manhattan - Luca Buti

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manhattan - Luca Buti
MANHATTAN
VERT ICAL LIVING
&
HOR IZON TAL VIEW S
di Luca Buti
Non so se, per un fotografo, Manhattan possa rappresentare la sfida più
facile o quella più difficile. Da un lato c’è, infatti, un generatore di “situazioni
fotografiche” incredibile, una specie di museo dell’umanità real time, ma dall’altro c’è la svilente sensazione che qualcuno, quella stessa foto possa averla
già fatta, costringendoti quasi sempre non ad interpretare (la condizione teorica-ideale del fotografo), ma a reinterpretare quello che hai già visto nella sterminata letteratura esistente in materia. Se poi consideriamo anche l’aspetto
pratico-filosofico di come un “congegno-macchina-fotografica” possa rendere
giustizia ad una città che nella storia ha praticamente catalizzato quasi tutte le
forme artistiche moderne, l’impresa diventa quasi intimidente.
È da questo presupposto, che ho assorbito come una “necessità-causa-forza-maggiore”, che è iniziata la mia “re-interpretazione”. Reinterpretazione partita con l’uso di uno strumento abbastanza sui generis: una Noblex 35mm panoramica. Una scelta decisamente anacronistica nell’era dei semiconduttori e
delle immagini digitali: un pesante congegno, spartano ed essenziale nei comandi, con una forma “a monoblocco” che lascia trasparire tutta la “tedeschità”
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del suo design. Credo che per essere notati nel centro di Times Square (nell’anno 2004) l’alternativa all’andare in giro nudi sia proprio fotografare inquadrando
da questo trabiccolo (oltre ad avere contemporaneamente appesa al collo anche la reflex standard - che serve per leggere l’esposizione).
Ho concepito ed interpretato queste “panoramiche” come la voglia sia di
abbracciare le grandezze (fisiche ed ideologiche) di questa città, sia di creare
una sorta di reazione acida attraverso lo scontro delle verticalizzazioni estreme e lineiformi dei grattacieli con l’orizzontalità della visione panoramica con
le aberrazioni geometriche di questo taglio fotografico.
Il colore? Non poteva che mancare. Bianco e nero, semplicemente perché il
film di Woody Allen “Manhattan” è in bianco e nero.
... Poi c’è sempre quella cicatrice dell’Undici Settembre 2001. Quella cicatrice
adesso iconizzata in un’enorme buca fatta cantiere; con tanto di muratori,
macchine operatrici, imbracature di sicurezza ecc. Come dire che la vita continua... La vita continua da quella buca da dove, un giorno, germoglierà qualche altro simbolo del modernismo benestante occidentale. La vita continua su
quello che ormai è un ricordo. Un ricordo sospeso tra l’orgoglio, lo showbusiness ed il dolore. L’orgoglio del: “Ci hanno colpito, ci siamo rialzati ed
abbiamo reagito...” (e che reazione...). Lo show-business... quello show-business
tutto americano fatto di bancarelle di asiatici intenti a vendere il libro della
tragedia (notare che gli editori di questi libri non sono asiatici...). Infine il dolore, ahimè il dolore vero, quello indistruttibile, che rimane annidato dentro per
sempre e che né i discorsi del sindaco, né i libri illustrati potranno mai allevia-
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re. Il dolore ancora forte di chi sotto tutto quell’acciaio e cemento ha veramente perso una persona cara. È triste però notare che nessuno (o perlomeno quasi
nessuno) pensi più alla catastrofe immensa di quei momenti in cui tonnellate
di edilizia e corpi umani (viventi) precipitavano al suolo diventando sempre
più materiale inerte e sempre meno vita.
Lo stato delle cose adesso è che tutti siamo lì a girare intorno ad una buca a mo’ del
Ka’bah della Mecca. Un girare intorno ad un qualcosa in paradossale similitudine con
la ritualizzazione dei pellegrini arabi nella loro Città Santa...
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