La rivoluzione iraniana ed il regime degli ayatollah
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La rivoluzione iraniana ed il regime degli ayatollah
La rivoluzione iraniana ed il regime degli ayatollah “Lo scià deve andarsene! Non aspettate, non rimandate, non dormite! Lo scià deve andarsene!” Quando Khomeyni pronunciò queste parole la prima volta sembravano l’espressione di un folle. Al momento opportuno però la gente se le ricordò e lo seguì. Il 1° febbraio 1979 Ruhollah al Musavi Al Khomeyni scese dall’aereo che lo riportò nel suo paese dopo anni di esilio forzato. L’Iraq prima e Parigi poi furono la sua casa da quando nel 1963 in appoggio agli attacchi alla “scellerata” politica filo occidentale dello Scià il paese si era sollevato in 5 mesi di proteste. Dall’Europa Khomeyni aveva continuato la sua opposizione al sovrano colpevole a suo giudizio della svendita del paese all’Occidente decadente e di una politica spietatamente repressiva. In effetti fin dal colpo di stato del ’53 con il quale aveva stretto a se il potere, lo Scià Mohammed Reza Pahlavi tentò di indirizzare l’arretrato Iran verso una modernizzazione a tappe forzate. Il suo sogno di una “grande civiltà” si frantumò in seguito al sollevamento del popolo tutto nel 1978, guidato dapprima da intellettuali laici e democratici e poi ostaggio della minoranza mussulmana guidata dai chierici che vedevano possibile la realizzazione di una teocrazia. Questi infine ebbero la meglio e già l’11 febbraio 1979 venne approvato tramite referendum la nuova costituzione che trasformò l’Iran da monarchia a repubblica islamica. A poco a poco le libertà personali, specie quelle delle donne, vennero strette da una rigida osservanza alle leggi del corano: a vigilare i Pasdaran, un corpo di polizia creato per controllare che la morale islamica non venisse compromessa, con ogni mezzo. Rapidamente il nuovo regime rivoluzionario fece proprie le armi di terrore del deposto Scià, eliminando con processi sommari non solo gli uomini del precedente regime, ma anche chiunque venisse solo sospettato di “eccessiva occidentalizzazione”. Khomeyni non fu un conservatore: mai in precedenza il clero islamico era uscito dalle moschee per detenere il potere. Egli fu semmai un rivoluzionario che incarnò in se il Velayat, governo, e-Faghih, del saggio, un neologismo che in pratica significava il potere di veto della Guida Suprema sull’insieme degli organi eletti e non eletti del paese. La piramide di potere del nuovo regime seguiva con il “Consiglio dei Guardiani della rivoluzione”, l’”Assemblea degli Esperti” ed il “Consiglio per i Pareri di Conformità”, tutti organi tramite i quali Khomeyni esercitò il proprio potere di veto sugli unici eletti, il parlamento ed il presidente della Repubblica, ruolo attualmente ricoperto da Mahmud Ahmedinejad. Il sogno dell’Ayatollah Khomeyni e dei suoi sostenitori era di riscattare gli sciiti, corrente nata ribelle alla maggioranza sunnita, perseguitata e trucidata nell’antichità in tutto il mondo islamico, portandoli finalmente al potere. In senso lato però l’anziano chierico vedeva nel nuovo regime un’occasione di forte rinascita dell’Islam nel Mondo che portasse i popoli oppressi ad insorgere contro i tiranni: in questo il rivoluzionario pensiero era permeato da filosofie marxiste estranee al mondo mussulmano. Il vuoto di potere in seguito alla rivoluzione venne conteso in uno scontro fratricida in cui furono soprattutto i democratici e gli intellettuali a farne le conseguenze: osteggiati prima dallo Scià che scorgeva nei loro intelletti troppo attivi dei pericoli al proprio potere assolutista, vennero in seguito schiacciati dall’ala violenta dei ferventi islamici, aiutati in questo dai Tudeh, comunisti che li consideravano pericolosi filo-occidentali. Successivamente quest’ultimi vennero a loro volta sopraffatti dalla feroce offensiva dei seguaci di Khomeyni, le cui epurazioni toccarono anche le persone a lui più vicine, come l’amatissimo Ayatollah Taleghani e lo stesso futuro “delfino” Montazeri, tuttora rinchiuso nella sua casa a Qom, città santa dello sciismo. Fin dalla rivoluzione il nuovo regime chiuse l’Iran in un guscio al di fuori del Mondo. L’odio per il Grande Satana, gli Stati Uniti, portò un gruppo di studenti nel novembre del 1979 a prendere d’assalto il “covo di spie”, l’ambasciata americana. Seguirono 444 giorni di prigionia per i 66 impiegati, rilasciati solo in piena guerra con l’Iraq grazie ad accordi sottobanco per una fornitura di armi. La guerra con il vicino Iraq fu l’occasione per il neo regime di stringere le maglie della censura. Gruppi di Basiji, poco più che carne da macello, si lanciavano in attacchi suicidi contro la meglio armata milizia irakena, imitando l’eroico martirio di Husseyn, terzo imam sciita trucidato assieme alla famiglia nel deserto di Karbala dai sunniti nel sesto secolo. Grazie a questo clima di fervore patriottico la teocrazia si impose a pieno diritto nella vita dei cittadini: letteratura e pensiero occidentale decadente vennero messi al bando, le donne scomparvero, ingabbiate nella loro nera prigione del chador, che se prima esibivano in segno di sfida alle leggi dello Scià, sotto il “governo del saggio” divenne un mero strumento politico di controllo. Khomeini sostenne: ”dichiareremo fuori legge tutti i partiti, tranne forse i pochi che si comporteranno in maniera corretta”. Alle parole seguirono i fatti. La fine della guerra con l’Iraq e la morte di Khomeyni nel 1989 diedero un duro colpo al regime teocratico. Oggi l’Iran è un paese abitato al 70% dai figli e nipoti dei rivoluzionari di allora. Il paese, antico di duemila cinquecento anni, non si è annichilito nell’involuta ideologia dei suoi teocrati, ma ha conservato spinte intellettuali vivissime, arricchite dalle numerose comunità iraniane nel Mondo che testimoniano a gran voce le falle della propaganda di regime. Oggi ciuffi ribelli, unghie dipinte e vesti sempre più succinte sottolineano la lenta, ma ineluttabile emancipazione delle donne che formano la maggioranza degli studenti universitari. Il desiderio delle libertà fondamentali dell’uomo (espressione, culto, eguaglianza fra i sessi…) spesso si trasforma in eccessiva e inefficace emulazione dell’Occidente. Sotto la presidenza Khatami (1997 – 2005) il paese ha vissuto anni di speranza per una reale riforma in senso democratico dello Stato e nonostante la recente vittoria elettorale degli ultraconservatori, la parabola khomeynista è oggi in piena fase calante.