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Steve Hamilton
Combinazione
mortale
Traduzione di
Tania Spagnoli
Titolo originale:
The Lock Artist
Copyright © Steve Hamilton 2010
All rights reserved
Tutti i personaggi di questo romanzo sono frutto dell’immaginazione dell’autore.
Ogni riferimento a persone realmente esistite è puramente casuale.
http://narrativa.giunti.it
© 2013 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia
Prima edizione: gennaio 2013
Ristampa
Anno
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2016 2015 2014 2013
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Un altro giorno rinchiuso in prigione
Forse vi ricordate di me. Pensateci bene. Estate 1990. So che è stato
un bel po’ di tempo fa, ma le agenzie di stampa si impadronirono
della notizia e finii su tutti i giornali del paese. Se non avete let­
to la storia, ne avrete probabilmente sentito parlare. Da uno dei
vostri vicini, da un collega di lavoro o, se siete più giovani, da un
compagno di scuola.
Mi chiamavano «Miracle Boy». Mi affibbiarono anche altri no­
mi, inventati da redattori o speaker in competizione tra loro. In
uno dei vecchi ritagli di giornale trovai «Bambino Prodigio». E in
un altro lessi «Bambino del Terrore», sebbene all’epoca avessi solo
otto anni. Ma fu Miracle Boy a imporsi.
I giornali parlarono di me per due o tre giorni, ma anche quan­
do le telecamere e i cronisti passarono ad altro, la mia rimase una di
quelle storie che non si dimenticano facilmente. Eravate dispiaciuti
per me. E come non esserlo? Se allora avevate figli piccoli, li avrete
abbracciati più forte. Se invece eravate bambini, avrete dormito
male per una settimana.
Alla fine tutto quello che potevate fare era augurarmi il meglio.
Avrete sperato che mi rifacessi una vita. Avrete sperato che in
qualche modo il fatto di essere così piccolo mi avrebbe salvato,
rendendo le cose meno orribili. Che sarei riuscito a superare la
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faccenda, magari perfino a lasciarmi tutto alle spalle. A differenza
degli adulti, i bambini sanno essere adattabili, flessibili e resistenti.
Comunque è quello che avrete sperato se vi siete fermati un atti­
mo a pensare a me come persona e non solo come a una giovane
faccia sul giornale.
All’epoca la gente mi inviò lettere e cartoline. Alcune conte­
nevano disegni fatti da bambini. Mi auguravano ogni bene. Mi
auguravano un futuro felice. Qualcuno cercò perfino di farmi vi­
sita nella mia nuova casa. A quanto pare, vennero a cercarmi a
Milford, Michigan, pensando che bastasse fermare una persona
qualunque per strada e chiedere dove potessero trovarmi. Cosa
volevano esattamente da me? Probabilmente pensavano che avessi
una specie di potere speciale, visto che ero sopravvissuto a quella
giornata di giugno.
Di quale potere si trattasse, o cosa credevano potessi fare per
loro, non riuscivo neanche a immaginarlo.
Cosa accadde negli anni successivi? Sono diventato grande. Ho
iniziato a credere all’amore a prima vista. Ho provato a fare alcune
cose, e se mi riuscivano bene si rivelavano sempre cose totalmente
inutili o totalmente illegali. Questo spiega in parte perché adesso
indosso un’elegante tuta arancione, e perché l’ho indossata ogni
giorno negli ultimi nove anni.
Non credo faccia bene stare qui. Né a me né a nessun altro.
Tuttavia è paradossale che la cosa peggiore che abbia mai fatto,
sulla carta almeno, sia l’unica che non rimpiango. Per niente.
Nel frattempo, fino a quando starò qui, mi sono detto: che dia­
mine, ripenserò a quello che è successo. Metterò tutto per iscritto.
Anche perché, se decido di farlo davvero, è l’unico modo che ho
per raccontare la mia storia. Non ho altra scelta visto che come
alcuni di voi già sapranno, o forse no, di tutte le cose che ho fatto
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negli ultimi anni ce n’è una in particolare che non ho mai fatto.
Non ho pronunciato una sola parola ad alta voce.
Questa è tutta un’altra storia, certo. C’è una cosa che in tut­
ti questi anni mi ha costretto al silenzio. Che da quel giorno è
rinchiusa dentro di me. Non riesco a liberarmene. Non riesco a
parlare. Non riesco a emettere alcun suono.
Sulla pagina, tuttavia… è come se fossimo seduti da qualche
parte in un bar, solo io e voi, a fare una lunga chiacchierata. Sì, mi
piace. Voi e io seduti in un bar, semplicemente a chiacchierare. O
meglio, io a parlare e voi ad ascoltare. Che bello sarebbe. Voglio di­
re, se voi ascoltaste davvero. Perché ho notato che la maggior parte
delle persone non sa ascoltare. Credetemi. Di solito aspettano solo
che l’altro si zittisca per ricominciare a parlare. Ma voi… diavolo,
sarete dei buoni ascoltatori, proprio come me. Ve ne starete seduti
lì, a pendere dalle mie labbra. Quando arriverà la parte peggiore
terrete duro insieme a me e aspetterete che mi tiri fuori dai guai.
Non mi giudicherete, così su due piedi. Non dico che mi perdo­
nerete del tutto. Sono assolutamente sicuro di non essere riuscito
a perdonarmi del tutto neanche io. Ma almeno sarete disposti ad
ascoltarmi fino alla fine e proverete a capirmi. È tutto ciò che posso
chiedere, no?
Il problema è: da dove iniziare? Se parto dalla storia strappa­
lacrime sembrerà che voglia giustificare tutto quello che ho fatto.
Se inizio con la parte peggiore penserete che sono una specie di
criminale nato. Mi considererete spacciato prima ancora che io
abbia avuto la possibilità di difendere la mia causa.
Quindi, se a voi non dispiace, salterò di palo in frasca. La storia
del mio primo vero lavoro andato in porto. Cosa si prova a crescere
come Miracle Boy. Come tutto è successo nella stessa estate. Co­
me ho incontrato Amelia. Come ho scoperto il mio fatale talento.
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Come mi sono messo sulla cattiva strada. Magari, sapendo tutto
questo, deciderete che non potevo fare altrimenti. Magari pense­
rete che avreste fatto esattamente lo stesso.
L’ unica cosa che non posso fare è iniziare da quella giornata di
giugno del 1990. Non posso ripartire da lì. Non importa quanto gli
altri si siano sforzati di convincermi – e, credetemi, molti di loro
ci hanno provato davvero in tutti i modi… Non posso iniziare da
lì perché già adesso mi sento soffocare. A volte, l’unica cosa che
riesco a fare è continuare a respirare. Magari un giorno, scrivendo,
riuscirò a tornarci sopra e penserò tra me e me: okay, oggi è il gior­
no giusto. Oggi puoi affrontarlo. Ormai sei pronto. Ripensa solo
a quel giorno e lascialo volare via. Hai otto anni. Senti un rumore
fuori dalla porta. E…
Maledizione, è ancora più difficile di quanto pensassi.
Ho dovuto fare una piccola pausa, alzarmi e camminare un po’,
non che da queste parti si possa andare molto lontano. Sono
uscito dalla cella e ho attraversato l’area comune. Sono entrato
nei bagni e mi sono lavato i denti. C’era un ragazzo nuovo, uno
che ancora non sapeva niente di me. Quando mi ha salutato, ho
capito che dovevo fare attenzione. Non rispondere a una perso­
na può essere considerato scortese, all’esterno. In prigione può
essere preso addirittura come una mancanza di rispetto. Se mi
fossi trovato in un posto davvero brutto, probabilmente adesso
sarei morto. Persino qui, in questo luogo, per me la vita è una
sfida continua.
Ho fatto quello che facevo sempre. Due dita della mano destra a
indicare la gola, poi il gesto del taglio. Da qui non esce una parola,
amico. Nessuna mancanza di rispetto. Ovviamente sono soprav­
vissuto, visto che sto ancora scrivendo.
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Mettetevi comodi, perché questa è la mia storia se siete pronti
ad ascoltarla. Un tempo ero il Miracle Boy. Poi divenni il Muto
di Milford. Il Golden Boy. Il Giovane Fantasma. Il Ragazzo. Lo
Scassinatore. Il Mago delle Serrature. Ero sempre io.
Ma voi potete chiamarmi Mike.
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Fuori Philadelphia
Settembre 1999
Così eccomi qui, sulla strada per il mio primo vero lavoro. Da
quando ero partito da casa avevo viaggiato per due giorni di se­
guito. La vecchia motocicletta aveva ceduto proprio dopo aver
attraversato il confine con la Pennsylvania. Non sopportavo l’idea
di abbandonarla lì, sul ciglio della strada, dopo tutto quello che
mi aveva dato. La libertà. La sensazione di poter montare in sella
e lasciarmi tutto alle spalle. Ma quali altre cavolo di alternative
avevo?
Recuperai le borse e sollevai il pollice. Provate a fare l’autostop
senza parlare. Forza, provateci almeno una volta. Le prime tre
persone che si fermarono non sapevano proprio come gestire la
cosa. Non importava quanto fosse carina la mia faccia o quanto
potessi sembrare sfinito dopo tutti quei chilometri. Non ho mai
smesso di stupirmi per come la gente va in tilt di fronte a un uomo
che sta sempre in silenzio.
Così ci misi un po’ a giungere a destinazione. Due giorni dalla
chiamata, dopo un sacco di problemi e complicazioni. Ma alla
fine arrivai, stanco, affamato e lercio. Come fare subito una bella
impressione.
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Si trattava della Banda Blu. Ragazzi che il Fantasma aveva defi­
nito tranquilli e affidabili. Non il top del top, ma dei professionisti.
Anche se a volte erano un po’ bruschi. Come molti newyorchesi.
Questo era tutto ciò che mi era stato detto di loro. Il resto lo avrei
scoperto da solo.
Si nascondevano in un piccolo motel a un solo piano fuori Mal­
vern, in Pennsylvania. Avevo visto posti peggiori, ma immagino
che chiunque restando rinchiuso lì dentro per qualche giorno si
sarebbe depresso. Soprattutto cercando di mantenere un profilo
basso, ordinando pizza invece di uscire, facendo avanti e indietro
con la bottiglia in mano invece di vedere cosa avevano da offrire i
bar della zona. Qualunque fosse la ragione, non sembravano molto
felici quando arrivai.
Erano solo in due. Non mi aspettavo di trovare una banda tal­
mente sguarnita, ma così era. Dividevano la stessa stanza, il che,
sono sicuro, contribuiva al malumore. L’ uomo che venne ad aprire
la porta doveva essere il capo. Era calvo e sovrappeso di una decina
di chili, ma sembrava abbastanza forte da potermi lanciare dalla
finestra. Parlò con un marcato accento newyorchese.
«Chi sei?» Mi guardò dall’alto in basso per cinque secondi, poi
capì. «Aspetta un attimo, sei il ragazzo che stiamo aspettando?
Entra!»
Mi spinse dentro e chiuse la porta.
«Mi prendi in giro, vero? È uno scherzo?»
L’ altro uomo era seduto al tavolo, di fronte a una mano di pin­
nacolo. «Chi è il ragazzo?»
«Questo è lo scassinatore che stavamo aspettando. Ti rendi
conto?»
«Cos’ha, dodici anni?»
«Quanti anni hai, ragazzo?»
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Sollevai dieci dita, poi altre otto. Avrei compiuto diciotto anni
quattro mesi dopo, ma pensai: accidenti, c’eravamo quasi.
«Hanno detto che non parli molto. Suppongo dicessero la verità.»
«Perché cazzo ci hai messo così tanto?» chiese l’uomo al tavolo.
Il suo accento era molto più forte di quello del compagno. Talmen­
te forte che sembrava uscito da un vicolo di Brooklyn. Nella mia
mente lo soprannominai Brooklyn. Tanto ero certo che non avrei
mai saputo i loro veri nomi.
Sollevai il pollice muovendolo lentamente.
«Hai dovuto fare l’autostop? Mi stai prendendo in giro?»
Alzai le mani. Non avevo scelta, ragazzi.
«Hai un aspetto terribile» disse il primo uomo. «Hai bisogno
di una doccia o di qualcos’altro?»
Mi sembrò un’ottima idea. Feci una doccia e rovistai nella borsa
per prendere dei vestiti puliti. Una volta finito, mi sentii di nuo­
vo quasi umano. Quando tornai nella stanza, intuii che avevano
parlato di me.
«Stasera è la nostra ultima possibilità» disse Manhattan. Quello
era il soprannome che avevo scelto per il capo. Se avessero portato
con sé altri tre ragazzi, avremmo potuto coprire tutti e cinque i
distretti. «Sei sicuro di essere in grado di farlo?»
«Il nostro uomo torna a casa domattina» disse Brooklyn. «Se
non lo rapiniamo adesso, tutto questo viaggio sarà stato una per­
dita di tempo del cazzo.»
Annuii. Capisco, ragazzi. Cos’altro volete da me?
«Tu non parli proprio, eh?» disse Manhattan. «Voglio dire, non
mi stavano prendendo in giro. Tu non dici neanche una parola.»
Scossi la testa.
«Puoi aprire la cassaforte del tizio?»
Annuii.
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«Ci basta sapere questo.»
Brooklyn non sembrava granché convinto, ma per il momento
non aveva molta scelta. Avevano aspettato il loro scassinatore. E
lo scassinatore ero io.
Circa tre ore più tardi, dopo che il sole era tramontato, ero seduto
sul sedile posteriore di un furgoncino con la scritta elite restauri.
Manhattan era alla guida. Brooklyn sedeva sul sedile del passeggero
e si girava in continuazione a guardarmi. Era una cosa a cui sapevo
di dovermi abituare. Era come aveva detto il Fantasma, quei ragazzi
avevano già fatto tutti i loro giri, studiato il bersaglio, osservato ogni
movimento del loro uomo, pianificato tutta l’operazione dall’inizio
alla fine. Io ero solo lo specialista, coinvolto all’ultimo minuto per
fare la mia parte. Non era di alcun aiuto il fatto che sembrava non
avessi ancora iniziato a radermi e che, oltre a questo, fossi una specie
di svitato che non diceva neanche una parola.
Quindi, sì. Non li biasimavo se erano un po’ scettici.
Da quello che riuscivo a vedere attraverso il parabrezza, sem­
brava che ci stessimo dirigendo in un quartiere di lusso. Doveva
essere la Main Line di cui avevo sentito parlare. Gli aristocratici
sobborghi occidentali di Philadelphia. Superammo scuole private
con grandi archi di pietra che torreggiavano all’ingresso. Passam­
mo la Villanova University, in cima a una collina. Mi ritrovai a
chiedermi se ci fosse una buona scuola d’arte. Passammo accanto
a un lungo prato in pendenza con file di luci e tavoli bianchi si­
stemati fuori per una festa. Un mondo che non ero mai riuscito a
vedere in modo legale e legittimo.
Procedemmo fino al Bryn Mawr, superammo un altro college
di cui non lessi il nome, e infine girammo a destra abbandonando
la via principale. Le case divennero sempre più grandi, ma ancora
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non c’era nessuno pronto a fermarci. Niente uomini in uniforme
con distintivi di metallo e cartelline per verificare le nostre creden­
ziali. Questa era la particolarità di quelle antiche ville padronali.
Erano state costruite quando ancora nessuno poteva sognarsi delle
comunità residenziali sorvegliate.
Manhattan imboccò il lungo viale d’accesso, lo percorse tutto,
superò la curva che ci avrebbe portato all’ingresso e si diresse sul
retro, dove c’era un’ampia area lastricata e quello che sembrava un
garage a cinque posti. I due uomini indossarono i guanti da chirur­
go. Ne diedero un paio anche a me e io li misi in tasca. Non avevo
mai lavorato con i guanti e non avevo intenzione di provarci adesso.
Manhattan sembrò notare le mie mani nude ma non disse niente.
Uscimmo dal furgone e attraversammo un’ampia veranda per
raggiungere la porta sul retro. Una fitta fila di pini delimitava il
giardino. Una luce automatica si accese appena ci avvicinammo
alla casa, ma nessuno sussultò. In fondo non faceva altro che darci
il benvenuto. Da questa parte, signori. Lasciate che vi mostri esat­
tamente dove state andando.
I due uomini si fermarono davanti alla porta, aspettando ov­
viamente che io eseguissi la prima delle mie specialità. Tirai fuori
dalla tasca posteriore il mio astuccio di pelle e mi misi al lavoro.
Scelsi un tensore e lo infilai nella toppa. Poi estrassi un sottile gri­
maldello e iniziai a lavorare sui pistoncini. Procedetti con cautela
attraverso i tasti meccanici, partendo dal fondo, e premetti su ogni
pistoncino fino a fargli raggiungere la linea di separazione. Sapevo
che in una casa come quella la serratura doveva avere almeno dei
pistoncini a fungo. O addirittura seghettati. Dopo aver trovato
i settaggi, ci lavorai ancora un po’, spinsi di qualche centimetro
verso l’alto ogni pistoncino, esercitando la giusta pressione. Di­
menticai tutto il resto. Gli uomini intorno a me. Quello che stavo
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facendo. Perfino la notte. C’eravamo solo io e quei cinque pezzi
di metallo.
Primo pistoncino in posizione. Secondo pistoncino in posizio­
ne. Terzo. Quarto. Quinto.
Sentii cedere il cilindro. Feci forza sul tensore e l’intero con­
gegno ruotò. Qualsiasi dubbio avessero quegli uomini su di me,
avevo appena superato il primo test.
Manhattan mi spinse da parte, puntando dritto al sistema di
allarme. Avevano già calcolato tutto. C’erano molti modi di elu­
dere un allarme elettronico. Evitare i sensori magnetici su porte e
finestre. Disattivare l’intero sistema oppure scollegarlo dalla linea
telefonica. O che diavolo, rivolgersi alla persona che lavorava nell’e­
dificio di controllo della compagnia di allarmi. Quando nel sistema
c’è un essere umano le cose si fanno più semplici, soprattutto se
quell’essere umano guadagna sei dollari e cinquanta l’ora.
In qualche modo quei ragazzi conoscevano già il codice, che è
sempre la strada più semplice. Dovevano avere un contatto dentro
la casa. Una domestica o un guardiano. Oppure avevano spiato il
proprietario così da vicino da riuscire a vedere quali tasti premeva.
Comunque ci fossero riusciti, avevano il codice e Manhattan ci
mise cinque secondi a disattivare l’intero sistema.
Sollevò il pollice e Brooklyn si allontanò per continuare a sor­
vegliare o fare qualsiasi cosa dovesse fare. Era evidente che per
loro si trattava di semplice routine. Si sentivano perfettamente a
loro agio. E io? Adesso ero nel mio piccolo mondo. Quel lieve e
familiare ronzio, il modo in cui il battito del mio cuore avrebbe
accelerato fino a sincronizzarsi con il costante tamburellare nella
mia testa. La paura che vivevo ogni secondo di ogni singolo giorno
sarebbe finalmente scivolata via. Per alcuni preziosi minuti tutto
sarebbe apparso tranquillo, normale e in sintonia con il mondo.
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Manhattan mi fece cenno di seguirlo. Attraversammo la casa,
la più perfetta che avessi mai visto. L’ arredamento puntava più al
comfort che all’estetica. Un televisore enorme e poltrone in cui si
sarebbe potuti sprofondare. Un bar ben fornito con bicchieri appe­
si a una rastrelliera, uno specchio, sgabelli e quant’altro. Salimmo
le scale, percorremmo un corridoio ed entrammo nella camera
matrimoniale. Manhattan sembrava sapere esattamente dove an­
dare. Ci ritrovammo dentro uno dei due grandi guardaroba, con
file di costosi abiti scuri da una parte e costosi abiti casual dall’altra.
Le scarpe erano disposte con cura negli appositi ripiani. Cinture e
cravatte pendevano da una specie di aggeggio elettrico. Premendo
un bottone avrebbe iniziato a ruotare.
Ovviamente non eravamo lì per le cinture e le cravatte. Manhat­
tan spostò con delicatezza alcuni completi. Riuscii a scorgere una
sagoma rettangolare sulla parete retrostante. Manhattan fece pres­
sione e la porta si aprì. Dentro c’era la cassaforte.
Si fece da parte. Ancora una volta, era il mio turno.
Quello era il motivo per cui avevano davvero bisogno di me.
Avrebbero potuto forzare anche da soli la porta sul retro, se aves­
sero voluto. Ci avrebbero messo un po’ di più, ma erano uomini
svegli, pieni di risorse, e avrebbero trovato il modo di farlo. Ma la
cassaforte? Quella era un’altra storia. Un conto era trovare il codice
di sicurezza per entrare in casa, ma come fare con la combinazione
della cassaforte nascosta nell’armadio della camera da letto? Era
al sicuro nella mente del proprietario. Forse anche in quella della
moglie. Magari nella mente di un’altra persona, qualcuno di fidato
o l’avvocato di famiglia, per i casi di emergenza. Altrimenti… be’, si
può sempre cercare il proprietario, legarlo a una sedia e puntargli
la pistola in bocca, ma sarebbe tutto un altro tipo di operazione. Se
vuoi fare un lavoro pulito allora ti serve uno scassinatore per aprire
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la cassaforte. Un cattivo scassinatore finirebbe probabilmente per
scavare nel muro e asportare la cassaforte. Un bravo scassinatore
la lascerebbe dov’è e userebbe il trapano. Un grande scassinatore…
be’, è esattamente quello che speravo di dimostrare.
Il problema era che – ed ero felice che Manhattan non lo sapesse
– in tutta la mia giovane vita, non avevo mai aperto una cassaforte
a muro. Voglio dire, sapevo che era la stessa cosa. Era solo una nor­
male cassaforte incassata nella parete, giusto? Ma mi ero sempre
esercitato su casseforti non fissate al muro, sui cui potevo piegarmi
e sentire cosa stavo facendo. Come ripeteva sempre il Fantasma
quando mi insegnava il mestiere… era come sedurre una donna.
Toccarla nel modo giusto. Capire cosa si smuoveva dentro di lei.
Come fare tutto questo se ogni parte della donna, eccetto il volto,
era nascosta dietro una parete?
Sollevai le mani e mi avvicinai allo sportello. Provai prima la
maniglia, per assicurarmi che la dannata cassaforte fosse davvero
chiusa. Lo era.
Vidi la targhetta con il marchio Chicago, quindi digitai le due
combinazioni di servizio, quelle combinazioni predefinite che han­
no le casseforti al momento dell’acquisto. Rimarreste stupiti da
quanta gente non le cambia.
Non ebbi fortuna con nessuna delle due. Avevamo a che fare
con un proprietario prudente che aveva personalizzato la combi­
nazione. Era giunto il momento di mettersi al lavoro.
Mi incollai al muro, premendo la guancia contro lo sportello.
Pensai subito a una serratura a tre dischi, ma dopotutto era la mia
prima volta e volevo assicurarmene. Individuai l’area di contatto,
quel punto del combinatore in cui il «naso» della leva si inserisce
nella tacca dell’ingranaggio. Dopodiché feci fare un giro completo
al combinatore, poi tornai indietro contando gli scatti.
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Uno. Due. Tre. Avevo ragione. Tre dischi.
Li feci ruotare di nuovo, posizionandoli tutti sullo zero. Poi
tornai all’area di contatto.
Questa era la parte più difficile. La parte quasi impossibile o
teoricamente impossibile. Dato che nessun disco può essere per­
fettamente tondo, e che due dischi non possono mai essere perfet­
tamente identici fra loro, ci sarà sempre qualche imperfezione nel
contatto con le tacche dell’ingranaggio. È inevitabile, a prescindere
dalla qualità della cassaforte. Quindi, quando ti fermi sopra una
tacca e torni indietro all’area di contatto, senti qualcosa di diverso.
Uno scatto più breve nel momento in cui il naso si infila nella tacca
dell’ingranaggio.
In una cassaforte da due soldi? Lo scatto è evidente come una
buca su una strada liscia. Ma in una buona cassaforte? In una
cassaforte costosa come quella che il proprietario di questa casa
doveva aver fatto installare nel suo armadio?
La differenza sarebbe stata minima. Più minuscola del minuscolo.
Posizionai il combinatore sul tre. Poi sul sei. Poi sul nove. Iniziai
con i multipli di tre, verificando ogni numero. Aspettai di avvertire
quel suono rivelatore. Quella lieve riduzione nell’area di contatto.
Una differenza così minima che nessun essere umano normale
potrebbe mai percepirla. Neanche in migliaia di anni.
Dodici. Sì. C’ero quasi.
Okay, continua. Quindici, diciotto, ventuno.
Mi diedi da fare con il combinatore, ruotando velocemente
quando potevo, rallentando quando avevo bisogno di avvertire
ogni minimo movimento. Sentii Manhattan agitarsi dietro di me.
Sollevai una mano e si fermò di nuovo.
Ventiquattro. Ventisette. Sì. Eccoci.
Come facevo a saperlo?
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Lo sapevo e basta. Quando è più breve, è più breve. Era una
semplice sensazione.
O qualcosa che andava oltre, in realtà. Quel piccolo pezzo di
duro metallo entra nella tacca un attimo prima della volta prece­
dente, e io riesco a percepirlo, a sentirlo, a vederlo nella mia mente.
Quando ebbi terminato il giro avevo tre numeri approssimativi in
testa. Ricominciai da capo concentrandomi su quella serie fino a
trovare i numeri esatti, provandoli questa volta uno a uno invece
che a multipli di tre. Adesso avevo i tre numeri definitivi: 13, 26, 72.
L’ ultimo passaggio era un po’ rognoso. Non c’era altro modo
se non procedere per tentativi. Iniziai con 13-26-72, poi invertii i
primi due, poi il secondo e l’ultimo, e così via, fino a quando non
provai tutte e sei le possibili combinazioni. Sei è molto meglio di
un milione, che è il numero di combinazioni che avrei dovuto
provare se non avessi trovato quei numeri.
La combinazione del giorno risultò essere 26-72-13. Tempo
necessario per aprire la cassaforte? Circa venticinque minuti.
Girai la maniglia e spalancai lo sportello. Feci in modo di vedere
la faccia di Manhattan mentre aprivo.
«Cazzo!» disse. «Non ci posso credere.»
Mi misi da parte e lo lasciai fare quello che doveva fare. Non
avevo idea di cosa sperasse di trovare lì dentro. Gioielli? Contanti?
Lo vidi tirare fuori una dozzina di buste di carta marrone, molto
voluminose.
«Ho preso tutto. Possiamo andare.»
Chiusi la cassaforte e girai il combinatore. Manhattan era appe­
na dietro di me e ripuliva tutto con uno straccio bianco. Poi chiuse
la porta e fece scivolare gli abiti al loro posto.
Spense la luce. Tornammo indietro e scendemmo le scale.
Brook­lyn era in salotto e guardava fuori dalla finestra.
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«Non me lo dire» esclamò.
«È fatta» disse Manhattan sollevando le buste.
«Mi prendi per il culo?» Mi guardò con uno strano sorrisetto.
«Vorresti dirmi che il nostro ragazzo è un genio o roba del genere?»
«Più o meno. Andiamo.»
Manhattan digitò il codice di sicurezza per reinserire l’allarme.
Poi si chiuse la porta di servizio alle spalle e ripulì la maniglia.
Quello era il motivo per cui mi avevano chiamato. Il motivo per
cui avevano aspettato che un ragazzo che non avevano mai visto
prima attraversasse mezzo paese. Perché con me non avrebbero
lasciato nessuna traccia. Il proprietario di casa sarebbe tornato il
giorno successivo, avrebbe aperto la porta e trovato tutto esatta­
mente come l’aveva lasciato. Avrebbe salito le scale, preso dei vestiti
dal guardaroba e spento la luce. Solo al momento di usare la cassa­
forte avrebbe inserito la combinazione, aperto lo sportello e visto…
Niente.
E neanche allora avrebbe capito cosa fosse successo. Non subi­
to. Avrebbe brancolato nel buio, pensando che dovesse esserci un
errore. Avrebbe creduto di essere impazzito. Poi avrebbe accusato
la moglie. Sei l’unica persona al mondo che conosce la combina­
zione! Oppure avrebbe chiamato l’avvocato di famiglia mettendolo
alle strette. Siamo andati via per una settimana e hai deciso di farci
una visitina, eh?
E infine avrebbe capito. Qualcun altro doveva essere stato lì. Ma
a quel punto, Manhattan e Brooklyn sarebbero già stati al sicuro
a casa loro, e io sarei…
Sarei stato in qualsiasi posto in cui mi avessero chiamato.
Non seppi mai cosa contenessero quelle buste. Non mi interessava.
Sapevo, andando lì, che era un lavoro a forfait. Quando tornammo
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al motel, Manhattan mi diede i contanti e mi disse che era stato
davvero un piacere lavorare con me.
Almeno adesso avevo un po’ di soldi. Abbastanza per mangiare
e cercare un posto in cui vivere. Ma per quanto tempo sarebbero
bastati?
Manhattan tolse le insegne magnetiche elite restauri da en­
trambi i lati del furgone e le ripose nel bagagliaio. Prese un cac­
ciavite e sostituì la targa della Pennsylvania con una di New York.
Stava per rimettersi al volante quando lo fermai.
«Che c’è, ragazzo?»
Sfilai dalla mia tasca posteriore un portafoglio immaginario e
feci il gesto di aprirlo.
«Che c’è, hai perso il portafoglio? Compratene uno nuovo.
Adesso sei pieno di soldi.»
Scossi la testa, fingendo di tirare fuori un documento dal por­
tafoglio immaginario.
«Hai perso la carta d’identità? Basta che torni dove sei nato. Te
ne faranno un’altra.»
Scossi la testa di nuovo. Indicai il documento invisibile nella
mia mano.
«Hai bisogno…»
Alla fine gli si accese una lampadina.
«Hai bisogno di un documento nuovo. Nel senso di una nuova
identità del cazzo?»
Annuii.
«Oh, merda. Questa è tutta un’altra storia.»
Mi avvicinai a lui e gli posai una mano sulla spalla. Dai, amico.
Devi aiutarmi.
«Senti» disse. «Sappiamo per chi lavori. Voglio dire, gli man­
deremo la sua parte, okay? È così che funzionano le cose. Non lo
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deluderemo, credimi. Quindi se hai un problema di questo tipo,
perché non torni a casa e lo risolvi lì?»
Come spiegargli, anche se avessi potuto parlare, che mi trovavo
in una specie di strano limbo? Ero come un cane che non poteva
tornare a casa, che non aveva una cuccia in casa del padrone. Ne­
anche nel suo giardino. Dovevo continuare a fuggire, rovistando
nei bidoni dell’immondizia per trovare qualcosa da mangiare.
Finoché il padrone non mi avrebbe chiamato. Quando il pa­
drone avesse fatto capolino dalla porta e gridato il mio nome, cre­
detemi, sarei dovuto tornare da lui.
«Senti, conosco un tipo» disse. «Voglio dire, se sei proprio nei
guai.»
Tirò fuori il portafoglio, sfilò un biglietto da visita e prese una
penna. Girò il biglietto e vi scrisse sopra qualcosa.
«Chiami questo tipo e…»
Smise di scrivere e mi guardò.
«Ah, già. La vedo difficile. Allora, potresti andare a trovarlo di
persona, che ne dici?»
Tirai fuori i soldi che mi aveva appena dato e iniziai a sfilare
delle banconote.
«No, no. Fermati.»
Si voltò a guardare Brooklyn. Entrambi scrollarono le spalle.
«Se mi prometti che non lo dirai al mio capo» disse «non credo
sia un problema.»
Salii sul retro del furgone e fu così che mi ritrovai a New York.
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