gli attori assenti sono rappresentati da icone giganti. Sempre allo stesso modo indipendentemente dal numero di volte in cui 31 Sul rappresentazionale viene ―mostrato‖, fatto per essere riprodotto meccanicamente, privato di ogni ―aura‖, il film propriamente vieta al pubblico di partecipare — il film non ha bisogno dell‘immaginazione del pubblico. Certamente, il film ha bisogno dei soldi del pubblico, ed i soldi sono una sorta di residuo immaginale concretizzato, dopo tutto. Eisenstein farebbe notare che che il montaggio stabilisce una tensiona dialettica nel film che coinvolge la mente dello spettatore — intelletto ed immaginazione — e Disney potrebbe aggiungere (se fosse capace di ideologia) che l‘animazione aumenta questo effetto perché essa, in effetti, è completamente prodotta attraverso il montaggio. Anche il film ha la sua ―magia‖. Ci mancherebbe. Ma dal punto di vista della struttura abbiamo percorso una lunga via dal teatro voodoo allo sciamanesimo democratico — e siamo pericolosamente giunti nei pressi della mercificazione dell‘immaginazione, e dell‘alienazione delle relazioni di produzione. Abbiamo quasi del tutto licenziato la nostra capacità di volare, anche col sogno. I libri? I libri come media trasmettono solo parole — non suoni, visioni, odori o sensazioni tattili, tutte cose che sono lasciate all‘immaginazione del lettore. Bene... Ma non v‘è nulla di ―democratico‖ nei libri. L‘autore/editore produce, tu consumi. I libri interessano alla gente ―immaginativa‖, forse, ma tutta l‘attività immaginale di tale gente è passiva, e concerne il sedere soli con un libro, lasciando che qualcun altro racconti la storia. La magia dei libri ha qualcosa di sinistro in ciò, come si può dire della libreria di Borges. L‘idea della Chiesa di un indice dei libri proibiti probabilmente non si spinge abbastanza lontano — poiché in un certo senso tutti i libri sono condannati. Lo eros del testo è una 32 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 perversione — sebbene, tuttavia, una perversione alla quale noi siamo assuefatti, e della quale non abbiamo alcuna fretta di sbarazzarci. E per quanto concerne la radio, essa è chiaramente un medium di assenza — come il libro ma ancor di più, giacché i libri ti lasciano da solo alla luce; la radio, al buio. La più esacerbata passività dell‘‖ascoltatore‖ è rivelata dal fatto che gli iserzionisti paghino per gli spots radiofonici, e non per avere spots nei libri (o non così tanto). Tuttavia, la radio lascia una mole di ―lavoro‖ immaginativo all‘ascoltatore ben più grande di quella che, per esempio, la televisione lascia allo spettatore. La magia della radio: uno può usarla per ascoltare le radiazioni provenienti dalle macchie solari, le tempeste su Giove, il ronzio delle comete. La radio è fuori moda; in ciò giace la sua seduttività. Il predicatore radiofonico: ―Mettete le vostre maaani sulla radio, fratelli e sorelle, e sentite il potere cuuuratiiivo della ―Parola ―. Radio Voodoo? (Una simile analisi può essere fatta per la musica registrata: per esempio, essa è alienante ma non ancora alienata. I dischi hanno rimpiazzaro la musica amatoriale prodotta in famiglia. La musica registrata è ubiqua e troppo facile da reperire — al punto che che ciò che non è presente non è raro. E ancora molto v‘è da dire sui vecchi 78 giri scricchiolanti suonati dalle stazioni radio a notte fonda — un lampo d‘illuminazione che sembra balenare attraverso tutti i livelli di mediazione raggiungendo una paradossale presenza). È in questo senso che potremmo forse dare credito alla altrimenti dubbiosa affermazione: ―la radio è buona e la televisione è cattiva!‖. Poiché la televisione occupa l‘ultimo gradino della scala 33 Sul rappresentazionale riguardante media ed immaginazione. No, non è vero. La ―Realtà Virtuale‖ occupa un gradino ancor più basso. Ma la TV è il media al quale i situazionisti si riferiscono quando parlano di ―Spettacolo‖. La televisione è il media che l‘Immediatismo intende propriamente abbattere. I libri, il teatro, il film e la radio pertengono tutti a ciò che Benjamin chiamò ―la traccia utopica‖ (almeno in potentia) — l‘ultimo vestigio di un impulso contro l‘alienazione, l‘ultimo profumo di immaginazione. Ad ogni modo, la TV ebbe inizio cancellando anche quella traccia. Non sorprende che i primi broadcasters furono i Nazisti. La TV è per l‘immaginazione ciò che il virus è per il DNA. La fine. Oltre la TV giace solo il reame inframediale del non-tempo/non-spazio, dell‘instantaneità e estasi della CommTech, la pura velocità, il downloading di coscienza nella macchina e nel programma — in altre parole, l‘inferno. Ciò significa che l‘Immediatismo voglia ―abolire la televisione‖? No, certamente no — perché l‘Immediatismo vuole essere un gioco, non un movimento politico, e certamente non una rivoluzione col potere di abolire qualsivoglia medium. Il fine dell‘Immediatismo deve essere positivo, non negativo. Non sentiamo la vocazione ad eliminare qualche ―mezzo di produzione‖ (o anche di riproduzione) che potrebbe dopo tutto in qualche modo ricadere nelle mani della ―gente‖. Abbiamo analizzaro i media interrogandoci su quanto l‘immaginazione sia coinvolta in ognuno di essi, e sui rapporti di reciprocità implicati, esclusivamente al fine di rendere per noi stessi effettivi i più efficaci mezzi di risoluzione del problema delineata da Nietzsche e vissuto così dolorosamente da Artaud, il problema dell‘alienazione. Per questo fine, abbiamo bisogno di 34 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 una rozza gerarchia dei media, un mezzo per misurare il loro potenziale in relazione ai nostri fini. Volgarmente, quindi, più l‘immaginazione è liberata e condivisa, più il medium è servibile Forse non possiamo più invocare spiriti affiché ci posseggano, o viaitare i loro regni come gli sciamani facevano. Forse spiriti del genere non esistono, o forse siamo troppo ―civilizzati‖ per riconoscerli. O forse no. L‘immaginazione creativa, in ogni caso, rimane per noi una realtà — ed una realtà che dobbiamo sperare, anche nella vana speranza della nostra salvezza. (Traduzione di Jacopo Valli) 35 Sul rappresentazionale Materia e narratività di Jacopo valli La narrazione implica e presuppone la visione: non si dà narrazione senza immagini. Cionondimeno, le immagini, primariamente afferibili ad una dimensione presentazionale ed antenarrativa, non ne implicano necessariamente una narrativa. La narrazione si colloca al di fuori delle immagini, e nemmeno sembra essere indispensabilmente legata a determinabili [e simulacriche] condizioni culturali, sociali, storiche, ideologiche, benché necessaria sia ogni perpetua contestualizzazione materiale immanente, e fatale l‘ingerenza simbolica del linguaggio e del regime arbitrario di comune significanza dei termini, nel migliore dei casi sorvegliato da razionali tensioni critiche di ordine nominalista-convenzionalista. Christian Metz pone in questione la narratività in relazione al problema cinematografico, indicandola come esterna alle immagini ed organizzata secondo codici non specifici. Una tensione apologetica rispetto alla narrazione che tentasse di ricollocarla in un rapporto di determinatezza e corrispondenza immediata alle immagini attraverso l‘affermazione di una sintassi visiva, si risolverebbe nuovamente in un‘ambigua arbitrarietà rappresentazionale. La questione narrativa procede dal problema percezionale: Jean Mitry, più tardi ripreso da Deleuze, ragiona sul rapporto di complementarietà tra guardante e guardato, rivelandosi affine ad un punto di vista semi-soggettivo per cui il guardante è assieme al guardato; prospettiva che si produce in un gioco di rifrazioni ricusanti la tensione ordinante e 36 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 significante imposta oggettività/soggettività. dalla dialettica Quel che costantemente si schianta sulla retina (e in aiònica immanenza, cosa divide immaginemovimento e immagine-azione?) non è irrimediabilmente Altro; e la materia, che È, coincide con una formalità/sostanzialità che è senso senza averne, e che non necessariamente implica significanza. A differenza del dato narrativo, ritengo che l‘atto percettivo sia anche immanente alle immagini, alla datità materiale, che è assieme del guardante e del guardato. La questione percezionale, e, di lì, significantenarrativa travolge tutta la materia, che è tutto come cantoriana molteplicità inconsistente che ―l‘Essere‖ come Ni-ente che è, È. Quindi, anche tutti i grafemi e fonemi, e, più generalmente, anche i suoni, stanati e/o manipolati: Ahata Nāda e Anāhata Nāda; il canto dei cardellini siberiani e le incandescenti modulazioni di Coltrane; lo stormire veemente delle piogge tropicali e le trasmutazioni armoniche di Murail o i clangori e nastri trattati di Asmus Tietchens. Senza dualizzanti cesure (se Nāda è Brahmā che è Ātman che è Māyā che è Brahmān — tautologicamente). Interessante è rilevare come, debellate la limitazione significante-narrativa e la dicotomia oggettività/soggettività, anche la questione dell‘alienazione prodotta dai media, sollevata da Lamborn Wilson in relazione all‘Immediatismo e particolarmente diretta al medium televisivo, venga destituita, o almeno depotenziata. Ogni medium è dispositivo avente ―il suo regime di luce‖; tuttavia, materialmente e per le ragioni sopraesposte, l‘individuo intrattenente una relazione 37 Sul rappresentazionale col medium non è insanabilmente Altro da esso ed indispensabilmente da esso diretto e gestito, ordinato: sovvengono il Video Buddha di Nam June Paik, e le sperimentazioni di Grifi e Baruchello, in qualche modo intessute con le esperienze DADA, surrealiste, Bauhaus, che io ritengo germinalmente afferibili a sistemi, o strategie mistico-sapienziali dove in gioco sono una Natura naturans ed una Natura naturata finalmente ad un tempo indivise ed irriducibili a monolitica rappresentazione umiliante; dove l‘Essere stesso, che È senza essere Cosa, è il possibile caotico non superiore alle singole parti o alla loro somma, ma già da/per sempre con ognuna di esse coincidente. Nessuna pregiudiziale costrizione; nessuna vergogna. 38 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Sulla visione di Stan Brakhage Immaginate un occhio non governato dalle umanamente prodotte leggi della prospettiva, un occhio non pregiudicato dalla logica composizionale, un occhio che non risponde al nome di ogni cosa ma che deve conoscere ogni cosa incontrata nella vita attraverso un‘avventura di percezione. Quanti colori ci sono in un prato, per il bambino gattonante non avente la nozione di ―Verde‖? Quanti arcobaleni può creare la luce, per l‘occhio inistruito? Quanto, quell‘occhio, può essere consapevole delle variazioni interne alle onde calde? Immaginate un mondo vivo di oggetti incomprensibili sfavillante in un‘infinita varietà di movimento ed innumerevoli gradazioni cromatiche. Immaginate un mondo prima dello ―In principio era il Verbo‖. Vedere è trattenere — osservare attentamente. L‘eliminazione di tutta la paura sta nella vista — alla quale bisogna tendere. Una volta che la visione può essere consegnata — cosa che sembra inerente all‘occhio dell‘infante, un occhio che riflette la perdita d‘innocenza più eloquentemente di ogni altra caratteristica umana, un occhio che impara presto a classificare le visioni, un occhio che rispecchia il movimento dell‘individuo verso la morte attraverso la sua aumentante incapacità di vedere. Ma non è mai possibile tornare indietro, nemmeno nell‘immaginazione. Dopo la perdita d‘innocenza, solo il culmine della conoscenza può bilanciare il traballante asse. Ancora: io suggerisco vi sia un perseguimento della conoscenza straniero al 39 Sul rappresentazionale linguaggio e fondato sulla comunicazione visuale, necessitante uno sviluppo della mente ottica, e dipendente dalla percezione intesa nel senso più profondo ed originario del termine. Supponete la Visione del santo e dell‘artista come frutto di un‘incrementata capacità di vedere-visione. Permettete alla cosiddetta allucinazione di accedere al reame della percezione, permettendo all‘umanità di trovare sempre una terminologia derogatoria per ciò che non sembra prontamente utilizzabile; accettate le visioni oniriche, diurne o notturne, come ciò che voi indichereste come cosiddette scene reali, anche permettendo che le astrazioni che si muovono così dinamicamente quando teniamo saldate le palpebre chiuse siano davvero percepite. Divenite consapevoli del fatto che non siete solo influenzati dal fenomeno visuale sul quale siete focalizzati e provate a sondare le profondità di tutta l‘influenza visuale. Non è necessario che l‘occhio della mente sia indebolito dopo l‘infanzia, eppure ancora in questi tempi lo sviluppo dell‘apprendimento visuale è più o meno universalmente trascurato. Questa è un‘età che non ha altro simbolo per la morte che il teschio e le ossa ad un certo grado di decomposizione... Ed è un‘età che vive nel terrore della totale annichilazione. È un tempo infestato da sterilità sessuale eppure quasi universalmente incapace di percepire la natura fallica di ogni distruttiva manifestazione di sé. È un‘età che cerca artificialmente di proiettare se stessa materialisticamente nello spazio astratto e di realizzare se stessa meccanicamente poiché ha reso se stessa quasi completamente cieca alla realtà esterna entro la sua capacità visiva e alla consapevolezza organica delle proprietà fisiche di movimento della sua stessa percettibilità. 40 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 I primi disegni rupestri scoperti dimostrano che l‘uomo primitivo aveva una più alta comprensione di quanto non abbiamo noi circa il fatto che l‘oggetto della paura debba essere oggettivizzato. L‘intera storia della magia erotica è una storia di possesso della paura attraverso la sua osservazione. Il cumlmine della ricerca visualizzativa è stato diretto verso Dio al di fuori della più profonda capacità di comprensione umana circa il fatto che non possa esservi amore dove c‘è paura. Eppure, in questa contemporaneità, quanti di noi addirittura lottano per accorgersi profondamente dei propri figli? L‘artista ha trascinato la tradizione della visione e della visualizzazione attraverso le epoche. Nel presente, pochissimi hanno continuato il processo di percezione visuale nel suo senso più radicale e trasformato le loro ispiriazioni in esperienze cinematiche. Essi creano un nuovo linguaggio reso possibile dall‘immagine in movimento. Essi creano dove la paura prima di loro ha creato la più grande necessità. Essi sono essenzialmente ossessionati da- e s‘intrattengono con- nascita, sesso, morte e ricerca di Dio. (Traduzione di Jacopo Valli) Postilla sul visionario chiaroveggente Di Jacopo Valli Come colui che sa di non sapere ancora lascia in vita l‘Altro, almeno nella presenza della sua assenza Così colui che vede non ancora è libero dalla duale alterità oggettuale Come colui che sa di non sapere cogniuntamente sapendo che nulla d‘Altro v‘è Così colui che invero vede sa di essere il suo stesso vedere, la stessa sua visione attiva, che Altro da vedere non v‘è. 41 Sul rappresentazionale Cinema come cognizione: osservazioni preliminari di Paul Sharits Premessa: v‘è la possibilità di sintetizzare vari, o addirittura contradditori concetti di percezionecoscienza/conoscenza-senso in un modello sistemico unificato e aperto (auto-riorganizzantesi), attraverso un‘analisi rigorosa ed accurata dei più fondamentali livelli di ciò che io chiamo ―cinema‖. Bisogna guardare ―al di sotto‖ del livello di utilizzo del cinema (le sue tipiche funzioni di ―documentazione‖ e ―narrazione‖) verso le sue infrastrutture, verso le sue particelle significanti elementari. I film devono esser fatti in modo da amplificare le infrastrutture generali del cinema. Tale operazione è insolita in quanto, da un lato, bisogna (speculativamente) analizzare il cinema — costruendo modelli micromorfologici di struttura/funzione — in modo da ricostruire il cinema stesso. Due implicite sub-premesse sono ―ciberneticamente‖ legate l‘un l‘altra. Primariamente: il cinema è sistema concettuale; secondariamente: vi è un senso sommerso afferibile ai livelli materialiprimari (―supporto‖) dell‘apparato cinematografico. In quest‘ottica, sia il tipo di analisi ―strutturalista‖ (anti-fenomenologica) proposta da Lévi-Strauss, sia l‘analisi ―fenomenologica‖ proposta in precedenza da Husserl, devono essere in qualche modo interfacciate per quanto improbabile possa sembrare. Dopo svariati anni di coinvolgimento con la pittura, dai primi anni fino alla metà del 1960, ho poi abbandonato questo sistema, poiché non mi sembrava essere sufficientemente complesso per 42 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 un‘indagine filosofica generalizzata. La temporalizzazione di ciò che io chiamo ―segni‖ nel cinema e l‘ironia ri-rappresentazionale della proiezione del film-segno (la ―granulosità‖ che si vede sullo schermo primariamente significa la granulosità stessa dell‘emulsione della pellicola e solo successivamente significa, indicativamente, formazioni iconiche afferibili a precedenti spazio– tempi) presta all‘impresa filmica un corredo di caratteristiche che ricordano i processi della conoscenza umana. Quando il cinema è visto nel modo che propongo, la sua analisi diventa così difficile e complessa da richiedere un team di ricerca investigativa che adoperi gli strumenti della linguistica, della matematica, dell‘informazione, della teoria, dello strutturalismo, della fenomenologia, della psicofisiologia, della cibernetica, dei sistemi generali e della semiologia (incluse le sue implicazioni psicoanalitico-politiche). Lo studio di una qualsiasi di tali materie è necessariamente l‘ossessione di una vita ed io non ho pretese di aver pienamente compreso nemmeno una di queste. Cionondimeno sono più interessato al pensiero di certe figure come Wittgenstein, Peirce, Husserl, von Bertalanffy, Chomsky, Saussure e Derrida piuttosto che a certi storici o critici dell‘arte. Non è sempre stato così, ma, dal 1971, ho considerato l‘‖arte‖ meramente come strumento, conveniente strumento, per generare un corpo di lavori filmici che fosse proposizionale (piuttosto che formale o espressionale). Mi è stata posta la domanda: «Da quando l‘Arte Concettuale impiega svariate note scritte, è, per lei, l‘uso del film un sostituto del linguaggio scritto o una semplice ―registrazione‖ delle sue performance fisiche?» («Questa domanda è probabilmente più utile per gli Artisti Concettuali che fanno film. Ma è difficile definire la sua posizione tra artista e 43 Sul rappresentazionale filmmaker. Non trova?») [lettera da Ester Carla de Miro d‘Ajeta, Università di Genova, Italia]. Poiché ho imparato la forma, e rispetto il lavoro di entrambi questi ―gruppi‖, mi risulta complicato rispondere alla domanda. Nonostante il fatto che i miei lavori più filosoficamente inquadrati, dal 1971 in avanti — spogliati delle strutture psicologico-drammaticoemozionali e delle ―tattiche formaliste‖ dei miei lavori dal 1965 al 1971 — siano stati meglio accolti in contesti di gallerie d‘arte museali piuttosto che in contesti di arte teatrale (―film-making‖), non guardo a me stesso sia come ―film-maker‖ che come ―artista che fa i film‖; piuttosto, guardo la mia attività come prototeoretica e mi considero un artigiano del cinema infrastrutturale. Se i miei modelli proposizionali falliscono nell‘equivalere ad oggetti filosofici, allora sono, dovrei sperare, ponderati documenti analitici di rappresentazione temporalizzata. Ad ogni modo, in tutta umiltà, sono particolarmente grato al mondo delle gallerie-museo per avermi fornito le più fruibili ubicazioni, entro le quali, i miei più ambiziosi display proposizionali potessero funzionare. Secondo me, il modo teatrale lineare-direzionale-finito dello schermo filmico è strutturalmente antitetico rispetto alle più generali previsioni che avrei voluto progettare. Eppure, molti dei miei lavori sono fatti per questo modo di studio spazio temporale, proprio come le mie frasi ed i miei discorsi hanno la loro sequenzialità, e inizi e fini; ma, questi lavori, come le mie frasi ed i miei discorsi, sono solo frammenti, frammenti che, in una prospettiva eventuale, dovranno sincronicamente riflettersi vicendevolmente e quello che è deflesso verso l‘esterno, attraverso questo indubbiamente fallace sistema paradigmatico, equivarrà forse alla definizione di cognizione. Innecessario specificare che una buona parte di ciò che costituisce il paradigma non saranno singoli o molteplici film proiettati ma anche diagrammi, film 44 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 come oggetti, linguaggi scritti e qualsiasi altra cosa fosse necessaria a formare l‘unione e l‘interruzione tra i lavori proiettati, cosa che permetterà loro d‘esser letti da altri. Le mie esibizioni ―locazionali‖ possono essere pensieri di un microcosmo concernenti il tipo di paradigma che ho proposto. In uno spazio ―galleria– museale‖ posso mostrare insieme non solo l‘esito di un‘indagine (un film o un frammento di svariati continuanti, riciclanti, film variazionali-permutazionali in-relazione-l‘un-l‘altro) ma l‘intera intenzione e processo creativo che ha formato il/i film/s (l‘infrastrutturale ―Blow Up‖). In uno spazio approssimativo chiunque può osservare: graffi che hanno generato il film; film come oggetto (visto come nastri fisici serialmente arrangiati ed incapsulati in fogli di Plexiglass); la proiezione della mia mia analisi del suddetto film oggetto. Potrebbero anche esserci, a seguire, diagrammi e disegni riguardanti le risultante dell‘indagine. Il critico di ―mentalità estetica‖ potrebbe trovare una tale simultanea presentazione di concetti, sconcertante o fastidiosa, poiché egli rifiuta di collocare il significato di tale presentazione in un oggetto o in una gerarchia d‘oggetti ed anche perché la riflettività sincronica delle parti implica l‘intendere l‘intenzionalità come un problema. Ad ogni modo, il critico, può facilmente ignorare il design paradigmatico dell‘esibizione e godere nell‘osservare gli elementi del sistema come oggetti discontinui. Questa lettura [del film-oggetto], tradizionale ed estetica, è in qualche misura comprensibile; Eppure, così come ho tentato di spiegare in queste note, è la logica paradigmatica ad essere coinvolta nella tipologia di film che mi interessa. 45 Sul rappresentazionale Sono interessato alle domande che possono suggerire non domande come ―Cosa costituisce uno scatto?‖ o ―Che codice è impiegato nella ―funzione zoom‖?‖, ma domande profonde, riguardanti la particella granulare, il fotogramma e la sua durata, l‘otturatore e la sua rotazione ed altre unità infrastrutturali dell‘informazione, la significanza e il senso. (Traduzione di Jacopo Valli e Gerardo Moscariello) 46 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Errormanzia: glitch come divinazione di Kim Cascone [...] divinare con gli aspetti dell‘aria, la direzione dei venti, gli arcobaleni, gli aloni lunari, le nuvole, le immagini che si delineano nelle nuvole, le visioni aeree. (Heinrich Cornelius Agrippa) Per la mente umana, il glitch è un artefatto non voluto, un‘interruzione momentanea dell‘atteso comportamento da parte di un sistema guasto. In un istante esso cambia la relazione tra l‘utente e quel sistema. Un glitch instilla sospetto, indicando che il sistema è inaffidabile, corrotto, inattendibile. Questa è la visione più comunemente conservata dalla mente mentale-razionale, una coscienza prodotta dal vivere in una società meccanicistica tecnologica. Attraverso una forma di trattamento shock, siamo stati allenati ad entrare in panico quando qualcosa non va per il verso giusto. Dopo aver appreso gli elementi fissi di un sistema, impariamo a reagire a questi eventi intrusivi richiamando un elenco di suggerimenti risolutori, rapportandoli al problema sperando che uno di essi possa risolverlo. Agli albori della storia dei media digitali, quando la scienza della correzione degli errori era nella sua infanzia, gli artisti scoprirono che i glitches potevano molto spesso produrre splendidi artefatti. E pertanto, più o meno come avveniva per la tecnica del ―cutup‖, che essi potevano dar luogo a nuove 47 Sul rappresentazionale giustapposizioni apparentemente senza logica. Come se fossero invocate o evocate da un tiro di dadi. Ma la fortuna è una severa signora che appare solo quando se la sente; così, piuttosto che attendere che i glitches si verificassero, i content creators collezionarono e forgiarono accuratamente imitazioni di glitches — rendendole disponibili come presets, plug-in, e clips in librerie multimediali. I falsi glitches poterono ora essere richiamati in ogni momento attraverso la semplice pressione di un pulsante. Come risultato della sua facilità di riproduzione, il glitch proliferò come un elegante simbolo di disfuzione tecnologica, evocante un futuro distopico dove il controllo della macchina fosse finito male. Il glitch ha inoltre il beneficio aggiunto di rendere l‘operatore un tecnico sofisticato, un cyber-artist agente ai limiti estremi della tecnologia. Attraverso il suo abuso diffuso, da pubblicità televisive di profumi a remixes elettronici trendy, il glitch è stato neutralizzato, reso inefficace come effetto. È divenuto un tag di genere su iTunes. Per contro, alcuni artisti usano il glitch non come artefatto ma come medium per prestigiare o divinare. Sapendo che un glitch si serve parassiticamente di un sistema come condotto per la consegna di inaspettata saggezza, essi si servono del glitch come dispositivo per la divinazione. Errormante When You cut into the present the future leaks out. (William Burroughs) 48 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Per la mente medievale un dispositivo divinatorio agiva come un medium attraverso il quale le profezie, i presagi e le benedizioni arrivavano: esso non produceva tali messaggi autonomamente, di per sé. La divinazione era un modo per vedere nel regno al di là del mondo naturale, un mondo nascosto alla maggior parte degli individui e considerato vivo ed intelligente. La mente medievale non vedeva l‘universo come azionato da forze meccaniche, ma dalla sottile triangolazione di ―metalli, nebulose e stelle‖. La superficie splendente di una lastra per la cristallomanzia, il fioco tremolio di una torcia in una camera buia, il nebuloso interno di una sfera di cristallo — questi dispositivi agivano come ricevitori, trasportando frammenti di saggezza da una realtà atemporale, non-spaziale, non-manifesta: il reame superno del mundus imaginalis. Nelle mani dell‘artista adatto, il glitch può dar luogo a una breve rottura nel continuum spaziotempo, ridistribuendo lo spazio psichico dell‘osservatore, permettendo all‘artista di stabilire un diretto contatto col reame superno. Questa connessione è un potente strumento per qualsiasi artista, poiché permette la creazione di nuove permutazioni, combinazioni, residui e palinsesti. Coordinate decomposte [...] c‘est aujourd‘hui le territoire dont les lambeaux pourrissent lentement sur l‘étendue de la carte. (Jean Baudrillard) 49 Sul rappresentazionale Il glitch può fare di più che agire come dispositivo di divinazione, aprendo momentaneamente un portale sul reame superno — i glithces possono essere accumulati come data points ed essere usati come coordinate su di una mappa. I glitches possono fornirsi come dati accidentali, deformi parole chiave, etichette recise, geroglifici criptati. Ogni successivo glitch aiuta più in là a definire il precedente constantemente affinando un confuso fulcro. Un cluster di glitches può delineare un contorno, definire un‘area, tracciare una strada attraverso uno spazio inesplorato. Questo spazio è uno ―spazio potenziale‖ n-dimensionale ed i glitches possono essere utilizzati per navigarlo, scovando inaspettati patterns e fortuite giustapposizioni, svelando contenuti subliminali. È molto facile quando si opera con nuovi strumenti multimediali riempire dischi rigidi di files sonori, sessioni di lavoro su worksations audio digitali, foto e video da fotocamere digitali, esperimenti Photoshop, illustrazioni e disegni, et cetera. Cartelle in cartelle di versioni, revisioni, studi ed esperimenti scartati. Siccome si tratta solo di dati possiamo modellarne il contenuto come uno spazio o terreno fisico. Navigare questo spazio coi glitch può aiutare a scoprire un‘essenza, una venatura nascosta nei dati — più o meno come una bacchetta da rabdomante è utilizzata per scovare sacche d‘acqua sotto terra. Operare coi glitches può modellare un sentiero attraverso questo terreno, tracciare un approccio, formulare un‘obliqua strategia. 50 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Piuttosto che usare una preconfezionata idea dimensionale di come un glitch appaia o suoni, gli artisti dovrebbero utilizzare strumenti che permettessero loro di evocare glitches aprendo il processo di scopertà alla probabilità — senza intenzionalità. In altre parole, questi strumenti funzionerebbero come l‘I-Ching per Cage o la Oblique Strategy di Eno piuttosto che come un deterministico e ripetibile/ripetitivo effetto prodotto ad arte dai content creators. Quando si usano questi strumenti per navigare lo spazio della possibilità è importante ricordare che l‘artista lavora solo sul piano meccanico o fisico. In ordine di operare al massimo potenziale, ogni opera d‘arte deve essere sviluppata su tre livelli: il mentale, l‘inconscio e il fisico. L‘uso di uno di questi senza gli altri rende l‘opera incompleta ed inadatta a fornire il massimo potenziale disponibile all‘artista. Usati assieme, essi possono agire come un potente conduttore creativo e di prestigiazione simbolica. (Traduzione di Jacopo Valli) 51 Sul rappresentazionale Errormanzia nonduale di Jacopo Valli Monisticamente, risulta essere dualizzante fallo considerare la presenza effettiva di un ―reame superno‖, di diversi livelli esperienziali (fisico, mentale e — sic! — inconscio), di alterità disconnesse — seppure connettibili — non integrate, e, in ultimo, coincidenti ad un unico piano: potenza dell‘Essere, ―spazio potenziale‖. Cascone parla di divinazione, sebbene in senso creativo e non di certo superstizioso. Egli parla anche di prestigiazione, e, più precisamente, di prestigiazione simbolica. Ora, contro ogni dualismo, il mundus imaginalis sopra evocato non è Altro, superno o infero come vi fossero un sopra e un sotto — divergenti —, propriamente meta-fisico: esso non si dà fuori dal mondo che È, che pure ognuno di noi, individui, È, al di là di ogni dipartizione. E nemmeno sussiste e rimane un‘interiorità, alla fine dell‘interiorità: così svaniscono scissioni tra livelli e piani, che pure permettono il riaffacciarsi di retromondi essenziali fallaci, proiettivi e gerenti, come anche l‘inconscio sarebbe. S‘è il corpo che È, e il pensare, razionale o irrazionale, è della mente, che è corpo, che è mondo: che È. Specialmente interessante è il ricorso all‘espressione ―prestigiazione simbolica‖, che — mi pare — ben si integra anche in una visione nonduale, che, contro ogni ingerenza verticale, si desse come dissacratoria, profanatoria rispetto al simbolico, 52 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 riconsegnando ogni simbolo al suo essere originariamente arbitrario segno (questione greve, questa, se si pensa a quanto una dinamica esteticopolitica come quella situazionista della deprivazione simbolica, rovesciante, pervertente ma non ancora radicalmente decostruente il simbolico, sia finita nelle maglie stesse del Recupero spettacolare), e segno il cui aspetto, la cui datità materiale è già anche significata nella propria materialità a/significante stessa, potenziale. Distrutta ogni valenza originale ed univoca corrispondenza, il glitch, l‘errore, la disfunzione, nemmeno più è tale. Liberato il territorio dai restrittivi vincoli cartografici, ri- disvelata è la potenza stessa, quel potenziale stesso, che, attraverso inversioni, rotture, cambi di prospettiva imprevisti, immanenti, desiderati e/o fortuiti, creati ad arte o evocati (ancora: indotti o scovati), si rende a sé, al proprio usarsi, rivelando/si incostretta e splendente — come gli specchi d‘ossiana aztechi di John Dee; o sangue di bove sulle tele di Hermann Nitsch; come scorza di etrog giudaico; o radica d‘ebano di violoncello bolognese: è lo stesso. 53 Sul rappresentazionale Collocazione rappresentazionale dell‘opera d‘arte di Jacopo Valli Sono necessarie contestualizzazione e ricostruzione storica in funzione della comprensione di un‘opera o di un autore? Certamente, possono essere importanti o tornare utili, per ragioni eminentemente cronicistiche, o afferibili a eventuali intenzionalità ―autoriali‖; tuttavia, la questione storica ed il contesto particolare sfumano, se e quando la questione si fa ontologica e fenomenologica. Le opere sono altro rispetto ai loro autori, che non sono autori, ma mediatori della materia che sono attraverso la materia che sono, che È. E può inoltre darsi che un ―autore‖ sia mosso da intenzionalità inattuali, da desiderio estetico secessionista rispetto non tanto al suo tempo (suo? Di chi? Quale?), ma al tempo Kronos stesso: questo è di colui che Zolla chiamava il Classico: colui che è mosso da odio del tempo. È una questione proiettiva, e così, in arte — semmai l‘arte fosse una cosa — non v‘è evoluzione, vettorialità cronologica, ma trasformazione: ancorché specialmente le avanguardie credano e vogliano il contrario [ma le amate avanguardie si fottono in partenza, se tendono alla ri-costruzione: se distruggere è già anche costruire, perché ri-costruire? La programmaticità, la tensione ideale castra e reinnesta in una rappresentazione limitante, in una forma chiusa. E se con Adorno non v‘è cultura che non sia critica, e critica anche verso se stessa; e se con Malraux l‘arte attiene al regno della trasformazione della forma e non a quello della sua eternizzazione; e 54 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 se pure, stando a Lyotard, il Postmoderno non è il Moderno alla sua fine, ma il Moderno al suo inizio — mi viene da dire —, nella sua presenza trasformatrice, distruttrice del preteso immutabile ed ideale; allora, al di là del godimento estetico individuale, che non ha restrizioni, ritengo massimamente interessanti le avanguardie nel loro momento distruttore, negativo — oserei dire genuinamente avanguardistico —, che nondualisticamente ed antidialetticamente intenderei già anche positivo]. Proiettiva è anche ogni visione della Storia come avente una ragion d‘essere fondata all‘origine (posizione teontologica), o come risultato (posizione nondimeno teologica). E le storie? Esse stanno nella misura delle prospettive e dell‘erranza — nei due sensi del verbo errare — del ricordo; erranza che testimonia l‘impossibilità, direi ontologico-neurofisiologica, di portare a termine anche una semplice pretesa biografica o autobiografica; impossibilità che è anche dei ritratti, dopo Matisse; impossibilità che, riconosciuta, apre la strada alla borgesiana sincerità della finzione, che non si prende per verità essendo appunto vera finzione, gioco e giocherellante anamorfosi. La natura? La vita? Ancora proiezioni. Rimane ora la questione materiale: il problema dello spazio e delle attese (penso a Fontana) viene da me sovente considerato in termini nonduali. Pensare ad un lavoro sullo spaziotempo come liberazione della materia da se medesima, è inganno manifesto. Lo spirito, l‘idea [che non può darsi in sé], hanno una loro materialità, non scissa dalla materia che È. Lo spazio come l‘Essere stesso e l‘Attesa, nella loro/sua materialità, come presenza dell‘assenza — 55 Sul rappresentazionale per dirla con Guattari — che si soddisfa da sé, blanchottianamente, sono la materialità stessa, liberata dal giogo formale trasferitole dall‘alto, per finzione volontaristico-rappresentativa ideale. Non v‘è, né può esservi, ontologicamente, una cadaverica staticità: semmai è defunta la staticità come cadaverica [gli dèi nascono dalla separazione dualistica, fallace, delle forze, che parimenti in sé non esistono, dalla materia, per dirla con Artaud]. Ora, se vita, natura, tempo, spazio e uomo non si danno in sé? Interessante circa il rapporto materia/autore/opera è il resoconto che dà il compositore Franco Donatoni in Antecedente X, dove l‘Antecedente non è che accidentale e l‘opera non è mai davvero opera e non si dà che in modo incompiuto [o — direi — compiuto nella incompiutezza ad essa immanente e con essa coincidente: incompiutezza che è la stessa potenza in atto del Molteplice che È. Donatoni usa il termine ―Dono‖ al posto di ―Opera‖: io sospetto in lui un uso batailliano, o, meglio ancora, blanchottiano del termine; tuttavia, preferisco evitare tale termine per le sue implicazioni immaginali cronologiche e gerarchiche. E mi differenzio da Donatoni anche in una valutazione del razionalismo che si insedia là dove lui indica ciò che rimane superate le pretese iper-razionalistiche (questo è secondo me un residuale fallo dualistico, cartesiano — anche —, pure per ciò che implica il problema dell‘intuizione, e, quindi, dell‘Altro, rispetto al quale concordo con l‘Adorno della Metacritica della teoria della conoscenza: eppure, un riferimento esplicito di Donatoni è Baudrillard, il quale sentenzia che Chaos e ragione non sono invero diametralmente contrapposti)]. 56 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Finalmente: contrariamente a Croce, ritengo che l‘arte non necessariamente sia simbolica, poiché, nondualisticamente, ritengo possa darsi anche un‘arte che sia Essere rappresentante se medesimo, e, quindi, sim-bolo di sé: ma attraverso sé prodotto: quindi, immagine, o immagine di immagine, o icona senza immagine ovvero icona di sé senza Altro e senza fondo che non sia già ―lì‖ presente in uso presso il suo stesso usarsi che è l‘Essere stesso che È. Ancora: non credo che l‘opera d‘arte sia fatta per essere vista, né che tale debba necessariamente essere: semmai, essa sta nel vedere, ma/e non è che debba essere vista, né vista da questi o da questi altri, né che debba — in definitiva — qualcosa. E se per noi non esiste che ciò che osserviamo, è anche vero che ciò non significa che non esistano altre cose: se uno crepa, finisce lui, finisce il suo mondo, e finisce anche il mondo come fine senza fine che è l‘Essere che È: ma nulla finisce nel Nulla, che non può darsi; e non è che prima della mia fine non finissero cose che io non avevo visto e che peraltro erano con me extramodalmente coincidenti. E questa parzialità è infinita, è il Tutto: non v‘è un vero e proprio Resto, e nemmeno persiste la sua mancanza, la presenza di quell‘assenza di Resto. 57 Sul rappresentazionale Sulla complessità di Brian Ferneyhough Non v‘è necessaria e sufficiente relazione tra questi due termini [complessità ed intricatezza]. La complessità è una risultante funzione dell‘interazione di connessi ma distinti aspetti, mentre l‘intricatezza è, nella migliore delle ipotesi, un possibile indizio rivolto verso una certa alleanza. Solo qualora assumessimo l‘altamente dubitabile affermazione per cui gli oggetti intricatamente modellati rivelano complessi regimi interni di riferimento, potrebbe, la relazione di cui sopra, sussistere. Per contro, certi livelli di lavoro dettagliato potrebbero in ultimo dar luogo a complesse o ambigue appercezioni [...]. La compelessità mi pare caratterizzata dalla sua passiva ambiguità di importazione (e con ciò non intendo fornire alcun giudizio di valore a riguardo); le strutture complesse, d‘altra parte, tendono ad una attiva proiezione di molteplicità (nel senso che incorporano alternative e concorrenti traiettorie come costituenti contraddizioni denuncianti un essenziale elemento della loro sostanza espressiva). Chiaramente, la reazione ai fenomeni riduttivi può risultare essere altamente differenziata; ciò che viene evocato da complesse costellazioni può, allo stesso modo, essere piatto ed indifferenziato. È la difficoltà una modalità della comunicazione? Chiaramente la è, almeno nella misura in cui è percepita come tale, ed è perciò distinta da alternativi modi d‘organizzazione. V‘è una particolare texture o 58 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 sostanzialità nella lentezza della comprensione attraversata dal mercuriale raggio scansionale che non è riproducibile altrimenti. La natura disgiunta del sonetto in Mallarmé è un buon esempio a riguardo, come lo sono (nei loro modi molto differenti) le vivaci tessiture semantiche di Tender Buttons di Gertrude Stein, o le infinitamente prolisse ripetizioni dei suoi ultimi testi, come Ida o gran parte di The Making of Americans. In Mallarmé, come nella più aforistica Stein, la complessità risiede nella sensazione di istantaneità fornita dalla (taciuta) elisione, l‘ultima tendenza corrodente le momentanee fioriture della memoria contro le infinitamente rinviate espansioni dello spazio semantico. Entrambi gli aspetti — aforistico e discorsivo/permutazionale — della scrittura della Stein hanno esplicitamente a che fare con la nozione di velocità, sia in riferimento al ―naturale grado di fioritura‖ implicato da particolari materiali che in riferimento ai mezzi attraverso i quali l‘autore incoraggia il lettore a deviare significativamente da queste implicate norme. Tutto ciò può essere del tutto vero anche per la musica, ed essa rappresenta uno dei miei interessi. In ogni caso, una distinzione dovrebbe essere fatta tra difficoltà ed oscurità. Un testo può ad un tempo essere alquanto convenzionale nella sua struttura (per esempio, un sonetto), ed opporsi alla comprensione in ragione della mancanza di chiarezza di significato dei termini impiegati. Oppure, il contenuto semantico manifesto del testo potrebbe essere oscuro perché investente diversi significati a livelli sensibilmente differenti [...]. In questi casi, la complessità della situazione giace al di fuori dell‘oggetto, almeno in parte. Essa implica il parziale intrecciarsi di diversi campi di produzione significante. La difficoltà, per me, è qualcosa che è 59 Sul rappresentazionale anche essenzialmente relazionale per natura, ma che si sviluppa a partire dalla interazione di piani di ordinamento, che, in misura preponderante, sono immanenti al lavoro. (Traduzione di Jacopo Valli) 60 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Bibliogarfia, sitografia e riferimenti accessori essenziali BIBLIOGRAFIA Adorno Theodor W. Metacritica della teoria della conoscenza, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni 2004 Agrippa Enrico Cornelio La filosofia occulta o la magia. Vol. 1: La magia naturale, Edizioni Mediterranee, Roma 1972 Artaud Antonin Eliogabalo o l‘anarchico incoronato, Adelphi, Milano 1991 Bataille Georges La parte maledetta – La nozione di dépense, Bollati Boringhieri, Torino 2003 Battcock Gregory Minimal Art: A Critical Anthology, E.P. Dutton & Co. , New York City 1968 Baudrillard Jean Parole Chiave, Armando Editore, Roma 2002 Baudrillard Jean Simulacre et simulation, Éditions Galilée, Paris 1981 Brakhage Stan Metaphors on vision, Anthology Film Archives, New York City 1976 Burroughs William S. Breakthrough in the Grey Room, Sub Rosa, Bruxelles 1986 (album) Juliet Charles 61 Sul rappresentazionale Conversations with Samuel Beckett and Bram Van Velde, Dalkey Archive Press, Champaign 1995 Croce Benedetto Breviario di estetica – Aesthetica in nuce, Adelphi, Milano 1990 Deleuze Gilles Cinema. Vol. 1: L‘Immagine–movimento, Ubulibri, Roma 1993 Deleuze Gilles L‘Île déserte et autres textes, Éditions de minuit, Paris 2002 Donatoni Franco Antecedente X, Adelphi, Milano 1980 Eckhart (Meister) Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 1985 Ferneyhough Brian Collected writings, Harwood Academic Publishers, Amsterdam 1995 Hyppolite Jean Écrits, Editions du Seuil, Paris 1966 Leopardi Giacomo Zibaldone di pensieri, Mondadori, Milano 2004 Lyotard Jean–François La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 2002 Mallarmé Stéphane Sonetti, SE, Milano 2002 Malraux André Antimémoires, Gallimard, Paris 1972 62 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Metz Christian Semiologia del cinema: saggi sulla significazione del cinema, Garzanti, Milano 1972 Nietzsche Friedrich Wilhelm Opere filosofiche, Utet, Torino 2002 Richter Gerhard Ohne Farbe, Harje Cantz, Ostfildern 2005 Rilke Rainer Maria Elegie duinesi, Feltrinelli, Milano 2006 Stein Gertrude Ida, Yale University Press, New Heaven 2012 Stein Gertrude The making of americans, Dalkey Archive Press, Champaign 1995 Peter Lamborn Wilson (Hakim Bey) The Radio Sermonettes, The Libertarian Book Club, New York City 1992 Zolla Elémire Che cos‘è la tradizione, Adelphi, Milano 1998 SITOGRAFIA Conrad Duration, 2004, in tonyconrad.net Sharits Cinema as Cognition: Introductory Remarks, 1975, in mikehoolboom.com The Hermetic Library hermetic.com 63 Sul rappresentazionale RIFERIMENTI ACCESSORI ESSENZIALI AMM 1966: AMMMUSIC, 1966 Autechre Quaristice, 2008 Borges Jose Luis Finzioni, Adelphi, Milano 2003 Brakhage Stan Glaze of Chatexis, 1990 Brakhage Stan Reflections on black, 1955 Cabaret Voltaire The Crackdown, 1982 Can Tago Mago, 1971 Cascone Kim cathodeFlower, 1999 Cascone Kim / Scanner The crystalline address, 2002 Coil Musick to play in the dark, Vol. 1, 1999 Coil Time Machines, 1998 Coltrane John A love supreme, 1965 Coltrane John Meditations, 1966 64 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Conrad Tony Fifty–one years on the infinite plain, 1972–2013 Daumal René La gran bevuta, Adelphi, Milano 1985 Duchamp Marcel La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-23 Ferneyhough Brian Lemma–Icon–Epigram, 1982 Ferneyhough Brian Mnemosyne, 1986 Fontana Lucio Concetti spaziali. Attese Gong Camembert Electrique, 1971 Grifi Alberto / Baruchello Gianfranco Verifica incerta, 1964 MacLise Angus The cloud doctrine Malevič Kazimir ―Quadrato nero su sfondo bianco‖, 1915 Matisse Henri Intérieur à la fougère noire, 1948 Matisse Henri Liseuse sur fond noire, 1939 Michaux Henri Brecce, Adelphi, Milano 1984 Mondrian Piet 65 Sul rappresentazionale Composition 8, 1914 Mondrian Piet Zomer, Duin in Zeeland, c.1910 Murail Tristan Désintégrations, 1982 Newman Barnett Untitled 2, 1948 Nurse With Wound Ostranenie 1913, 1983 Oliveros Pauline / Dempster Stuart / Panaiotis Deep listening, 1989 Paik Nam June TV Buddha, 1974 Pink Floyd Ummagumma, 1969 Richter Gerhard Grau, 2006 Richter Gerhard Sils, grau, 2003 Rothko Mark Untitled, 1969 Satie Erik Gymnopédies, 1888 Satie Erik Vexations, 1893 Sharits Paul Epileptic seizure comparison, 1976 66 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 Sharits Paul N.O.T.H.I.N.G. , 1968 Sharits Paul Tails, 1976 Skrjabin Aleksandr Nikolaevič Sinfonia n. 4 op. 54 – Le poème de l‘extase, 1905–08 Tietchens Asmus Former Letzter Hausmusik, 1984 Velvet Underground, The The Velvet Underground & Nico, 1967 Velvet Underground, The White Light/White Heat, 1968 Vijñābhairava, Adelphi, Milano 1989 Warhol Andy Empire, 1964 Wire 154, 1979 Wou–Ki Zao Sans titre, 1968 Young La Monte Arabic Numeral (Any Integer) to H.F. , 1960 Young La Monte The tortoise, his dreams and journeys, 1964–present Young La Monte The Well–Tuned Piano, 1964–73–81–present. Gli autori 67 Sul rappresentazionale Stan Brakhage, Kansas City, 14 gennaio 1933 — Victoria, 9 marzo 2003. Èstato un regista statunitense, considerato uno dei maggiori e più influenti filmakers sperimentali del XX secolo. Il suo primo film, Interim, è del 1952. Gradualmente, i suoi film si discostano sempre più dal racconto tradizionale, e la maggior parte dei suoi lavori sono in pellicola 8mm o 16mm, che spesso egli usava trattare dipingendo a mano o graffiando direttamente l‘emulsione, o, qualche volta, ricorrendo a tecniche di collage. Dal 1969 ha insegnato storia ed estetica del cinema presso l‘Art Institute of Chicago e dal 1981 presso l‘Università del Colorado. Kim Cascone, 21 dicembre 1955. È un compositore, sound artist, musicista, professore e scrittore americano. Nel 1989 diviene assistant music editor per il regista David Lynch. Ha rilasciato più di quaranta albums di musica elettonica ed elettroacustica dal 1984, ed ha collaborato con figure quali Merzbow, Keith Rowe, John Tilbury, Tony Conrad, Scanner, Pauline Oliveros. Vive nella San Francisco Bay Area con sua moglie Kathleen e suo figlio Cage. Tony Conrad, 1940. È un video-artista, filmaker, musicista/compositore, sound artist, professore e scrittore americano legato agli ambienti dell‘avanguardia e della sperimentazione. I primi lavori video e le prime performances di Conrad risalgono agli anni settanta. È stato membro del Theatre of Eternal Music, noto anche come The Dream Syndicate, assieme a John Cale, Angus MacLise, La Monte Young, and Marian Zazeela. È professore presso la State University of New York. Brian Ferneyhough, Coventry, 16 gennaio 1943. È un compositore inglese generalmente associato al movimento della New Complexity. Di formazione sostanzialmente autodidatta, dalla fine degli anni sessanta ha frequentato spesso i corsi estivi di Darmstadt, dove ha partecipato 68 Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly Anno 2, Numero 6 come docente dal 1976, e dal 1984 al 1994 è stato nominato coordinatore dei corsi di composizione. Jean Hyppolite, Jonzac, 1907 — Parigi, 1968. È stato un filosofo francese, conosciuto per la sua difesa del lavoro di Hegel e di altri filosofi tedeschi, e per aver contribuito alla formazione di alcuni tra i più eminenti pensatori del periodo post–bellico. Nel 1939 pubblicò la prima traduzione in francese della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Dopo la guerra divenne professore all‘Università di Strasburgo, dove scrisse Genesi e struttura della ―Fenomenologia dello Spirito‖ di Hegel (1947) prima di spostarsi alla Sorbona nel 1949. Nel 1952, Hyppolite pubblicò Logica ed esistenza, un lavoro che avrebbe avuto grande influenza su quello che sarebbe divenuto famoso come Postmodernismo. Peter Lamborn Wilson (Hakim Bey), New York City, 1945. È un filosofo, anarchico, saggista, poeta e scrittore statunitense, conosciuto principalmente come primo propositore del concetto delle Zone Temporaneamente Autonome (TAZ), basate sulla rivisitazione storica delle Utopie Pirata. A volte scrive sotto lo pseudonimo di Hakim Bey. Ha passato due anni in India, Pakistan e Afghanistan e sette anni in Iran (dove divenne un affiliato dell‘Accademia Iraniana Imperiale di Filosofia), che lasciò durante la Rivoluzione islamica. Nel 1980 le sue idee evolsero dal Guenonismo neo–tradizionalista a una sintesi di anarchismo e situazionismo con mistioni di sufismo e neopaganesimo. Descrive le sue idee come ―anarchismo ontologico‖ o ―immediatismo‖. Paul Sharits, Denver, 7 febbraio 1943 — Buffalo, 8 luglio 1993. È stato un artista visuale. Noto soprattutto per la sua attività di filmaker sperimentale, viene comunemente associato al movimento dello structural film accanto a figure come quelle di Tony Conrad, Hollis Frampton e Michael Snow. Un tempo allievo di Stan Brakhage alla 69 Sul rappresentazionale School of Art della University of Denver, è stato professore presso il Maryland Institute College of Art, l‘Antioch College, e la University at Buffalo (The State University of New York). Jacopo Valli, Mantova, 1985. Dopo il diploma di maturità linguistica, si iscrive alla facoltà di scienze giuridiche, senza portare nulla a conclusione; quindi, si iscrive al DAMS col medesimo esito; infine, si iscrive a filosofia, senza nemmeno considerarsi studente. Forse entrerà al conservatorio. Stacanovista dell‘ozio e del non-fare, manierista dell‘inconcludenza e dell‘in-disciplina, intenderebbe riuscire a circondarsi fino alla morte della compagnia di cose belle e piacevoli, senza dover ricorrere alla sottomissione al lavoro. Si intrattiene con diversi strumenti e non-strumenti musicali, e forse a breve aprirà un piccolo studio di registrazione personale. Colleziona dischi, ma non per venderli o tenerli sotto chiave. Tra le altre cose, odia le scarpe da ginnastica, i maglioni azzurri, e la gerarchia. Tra le altre cose, ama i velluti, i profumi all‘ambra grigia, e la psichedelia. Col progetto Geometric Horsehair, concepito come flessibile ed antigerarchico, indugia in un lavoro concettuale, gnostico razionale, che si esprime attraverso le diverse cosiddette forme artistiche. Ha pubblicato alcuni lavori ―poetico-speculativi‖ tra cui Vajra e Chaosmografie. Coredige, dal 2012, la rivista on line ―Kasparhauser‖. Non crede nemmeno al suo nome, ma si concede d‘usarlo. 70