Flessibilità e Precariato in Italia

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Flessibilità e Precariato in Italia
Flessibilità e Precariato in Italia
Alessandra Cataldi, Patrizio Di Nicola, Gianluigi Nocella
1. Introduzione
Da non meno di un quindicennio, il dibattito sull’evoluzione del mercato del lavoro nel nostro Paese ha
fatto uso di una serie di etichette con cui si è inteso indicare l’insieme delle nuove tipologie contrattuali via
via introdotte dal legislatore. Tra di esse, sicuramente le più comuni sono quelle di lavoro “flessibile”,
lavoro “precario”, lavoro “atipico”, non di rado utilizzate in maniera disinvolta e perfettamente sostituibile
non solo dai mezzi di comunicazione di massa, ma anche nel dibattito politico. In effetti, definire una
tassonomia precisa e condivisa delle forme di lavoro in Italia non è cosa facile, ma per poter argomentare in
maniera ragionata e coerente (almeno “internamente”) delle tematiche in oggetto è assolutamente
necessario farlo. Innanzitutto, è importante una premessa: la distinzione tra lavoro flessibile e lavoro
precario è qualcosa che ha a che fare con la differenza che corre tra un obiettivo e un risultato, con le
distanze che separano uno schema teorico dalla sua implementazione pratica, dunque, in ultima analisi,
con una lunga serie di valutazioni estremamente complesse che, oltre a coinvolgere diversi aspetti,
contengono ampi margini di soggettività: basti pensare al significato che il lavoro ha per ciascuno di noi,
non solo a livello pratico, ma anche in relazione al contesto sociale nel quale viviamo; si aggiunga la
complessità, formale e relazionale, che un rapporto di lavoro implica e si moltiplichi il tutto per l’enorme
intreccio di condizioni, aspirazioni e difficoltà individuali che formano il tessuto sociale di una nazione. Per
queste ragioni, distinguere il vero dal falso ovvero il flessibile dal precario - , è impossibile e, in una certa
proporzione, perfino inutile, come in qualunque altra scienza sociale che non voglia rinunciare a definirsi
tale. Ciononostante, l’evidenza empirica di alcuni fenomeni rappresenta il terreno – più o meno scivoloso, a
seconda dei casi – su cui è bene confrontarsi, sebbene non sia l’unico su cui abbia senso farlo.
Alla luce di quanto detto, prima di iniziare ad analizzare gli aspetti “quantitativi” dell’argomento, è bene
chiarire con una rapida panoramica il significato delle “etichette” di cui sopra, beneficiando degli sforzi di
sintesi che gli addetti ai lavori hanno compiuto negli anni più recenti (un esempio è: Berton et al., 2009).
Innanzitutto, è bene chiarire che la tendenza ad identificare la flessibilità del lavoro quasi esclusivamente
con l’assenza di vincoli formali e di norme a protezione dell’impiego rappresenta un’interpretazione
alquanto restrittiva del termine, che trascura alcune dimensioni della flessibilità stessa di assoluta rilevanza,
sia per le imprese che per i lavoratori: pensiamo, ad esempio, alla flessibilità organizzativa e spaziale del
lavoro (Di Nicola, 2008). In altre parole, il concetto di flessibilità, anche per quanto attiene agli interventi
istituzionali – e non solo nel nostro Paese, si è concentrato esclusivamente su aspetti volti ad
“ammorbidire” le tutele a garanzia del posto di lavoro, trascurando quelle componenti della flessibilità che
potrebbero rappresentare, invece, un notevole miglioramento del benessere dei lavoratori (si pensi al ruolo
della flessibilità oraria e spaziale nella conciliazione del lavoro con le incombenze familiari). Ovviamente, la
domanda di lavoro flessibile intesa ad ottimizzare aspetti numerici, temporali e salariali da parte delle
imprese ha motivazioni di ordine macro e microeconomiche che sarebbe sbagliato non tenere in
considerazione. Tuttavia, la necessità di conciliare le esigenze del sistema produttivo con l’importanza
assoluta che il lavoro ricopre nella vita delle persone ha portato a definire come virtuoso un modello in cui
flessibilità e sicurezza non siano necessariamente alternativi. L’ormai costante riferimento al c.d. modello
1
danese come esempio eminente di flexicurity ed il paragone costante alle altre esperienze internazionali ci
insegna, prima di tutto, che riforme del mercato del lavoro mirate esclusivamente a garantire alcune forme
di flessibilità, non accompagnate da adeguate forme d’intervento dello stato sociale, trasformano la
flessibilità stessa in quella che è stata definita trappola del precariato: un modello in cui un mercato del
lavoro piuttosto fluido (alti tassi di turnover, flessibilità in uscita, disponibilità di forme contrattuali a basso
costo, anche dal punto di vista fiscale e previdenziale), ma non abbastanza da garantire un reimpiego
sufficientemente rapido a chi perde il posto, si unisce ad un sistema di tutele incapace di assicurare
continuità reddituale e assistenza alle componenti più deboli della forza lavoro. Quello della continuità
reddituale, in particolare, è uno degli aspetti chiave della precarietà: seguendo Berton et al. (2009), infatti,
possiamo definire precario un soggetto che, indipendentemente dalla conservazione del posto di lavoro,
non sia in grado di sostenersi nel medio periodo con i frutti del proprio lavoro (intendendo tra essi anche
tutte le forme di trasferimento a carico del welfare state che sostengono individui temporaneamente non
occupati). Non basta, perciò, essere impiegati con un contratto di lavoro “non standard”1 o “flessibile” per
poter essere definiti precari. In altre parole, rendere flessibile l’utilizzo del fattore lavoro senza rinunciare al
concetto di sicurezza sociale (divenuto centrale in tutti i Paesi avanzati, seppur con declinazioni diverse)
vuol dire riformare complessivamente il sistema-paese, certamente provvedendo alla ridefinizione
normativa del funzionamento del mercato del lavoro, ma senza disgiungere tale aspetto dalla
riorganizzazione della spesa sociale, ricomprendendo in tale espressione il sistema degli ammortizzatori
sociali, le altre misure assistenziali non legate alla situazione lavorativa degli individui, il sistema
previdenziale, quello sanitario, quello dell’istruzione: solo in questo modo è possibile trasformare in modo
socialmente ed economicamente sostenibile la tutela del posto di lavoro in tutela del lavoro.
Purtroppo, come vedremo di seguito, i dati a disposizione da più fonti mostrano inequivocabilmente che
l’Italia si trova bloccata a metà di un guado assai insidioso, per di più in un contesto macroeconomico
tutt’altro che tranquillizzante. I decisi interventi legislativi2 che, a partire dalla seconda metà degli anni
Novanta, hanno puntato a “flessibilizzare” il mercato del lavoro in entrata e in uscita, hanno creato un
ventaglio di forme di lavoro notevole e piuttosto disordinato, senza un’adeguata riforma degli
ammortizzatori sociali e delle altre forme di tutela del lavoro. Il risultato è un mercato profondamente
duale, nell’offerta di sostegno che segue alla perdita del posto di lavoro prima che nelle garanzie di legge a
tutela del rapporto di lavoro stesso: un parte dei lavoratori (quelli con contratti “standard”, ovvero
dipendenti a tempo pieno ed indeterminato) gode di ampie garanzie contrattuali ed ha buone coperture in
caso di perdita del posto; l’altra (tutti coloro che hanno forme contrattuali più recenti, che si differenziano
variamente almeno in una delle tre dimensioni che definiscono il lavoro standard), invece, ha scarsissima
tutela dentro e fuori dal rapporto di lavoro. Per di più il lavoro flessibile ha perso (se mai lo ha avuto) la sua
caratteristica di “rito di passaggio” verso il lavoro standard: passare da un gruppo all’altro sembra essere
tutt’altro che immediato, mentre il quadro economico di contesto sta accelerando notevolmente il flusso
nel senso opposto. Se consideriamo che l’ingresso nel mondo del lavoro, per le nuove generazioni, avviene
sempre più spesso (com’è in parte naturale che sia) attraverso forme contrattuali “non-standard”, i può
comprendere quanto sia importante una netta inversione di tendenza per garantire al Paese stabilità e
1
Chiariremo a breve cosa si intende per contratto di lavoro “standard” e cercheremo di dare un’idea della varietà di
forme contrattuali ad esso alternative previste dal nostro ordinamento.
2
Vale certamente la pena di ricordare, tra essi, il c.d. Pacchetto Treu, ovvero la legge n. 196 del 1997, che introduceva
il lavoro interinale (divenuto lavoro “in somministrazione” dal 2003), e la legge delega n. 30 del 2003 (c.d. Legge Biagi),
attuata tramite il decreto legislativo n. 276 del 2003, successivamente modificato dalla legge n. 251 del 2004. Questo
secondo provvedimento, oltre a disciplinare i contratti di collaborazione continuativa a progetto (c.d. co.co.pro),
contiene importanti novità volte a ridurre la forza contrattuale del lavoratore in alcuni rapporti di lavoro.
2
crescita. In caso contrario, è facile immaginare quali conseguenze, sociali ed economiche, possa avere il
protrarsi di una situazione simile. Alcune delle quali sono già palesemente sotto i nostri occhi.
2. Principali tipologie contrattuali
Prima di procedere con l’analisi si ritiene opportuno ricordare le caratteristiche principali di ciascuna delle
forme contrattuali qui menzionate, toccando brevemente gli aspetti fondamentali che li connotano quali
durata, normativa che disciplina la cessazione del rapporto di lavoro in caso di licenziamento, tutele basilari
in caso di disoccupazione, malattia o maternità.

Il contratto a tempo indeterminato
Il contratto a tempo indeterminato si connota per l’assenza di in vincolo alla durata e la sua interruzione da
parte del datore di lavoro può avvenire solo per giusta causa o giustificato motivo e nei casi espressamente
previsti dalla legge. In caso di licenziamento illegittimo il tipo di tutela previsto per il lavoratore dipende
dalla dimensione dell’azienda e può consistere in un risarcimento monetario (per le aziende fino a 15
dipendenti) o nella reintegrazione nel posto di lavoro (per le aziende con più di 15 dipendenti). Sono altresì
previste una serie di tutele nei casi di disoccupazione, malattia o maternità. Ai dipendenti a tempo
indeterminato spetta la Cassa Integrazione Guadagni (comunque vincolata, tra le altre cose, al settore
occupazionale), l’indennità di mobilità (comunque vincolata, tra le altre cose, alla dimensione e al settore
aziendale)e l’indennità di disoccupazione ordinaria (requisito per l’ accesso pari a 2 anni di anzianità
assicurativa e 52 contributi settimanali nel biennio precedente la disoccupazione) e ridotta (requisito di
anzianità assicurativa di 2 anni e 78 giornate di lavoro nell’anno precedente la domanda). In caso di
malattia è prevista una indennità per un periodo massimo di 180 giorni per ciascun anno solare, fruibile
fino ai 60 giorni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro. Ai lavoratori cosiddetti standard spetta
anche una indennità di maternità: questa è pari all’80% della retribuzione da 2 mesi prima a 3 mesi dopo il
parto. Sussiste inoltre il divieto di licenziamento dall’inizio del congedo fino ad un anno di età del bambino.
L’indennità di maternità è riconosciuta anche in caso di godimento del diritto di indennità di disoccupazione
o di mobilità o quando è soddisfatta una certa soglia contributiva (26 settimane) nel biennio precedente
l’inizio del congedo.

Il contratto a tempo determinato
Il contratto a tempo determinato è un contratto a termine a cui il datore può ricorrere qualora vi siano
motivazioni di carattere tecnico, produttivo o sostitutivo. In caso di licenziamento senza giusta causa prima
della scadenza del termine il lavoratore può essere risarcito attraverso il pagamento da parte del datore di
lavoro delle mensilità dovute fino alla scadenza naturale del contratto. I lavoratori a tempo determinato
hanno diritto alla Cassa Integrazione Guadagni, alla indennità di disoccupazione ordinaria e alla indennità di
disoccupazione ridotta. Tuttavia, i requisiti contributivi necessari per accedere alla indennità di
disoccupazione ordinaria (2 anni di anzianità assicurativa e 52 contributi settimanali nel biennio precedente
la disoccupazione) ne rendono spesso difficoltosa la reale fruizione. L’accesso alla indennità di
disoccupazione ridotta, invece, è decisamente più agevole (requisito di anzianità assicurativa di 2 anni e 78
giornate di lavoro nell’anno precedente la domanda), ma, come il nome stesso dichiara, il beneficio
percepito è modesto. Ai lavoratori a termine non spetta l’indennità di mobilità. Per quanto riguarda le
tutele in caso di malattia, è prevista una indennità di malattia per periodi non superiori all'attività svolta
nell'ultimo anno, per un massimo di 180 giorni annui, la quale però cessa in concomitanza con la cessazione
3
del rapporto di lavoro (ma è garantita comunque fino a 30 giorni anche se nell'ultimo anno il lavoro è stato
svolto per meno di 30 giorni). Le tutele alla maternità consistono in una indennità di maternità pari all’80%
della retribuzione da 2 mesi prima a 3 mesi dopo il parto quando è in corso il rapporto di lavoro o il periodo
di congedo ha inizio entro 60 giorni dal termine. Tuttavia, il rapporto di lavoro può giungere al suo
compimento durante il congedo. L’ indennità di maternità è riconosciuta oltre il limite dei 60 giorni in caso
di godimento del diritto di indennità di disoccupazione (il cui accesso, come sopra specificato, è tuttavia
limitato dai requisiti piuttosto stringenti) o quando è soddisfatta una certa soglia contributiva (26
settimane) nel biennio precedente l’inizio del congedo.

Il contratto di apprendistato
Il contratto di apprendistato di rivolge solamente ai giovani fino ai 29 anni e comporta l’impegno da parte
dell’azienda all’addestramento del giovane. Al datore di lavoro sono riconosciuti determinati benefici
contributivi, la cui erogazione è soggetta alla verifica della formazione svolta. Il licenziamento
dell’apprendista è possibile in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo e il datore di lavoro
può terminare il rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, rispettando il termine
contrattuale di preavviso. Gli apprendisti non hanno diritto alla Cassa Integrazione Guadagni, né alla
indennità di mobilità, né alla indennità di disoccupazione ordinaria. Possono tuttavia formalmente accedere
alla indennità di disoccupazione ridotta, ma i requisiti necessari (anzianità assicurativa di 2 anni e 78
giornate di lavoro nell’anno precedente la domanda) ne impediscono sostanzialmente l’accesso, perché
l’apprendistato è esente dalla contribuzione per disoccupazione. Tuttavia, è stata introdotta una indennità
di disoccupazione speciale per gli apprendisti per il triennio 2009-2011 in caso di licenziamento o
sospensione per crisi aziendale. La tutela in caso di malattia consiste in una indennità, relativamente alla
quale si applica la normativa prevista per i lavoratori parasubordinati in materia di indennità giornaliera di
malattia (spiegata nel dettaglio nelle prossime righe). Infine, I periodi di congedo di maternità e di congedo
parentale sospendono la durata del rapporto di apprendistato. In questi casi, il termine finale del rapporto
subisce uno slittamento di durata pari a quella della sospensione, ferma restando la durata complessiva
originariamente prevista. Analogo slittamento subisce, per tutto il periodo della sospensione, anche
l’obbligo di versare la contribuzione in favore dell’apprendista.

Il contratto di inserimento
Il contratto di inserimento si rivolge a particolari categorie di lavoratori, quali disoccupati di lunga durata
tra i 29 e i 32 anni o disoccupati over 50, ha una durata massima di 18 mesi e non può essere rinnovato.
Esso comporta una serie di agevolazioni per le imprese che ne fanno uso in termini di oneri contributivi da
sostenere. Non è previsto il godimento dell’ indennità di mobilità, ma è disciplinata la possibilità di
beneficiare della Cassa Integrazione Guadagni. I titolari di un contratto di inserimento possono percepire l’
indennità disoccupazione ordinaria, ma requisiti contributivi necessari (2 anni di anzianità assicurativa e 52
contributi settimanali nel biennio precedente la disoccupazione) ne rendono difficoltoso l’accesso. È
previsto anche l’accesso all’ indennità di disoccupazione ridotta (requisito di anzianità assicurativa di 2 anni
e 78 giornate di lavoro nell’anno precedente la domanda). L’indennità di malattia spetta per periodi non
superiori all'attività svolta nell'ultimo anno, con un massimo di 180 giorni annui e cessa in concomitanza
con la cessazione del rapporto di lavoro (è garantita comunque fino a 30 giorni anche se nell'ultimo anno il
lavoro è stato svolto per meno di 30 giorni). L’indennità di maternità è pari all’80% della retribuzione da 2
mesi prima a 3 mesi dopo il parto quando è in corso il rapporto di lavoro o il periodo di congedo ha inizio
entro 60 giorni dal termine. Il rapporto di lavoro, tuttavia, può giungere al suo compimento durante il
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congedo. L’indennità di maternità viene riconosciuta oltre il limite dei 60 giorni in caso di godimento del
diritto di indennità di disoccupazione o quando è soddisfatta una certa soglia contributiva (26 settimane)
nel biennio precedente l’inizio del congedo.

Il contratto a progetto
Infine, la voce altre categorie contrattuali comprende tipologie contrattuali di vario genere, tra cui una delle
principali consiste nelle collaborazioni a progetto. Il requisito essenziale del contratto a progetto è
l’esistenza di uno o più progetti specifici gestiti in maniera autonoma dal collaboratore. Tra le altre cose, tali
tipologie contrattuali prevedono la possibilità per il datore di lavoro di recedere dal contratto prima della
scadenza del termine per giusta causa o in base alle modalità stabilite dalle parti nel contratto di lavoro
individuale. I tema di tutele contro la disoccupazione, i collaboratori a progetto non hanno diritto alla Cassa
Integrazione guadagni, né alla indennità di mobilità, né all’indennità di disoccupazione. In caso di malattia è
prevista una indennità di malattia per un massimo di giorni nell’anno solare pari ad 1/6 della durata
complessiva del contratto. In tal caso, il rapporto di lavoro non si estingue ma rimane sospeso senza
erogazione del corrispettivo. La fruizione di tale indennità è soggetta al requisito di aver accreditato nei 12
mesi che precedono la data iniziale del ricovero almeno 3 mesi anche non continuativi della contribuzione
dovuta alla gestione separata; inoltre nell’anno solare che precede quello in cui è iniziato l’evento, il reddito
individuale assoggettato a contributo alla predetta gestione separata non deve essere superiore al 70% del
massimale contributivo valido per lo stesso anno. Infine, in caso di maternità, le lavoratrici a progetto e
categorie assimilate, sono tenute ad astenersi dall’attività lavorativa dai 2 mesi precedenti ai 3 mesi
successivi al parto e hanno diritto alla proroga della durata del rapporto di lavoro per un periodo di 180
giorni, salva più favorevole disposizione del contratto individuale. Ai lavoratori che versano nella gestione
separata l'indennità non spetta se sono iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie o se pensionati. In
caso di gravidanza, per le collaboratrici a progetto è previsto che il contratto non si estingua ma che sia
sospeso senza percezione del compenso. L'indennità di maternità alla quale hanno diritto le lavoratrici è
dovuta solo a patto che risultino accreditate almeno tre mensilità di contribuzione nei 12 mesi precedenti.
Con riferimento al reddito dei 12 mesi precedenti, l'indennità compete nella misura dell'80 per cento.

Il contratto a tempo parziale (part-time)
Il contratto a tempo parziale si connota per essere un contratto standard per quanto concerne le tutele in
materia di disoccupazione, malattia e maternità. Tuttavia si differenzia dal contratto “tipico” perché
prevede la possibilità che il lavoratore lavori un numero di ore inferiore rispetto a quelle di un contratto a
tempo pieno. Non esiste una definizione unanime di cosa contraddistingue il lavoro a tempo parziale: le
definizione utilizzate in letteratura possono basarsi tanto su elementi oggettivi (il numero effettivo di ore
lavorate dal lavoratore) quanto su elementi soggettivi (il fatto che un lavoratore si definisca o meno come
lavoratore part-time).si distingue tra part time orizzontale (il lavoratore lavora meno ore al giorno) e part
time verticale (il lavoratore lavora meno giorni a settimana). In materia di assicurazione contro la
disoccupazione vigono le stesse norme valide per i lavoratori standard: accesso all’indennità di mobilità (nei
casi previsti per legge); accesso alla Cassa Integrazione Guadagni (nei casi previsti per legge); indennità di
disoccupazione ordinaria e ridotta. Ai lavoratori in part-time verticale l'indennità di malattia spetta solo per
le giornate in cui è previsto lo svolgimento dell'attività lavorativa. Non vengono, quindi, indennizzate le
giornate di 'pausa contrattuale. In tema di tutela della maternità valgono le stesse norme che disciplinano
la materia per i lavoratori standard.
5
3. I numeri del lavoro atipico
Parlare di lavoro flessibile e/o precario può essere improprio al fine di produrre una schematizzazione
efficace delle forme contrattuali ad oggi presenti nel nostro ordinamento. Ciò è vero in ragione di una serie
di condizioni piuttosto opache e difficili da verificare individualmente, che possono rendere più o meno
flessibile un singolo contratto e più o meno precario il lavoratore che ne è titolare. In ambito tecnico e
statistico, dunque, è sicuramente più fruttuosa e meno arbitraria la distinzione tra lavoro tipico e atipico.
Generalmente, si definisce lavoro tipico il lavoro subordinato, a tempo pieno e indeterminato. Come si
vede, tale definizione non comprende il lavoro autonomo, a tempo pieno e indeterminato, che in Italia ha
una consistenza numerica tutt’altro che trascurabile: ci ritorneremo tra breve. Ebbene, a questo punto
possiamo definire il lavoro atipico come qualsiasi forma di lavoro che si differenzi dal lavoro tipico per una
delle tre caratteristiche che lo contraddistinguono: l’essere subordinato, l’essere a tempo pieno, l’avere
durata non prefissata (ovvero l’essere a tempo indeterminato). Dunque, saranno comunque atipici contratti
a tempo indeterminato ma part-time, oppure contrattati di lavoro in somministrazione (quello che la Legge
Treu definiva lavoro interinale)a tempo indeterminato, reintrodotti con la Legge Finanziaria 20103. Sono
atipici anche tutti i contratti di lavoro che hanno durata prefissata: contratti a tempo determinato, contratti
di lavoro stagionale, contratti di lavoro interinale a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro
(Cfl), contratti di apprendistato e di inserimento; infine, sono atipici tutti i contratti in cui pur non essendoci
vera e propria eterodirezione (il che distingue il lavoro dipendente dal lavoro autonomo), vi è
eterorganizzazione, ovvero una forma di lavoro autonomo tenuta ad integrarsi nell’organizzazione con cui si
stipula il contratto: queste sono le forme di lavoro c.d. parasubordinato, che vanno a creare un categoria
intermedia di lavoratori, originariamente non prevista dal nostro diritto del lavoro. Un po’ di chiarezza in
merito si deve all’istituzione della Gestione Separata (Gs) dell’Inps, nella Riforma Dini del sistema
previdenziale. Si tratta di un fondo pensionistico differente in cui far confluire i contributi di alcune
categorie di lavoratori: i professionisti che non devono versare la contribuzione alla propria cassa di
categoria, i lavoratori autonomi occasionali e gli incaricati delle vendite a domicilio(se il loro reddito supera
i 5.000 euro annui),gli associati in partecipazione, gli iscritti ai dottorati di ricerca; ma, soprattutto,
contribuiscono tramite la Gs i collaboratori, che rappresentano l’espressione più vivida del concetto di
lavoro parasubordinato. Oltre ai collaboratori occasionali, si definiscono talii titolari di contratti di
collaborazione coordinata e continuativa (i c.d. co.co.co.) nonché di collaborazione a progetto (i c.d.
co.co.pro.). Stando alla normativa attuale, la collaborazione continuativa è oggi possibile solo nella pubblica
amministrazione, mentre per il settore privato è necessario l’impiego del lavoro nell’ambito di un progetto,
per l’appunto, specificato nel contratto: la ratio di tale previsione sarebbe proprio quella di limitare
l’utilizzo delle collaborazioni in mera sostituzione del lavoro dipendente. Nella pratica non può dirsi che ciò
avvenga effettivamente, vista la convenienza del datore di lavoro ad utilizzare soggetti che non vengono
formalmente assunti (con tutto ciò che ne consegue per l’interruzione del rapporto di lavoro) ed il cui
costo, innanzitutto dal punto di vista previdenziale, è minore: si ricorda, in proposito, che le aliquote
contributive per i collaboratori sono oggi al 26,72% per coloro che non sono assicurati ad altre forme
pensionistiche obbligatorie e non sono titolari di pensione (il contributo è comprensivo dello 0,72% per
finanziare l’indennità di maternità, l’indennità di malattia e l’assegno per il nucleo familiare) e al 17% per i
soggetti titolari di pensione o provvisti di altra tutela pensionistica obbligatoria; di questi, i due terzi sono a
carico del committente, il resto a carico del lavoratore. Sebbene sussista ancora una differenza non
3
La Legge Biagi prevedeva inizialmente contratti di lavoro interinale a tempo indeterminato (il c.d. staff leasing), ma
tale possibilità è stata cancellata dalla Legge n. 247 del 2007
6
irrilevante con le aliquote contributive standard (33%),circa dieci anni fa tale gap era di quasi quindici punti
superiore all’attuale.
La distinzione tra lavoro tipico e atipico ora descritta (piuttosto diffusa nella letteratura sull’argomento)
incontra, a grandi linee, la classificazione utilizzata dall’Istat nella Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro
(Rcfl), ai risultati della quale faremo ampio riferimento nel prosieguo. In particolare, l’Istat definisce
standard il lavoro, dipendente o autonomo (al contrario della definizione di lavoro tipico data sopra, che
considerava esclusivamente il lavoro alle dipendenze), a tempo pieno ed indeterminato (ovviamente
quest’ultima caratteristica può essere riferita esclusivamente al lavoro dipendente); parzialmente standard,
invece, saranno i lavoratori dipendenti permanenti e autonomi a tempo parziale; gli atipici, in tale
classificazione, sono la categoria residuale, ovvero i collaboratori ed i dipendenti a tempo determinato: in
buona sostanza, tralasciando i lavoratori autonomi non collaboratori, sommando gli atipici ed i
parzialmente standard dell’Istat si ottengono gli atipici della classificazione “teorica” generale disegnata
poco sopra.
A questo punto, disponiamo degli elementi necessari per valutare le consistenze numeriche delle diverse
forme di lavoro in Italia (molte delle quali aggiornate al 2010, se non più recentemente, e pubblicate sul
rapporto annuale dell’Istat). È bene precisare fin da ora che un’analisi quantitativa del fenomeno basata su
dati di stock è necessariamente parziale, impedendo l’osservazione longitudinale dell’unità statistica, che
ha un’importanza fondamentale nel definire la precarietà: un individuo che entra ed esce
(involontariamente) dalla condizione di occupato per via di contratti flessibili che non gli garantiscano una
massa ed una continuità reddituale sufficiente è sicuramente in una condizione di precariato, non rilevabile
attraverso un questionario come quello della Rcfl, che considera la situazione di un soggetto nella
settimana di riferimento dell’intervista4 e non segue, invece, la “storia occupazionale” del soggetto stesso,
impedendo di analizzare i flussi occupazionali, di grandissima importanza nello studio del funzionamento
del mercato del lavoro. In parte sopperiremo a questo problema valutando le variazioni degli aggregati
rispetto ai periodi precedenti (il che consente di valutare i flussi a livello macro), in parte facendo
riferimento ai dati Inps dell’Osservatorio sui parasubordinati (che considera i soggetti che nell’anno di
riferimento abbiano effettuato almeno un versamento alla Gs: un anno fornisce una dimensione
quantitativa del fenomeno in questione differente da quella che se ne può ricavare in una settimana) , in
parte citando risultati di studi empirici svolti usando un database, il Whip (Work histories italian panel),
costruito dai ricercatori del Laboratorio Revelli, che tenta di ricostruire le storie professionali delle unità
campionarie incrociando dati Inps con dati Istat5.
Partendo dai dati dell’ultimo rapporto annuale dell’Istat (2010) riportati nella Tabella 1, i lavoratori atipici,
secondo la definizione Istat, risultano essere 2 milioni 583 mila, l’1.3% in più dell’anno precedente, ma ben
il 7.3% in più rispetto al 20046 (il primo anno successivo alla Riforma Biagi, dunque anche il primo che
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La Rcfl utilizza un campione di famiglie che vengono tenute sotto osservazione per 15 mesi ed intervistate con lo
schema 2-2-2: per due trimestri vengono intervistate, per i successivi due trimestri non lo sono, per poi esserlo
nuovamente nei due ancora successivi. Tale rotazione permette di valutare variazioni congiunturali (da un trimestre al
successivo) e tendenziali (tra un anno e l’altro).
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Il limite di tali studi è che le osservazioni del Whip si fermano al 2004, il che impedisce una valutazione del fenomeno
aggiornata, che è lo scopo principale di questo documento.
6
Riportiamo in appendice la ricostruzione della serie storica degli occupati e della loro suddivisione in standard, nonstandard ed atipici, ottenuta dalle medie annuali diffuse dall’Istat dei dati raccolti dalla Rcfl. Su tali serie sono state
effettuate elaborazioni per ottenere la composizione percentuale degli occupati relativa ad ogni anno, la variazione
percentuale dei valori assoluti rispetto all’anno precedente e rispetto al 2004 (anno di riferimento per quanto spiegato
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permette un’aggregazione ed un confronto omogeneo dei dati Istat, che da allora utilizza la presente
classificazione dei contratti di lavoro). Di essi, 2 milioni 182 mila (poco meno dell’85% del totale) sono
dipendenti a tempo determinato, la restante parte collaboratori. Anche a tal proposito, guardando più
indietro nel tempo, saltano agli occhi alcune evidenze. Innanzitutto, il numero di lavoratori a tempo
determinato, rispetto al 2004, è aumentato di oltre il 14 per cento: una variazione notevolissima, se si
pensa che nel frattempo la crisi dell’economia reale ha iniziato a mietere le sue vittime, soprattutto tra
lavoratori di questo tipo; che infatti, tra il 2008 ed il 2009 sono calati del 7.3%. Tra gli atipici Istat, c’è una
leggera prevalenza femminile, dovuta soprattutto alle collaborazioni.
Tabella 1 - Occupati per sesso e tipologia lavorativa, 2010 (valori in migliaia, variazioni tendenziali
assolute in migliaia e percentuali)
Tipologia lavorativa
Standard
Dipendenti a tempo pieno
Autonomi a tempo pieno
Parzialmente standard
Dipendenti permanenti a tempo
parziale
Autonomi a tempo parziale
Atipici
Dipendenti a tempo determinato
Collaboratori
Totale
11,835
8,163
3,672
538
324
Anno
Trimestri
Variazioni
I
II
III
Assolute
%
Variazioni assolute
MASCHI
-224
-1.9 -205
-221
-234
-226
-2.7
-176
-234
-298
1
0.0
-29
13
64
31
6.1
32
26
-1
17
5.6
7
7
8
213
1,261
1,094
168
13,634
14
38
42
-4
-155
Standard
Dipendenti a tempo pieno
Autonomi a tempo pieno
Parzialmente standard
Dipendenti permanenti a tempo
parziale
Autonomi a tempo parziale
Atipici
Dipendenti a tempo determinato
Collaboratori
Totale
5,755
4,605
1,150
2,162
1,835
-72
-60
-12
79
71
327
1,321
1,069
232
9,238
7
-4
-12
8
3
Standard
Dipendenti a tempo pieno
Autonomi a tempo pieno
Parzialmente standard
Dipendenti permanenti a tempo
parziale
Autonomi a tempo parziale
Atipici
Dipendenti a tempo determinato
Collaboratori
Totale
17,590
12,768
4,822
2,700
2,159
540
2,583
2,182
400
22.872
Valori
IV
Trimestri
I
II
III
IV
Variazioni percentuali
-238
-194
-43
66
48
-1.7
-2.1
-0.8
6.7
2.2
-1.8
-2.8
0.4
5.0
2.1
-1.9
-3.5
1.8
-0.2
2.4
-2.0
-2.3
-1.2
13.7
16.7
6.9
26
3.1
35
4.0
31
-2.1
4
-1.1 -138
FEMMINE
-1.2 -139
-1.3
-110
-1.1
-29
3.8
85
4.1
88
20
22
21
2
-172
-9
24
30
-6
-211
18
71
85
-14
-100
13.7
3.0
3.1
2.2
-1.0
9.3
1.8
1.9
1.0
-1.2
-4.2
1.9
2.8
-3.7
-1.5
9.3
5.7
8.0
-7.6
-0.7
-41
-49
8
36
42
-70
-52
-19
71
84
-39
-29
-10
123
72
-2.4
-2.3
-2.5
4.1
5.0
-0.7
-1.0
0.7
1.7
2.4
-1.2
-1.1
-1.6
3.5
4.9
-0.7
-0.6
-0.9
5.9
4.0
-6
-18
-35
18
-23
-14
-11
-19
8
-11
51
30
26
4
114
-0.8
-1.3
-1.8
1.3
-0.8
-1.7
-1.3
-3.1
7.6
-0.2
-4.1
-0.8
-1.7
3.5
-0.1
17.6
2.2
2.3
2.0
1.2
-297
-285
-11
110
89
2.3
-3
-0.3 -17
-1.1
-19
3.6
3
0.0
-70
TOTALE
-1.7 -343
-2.2
-286
-0.2
-58
4.2
117
4.3
94
-262
-283
21
62
49
-304
-349
45
70
92
-277
-223
-53
189
121
-1.9
-2.2
-1.2
4.6
4.6
-1.5
-2.2
0.4
2.4
2.3
-1.7
-2.7
0.9
2.7
4.5
-1.6
-1.7
-1.1
7.4
5.8
21
34
30
5
-153
4.0
1.3
1.4
1.1
-0.7
14
5
-15
19
-195
-22
13
11
2
-222
69
101
111
-10
14
4.5
0.8
0.6
1.7
-0.9
2.5
0.2
-0.7
4.8
-0.8
-4.2
0.5
0.5
0.4
-1.0
14.3
3.9
5.1
-2.4
0.1
23
18
12
7
-208
Fonte: Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
Per poter conteggiare gli atipici secondo la definizione più comune – la prima che ne abbiamo dato (usata,
ad esempio, in Berton et al. 2009) – bisognerebbe aggiungere alle tipologie appena citate i dipendenti
nel testo). Inoltre, si riportano anche le stesse elaborazioni in tabelle separate per i soli lavoratori dipendenti,
scomponendoli in standard e atipici; in quest’ultimo gruppo sono inclusi anche i lavoratori a tempo parziale.
8
permanenti a tempo parziale, che nei dati Istat rientrano tra i parzialmente standard: sono 2 milioni 159
mila nel 2010. La somma di queste due tipologie raccoglie 4 milioni 742 mila soggetti, che rappresentano
quasi il 21% degli occupati e, escludendo gli autonomi a tempo pieno e parziale, oltre il 27% della somma di
dipendenti e collaboratori. In ragione di quanto detto nell’introduzione, il fatto che i lavoratori part-time
con contratto a tempo indeterminato vengano conteggiati tra gli atipici non deve far pensare che il tipo di
flessibilità cui sono sottoposti (oraria, principalmente, visto che quella numerica è limitata dalla mancanza
di una durata predeterminata del contratto e da tutele analoghe a quelle in vigore per un lavoratore
standard) li esponga automaticamente al rischio di precarietà. Abbiamo specificato, infatti, che precari
possono definirsi coloro che nel medio periodo rischiano di non poter provvedere alle proprie esigenze (e a
quelle del proprio nucleo familiare, qualora presente) contando sulla loro collocazione professionale. È
chiaro, dunque, che rispetto ad un lavoro connotato da grande saltuarietà e da scarsissime tutele in caso di
perdita del posto (quale può verosimilmente essere quello di un collaboratore a progetto o di una “falsa”
partita Iva, come approfondiremo a breve), un contratto di durata non predeterminata – seppur a tempo
parziale – offre sicuramente alcune garanzie più.
Tuttavia, essendo il criterio quello della “sostenibilità”, non è affatto scontato che un impiego part-time,
benché a tempo determinato, riesca ad assicurare al lavoratore un reddito tale per cui egli possa non
definirsi “precario”. A tal proposito, basti pensare che il reddito lordo medio da lavoro a tempo parziale è
ampiamente al di sotto dei 1000 euro mensili: è difficile pensare che un nucleo familiare (seppur di un
singolo individuo) possa avere un tenore di vita dignitoso basandosi esclusivamente su un reddito di questa
entità. È essenziale, perciò, discriminare tra lavoratori part-time volontari e involontari: i primi sono coloro
che scelgono deliberatamente di avere un lavoro a tempo parziale, spesso per motivi che possono avere a
che fare con la conciliazione tra lavoro e famiglia (ciò contribuisce a spiegare perché, in Italia, circa l’85%
dei lavoratori part-time siano di sesso femminile); i secondi sono, invece, soggetti che vorrebbero un lavoro
a tempo pieno ma non riescono a trovarlo, dunque ripiegano su un lavoro ad orario ridotto. Sebbene sia
molto meno probabile, anche tra i part-time volontari possono aversi episodi di precarietà, ad esempio nel
caso in cui un lavoro a tempo pieno implicherebbe per il nucleo familiare un costo opportunità (in termini
di spesa per servizi da acquistare sul mercato, piuttosto che “autoprodotti”) superiore all’incremento
retributivo ipoteticamente ottenibile lavorando a tempo pieno: in tali casi – sempre più frequenti in Italia (e
in altri paesi occidentali), dove la spesa assistenziale finalizzata alla conciliazione famiglia-lavoro è del tutto
insufficiente a coprire la domanda di servizi – un individuo è portato a scegliere volontariamente un lavoro
part-time – anche qualora non gli fornisca un reddito sufficiente al proprio sostentamento – solo perché
l’alternativa di un lavoro a tempo pieno lo metterebbe in una situazione addirittura più sconveniente dal
punto di vista economico. È evidente, tuttavia, che è sono sicuramente i lavoratori part-time involontari a
sopportare un maggior rischio di precarietà; tali casi, inoltre, diventano estremamente più diffusi nelle fasi
negative del ciclo economico, quando il basso livello della domanda spinge le imprese a comprimere la
produzione ed i relativi costi, innanzitutto riducendo le unità di lavoro equivalenti.
In base a quanto appena detto, il forte aumento di lavoro stabile a tempo parziale (che dal 2004 al 2010 ha
guadagnato quasi tre punti percentuali nella composizione del lavoro dipendente) può essere in parte
spiegato dall’aumento del tasso di attività femminile (visto che le donne hanno, generalmente, maggiori
esigenze di conciliazione), ma in parte va sicuramente imputato al deteriorarsi del quadro economico ed al
conseguente calo della domanda di lavoro. A conferma di ciò, la Figura 3.4 (tratta dal Rapporto annuale
dell’Istat del 2009) mostra come la variazione tendenziale annua del part-time volontario sia
profondamente negativa (-136 mila unità), mentre l’involontario abbia subito una forte accelerazione (+135
mila unità all’incirca).
9
Pertanto, già nel 2009 la quota dei parttime involontari sul totale dei
parzialmente standard raggiungeva
quasi il 40%, superando il milione di
unità (circa il 75% delle quali di sesso
femminile, a smentire il fatto che le
donne accettino volentieri un impiego a
tempo parziale). La tendenza ad
accettare lavori ad orario ridotto come
soluzione di riserva di fronte allo spettro
della disoccupazione è confermata
anche dai dati longitudinali Istat, che
Figura 1. Fonte: Istat (Rcfl)
confermano il trend negli ultimi anni. A
margine di tutto ciò, non bisogna
dimenticare il ruolo positivo svolto da alcune formule particolari di lavoro a tempo parziale in tempi di crisi:
il job sharing, ad esempio, rappresenta una soluzione particolarmente auspicabile in periodi di forte
contrazione della domanda di lavoro, evitando l’esplosione della disoccupazione e di tutte le problematiche
di ordine sociale (psicologico) ed economico connesse.
Tornando ai dati della Rcfl del 2010, è importante notare come a fronte di un calo degli occupati dello 0.7%,
gli atipici siano aumentati dell’1.3%, i dipendenti a tempo parziale del 4.3%: il calo, chiaramente connesso
alla crisi economica in corso (e ancora più accentuato nel corso del 2009), è dunque dovuto alla
diminuzione dei lavoratori standard (generalmente più costosi), che nella componente dipendente tocca il
2.2% (285 mila unità in meno rispetto al 2009); rispetto al 2004, tali dinamiche risultano addirittura più
evidenti: se l’occupazione dipendente è, in questo caso, aumentata di 5.4 punti percentuali
(essenzialmente dovuti all’aumento dell’occupazione femminile e alla transizione dal lavoro autonomo al
lavoro dipendente di alcune decine di migliaia di soggetti, vittime della crisi), l’aumento del numero di
dipendenti standard è stato di soli 1.2 punti, mentre il lavoro atipico è aumentato di quasi il 19%,
soprattutto grazie all’aumento notevolissimo del tempo parziale (quasi del 36%, una bella fetta del quale,
abbiamo visto, involontario). Più in generale, questo ha determinato la sostituzione di lavoratori standard
con lavoratori atipici per circa il 3% del totale del lavoro dipendente (contando anche i collaboratori): non è
affatto poco, considerando che il tutto è avvenuto nel giro di sei anni e che stiamo parlando di una massa
dimensionalmente molto significativa (il solo lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato, in Italia
rappresenta stabilmente più del 55% dell’occupazione, ovvero, tra i 12.5 ed i 13 milioni di individui, nel
periodo considerato; aggiungendo gli atipici, il lavoro alle dipendenze ha raggiunto, nel 2008, quasi i 18
milioni di unità). Può essere utile riassumere la situazione con un grafico che mostri le tendenze.
10
Valori assoluti (migliaia di unità)
Fino a tutto il 2007 l’occupazione è aumentata complessivamente (sebbene quella atipica lo abbia fatto a
tassi più sostenuti); con l’arrivo della crisi, il lavoro non standard ha mostrato il suo aspetto peggiore –
quello della “fragilità” – rispondendo da subito con un brusco calo. Anche l’occupazione standard ha
invertito il segno. Ma tra il 2009 ed il 2010, con i primi timidi segnali di ripresa (ad oggi, certamente, ancor
più timidi di quanto non fossero un anno fa!), il lavoro atipico ha ripreso a salire – tornando praticamente al
suo massimo storico – mentre il lavoro permanente a tempo pieno si è avvitato in un calo sempre più
accentuato(essenzialmente dovuto ad un contesto internazionale dominato dall’incertezza ed in cui la
competizione commerciale si basa sempre più sul costo del lavoro), determinando la sostituzione di cui
sopra. La netta tendenza pro-ciclica del lavoro atipico e la forte variabilità in base alle aspettative, oltre che
alle condizioni effettive di mercato, rappresentano uno dei principali indizi di precarietà di queste tipologie
lavorative: a prescindere dall’entità degli stock occupazionali in ogni momento, qualunque segnale
proveniente dal mercato stesso determina l’attivazione di forti flussi in entrata ed in uscita – ovvero,
creazione e distruzione immediata di posti di lavoro – incidendo notevolmente (quasi mai in senso positivo)
sulla continuità reddituale dei lavoratori che in essi vengono coinvolti. Come anticipato, analizzare
adeguatamente queste problematiche senza disporre di dati longitudinali dettagliati non è possibile, ma il
fatto che già i dati macro che abbiamo visto evidenzino questa dinamica è di per sé un segnale di quanto sia
importante questo fenomeno negli
ultimi anni. I dati Inps ce ne
Lavoro standard e lavoro atipico (2004-2010)
daranno conferma a breve.
13.100
13.050
4.800
In un’economia in cui la
4.600
partecipazione femminile è ancora
Dip. Std.
12.950
(scala sx)
ampiamente al di sotto della media
12.900
4.400
12.850
europea e continua a prevalere il
Atipici
(scala dx)
12.800
modello male breadwinner (l’uomo
4.200
12.750
percettore della parte sostanziale
12.700
4.000
del reddito familiare, dunque
12.650
presumibilmente titolare di un
12.600
3.800
lavoro
a
tempo
pieno
e
2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010
sufficientemente stabile), è ovvio
Figura 4. Fonte: Elaborazioni
Figura
su dati
2 Istat (Rcfl)
aspettarsi che il calo (congiunturale
e strutturale) del lavoro tipico si concentri sui maschi (-2.7% contro -1.3%) ed è fortemente significativo il
fatto che il lavoro atipico sia in aumento proprio tra i maschi stessi (+3.1%, dovuto soprattutto all’aumento
di contratti a tempo determinato) mentre è in leggero calo tra le donne (-0.3%): sicuramente ciò conferma
la sostituzione di lavoro tipico con lavoro atipico, che in gran parte avviene con l’uscita di insiders non
rimpiazzati da figure contrattuali analoghe. Se le uscite si registrano soprattutto tra i tipici e le entrate tra
gli atipici, come abbiamo visto, il mercato del lavoro tende – citiamo il rapporto annuale – a “polarizzarsi”,
ovvero a segmentarsi in maniera più netta, scaricando gli effetti della congiuntura principalmente su alcune
categorie e non necessariamente solo nel presente. Il grafico che segue mostra in maniera ancor più chiara
tale fenomeno.
13.000
11
Tale evidenza deve rappresentare un
campanello d’allarme per coloro che
guardano al lavoro atipico come ad un
canale d’ingresso del mercato del
lavoro: l’età dei lavoratori con contratti
atipici tende ad aumentare, perché il
passaggio ad un contratto standard è
tutt’altro
che
immediato
(ci
ritorneremo in seguito, accennando ai
tassi di transizione tra i vari segmenti
del mercato del lavoro) e perché chi
perde un posto tipico nella maggior
parte dei casi, oggi, riesce a
reimpiegarsi solo con contratti atipici.
Possiamo approfondire questi aspetti
guardando alla composizione del
Figura 3. Fonte: Istat (Rcfl)
lavoro non-standard descritta dalla
Rcfl, riassunta dalla Tabella 2 . L’andamento della composizione per età indica che il passaggio dal lavoro
atipico o part-time ad un lavoro standard è tutt’altro che immediato: il 47.9% dei lavoratori atipici ha tra i
30 ed i 49 anni, mentre rientra in questa classe di età addirittura il 67.7% dei lavoratori a tempo parziale.
Per quanto l’ampiezza della classe non permetta una discriminazione adeguata, individui con almeno 30
anni non possono considerarsi certamente giovanissimi e tutti al primo impiego. Gli atipici tra i 15 ed i 29
anni, invece, sono il 39.5%, mentre i dipendenti a tempo parziale in questa fascia di età sono il 14%. Ma è
soprattutto l’aumento vertiginoso dei lavoratori atipici e a tempo parziale con oltre 50 anni a mostrare un
andamento anomalo: nell’ultimo anno gli atipici sono aumentati di 7 punti percentuali, mentre i part-time
di 8.6 punti, arrivando a costituire, rispettivamente, il 12.7% ed il 18.3% degli occupati con tali tipologie
contrattuali. Una parte dei soggetti in tale classe di età è chiaramente costituita da lavoratori che, raggiunti
i requisiti anagrafici per il pensionamento, scelgono volontariamente di “invecchiare attivamente”
continuando a lavorare con contratti più flessibili; altre volte è l’insufficienza del trattamento pensionistico
stesso ad indurre una scelta simile. Ma non vanno trascurati, tra gli over 50, i sempre più numerosi casi di
perdita del posto di lavoro (tipico) in tarda età – costantemente verificata a livello empirico nelle fasi
negative del ciclo economico. Tali soggetti, considerati spesso i più costosi e al contempo i meno produttivi
dalle imprese, sono i primi ad essere espulsi, anche in ragione della tutela di cui godono dal punto di vista
degli ammortizzatori sociali e dell’”attenzione” sindacale. Per individui di questo tipo è praticamente
impossibile, nelle condizioni di mercato attuale, ritrovare un impiego a tempo pieno ed indeterminato, il
che li costringe a ripiegare su contratti atipici.
È sicuramente di qualche rilevanza valutare l’impiego settoriale del lavoro atipico. Innanzitutto, va
osservato che la stragrande maggioranza (oltre il 70%) di collaboratori e contratti a tempo determinato è
impiegato nei servizi e, all’interno di questo macro-aggregato, hanno maggiore rilevanza quantitativa il
comparto “commercio, alberghiero, ristorazione” e “pubblica amministrazione, istruzione sanità”, entrambi
con oltre il 20 per cento degli atipici. L’industria in senso stretto occupa il 14% circa dei soggetti con questa
tipologia contrattuale.
12
Tabella 2 – Principali caratteristiche dei lavoratori non standard (valori assoluti in migliaia e composizioni
percentuali)
Caratteristiche
Totale
parzialmente
standard (d)
Nord
Nord-ovest
Nord-est
Centro
Mezzogiorno
1,494
880
613
627
579
Maschi
Femmine
538
2,162
15-29
30-49
50 e più
358
1,714
628
Agricoltura
Industria
Industria in senso
stretto
Costruzioni
Servizi
Commercio, alberghi,
ristoranti
Servizi alle imprese (a)
Pubblica
amministrazione,
istruzione, sanità
Servizi alle famiglie e
alle persone (b)
Qualificate o tecniche
Impiegati e addetti al
commercio e ai servizi
Operai e artigiani
Non qualificate
Totale
64
372
277
Di cui dipendenti
a tempo parziale
Atipici
(e)
Ripartizione geografica
1,220
1,172
716
644
505
527
495
545
444
866
Sesso
324
1,261
1,835
1,321
Classi di età
303
1,020
1,461
1,236
395
327
Settori economici
19
235
285
533
228
358
Totale
parzialmente
standard % (d)
Di cui dipendenti
a tempo parziale
%
Atipici
% (e)
55.3
32.6
22.7
23.2
21.5
56.5
33.1
23.4
22.9
20.6
45.4
25.0
20.4
21.1
33.5
19.9
80.1
15.0
85.0
48.8
51.2
13.3
63.5
23.2
14.0
67.7
18.3
39.5
47.9
12.7
2.4
13.8
10.3
0.9
13.2
10.6
9.1
20.7
13.9
95
2,264
703
57
1,855
574
175
1,814
555
3.5
83.8
26.0
2.6
85.9
26.6
6.8
70.2
21.5
492
423
376
359
295
573
18.2
15.7
17.4
16.6
11.4
22.2
512
436
241
19.0
20.2
9.3
Professioni (c)
446
702
930
855
26.5
39.1
20.7
43.1
27.4
33.3
11.9
22.6
100.0
10.4
25.9
100.0
20.0
19.3
100.0
3.1
4.4
1.2
8.5
2.8
3.0
4.8
0.5
9.1
2.7
3.2
3.5
2.9
0.9
-0.8
6.1
3.8
5.6
4.1
3.1
-0.3
0.9
2.8
10.6
1.0
3.9
8.6
-1.5
2.4
7.0
2.3
0.6
0.8
24.6
-0.1
0.0
5.4
0.9
-0.4
-0.1
4.9
-0.6
4.8
3.5
1.0
715
1,055
321
609
2,700
Nord
Nord-ovest
Nord-est
Centro
Mezzogiorno
45
37
7
49
16
Maschi
Femmine
31
79
15-29
30-49
50 e più
3
46
60
Agricoltura
Industria
Industria in senso
stretto
Costruzioni
Servizi
1
2
2
106
225
513
558
494
2,159
2,583
Variazioni 2009/2010
Ripartizione geografica
36
37
33
22
3
15
41
5
12
-7
Sesso
17
38
71
-4
Classi di età
3
-16
55
29
31
21
Settori economici
4
12
5
-1
85
6
18
13
Commercio, alberghi,
ristoranti
Servizi alle imprese (a)
Pubblica
amministrazione,
istruzione, sanità
Servizi alle famiglie e
alle persone (b)
33
28
29
5.0
5.0
5.6
19
12
15
9
-6
-36
4.0
3.0
4.2
2.5
-2.0
-5.9
46
37
17
9.9
9.2
7.5
Qualificate o tecniche
Impiegati e addetti al
commercio e ai servizi
Operai e artigiani
Non qualificate
Totale
14
53
Professioni (c)
3
-42
43
15
2.0
5.3
0.7
4.9
-5.6
1.8
-29
72
110
-25
67
89
-8.3
13.4
4.2
-10.0
13.7
4.3
5.2
7.8
1.3
25
36
34
Fonte: Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
(a)I servizi alle imprese comprendono l’insieme delle attività del comparto “Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, servizi alle imprese”.
(b) I servizi alle famiglie e alle persone comprendono i comparti dei servizi sociali e personali e dei servizi domestici.
(c) Le professioni qualificate e tecniche comprendono i gruppi I, II e III della “Classificazione delle professioni 2001”; gli impiegati e addetti al
commercio e ai servizi gruppi IV e V; gli operai e gli artigiani gruppi VI e VII; le professioni non qualificate gruppo VIII. Al netto delle forze armate.
(d) I lavoratori parzialmente standard sono i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato part time e i lavoratori autonomi (esclusi i collaboratori)
che dichiarano di lavorare part time.
(e) I lavoratori atipici comprendono i dipendenti con contratto a termine (sia full time che part time) e i collaboratori.
È bene notare, sempre riguardo alla classificazione Istat di lavoro atipico, che solo nel 19% circa dei casi si
tratta di lavoratori non qualificati, mentre più di un quarto (27.4%) svolgono mansioni altamente qualificate
e tecniche. Tra questi ultimi troviamo sicuramente collaboratori e contratti a tempo determinato di
individui che hanno una posizione tutt’altro che debole o marginale nel mercato del lavoro. Basti ricordare
che tra i collaboratori sono classificati anche gli amministratori, sindaci e revisori di società (Asr); i
partecipanti a collegi e commissioni; medici specializzandi, dottorandi di ricerca, assegnisti, collaboratori di
giornali o riviste. In tutte queste categorie, ed altri possibili esempi particolari, pur trattandosi di lavoro
parasubordinato (sono tutti contribuenti iscritti alla gestione separata), hanno non di rado altre fonti di
reddito e, spesso, hanno un reddito medio derivante dalle collaborazioni piuttosto elevato. Guardando ai
dati accessibili dall’Osservatorio Inps sui parasubordinati, si vede, ad esempio, che il reddito medio annuo
da collaborazione è pari, per gli Asr, a 31.314 euro nel 2010. Per avere un riferimento, la media ponderata
sul totale dei parasubordinati nello stesso anno è di 17.490 euro circa, che si riduce a 10.219 euro se
consideriamo i soli collaboratori: è ragionevole affermare, usando un po’ di buonsenso e tenendo a mente
la definizione di precarietà concordata nell’introduzione, che per questo genere di lavoratori la flessibilità
non rappresenta un rischio.
Le valutazioni fatte sinora, in definitiva, mostrano una volta di più come “flessibile” non sia sinonimo di
“precario” e come anche la definizione di lavoratore atipico racchiuda al suo interno situazioni
profondamente differenti, che non è sempre semplice distinguere. Tali distinzioni, spesso ignorate o non
adeguatamente messe in rilievo, sono alla base della profonda asimmetria e del notevole disordine che si
riscontra nei dati che fanno da sfondo al dibattito – scientifico ma anche politico –sul lavoro atipico.
Tuttavia, le rilevazioni dell’Osservatorio Inps possono aiutarci a capire meglio di cosa stiamo parlando e ad
analizzare con qualche dettaglio in più la voce “collaboratori” che compare nei dati Istat, visto che si tratta
di una componente importante del lavoro atipico. Innanzitutto, bisogna cercare di capire il differente
contenuto di dati Istat e dati Inps, che tendono ad essere numericamente molto diversi tra loro. Nella Rcfl
l’Istat considera tra i collaboratori tutti coloro che dichiarano di aver lavorato con contratti co.co.co. e
co.co.pro, nonché i collaboratori (prestatori d’opera) occasionali, relativamente alla settimana di
riferimento. In pratica, l’Istat considera collaboratori tutti coloro che versano gli oneri contributivi con
ritenuta d’acconto (ovvero, con il committente che funge da sostituto d’imposta), mentre non vengono
14
conteggiati i professionisti che versano autonomamente i propri contributi, i quali vengono compresi tra gli
autonomi standard o parzialmente standard. I dati Inps, invece, basandosi sugli iscritti alla Gs,
comprendono inizialmente anche i professionisti (che, se non appartenenti ad un Albo e privi di Casse
autonome, contribuiscono alla Gs), che vengono in seguito considerati separatamente. Altra differenza
essenziale nella costruzione del dato è che la Rcfl rileva coloro che sono in una data condizione nella
settimana di riferimento (generalmente, quella precedente alla rilevazione); il dato annuale è poi costruito
come media delle rilevazioni continue. Il dato annuale Inps, invece, è ottenuto – come accennato in
precedenza – conteggiando tutti coloro che nell’anno effettuano almeno un versamento alla Gs. È lecito,
dunque, attendersi che la quantificazione dell’Inps sia numericamente superiore a quella dell’Istat,
soprattutto se si tiene in considerazione il fatto che i contratti di collaborazione hanno spesso durata
inferiore all’anno e che l’Istat include un individuo tra i collaboratori solo se la collaborazione stessa ne
costituisce l’attività principale. In un certo senso, potrebbe dirsi che il dato Inps riflette più da vicino il
numero di posizioni coperte con contratti di collaborazione in un anno7, mentre il dato Istat riferisce quante
di quelle posizioni sono attive mediamente in una settimana con riferimento ad un dato anno. Sulla scorta
dei caveat appena illustrati, vediamo di analizzare in maniera più dettagliata la composizione del lavoro
parasubordinato, tentando di individuare in questo aggregato i soggetti che vivono tale condizione senza
raggiungere un adeguato standard di sicurezza (intesa come continuità o adeguatezza reddituale,
dipendenza economica dal committente, ecc). In totale, i contribuenti alla Gs nel 2010 sono stati 1 milione
694 mila 7318; tra questi, i professionisti sono 252.504. Il numero collaboratori che hanno effettuato
almeno un versamento nel 2010, pertanto, ammonta ad 1 milione 442 mila 227. Se lo scopo è quello di
analizzare il “rischio precarietà” di questi soggetti, escludere i professionisti senza cassa non è una scelta
indolore: è pratica piuttosto diffusa, da almeno un quindicennio a questa parte, quella di utilizzare
lavoratori formalmente autonomi come dipendenti. Tali soggetti non hanno praticamente alcuna tutela e le
loro retribuzioni, mediamente, risultano piuttosto basse. Per cercare di quantificare questo fenomeno
(peraltro diffuso anche tra gli autonomi iscritti ad albi), l’Istat dal 2008 ha introdotto una serie di domande
volte a capire quando un lavoratore formalmente autonomo (senza dipendenti) lo sia anche nei fatti. La
prima discriminante essenziale è l’avere uno o più committenti; successivamente, si chiede se il lavoro è
svolto presso la sede del cliente9 o presso una propria sede e se vi è o meno autonomia negli orari di lavoro.
Riguardo al 2010, i risultati di questa disaggregazione operata nella Rcfl sono efficacemente riassunti dalla
Figura 4, in cui si considerano gli autonomi senza dipendenti, escludendo i collaboratori.
7
Ovviamente, alla luce di quanto detto, se la stessa posizione viene coperta in un anno da due contratti differenti, nel
dato Inps si conteggia due volte, purché i soggetti che la ricoprono non siano già contribuenti alla Gs per altri contratti.
8
In quello che segue, in particolar modo se si fa riferimento a dati di fonte amministrativa (Inps), definiremo
parasubordinati tutti i contribuenti alla Gs; di questi, coloro che effettuano in proprio i versamenti saranno definiti
professionisti (si tratta, sostanzialmente, delle partite Iva che non hanno una cassa autonoma), mentre chiameremo
collaboratori tutti coloro per i quali i versamenti vengono effettuati da un committente. All’interno di quest’ultimo
gruppo è utile tenere distinti gli Asr ed i collaboratori in senso stretto (co.co.co., co.co.pro., collaboratori occasionali,
autonomi occasionali) dagli altri.
9
Si intende tale colui che commissiona il lavoro all’autonomo.
15
Figura 4. Fonte: Elaborazioni su dati Istat (Rcfl) 2010
Come si vede, 90 mila soggetti svolgono un lavoro atipico che non è rischioso definire precario, trattandosi
di un lavoro sostanzialmente dipendente, ma svolto con forme contrattuali non adeguate. In realtà, l’area
di debolezza sociale comprende, grosso modo, tutti gli autonomi senza dipendenti che hanno un solo
committente (sono 780 mila, poco meno del 23% del totale), dal momento che non diversificano in alcun
modo il rischio derivante dalla totale dipendenza economica dal cliente; peraltro, i redditi di questa
categoria saranno tendenzialmente non elevati, trattandosi di attività piccole (si tratta di autonomi senza
dipendenti) e difficilmente afferenti alle professioni intellettuali, che hanno le remunerazioni mediamente
più elevate (ma raramente lavorano in monocommittenza). Inoltre, è difficile escludere aprioristicamente
che, anche tra gli autonomi senza dipendenti ma con due o più clienti, quelli che lavorano presso la sede
del cliente e non hanno autonomia nell’orario di lavoro (stiamo parlando di quasi 180 mila persone!) siano
effettivamente lavori autonomi: potrebbe trattarsi di uno stesso datore di lavoro di fatto, che attiva due
contratti diversi con uno stesso lavoratore tramite due persone giuridiche differenti; o ancora, potrebbe
essere il caso di un autonomo che “sbarca il lunario” con due “lavoretti” part-time, sostanzialmente
dipendenti.
Tra i collaboratori, l’abuso della forma contrattuale per figure che sono sostanzialmente dipendenti è
estremamente più diffuso, come si può facilmente immaginare. Tanto per averne un’idea, i collaboratori
rilevati mediamente dall’Istat nel 2008 erano 465 mila; di questi, quasi il 90 per cento lavora per un unico
committente, circa il 77 per cento svolge l’attività presso la sede del cliente e oltre la metà non decide gli
orari di lavoro.
Fatta tale necessaria premessa, torniamo ad analizzare la composizione dei soli collaboratori sulla base dei
dati Inps. In una certa continuità con quanto appena detto, di particolare importanza è la distinzione tra
contribuenti esclusivi e concorrenti: i primi sono coloro che non hanno altra forma di contribuzione
previdenziale, mentre i secondi sono definiti in maniera residuale rispetto ad essi. È chiaro, perciò, che gli
esclusivi vivono una condizione di forte dipendenza economica dal lavoro atipico, il che costituisce un
primo essenziale indizio di precarietà. Nel 2010, i collaboratori esclusivi sono stati 949.681, circa il 66% del
totale. Per valutare l’impatto della crisi su questi soggetti si tenga in considerazione che erano 1.178.345
nel 2007: il calo è stato del 6.9% nel 2008, dell’11.7% nel 2009, dell’1.9% nel 2010. Nello stesso periodo
(2007-2010), i collaboratori concorrenti sono scesi di meno di mezzo punto percentuale, ad indicare quanto
16
differenti siano queste due tipologie di contribuenti e quanto più esposti al ciclo siano i primi. Un’altra
valutazione interessante da fare, purtroppo senza poter distinguere tra contribuenti esclusivi o meno,
riguarda il tipo di rapporto di lavoro del collaboratore. Degli oltre 1 milione 442 mila collaboratori, i più
numerosi sono quelli con contratto co.co.pro., che contano nel 2010 oltre 675 mila contribuenti attivi, in
aumento del 3.4% rispetto al 2009. Se si sommano i collaboratori della pubblica amministrazione
(generalmente con contratto co.co.co.) – che, a differenza dei primi, hanno subito un calo del 13% nel 2010
per via dei tagli vari tagli di spesa previsti nelle manovre dell’ultimo quinquennio – si arriva ad oltre 730.000
individui, quasi il 51% dei collaboratori.
A ricordare quanto possa essere fuorviante il numero complessivo dei collaboratori conteggiato in un anno
dall’Inps, però, c’è la notevole consistenza di iscritti Asr, oltre 497 mila unità10. Oltre a questi, bisognerebbe
escludere dal conteggio dei collaboratori “precari” anche altre categorie professionali: i soggetti in
formazione di alto livello (dottorandi di ricerca, assegnisti, medici specializzandi: in tutto si tratta di quasi 74
mila individui, certamente con situazioni molto diverse, ma che, quantomeno, non hanno versamenti
frammentari durante l’anno e possono vantare un livello d’istruzione molto alto, che dovrebbe renderli più
forti sul mercato del lavoro), i partecipanti a collegi e commissioni, più altri casi, si possono sottrarre al
totale circa 600 mila individui, arrivando dunque a circa 842 mila collaboratori a rischio precarietà che
hanno versato almeno un contributo alla Gs nel 2010. Il dato Istat (400 mila collaboratori) è ancora molto
inferiore, ma la differenza è imputabile principalmente al metodo di conteggio (attivi nella settimana di
riferimento o contribuenti all’interno di un dato anno) ed al fatto che l’Istat considera solo coloro che sono
principalmente collaboratori. A riprova di quanto detto, la media per il 2010 del dato Inps relativo ai soli
contribuenti esclusivi, calcolato però su base mensile (numero di collaboratori che hanno versato alla Gs in
un dato mese), è di 511.982 soggetti. Nel 2007 questo stesso dato contava 636.897 individui. Stavolta, se si
confronta la stessa rilevazione, ma relativa ai contribuenti concorrenti, si ha addirittura un aumento dei
collaboratori tra il 2007 ed il 2010: da 246 mila circa a quasi 267 mila.
Sempre considerando il totale dei collaboratori/contribuenti Inps, è interessante notare come le classi di
età più numerose per i collaboratori siano quelle centrali (tra i 30 ed i 50 anni), a sfatare il mito dell’atipicità
come condizione giovanile. Il grafico che segue descrive tale distribuzione.Un altro segnale di precarietà è il
reddito lordo medio di tali collaboratori: nella fascia di età 30-39 si aggira intorno ai 14.500 euro annui,
mentre per i 40-49 si arriva a poco
Numero di collaboratori per classi di età
più di 21.500 euro. Per quanto
400.000
potrebbe trattarsi di fonti di reddito
350.000
non
esclusive,
non
stiamo
300.000
certamente parlando di somme tali
250.000
da “assicurare” il soggetto che le
200.000
percepisce contro il rischio di
2009
150.000
periodi di disoccupazione più o
2010
100.000
meno lunghi e frequenti. Per
50.000
evidenziare proprio il carattere
0
“irregolare” delle collaborazioni
fino a 24
25-29
30-39
40-49
50-59
60+
(ricordiamo che la continuità
Figura 5. Fonte: Elaborazioni su dati Inps, Osservatorio sui Parasubordinati
Fonte: Elaborazioni su dati 2010 Osservatorio sui Parasubordinati Inps
reddituale è una delle componenti
essenziali di un modello che sappia coniugare flessibilità e sicurezza), è utile ricorrere alla distinzione per
10
È bene precisare che, di questi, meno della metà (217.154 soggetti, ovvero il 43.7%) risultano contribuenti esclusivi
alla Gs. Questa percentuale è mediamente pari a circa il 66% e per i co.co.pro. supera l’84%.
17
mesi di contributi versati: si osserverà che solo il 36% dei collaboratori versa contributi per 12 mesi, mentre
oltre il 30% versa contributi solo per 1-5 mesi. Bisogna precisare, in proposito, che il dato si riferisce ai mesi
accreditati per fini previdenziali: per avere accreditato un intero anno di contributi bisogna aver dichiarato
un reddito minimale di 14.332 euro (nel 2010); redditi inferiori attribuiscono mesi di contribuzione proquota, approssimando sempre per difetto. Dunque, i dati mostrati evidenziano forte instabilità del lavoro
per i collaboratori o, in alternativa, redditi piuttosto esigui per come remunerazione per lavori più continui.
L’ultima osservazione che ci sembra interessante proporre usando i dati dell’Osservatorio sui
parasubordinati riguarda la dipendenza economica dei collaboratori da uno o più committenti.
Il grafico a torta indica chiaramente come la condizione di monocommittenza abbia una predominanza
schiacciante sulle altre, il che – abbiamo spiegato in precedenza – rappresenta uno dei principali indizi di
utilizzo “anomalo” delle collaborazioni, che tende a “mascherare” l’impiego di lavoro dipendente con il
ricorso a lavoro atipico (con ciò che ne consegue a livello di costi e di tutele contrattuali), prestato da
soggetti solo formalmente autonomi. È anche il caso di notare come tali percentuali coincidano con quelle
ottenibili dai dati Istat relativi a questo aspetto. In definitiva, è sicuramente tra il 90% di collaboratori con
un solo committente che si riscontra il più alto rischio di precarietà in questa categoria.
Un ulteriore dettaglio del dato sui lavoratori atipici dell’Istat si può ottenere focalizzando l’attenzione sul
lavoro in somministrazione (in passato definito lavoro interinale). Formalmente, questi lavoratori rientrano,
per la maggior parte, tra i lavoratori a tempo determinato. Tra il 2007 ed il 2010, l’abolizione del c.d. staff
leasing (ovvero, l’opportunità di stipulare contratti di lavoro interinale a tempo indeterminato) faceva sì
che il lavoro in somministrazione venisse totalmente compreso nel lavoro a tempo determinato. Tuttavia,
ancora oggi, come negli anni immediatamente successivi alla sua introduzione (2003), la presenza di
contratti a tempo indeterminato di questo tipo è quasi ovunque trascurabile, quindi possiamo
effettivamente considerare gli interinali come un sottogruppo di quelli che l’Istat rileva come lavoratori a
tempo determinato, quindi atipici. Tali lavoratori sono formalmente assunti dal somministratore (con
contratti di durata variabile, per l’appunto, anche indeterminata), che deve essere un soggetto autorizzato
dal Ministero del Lavoro ed iscritto ad un albo; a sua volta, il somministratore “noleggia” i lavoratori ai
propri clienti, ovvero ad aziende che ne facciano richiesta che utilizzeranno e, in definitiva, retribuiranno, il
lavoratore (pagando anche l’intermediazione del somministratore, ovviamente). Il contratto di lavoro,
dunque, non è diretto tra l’impresa ed il
Collaboratori per numero di
lavoratore, ragion per cui ci si riferisce a tale
committenti
rapporto
come
missione,
cui
il
2%
somministratore assegna un suo dipendente
8%
per soddisfare la domanda di lavoro
un committente
dell’utilizzatore: questo aspetto spiega
due committenti
tre o più committenti
perché il numero di missioni sia
fortissimamente legato al ciclo, “copiandone”
in maniera quasi perfetta le oscillazioni. Dal
Fonte: Elaborazioni su dati 2010
90%
Osservatorio sui Parasubordinati
punto di vista formale, bisogna tenere a
Inps
mente
che
al
lavoratore
in
Figura 6
somministrazione deve essere garantito un
trattamento economico non inferiore a quello spettante ad un suo omologo dipendente diretto
dell’azienda che lo utilizza; ciò, in genere, garantisce a questi lavoratori un salario equo, sebbene a fronte di
una discontinuità reddituale notevolissima, come vedremo a breve. Inoltre, l’utilizzatore ed il
18
somministratore sono obbligati in solido al versamento dei contributi previdenziali, oltre che delle
retribuzioni stesse.
Fatte tali premesse, necessarie a chiarire le peculiarità del lavoro in somministrazione, vediamo di valutarne
la consistenza numerica e altre caratteristiche rilevanti (durata media dei contratti, età media dei
lavoratori, ecc.), utilizzando le elaborazioni che l’Osservatorio dell’Ente Bilaterale per il Lavoro
Temporaneo11 (Ebitemp) mette a disposizione con aggiornamenti costanti, diffondendo note congiunturali
mensili e relazioni annuali sull’andamento del lavoro interinale. Per omogeneità rispetto agli altri dati citati
in questo documento, faremo quasi esclusivamente riferimento ai dati annuali, anche perché, considerando
l’elevata fluidità di cui questo tipo di impiego risente, l’uso di dati mensili (o delle loro medie) non riesce a
dare conto in maniera adeguata del numero di soggetti che in un anno lavorano con contratti di questo
tipo. Pertanto, utilizzeremo gli ultimi indicatori annuali disponibili, anch’essi relativi al 2010. Iniziamo col
dire che gli assicurati netti (ovvero, coloro che in un anno hanno svolto almeno un giorno di missione) sono
stati 449.411, in aumento di quasi il 13% rispetto all’anno precedente, ma circa 135 mila in meno del 2007,
prima che la crisi iniziasse a mordere in Europa, nonché anno di massimo storico nella serie degli assicurati
interinali dall’introduzione di questa forma contrattuale. Il calo più brusco, come abbiamo visto anche per
tutte le altre tipologie di lavoratori, si è avuto tra il 2008 ed il 2009, nel picco negativo della recessione.
Confrontando il totale degli assicurati con
la media mensile, si ottiene un primo indice
della
“saltuarietà”
del
lavoro
in
somministrazione. Come per i dati Inps, il
dato mensile rappresenta, a grandi linee, il
fabbisogno di questo tipo di personale a
livello organico. La media del dato mensile
per il 2010 è di all’incirca 256 mila unità,
dunque gli occupati “stabili” sono poco più
della metà di coloro che nell’anno hanno
versato almeno un contributo; va detto che
tale proporzione è ai suoi massimi, essendo
in graduale ma continua ascesa dal 2003.
Inoltre, se si valutano le unità di lavoro
12
equivalenti , si arriva a contarne 186.960, ad indicare il forte impatto del part-time e delle missioni brevi.
Quest’ultimo aspetto si evince più chiaramente andando a vedere quante sono state le missioni attivate:
nel 2010 se ne contano 1 milione 28 mila 555, ovvero oltre 2 per ogni contribuente nell’anno considerato,
con una durata media delle missioni di circa 45 giornate di lavoro retribuito. Ciò vuol dire che la mobilità dei
lavoratori interinali è piuttosto elevata, che molto spesso la durata di un contratto di lavoro interinale è
piuttosto esigua e che, nella maggior parte dei casi, ad esso ne segue uno dello stesso tipo. Figura 7 aiuta a
capire le proporzioni del fenomeno.
Figura 7. Fonte: Elaborazioni su dati Ebitemp
11
Gli studi di Ebitemp sono basati sull’analisi dei dati relativi agli assicurati Inail, quindi hanno tutta l’affidabilità di una
fonte istituzionale, seppur amministrativa.
12
Tale espressione si usa per aggregare in unità standard a tempo pieno il lavoro di soggetti che sopportano un
impegno diverso. Per fare un esempio, due lavoratori part-time che “dividano” a metà una giornata di lavoro di otto
ore rappresentano una sola unità di lavoro equivalente.
19
Nel 2010 il 42% delle missioni è durato non più di un mese, il 90% non più di tre; solo il restante 10% ha
avuto una durata superiore ai 90 giorni. Inoltre, va osservato che la percentuale di missioni di lunga durata
– se così si può definire un incarico che
superi i tre mesi – si è più che
dimezzata dal 2007 ad oggi, mentre è
più che raddoppiata la proporzione
delle missioni con durata tra 31 e 90
giorni. È importante, alla luce di ciò,
valutare la composizione per età del
lavoro interinale: come già detto, un
“dinamismo” di questo tipo è
auspicabile non duri troppo a lungo
nella vita professionale di un individuo,
soprattutto se non compensato da
redditi particolarmente elevati (come
vedremo
a
breve)
e
da
Figura 8. Fonte: Elaborazioni su dati Ebitemp
ammortizzatori sociali adeguati.
Nemmeno in questo caso i dati sembrano lasciare spazio all’ottimismo: dal 2002 al 2010 la quota dei
lavoratori interinali con almeno 40 anni di età è andata sempre aumentando, raggiungendo circa un quarto
del totale (24%). Nel 2010 gli over 50, invece, hanno raggiunto il 6.2% dei lavoratori somministrati. A
commento di questi dati valgono le considerazioni fatte in relazione alla struttura anagrafica dei
collaboratori.
Per chiudere questa rapida carrellata di statistiche descrittive sul lavoro in somministrazione può essere
utile mostrare in quali settori dell’attività economica il lavoro in somministrazione sia più richiesto. La
predominanza dell’industria manifatturiera è assolutamente evidente: nel 2010 impiega oltre il 47% degli
occupati con questa tipologia contrattuale; erano addirittura il 58% nel 2007. Tale evidenza si può spiegare
con la rapida diffusione che le nuove filosofie industriali – come il just in time e la lean production – hanno
avuto nell’ultimo ventennio del
secolo scorso, le quali hanno
profondamente modificato le logiche
produttive e la gestione di magazzino
nella grande impresa, che in Italia più
che altrove si concentra nel settore
manifatturiero. Alla base di questi
sistemi organizzativi vi è l’idea di
seguire la dinamica della domanda di
un dato prodotto il più da vicino
possibile, evitando l’immobilizzazione
e lo spreco di risorse (ne sono
esempi, in quest’ottica, l’accumulo di
giacenze di magazzino e l’assunzione
di personale sottoutilizzato per
lunghi periodi di tempo), ma garantendo al contempo qualità, efficienza e rapidità nella soddisfazione della
domanda stessa. Il lavoro interinale si attaglia particolarmente bene a queste esigenze: non comporta
assunzioni o licenziamenti (quindi vi è rapidità nell’adeguare il personale alle necessità dettate dal mercato
Figura 9. Fonte: Elaborazioni su dati Ebitemp
20
e i costi accessori per farlo sono contenuti), ma al contempo si hanno a disposizione dipendenti veri e
propri, non collaboratori, peraltro generalmente già selezionati dalle agenzie di somministrazione ed
assegnati in base alle esperienze professionali pregresse; in più, il buon livello delle retribuzioni ed il fatto
che al lavoratore interinale spettino le stesse prerogative del dipendente assunto direttamente (in termini
di ferie, permessi, malattia, …) ha un effetto di tipo “salari di efficienza”, attirando manodopera più
qualificata e motivata. Quanto detto dovrebbe contribuire a spiegare perché la domanda di lavoro atipico
nella grande industria si traduca principalmente in contratti a tempo determinato e missioni per lavoratori
in somministrazione (più costosi, ma effettivamente dipendenti e più selezionato), mentre nei servizi e
nella piccola impresa abbia una diffusione maggiore il lavoro parasubordinato, nettamente meno costoso,
ma anche meno “controllato” e produttivo.
Tassi di sostituzione
Dopo aver cercato di fare chiarezza sulle varie tipologie di lavoro atipico in Italia e sul loro spessore
quantitativo, diventa centrale un interrogativo: questo tipo di contratti preludono effettivamente
all’accesso ad una posizione standard? Tale transizione è abbastanza veloce, come i sostenitori del lavoro
flessibile affermano? Purtroppo, l’esperienza italiana nell’ultimo quindicennio ha messo a nudo molte
criticità in tal senso. Alcune di esse sono già state evidenziate dai dati sull’età dei collaboratori e dei
lavoratori in somministrazione: esse mostrano come tale tipologie contrattuali sino maggiormente diffuse
tra soggetti non più giovanissimi (tra i 30 ed i 50 anni), il che – anche al netto di dettagli che non possono
essere apprezzati dai dati disponibili – non lascia ben sperare quanti auspicano un passaggio rapido dalla
formazione al lavoro stabile. Quelle che vogliamo analizzare ora, invece, riguardano la frequenza relativa
con cui un lavoratore atipico resta tale oppure riesce a passare ad un lavoro standard; o ancora, nel
peggiore dei casi, diventa disoccupato. Per poter dire qualcosa in merito, è chiaro che l’osservazione
longitudinale di un certo campione di individui riesce a fornire molta informazione in più, rispetto
all’osservazione di macrodati in periodi successivi; in proposito, abbiamo accennato all’inizio al database
Whip, che ricostruisce i percorsi professionali degli individui di un campione rappresentativo. Nonostante il
tipo di informazione contenuto in Whip sia quello di cui l’analisi dei flussi di transizione necessita, ci sono
delle forti limitazioni a riguardo: innanzitutto, come segnalato in precedenza, i dati si fermano al 2004,
quindi non ci sono utili per descrivere cosa sia successo negli ultimi anni e come il contesto
macroeconomico abbia inciso sulle dinamiche del mercato del lavoro; in secondo luogo, la dimensione
temporale è abbastanza contenuta, essendo il panel bilanciato disponibile dal 1998. Questo impedisce, ad
esempio, di studiare le transizioni nel lungo periodo (nell’arco di 10 o 15 anni), il che può rivelarsi, invece,
molto utile. Infine, Whip considera esclusivamente i rapporti di lavoro nel comparto privato e in una parte
del settore pubblico (quella dei contratti di durata prefissata), e considera disoccupazione soltanto quella
cui corrisponde un indennizzo. In ogni caso, può essere istruttivo vedere i risultati di analisi empiriche
d’interesse per l’argomento alla nostra attenzione, per avere un’idea – seppure un po’ “datata” – di alcune
tendenze macroscopiche che sembrano trovare conferma anche in studi più recenti. In particolare,
mostreremo nelle prossime righe i principali risultati che Berton, Richiardi e Sacchi (2009) ottengono
usando dati Whip per studiare i principali flussi di transizione nel mercato del lavoro. Come punto di
partenza, il campione viene diviso in un gruppo di soggetti tra i 16 ed i 35 anni che entrano nel mercato del
lavoro nel biennio 1998-99 ed un gruppo di lavoratori con età tra i 36 ed i 50 anni nel 1998; tale
suddivisione è fatta per evidenziare le diverse peculiarità che possono contraddistinguere due segmenti
della forza lavoro così diversi. Per proseguire, gli autori verificano cosa succede nell’immediato quando un
contratto di lavoro di un certo tipo termina; si prendono in considerazione i contratti terminati in tutto
l’orizzonte temporale disponibile (dal 1998 al 2003). Per gli entranti si vede che nel 45% dei casi l’esito è
21
l’inoccupazione (è impossibile distinguere disoccupazione da inattività per coloro che non ricevono il
sussidio); a dispetto di quelle che potrebbero essere le attese, anche la terminazione di contratti tipici nel
47.8% determina nell’immediato tale esito, mentre nel 30% circa dei casi si passa ad un altro contratto
tipico; è tutt’altro che trascurabile la percentuale di coloro che, venendo da un’occupazione standard
passano ad un lavoro atipico: oltre il 20%. Per i soggetti in età 36-59 nel 1998 tale percentuale cala di
molto, ma non è irrilevante: 7.3%; cresce di molto, con l’età, anche la proporzione di lavoratori standard
che passano ad un altro lavoro standard, che diventa del 42%. I collaboratori entranti si stabilizzano solo nel
10 per cento dei casi, mentre il 66% delle terminazioni per loro da luogo a disoccupazione. Per i
collaboratori più anziani questi dati sono ancora più sconfortanti: il 78% di loro diventa disoccupato,
mentre solo il 6% trova un lavoro standard. I contratti a tempo indeterminato part-time si trasformano
raramente in contratti standard, anche perché spesso rappresentano una scelta del lavoratore. I contratti a
tempo determinato e interinali, invece, diventano contratti tipici per i giovani, rispettivamente, nel 27% e
19.5% dei casi; percentuali che salgono di circa dieci punti per il gruppo dei più anziani. Questo tipo di
contratti, dunque, sembra dare molte più prospettive di uscita dal precariato rispetto alle collaborazioni.
Un’altra analisi molto significativa è sostanzialmente analoga a quella di cui abbiamo appena riportato i
risultati, ma valuta i tassi di transizione a distanza di quattro anni dalla terminazione nel contratto (per
tenere conto di processi di “assestamento” della propria posizione più lunghi, soprattutto per i nuovi
entrati), ragion per cui si possono considerare esclusivamente i contratti terminati nel biennio 1998-99.
Ovviamente, in questo caso la percentuale tra i 16-35 di coloro che restano disoccupati dopo quattro anni
dalla terminazione di un contratto è molto più bassa, 8%, che diventa del 11.2% tra i 36-50. È interessante
notare come, tra i giovani, oltre un quarto (26.5%) di coloro che quattro anni prima uscivano da un
contratto standard si ritrovi con un contratto atipico: probabilmente una parte di essi sceglie
deliberatamente tale soluzione, ma il dato non è affatto “intuitivo”. Meno della metà dei collaboratori
(45%) passa ad un contratto tipico; tra i collaboratori anziani, poi, solo il 15.5% diventa un lavoratore
standard: questo spiega perché nei dati Inps la fascia 30-50 risulti decisamente affollata tra i collaboratori;
per quanto, anche in tal caso, possa essere presente una componente di scelta volontaria (che la media dei
redditi non giustificherebbe), questa condizione sembra davvero rappresentare uno “stato assorbente”
della precarietà. È importante notare, invece, come tra i 16-35 chi termina un contratto interinale a
distanza di quattro anni abbia un lavoro standard nel 66.5% dei casi.
Infine, è essenziale valutare le transizioni quando il punto di partenza non è la terminazione di un rapporto
di lavoro, bensì un lavoro ancora attivo. Si considerano, in tal caso, i contratti attivi nel maggio 1998 e si va
a vedere l’esito occupazionale a distanza di quattro anni. Sorprende, in prima battuta, notare che in tal caso
un lavoratore tipico giovane diventa disoccupato nel 11% dei casi, più di quanto non succedesse per
contratti tipici già terminati (7.6%); in compenso, si riduce di oltre dieci punti la proporzione di coloro che
passano da un contratto standard ad uno atipico. La situazione dei giovani collaboratori continua ad
apparire la più complessa: diventano disoccupati nel 21.5% dei casi e solo in un terzo si stabilizzano; fanno
meglio i contratti a tempo determinato, che consentono agli entranti di diventare lavoratori standard nel
57% delle occasioni; comunque, in quasi il 40% dei casi restano precari (dopo quattro anni, ancora atipici o
disoccupati). Con un po’ di sorpresa, si nota che le transizioni dal lavoro a tempo determinato rimangono
più o meno immutate considerando soggetti nella classe di età 36-50. A questa età, invece, un
collaboratore si stabilizza in meno del 10% dei casi, mentre al 70% resta atipico e al 16% diventa
inoccupato: dal momento che si stanno considerando i collaboratori in senso stretto (senza altre forme di
contribuzione e monocommittenti), è difficile pensare ad una “scelta di vita”; sembra piuttosto una
condanna all’incertezza! I lavoratori tipici maturi, invece, mantengono tale posizione nella quasi totalità dei
casi (88%), passano all’inoccupazione meno del 5% delle volte e diventano atipici con frequenza quasi
trascurabili (2.5%), a confermare il cliché del lavoratore stabile ed iper-garantito – costantemente evocato
22
dai teorici del mercato duale – che altri dati tra quelli citati potrebbero (e forse dovrebbero) iniziare a
mettere in dubbio, almeno sotto alcuni aspetti.
Per guardare a dati più recenti e provare ad inquadrare i flussi all’interno del mercato del lavoro nel
contesto macro, possiamo fare ancora riferimento ai risultati della Rcfl relativi agli ultimi anni. Tenendo a
mente la definizione Istat di lavoro atipico13, la Figura 3.4, tratta dal rapporto annuale, ci aiuta a capire
importanti dinamiche dei flussi sul mercato del lavoro. Se tra il primo trimestre del 2007 ed il primo
trimestre del 2008 erano il 54.6% degli atipici a rimanere tali, tra il primo trimestre 2009 ed il primo
trimestre 2010 tale percentuale è aumentata di quasi 5 punti, toccando il 59%. Nell’anno intermedio era
del 52.4%; meglio? Probabilmente no,
perché oltre a vedere quanti
rimangono atipici, bisogna anche
prestare attenzione a dove vanno a
finire
coloro
che
escono
dall’occupazione atipica. Ebbene, nel
primo anno di crisi conclamata14 la
percentuale di coloro che restano
atipici diminuisce, ma soprattutto per
via di mancati rinnovi contrattuali:
aumenta di circa 7 punti percentuali,
infatti, il flusso diretto verso la
disoccupazione.
Contestualmente,
diminuisce di quasi 4 punti il numero
di quelli che approdano ad un lavoro
Figura 10. Fonte: Istat, Rcfl
dipendente
standard.
Nell’anno
successivo (2009-2010) è l’incertezza a dominare: se definiamo in condizione di “trappola del precariato”
coloro che, provenendo da un lavoro atipico, restano tali o diventano disoccupati, in questo periodo gli
“intrappolati” aumentano di 4 punti percentuali rispetto all’anno precedente. Da un lato, infatti,
aumentano di quasi 7 punti gli atipici “confermati” (che non è di per sé una buona notizia, perché va a
discapito della probabilità di stabilizzazione, che diminuisce di un ulteriore 3.5%), ma si riducono di quasi il
3% i casi di disoccupazione provenendo da un lavoro atipico. In buona sostanza, tra il 2007 ed il 2010 la
percentuale di soggetti che riescono ad uscire dalla trappola della precarietà è diminuita dell’8.4%,
sommando il calo del flusso verso il lavoro dipendente (7.3%) ed autonomo (1.1%) standard. Entrambi
questi dati sono, chiaramente, strettamente correlati alla congiuntura, che deprime le aspettative degli
operatori: meno soggetti sono disposti a prendere il rischio del lavoro autonomo a tempo pieno, ma,
soprattutto, sempre meno imprese hanno aspettative tali da giustificare assunzioni a tempo indeterminato,
che comportano oneri futuri e rigidità maggiori; tanto meglio continuare ad utilizzare lavoro atipico.
Ovviamente, questa politica da parte delle imprese provoca una retroazione sulla domanda, visto che il
lavoro atipico determina, spesso e volentieri, redditi inferiori e non permette di effettuare spese in conto
capitale (per motivi legati all’incertezza circa la continuità reddituale), né tantomeno risparmi (che
potrebbero e dovrebbero tradursi in investimenti delle imprese). In poche parole, si alimenta un circolo
vizioso da cui è difficile uscire senza un cambiamento di prospettiva. Nei due decenni precedenti
13
Gli atipici sono la somma di lavoratori a tempo determinato e collaboratori.
Le prime avvisaglie di turbolenze finanziarie innescate dalle crisi dei mutui subprime risalgono all’estate 2007, ma è
nell’estate 2008 (più precisamente, con il fallimento di LehemanBrothers, il 15 settembre di quell’anno) che la crisi
finanziaria assume dimensione planetaria e si abbatte rovinosamente sull’economia reale di tutti i Paesi sviluppati.
14
23
l’indebolimento della posizione dei lavoratori e la discontinuità reddituale legate ad un modello di mercato
del lavoro “flessibile ad ogni costo”, più o meno in tutto il mondo occidentale, sono state rese socialmente
sostenibili da un’esplosione dell’indebitamento privato (o, dove si era riusciti ad accumularlo – come in
Italia – da un’erosione del risparmio privato). Tale fenomeno è alla base della crisi finanziaria scoppiata nel
2007 e divenuta crisi economico-finanziaria globale nel 2008. Dunque, la sostenibilità sociale è stata
“comprata” con operazioni insostenibili dal punto di vista economico e finanziario. La criticità della
situazione attuale in tale ottica sta aprendo prospettive di ulteriori compressioni della condizione del
lavoro, destinate a rendere ancor meno sostenibile, dal punto di vista sociale, un modello che impone
flessibilità senza garantire standard minimi di sicurezza. E stavolta, con ogni probabilità, il mercato del
credito non sarà in grado di far sparire i sintomi di un male che affonda le sue radici in un modello di
organizzazione sociale profondamente destrutturato e destabilizzante.
Giovani, scoraggiati, NEET
Dopo aver proposto un quadro d’insieme sulla situazione del lavoro atipico in Italia – tentando di mostrare
quali profili di flessibilità determinino la nascita (ed il protrarsi) di carriere precarie e di conseguenti
situazioni di disagio economico e psicologico – è doveroso dare uno sguardo, seppur rapido, ad altre
fattispecie che riguardano da vicino individui ai margini del mercato del lavoro, perché stentano ad entrarvi
in modo definitivo o perché, addirittura, rinunciano a farlo. Tra questi ultimi, vanno sicuramente considerati
i c.d. “scoraggiati”, ovvero quei soggetti che per età e condizione dovrebbero appartenere alla popolazione
attiva – ovvero essere tra coloro che cercano attivamente lavoro (se non ne hanno già uno) – ma non ne
fanno parte, ritenendo eccessivamente difficile e costoso ricollocarsi nel mercato del lavoro. Nel terzo
trimestre del 2011, in Italia, se ne contano 1 milione 574 mila, un record storico: basti pensare che nel 2004
erano un milione. Al di là della drammaticità del dato in sé – quasi un milione e seicentomila scoraggiati, in
un Paese in cui le forze di lavoro (somma di occupati e persone in cerca di occupazione) sommano a poco
meno di 25 milioni di individui sono un’enormità (circa il 6.5%!), visto che si sta parlando di persone che
non sperano di ricollocarsi e, oltre al posto di lavoro, hanno perso la speranza di un ruolo attivo nella
società, il che è ben più grave – bisogna considerare anche un'altra conseguenza diretta dell’aumento
esponenziale di questo fenomeno (oltre il 57% in sette anni), ovvero l’impatto statistico sulla realtà
descritta dal tasso di disoccupazione, ovvero il dato più diffuso, a livello mediatico e politico, per raccontare
l’andamento del mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione, infatti, indica il rapporto tra la popolazione
attivamente alla ricerca di lavoro e le forze di lavoro: l’aumento degli scoraggiati riduce proporzionalmente
di più il numeratore di tale rapporto (visto che al denominatore vi è la somma del numeratore stesso e degli
occupati), facendo risultare una riduzione del tasso. Questa circostanza, spesso ignorata dai non addetti ai
lavori o volutamente sottaciuta, ha dato più volte adito a “fraintendimenti” nella valutazione delle
performances del nostro mercato del lavoro. Negli ultimi anni, infatti, il numero di scoraggiati ha avuto tassi
di crescita sostenuti, soprattutto a causa delle difficoltà incontrate da disoccupati “anziani” e giovani
precari nel ricollocarsi in seguito alla perdita del posto di lavoro (470 mila scoraggiati hanno meno di 35
anni).
Un altro fenomeno che va assumendo proporzioni preoccupanti nel nostro Paese è quello dei
Neet(acronimo di not in education, employment or training), ovvero dei giovani (in genere si considera la
fascia d’età che va dai 15 ai 29 anni) che non sono impegnati in attività di formazione (istruzione o
formazione professionale) e, al tempo stesso non hanno un lavoro. In parte, questo fenomeno interseca
quello dello scoraggiamento (qualora si tratti di giovani scoraggiati), ma merita di essere considerato
distintamente per almeno due ordini di motivi: innanzitutto, perché fanno parte di questa categoria anche
disoccupati, ovvero ragazzi attivamente impegnati (senza successo) alla ricerca di un impiego; in secondo
24
luogo, perché ad essere “intrappolati” in questa sconveniente situazione sono individui giovani, che non
accumulano capitale umano, non sono economicamente indipendenti e non maturano esperienza
professionale da poter spendere alla ricerca di un altro impiego: in buona sostanza, si tratta di uno spreco
inaudito proprio a danno di quelle risorse umane che più dovrebbero contribuire al presente ed al futuro di
un Paese. Per questa ragione, negli anni più recenti si è creata (e studiata con sempre maggior dettaglio)
una categoria ben definita, che in vari paesi occidentali – oltre al nostro – va assumendo una consistenza
numerica tutt’altro che trascurabile. Per quanto ci riguarda, stando al rapporto annuale dell’Istat relativo al
2010, i Neet hanno superato i due milioni di unità (2.110.000), risultando in aumento da almeno quattro
anni a questa parte: se tra il 2005 ed il 2007 si era avuto un calo della quota di giovani inoccupati e non
impegnati in percorsi formativi (nel 2007 i Neet erano poco meno del 19% dei giovani 15-29), dal 2008 ad
oggi l’aumento è stato notevole, portando tale quota sopra il 22 per cento. Tale livello si colloca ben al di
sopra della media europea (meno del 15% nel 2009), risultando comparabile solo al dato spagnolo.
Tabella 3 – Neet 15-29 per ripartizione geografica, sesso, classe di età, cittadinanza , titolo di studio,
condizione professionale e posizione in famiglia, anno 2010 (valori in migliaia e composizioni percentuali)
Caratterist
iche
Val
ori
Nord
Composiz
ioni %
Incide
nza %
Val
ori
Centro
Composiz Incide
ioni %
nza %
Classi di età
15.7
8.9
39.0
20.6
45.3
20.7
Cittadinanza
78.0
15.4
15-19
20-24
25-29
116
224
269
19.1
36.7
44.2
9.8
17.9
18.3
47
118
137
Italiana
411
67.4
12.4
235
Straniera
198
32.6
33.7
66
Fino alla
licenza
media
Diploma
Laurea
276
45.4
16.5
114
266
67
43.6
11.0
14.8
15.0
152
36
Disoccupa
ti
242
39.8
87.1
125
Zona
grigia
Non
cercano e
non
disponibili
128
21.0
67.9
78
25.8
239
39.2
13.8
99
32.7
P. o
partner
con figli
P. o
partner
senza figli
Figlio
139
22.9
44.7
53
8.7
375
Altro
Totale
42
609
Val
ori
Mezzogiorno
Composiz Incide
ioni %
nza %
Val
ori
Italia
Composiz
ioni %
Incide
nza %
188
466
545
15.7
38.9
45.4
15.3
36.0
40.1
352
807
951
16.7
38.3
45.1
11.9
25.9
27.3
1,15
4
46
96.2
30.7
85.3
20.9
3.8
36.1
1,80
0
310
14.7
32.5
49.8
32.5
988
46.8
23.4
43.1
7.0
29.9
26.9
935
187
44.3
8.9
21.3
19.8
30.2
89.0
729
34.5
87.5
Inattivi, di cui:
62.1
540
45.0
78.2
746
35.4
74.2
12.0
297
24.8
15.9
635
30.1
14.4
51
Ruolo in famiglia
16.9
43.4
197
16.4
67.3
387
18.3
53.6
19.3
23
7.6
26.9
41
3.4
43.7
117
5.5
25.8
61.6
12.4
207
68.7
14.4
894
74.5
27.1
70.0
19.0
6.8
100.0
13.8
15.6
20
302
6.8
100.0
17.0
17.1
68
1,20
0
5.7
100.0
35.1
30.9
1,47
7
130
2,11
0
6.2
100.0
21.1
22.1
22.0
27.8
Titolo di studio
37.7
15.9
598
50.3
17.5
518
12.1
19.5
84
Condizione professionale
41.5
84.1
362
Fonte: Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
25
La maggioranza di questi sono di sesso femminile (poco più del 55 per cento: distinguendo per genere, la
quota di Neet di sesso femminile si allontana in maniera ancor più evidente da quella dei partner europei)
e, del totale, il 45% risulta avere un’età tra i 25 ed i 29 anni (sono oltre il 27 per cento della popolazione in
questa fascia d’età!). Questo dato potrebbe, ad un primo sguardo, apparire fisiologico, perché il limite
inferiore di questa fascia coincide, grosso modo, con l’età in cui si completa la formazione universitaria (cui,
negli ultimi anni, circa il 70% degli individui decide di accedere dopo il diploma); per quanto sarebbe
negativo di per sé constatare il fatto che individui giovani e con un titolo di studio elevato non riescano a
trovare collocazione, a ben guardare, la realtà sembra un’altra: oltre il 90% dei Neet sono non laureati, che
quindi hanno terminato il loro percorso di formazione, presumibilmente, almeno 6 anni prima dei 25 e
dunque sperimentano una situazione di precariato da non poco tempo.
A conferma di ciò, dai dati longitudinali EU-Silc si può vedere che oltre la metà dei Neet è tale in maniera
persistente (ovvero, da due o più anni). Per avere un’idea dell’impatto sociale di tale aspetto, i ragazzi in
tale condizione rappresentano più dell’11% dei giovani in questa fascia d’età; oltre il 7 per cento, poi, è
fuori dal circuito formazione-lavoro da almeno 4 anni, testimoniando una difficoltà strutturale (certamente
acuita dalla congiuntura economica attuale) del nostro mercato del lavoro nel coinvolgere i giovani in
maniera sistematica, che si protrae ben oltre la fase dell’accesso vero e proprio. La notevole persistenza di
questa condizione è davvero preoccupante: tutte le caratteristiche profondamente negative attribuite alla
disoccupazione di lungo periodo (la fortissima riduzione della probabilità di ritrovare lavoro e le grandi
problematiche legate sostenibilità psicologica, oltre che economica, di questo tipo di disoccupazione)
vengono notevolmente amplificate dalla giovane età dei soggetti in questione, il cui sviluppo professionale
viene irreversibilmente segnato da un’esperienza del genere, tanto a livello curriculare quanto di
autostima. Un altro campanello d’allarme è rappresentato dal ruolo che, in quasi un quinto dei casi,
svolgono in famiglia soggetti in queste condizioni: sono persona di riferimento (p.r.) per il nucleo familiare o
partner con figli. Considerando la giovane età ed il notevole avanzamento – molto più evidente in Italia che
all’estero nell’ultimo trentennio – dell’età media in cui ci si sposa e si danno alla luce figli, è difficile pensare
che per molti di questi 387 mila genitori si tratti di una scelta volontaria. Infine, più del 65% dei Neet
risultano formalmente inattivi, anche se oltre la metà di questi vengono collocati nella zona grigia, ovvero
in una condizione che potrebbe, in realtà, avere come universo di riferimento il lavoro sommerso o attività
non codificate come “di formazione” (anche se, nella definizione Eurostat, non sono considerati Neet tutti
coloro che frequentano corsi di formazione, quand’anche questi ultimi non portino al conferimento di un
titolo di studio). In ogni caso, il fatto che circa un terzo di questi ragazzi si dichiarino non alla ricerca o non
disponibili a lavorare indica un’anomalia assolutamente da non sottovalutare. Ci sono da considerare,
inoltre, altri aspetti di ordine sociologico cui non abbiamo ancora accennato. Innanzitutto, il fatto che
fenomeno dell’esclusione giovanile dal circuito formazione-lavoro riguardi, in particolar modo, le classi
sociali più basse (oltre la metà dei Neet che vive con almeno un genitore proviene dalla classe operaia,
mentre gli studenti hanno un’estrazione mediamente più alta: ciò indica, peraltro, che l’accesso allo studio
è ancora selezionato dalla condizione sociale) è un indice forte di mancanza di mobilità sociale. In più, dai
dati emerge una forte tendenza da parte di questi giovani ad impiegare il loro tempo in attività del tutto
improduttive dal punto di vista culturale, formativo e, più in generale, dell’integrazione sociale:
probabilmente ciò contribuisce non poco al protrarsi di tale condizione, alimentando il circolo vizioso di cui
sopra e aggiungendo elementi non rassicuranti al forte rischio di esclusione sociale che ne deriva.
Avendo mostrato nelle righe precedenti alcune evidenze che ci raccontano quanto sia difficoltoso, in
questo Paese, e non solamente a causa dell’attuale fase congiunturale, l’ingresso dei giovani nel mondo del
lavoro, è opportuno accennare ad alcune varianti contrattuali che sarebbero strutturalmente deputate ad
26
aprire opportunità professionali in questo delicato passaggio. Si tratta di forme che possiamo certamente
inserire nel multiforme universo del lavoro atipico (per via delle definizioni precedentemente fornite), ma
che meritano di essere considerate autonomamente per via della funzione particolare che dovrebbero
assolvere: la transizione dalla fase formativa a quella lavorativa della vita degli individui, oppure l’utilizzo
formativo del lavoro in fasi critiche della carriera (a seguito della perdita del posto di lavoro o in periodi di
crisi aziendale che comportano riduzioni significative dell’orario di lavoro). Proprio per questo, i contratti di
cui parleremo vengono generalmente catalogati come “contratti di lavoro con funzione formativa” e
possiamo distinguerne essenzialmente tre forme: il contratto di apprendistato, il contratto di formazione e
lavoro ed il contratto di inserimento. Quest’ultimo è stato introdotto nell’ordinamento dalla c.d. Legge 30,
ma, in generale, tutte e tre le tipologie citate sono state pesantemente riformate dalla Legge Biagi, che ha
provveduto ad una ridefinizione sistematica di questo tipo di contratti.
L’apprendistato
L’apprendistato è diviso a sua volta in tre tipi, il cui contenuto è efficacemente riassunto dalla descrizione
che ne offre l’istituto Nazionale di Previdenza Sociale:



apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione, che consente di
conseguire una qualifica professionale ed è diretto ai più giovani, in particolare a giovani e
adolescenti che abbiano compiuto 15 anni (prevalentemente la fascia d'età tra i 15 e i 18 anni).
Questa forma di apprendistato ha una durata massima di 3 anni, determinata in base alla qualifica
da conseguire, al titolo di studio, ai crediti professionali e formativi acquisiti, nonché al bilancio
delle competenze realizzato dai servizi pubblici per l'impiego o dai soggetti privati accreditati;
apprendistato professionalizzante, che consente di ottenere una qualifica attraverso una
formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale. Può durare fino a 6 anni, in base
a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva. È possibile sommare i periodi di apprendistato
svolti nell'ambito del diritto-dovere di istruzione e formazione con quelli dell'apprendistato
professionalizzante;
apprendistato per l'acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione, che consente di
conseguire un titolo di studio di livello secondario, universitario o di alta formazione e per la
specializzazione tecnica superiore. La durata dell'apprendistato per l'acquisizione di un diploma o
per percorsi di alta formazione deve essere stabilita, per i soli profili che riguardano la formazione,
dalle Regioni in accordo con le parti sociali e le istituzioni formative coinvolte.
I periodi del primo e del secondo tipo di apprendistato sono sommabili fino al massimo di 6 anni.Il secondo
e terzo tipo di apprendistato hanno come destinatari giovani tra i 18 e i 29 anni (l’assunzione potrà essere
effettuata fino al giorno antecedente il compimento del trentesimo anno di età cioè fino a 29 anni e 364
giorni) e i diciassettenni in possesso di una qualifica professionale (conformemente alla Riforma Moratti). È
bene ricordare che tale contratto può essere utilizzato in tutti i settori di attività economica, seppur con
alcune differenze riguardanti la durata del rapporto, l’inquadramento e la destinazione della risorsa. La
legge indica come essenziale il fine formativo, la cui assenza preclude l’accesso ai benefici contributivi
previsti (le aliquote a carico del datore di lavoro per questo tipo di contratti sono state portate al 10% dalla
Finanziaria 2007, con forti riduzioni nel primo e secondo anno per chi ha meno di 9 dipendenti; dunque,
siamo ampiamente al di sotto di quella ordinaria) e a tutte le altre agevolazioni che questo tipo di contratto
implica: è prevista la possibilità di sotto-inquadrare (fino a due categorie) l’apprendista rispetto alla
mansione corrispondente per la quale effettua formazione, si può chiudere il rapporto alla scadenza
27
semplicemente rispettando i termini di preavviso e, per ciò che attiene agli ammortizzatori sociali, non sono
prevista indennità di disoccupazione, cassa integrazione, mobilità e indennità di malattia. Inoltre, tali
lavoratori non vengono considerati nel conteggio delle unità dipendenti dell’impresa. Molte di queste
caratteristiche accomunano le tre tipologie di contratti di lavoro con finalità formativa citate. Per quanto
riguarda il numero di contratti di apprendistato rilevati dalla Rcfl, nel 2010 erano 201 mila, circa il 27% in
meno rispetto al 2004, anno in cui se ne contavano circa 274 mila. Il calo più forte, come si può immaginare
e come abbiamo visto rispetto all’utilizzo di altre forme di lavoro atipico, si è registrato tra il 2008 ed il
2009, con una riduzione di circa 45 mila unità in dodici mesi. Anche a proposito di questi dati, bisogna
ricordare che il metodo di rilevazione dell’Istat consiste in una media dei dati di stock rilevati nella
settimana precedente l’indagine, dunque può fornire numeri che tendono a distorcere al ribasso l’effettiva
incidenza del fenomeno; proprio per questo, i dati Inps (il cui metodo di rilevazione abbiamo già descritto)
tendono a mostrare cifre molto più elevate, che però possono risultare distorte nel senso opposto.
Riguardo ai settori di utilizzo dell’apprendistato, la distribuzione è attualmente fortemente sbilanciata sui
servizi, che impiegano il 63 per cento degli apprendisti, mentre la restante parte trova collocazione
nell’industria; rispetto al 2008, la prevalenza del terziario è aumentata notevolmente, se si considera che
solo tre anni fa questo comparto stipulava non più del 56% di questi contratti.
I contratti d’inserimento e i contratti di formazione e lavoro
Il contratto di formazione e lavoro (Cfl) è anch’esso un contratto di lavoro subordinato a tempo
determinato con finalità formative, che si differenzia dal contratto di apprendistato sostanzialmente per
due aspetti: il più rilevante è la durata (che non può essere superiore, a seconda dei casi, a 12 o 24 mesi),
mentre altra caratteristica rilevante consiste nella possibilità di stipulare tali contratti solo da parte di
aziende che nei 24 mesi precedenti abbiano convertito a tempo indeterminato contratti simili. La fascia di
età varia, invece, tra i 16 ed i 32 anni. Diverse agevolazioni previdenziali sono previste in base al settore di
attività economica e alla collocazione geografica del datore di lavoro, alcune delle quali sono state ritenute
illegittime dalla Commissione Europea; è bene precisare, in ogni caso, che il diritto al trattamento
previdenziale di favore scaturisce solo al momento dell’assunzione “definitiva” del lavoratore. Il d.lgs.
276/2003, attuativo della legge Biagi, ha profondamente inciso sul Cfl, innanzitutto vietandone
l’applicazione a tutto il settore privato e, quindi, rendendone possibile la fruizione solo nel comparto
pubblico. Per ciò che attiene al settore privato, la stessa fonte normativa ha introdotto il contratto
d’inserimento, che presenta caratteristiche peculiari rispetto alle tipologie citate e che ne facilita l’utilizzo a
più ampio spettro. In particolare, è sufficiente leggere un passo del testo di legge per cogliere la sostanza
della differenza; si stabilisce, infatti, che tale contratto è "diretto a realizzare, mediante un progetto
individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto
lavorativo, l'inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro" (artt. da 54 a 59 del D.Lgs. n.276
del 2003). La finalità del legislatore, dunque, non si concreta esclusivamente nel prevedere un accesso
preferenziale dei giovani al mondo del lavoro, con una forma contrattuale che coniughi la collocazione
professionale con il completamento della formazione individuale, ma è – più in generale – quella di
agevolare la difficile collocazione di soggetti inoccupati o disoccupati: giovani tra i 18 e 29 anni, disoccupati
di lunga durata di età compresa tra 29 e 32 anni, disoccupati con più di 50 anni di età, donne di qualsiasi età
residenti in zone ad alto tasso di disoccupazione femminile, persone con grave handicap. Tale caratteristica,
per quanto “animata da buoni propositi”, ha portato nel tempo a pratiche di scorretto utilizzo del contratto
d’inserimento, che mirano a sfruttarne i vantaggi in termini di flessibilità e riduzione dei costi, senza
riempire il rapporto del contenuto formativo di più ampio respiro che il legislatore aveva in mente. La
durata può oscillare fra i 9 ed i 18 mesi, elevabili a 36 per portatori di handicap ed il contratto non è
28
rinnovabile fra le stesse parti. Le agevolazioni, a livello previdenziale, ricalcano sostanzialmente quelle
previste dal Cfl, anche se una disciplina strutturata di questi aspetti manca, pur essendo all’ordine del
giorno da vari anni. Anche i vincoli sui requisiti dei datori di lavoro riguardo ad assunzioni e licenziamenti
sono sostanzialmente gli stessi. Purtroppo, trattandosi di contratti di lavoro subordinato a tempo
determinato – contrariamente a quanto avviene per l’apprendistato, nei dati diffusi dall’Istat non è
possibile distinguere il numero di contratti d’inserimento e Cfl dagli altri contratti atipici a tempo
determinato.
Lo stage
Il focus dedicato all’utilizzo di stage e tirocini tra le imprese italiane è motivato dal fatto che tali forme di
ingresso al mondo del lavoro sono estremamente utili se sono accompagnate da un effettivo percorso
formativo per il tirocinante o stagista, se sono sostenute da un dignitoso rimborso spese e se sono
associate anche a concrete possibilità di assunzione. Lo strumento dello stage può infatti essere
effettivamente una possibilità per i giovani di formarsi e di fare esperienza, ma rischia di diventare talvolta
una scorciatoia attraverso la quale le imprese possono attingere a lavoro a bassissimo costo (se non a costo
zero). Dal momento che il contratto di stage non ha un contenuto normativo volto a garantire un certo
livello di tutela per lo stagista, un abuso o un utilizzo scorretto di questa forma di lavoro/formazione può
comportare la diffusione di ampie sacche di precarietà. Per analizzare quindi la rilevante questione della
diffusione di stage e tirocini all’interno del tessuto produttivo italiano, in questa sezione si fa riferimento
alle analisie ai dati messi a disposizione dal Sistema Informativo Excelsior 2011 di Unioncamere.
Stage e tirocini sono disciplinati da una normativa precisa (Legge n.196/97; D.M. n.142/98 e Legge 14
settembre 2011, n 148) che li definisce come un periodo di alternanza scuola-lavoro finalizzato alla
formazione dei giovani in modo da permettere loro di entrare in contatto con il mondo del lavoro. Il
contratto di stage non è considerato in alcun modo equiparabile ad un contratto di lavoro e per questo non
sono previste tutele normative in materia di minimi retributivi, maternità, malattia o versamento di oneri
contributivi, licenziamento. La legge pone dei limiti al numero di stage che possono essere
contemporaneamente stipulati, a seconda della dimensione dell’impresa, e dei limiti alla durata dello stage
a seconda del tipo di percorso formativo. Nel dettaglio, la legge n. 148 del 14 settembre 2011 dispone
quanto segue: “i tirocini formativi e di orientamento non curriculari non possonoavere una durata
superiore a sei mesi, proroghe comprese, e possonoessere promossi unicamente a favore di neo-diplomati
o neo-laureatientro e non oltre dodici mesi dal conseguimento del relativo titolodi studio. “Per quanto
concerne la possibilità di stipulare tirocini a seconda della dimensione dell’impresa, è stabilito dal D.M. n.
142/98 che “i datori di lavoro possono ospitare tirocinanti in relazione all'attività dell'azienda, nei limiti di
seguito indicati:
a) aziende con non più di cinque dipendenti a tempo indeterminato, un tirocinante;
b) con un numero di dipendenti a tempo indeterminato compreso tra sei e diciannove, non più di due
tirocinanti contemporaneamente;
c) con più di venti dipendenti a tempo indeterminato, tirocinanti in misura non superiore al dieci per cento
dei suddetti dipendenti contemporaneamente.”
Stage e tirocini possono costituire un importante momento di formazione per i giovani e un trampolino di
lancio nel mercato del lavoro. Purtroppo, spesso essi non sono correttamente utilizzati dalle imprese, che
sfruttano tali forme lavorative per avere mano d’opera a basso costo. Inoltre, gli stagisti sono talvolta
assegnati a mansioni di basso livello, a cui non viene associato alcun concreto percorso formativo (si
29
vedano i risultati del sondaggio “Gli stagisti italiani allo specchio” realizzato da IsfolOrientaonline e il sito
specializzato Repubblicadeglistagisti.it).
Le tabelle 4 e 5 mostrano la diffusione di tirocini e stage (che da qui in avanti denomineremo solo stage per
semplicità) nelle imprese italiane nel 2010. Complessivamente si rileva che nel 2010 sono stati attivati
310,820 stage, di cui 89,800 nell’industria e 221,020 nei servizi e circa il 50% di essi è stato realizzato in
micro imprese al di sotto dei 10 dipendenti (per un valore assoluto pari a 149,220 unità).
Tabella 4. Personale in tirocinio/stage ospitato nel 2010 da imprese con dipendenti per settore economico
Settori
Tirocini e stage
Numero medio di tirocini/stage per
Durata media dei tirocini/stage,
attivati
impresa
%
1
Da2 a 6
Più di 6
mese
mesi
mesi
Industria
89,800
1.4
49.6
46.7
3.6
Servizi
221,020
1.5
36.0
55.4
8.6
Totale
310,820
1.5
40.2
52.7
7.1
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011
Tabella 5. Personale in tirocinio/ stage ospitato nel 2010 da imprese con dipendenti per classe
dimensionale
Classe
Tirocini/stage Numero medio
Durata media dei tirocini/stage, %
dimensionale
attivati
di tirocini/stage
1 mese
Da 2 a 6 mesi
Più di 6 mesi
1-9
149,220
1.2
45.4
48.4
6.2
10-49
75,240
1.8
44.8
51.2
3.9
50-249
39,920
2.1
26.2
67.4
6.3
250-499
12,400
2.1
13.5
71.7
14.7
500 e oltre
34,030
2.4
9.9
68.4
21.7
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011
In termini di durata media si rileva che nel comparto industriale sono maggiormente diffusi stage di breve
durata: infatti il 49.6% di quelli attivati nell’industria ha la durata di un mese, il 46.7% ha una durata che va
dai due ai sei mesi e il restante 3.6% ha una durata superiore ai sei mesi. Nel settore dei servizi si riscontra
una maggiore diffusione di stage di durata fino ai sei mesi (il 55.4%), mentre gli stage di un mese
costituiscono il 36% e quelli di durata superiore ai sei mesi l’8.6% del totale. Analizzando la durata media
degli stage in relazione alla dimensione di impresa (tabella 5) si osserva una chiara tendenza all’aumento
della durata media al crescere della classe dimensionale: la percentuale di stage di durata compresa tra i
due e i sei mesi varia dal 48.4% tra le microimprese al 68.4% nelle grandi imprese al di sopra di 500
dipendenti; gli stage di durata superiore ai mesi costituiscono il 6.2% nelle imprese fino a 10 dipendenti
contro il 21.7% nelle grandi imprese.
Piuttosto rilevanti sono le informazioni presentate dalle tabelle 6 e 7 circa la percentuale di stage che si
trasformano in rapporti di lavoro a tutti gli effetti. In termini di diffusione delle possibilità di lavoro per gli
stagisti non si riscontrano differenze particolarmente ampie nel territorio italiano e la quota di stagisti
assunti o da assumere sul totale varia da un minimo del 10.9% nel Nord Est ad un massimo del 13.6% nel
Centro Italia. Al contrario, le possibilità di assunzione per gli stagisti sembrano variare in maniera
considerevole a seconda della classe dimensionale dell’impresa: mentre nelle imprese fino al 10 dipendenti
la quota di stagisti assunti o da assumere si arresta al 12.8% del totale, tale percentuale aumenta
considerevolmente in corrispondenza delle classi dimensionali più numerose, raggiungendo il 15.1% nelle
30
imprese tra 50 e 250 dipendenti e il 24.2% nelle grandi imprese al di sopra dei 500 dipendenti. Queste
ultime sembrano quindi maggiormente far ricorso allo stage come strumento di ingresso dei giovani al
mondo del lavoro, dal momento che circa uno stagista su quattro viene assunto. La dimensione d’impresa
sembra essere una variabile rilevante anche nel momento in cui si valuta la composizione degli stagisti in
termini di formazione e livello di istruzione ottenuto: ad esempio, la quota di stagisti laureandi o laureati
cresce in linea con la classe dimensionale dell’impresa, passando da un valore pari al 27.9% nelle
microimprese, al 37.5% nelle imprese dai 50 ai 250 dipendenti fino a più del 50% nelle grandi imprese.
Tabella 6. Personale in tirocinio/ stage ospitato nel 2010 da imprese con dipendenti, quota degli stessi
assunta o da assumere e quota di laureandi o laureati sul totale per classe dimensionale
Classe
Tirocini/stage
Quota % di tirocinanti
Quota % di laureandi/laureati sul totale
dimensionale
attivati
assunti/da assumere
dei tirocini/stage
1-9
149,220
9.6
27.9
10-49
75,240
9.7
25.6
50-249
39,920
15.1
37.5
250-499
12,400
19.3
49.9
500 e oltre
34,030
24.2
51.8
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011
Tabella 7. Personale in tirocinio/ stage ospitato nel 2010 da imprese con dipendenti, quota degli stessi
assunta o da assumere e quota di laureandi o laureati sul totale per ripartizione territoriale
Area
Tirocini/stage
Quota % di tirocinanti
Quota % di laureandi/laureati sul totale
geografica
attivati
assunti/da assumere
dei tirocini/stage
Nord Ovest
100,270
12.8
29.6
Nord Est
85,830
10.9
24.7
Centro
64,120
13.6
36.7
Sud e Isole
60,610
12.2
41.7
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011
La diversa composizione degli stagisti in termini di livelli di formazione emerge con particolare vivacità
scomponendo l’analisi su base territoriale. In questo senso, la tabella 7 delinea una situazione piuttosto
variegata sul territorio italiano: la quota di stagisti con un livello di istruzione terziario (completato o in
corso di completamento) raggiunge il 41.7% nel Sud e nelle Isole, mentre nel resto d’Italia rappresenta una
proporzione minore, che varia dal 24.7% nel Nord Est al 36.7% nel centro. Infine, la tabella 8 sintetizza i dati
relativi alle possibilità di assunzione degli stagisti e alla loro composizione in termini di livello di istruzione
conseguito decomponendo l’analisi in dettaglio per sotto-settori economici. Al riguardo emerge che le
percentuali maggiori di stagisti laureati o laureandi sono presenti nelle attività legate ai servizi dei media e
della comunicazione (70.0%), nel settore finanziario e assicurativo (64.0%), nei servizi di supporto alle
imprese (59.0%) e nei servizi informatici e delle telecomunicazioni (56.8%). In tali settori si rilevano discreti
valori relativi alla quota di stagisti assunti, pari al 13.7% nelle attività relative ai media e alla comunicazione,
al 19.6% nelle attività relative ai servizi informatici, al 14.5% nell’ambito dei servizi per le imprese a al 15.8%
nel comparto finanziario e assicurativo. Al contrario, le minori possibilità di assunzione si osservano nei
servizi relativi al settore dell’istruzione (7.3% di stagisti assunti o da assumere), nell’industria metallurgica
(8.2% di stagisti assunti o da assumere), nell’industria della carta (9.1% di stagisti assunti o da assumere) e
negli studi professionali (9.0% di stagisti assunti o da assumere).
Infine, le tabelle 9,10 e 11 mostrano l’andamento del numero di stage attivati dalle imprese italiane dal
2008 al 2010. Complessivamente, nel triennio considerato, si può osservare una certa stabilità nella
numerosità di stagisti, che passa dalle 305 mila unità nel 2008 alle 322 mila unità nel 2009 e alle 311 mila
31
unità nel 2010. su base territoriale il Nord Ovest e il Nord Est si presentano come le aree geografiche in cui,
nel periodo considerato, il numero di stage attivati è cresciuto, mentre una lieve flessione in tal senso si
riscontra nel Centro Italia, nel Sud e nelle isole. Un discreto sviluppo nelle opportunità si stage si rileva nel
settore dei servizi, nel quale gli stage attivati crescono dalle 207 mila unità nel 2008 alle 221 mila unità nel
2010. Al contrario, nell’industria si osserva una lieve diminuzione degli stagisti presenti, che dal 2008 al
2010 si riducono di circa 9 mila unità. La distinzione in termini di classe dimensionale delle imprese mostra
una certa stabilità nel numero di stagisti in corrispondenza di ciascuna classe dimensionale e conferma la
maggior concentrazione di stagisti nelle microimprese fino a 10 dipendenti.
32
Tabella 8. Personale in tirocinio/ stage ospitato nel 2010 da imprese con dipendenti, quota si
tirocinanti/stagisti assunti o da assumere e quota di laureandi o laureati sul totale per settore economico
Settori
Tirocini/stage
Quota % di
Quota % di
attivati
tirocinanti
laureandi/laureati
assunti/da
sul totale dei
assumere
tirocini/stage
Industria
89,800
11.2
23.8
Industria in senso stretto
Estrazione di minerali
Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco
Industrie tessili, dell’abbigliamento e calzature
Industrie del legno e del mobile
Industrie della carta, cartotecnica e stampa
Industrie chimiche, farmaceutiche e petrolifere
Industrie della gomma e delle materie plastiche
Industrie della lavorazione dei minerali non
metalliferi
Industrie metallurgiche e dei prodotti in metallo
Ind. fabbric. macchin. dei mezzi di trasporto
Industrie elettriche, elettroniche, ottiche e
medicali
Lavori di impianto tecnico
Ind. beni per la casa, tempo libero e altro
Public utilities (energia, gas, acqua, ambiente)
Costruzioni
Servizi
Commercio e riparazione di autoveicoli e
motocicli
Commercio all’ingrosso
Commercio al dettaglio
Servizi di alloggio e ristorazione; servizi turistici
Servizi di trasporto, logistica e magazzinaggio
Servizi dei media e della comunicazione
Servizi informatici e delle telecomunicazioni
Servizi avanzati di supporto alle imprese
Servizi finanziari e assicurativi
Servizi operativi di supporto alle
Istruzione e servizi formativi privati
Sanità, assistenza sociale e servizi sanitari privati
Servizi culturali, sportivi e altri servizi alle
persone
Studi professionali
Totale
60,390
570
5,200
7,120
3,320
4,110
2,650
1,680
1,910
11.6
16.3
12.7
13.5
10.4
9.1
18.1
9.6
8.2
27.6
45.7
30.1
27.4
19.3
20.6
53.4
30.2
25.6
10,880
10,770
8,380
8.2
13.9
11.7
18.6
34.6
30.0
2,800
1,000
2,270
27,140
221,020
6,550
11.6
7.5
19.2
9.5
12.8
11.5
18.1
21.9
48.9
13.3
35.4
18.8
12,120
26,520
43,480
6,260
3,550
12,580
19,080
11,450
9,710
5,820
25,610
19,720
14.0
18.1
8.6
23.7
13.7
19.6
14.5
15.8
15.4
7.3
9.3
11.7
28.5
28.5
12.3
42.7
70.0
56.8
59.0
64.9
40.5
45.7
36.9
24.6
18,570
310,820
9.0
12.3
47.6
23.8
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011
33
Tabella 9. Tirocinanti e stagisti presso le imprese dal 2008 al 2010 area geografica, valori assoluti in migliaia
Area geografica
Tirocini/stage attivati
2008
2009
2010
Nord Ovest
92
97
100
Nord Est
81
93
86
Centro
67
66
64
Sud e Isole
65
66
61
Totale
305
322
311
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011
Tabella 10. Tirocinanti e stagisti presso le imprese dal 2008 al 2010 per settore economico, valori assoluti in
migliaia
Settore economico
Tirocini/stage attivati
2008
2009
2010
Industria
99
94
90
Industria in senso stretto
72
62
63
Costruzioni
27
33
27
Servizi
207
228
221
Commercio, turismo
89
98
89
Altri servizi
118
129
132
Totale
305
322
311
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011
Tabella 11. Tirocinanti e stagisti presso le imprese dal 2008 al 2010 per classe dimensionale, valori assoluti
in migliaia
Classe dimensionale
Tirocini/stage attivati
2008
2009
2010
1-9
146
168
149
10-49
84
83
75
50-249
34
47
40
250 e oltre
41
25
46
Totale
305
322
311
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011
Infine, la tabella 12 mostra l’evoluzione nel triennio dal 2008 al 2010 delle opportunità occupazionali
offerte agli stagisti italiani. Sia in termini assoluti che in percentuale al numero totale di stage attivati, il
dato significativo risulta essere l’aumento del numero di stagisti assunti o da assumere. Infatti,
complessivamente, nel triennio considerato gli stagisti assunti o da assumere aumentano da 28 mila unità a
38 mila unità, passando dal 9.4% del totale di stage attivati nel 2008 al 12.3% del totale di stage attivati nel
2010. In valore assoluto l’aumento di assunzioni più rilevante si osserva nel comparto dei servizi, dove il
numero di stagisti assunti o da assumere è cresciuto di circa 9 mila unità, mentre nel settore industriale si
registra una dinamica più modesta (1000 assunti in più). Sempre in termini assoluti la tabella 12 mostra che
l’incremento di assunzioni riguarda soprattutto le imprese fino a 10 dipendenti (più 4 mila assunzioni dal
2008 al 2010). Tuttavia, in percentuale al totale di stage attivati, le possibilità di assunzione appaiono
decisamente maggiori nelle grandi imprese: nonostante in corrispondenza di ogni classe dimensionale si
rilevi un incremento della quota di stagisti assunti, questa percentuale si arresta al 10% circa nelle micro e
piccole imprese, arriva a quota 15% nelle imprese tra i 50 e i 250 dipendenti e raggiunge il 23% circa nelle
grandi imprese con più di 250 dipendenti. Sempre in termini percentuali sul totale di stagisti presenti, non
si osservano ampie differenze tra le opportunità occupazionali offerte agli stagisti dalle imprese industriali o
34
del terziario: per entrambe le categorie la percentuale di stagisti assunti supera di poco il 10% (il valore
corrispondente è dell’11.2% nell’industria e del 12.8% nei servizi).
Tabella 12. Tirocinanti e stagisti che le imprese hanno assunto o intendono assumere, dal 2008 al 2010,
valori assoluti in migliaia e percentuali rispetto al totale di tirocini/stage attivati nell’anno di riferimento
Tirocinanti/ stagisti
Tirocinanti/ stagisti
da assumere o assunti (migliaia)
da assumere o assunti (percentuali
sul totale)
Settore economico
2008
2009
2010
2008
2009
2010
Industria
9.0
9.9
10.0
9.1
10.5
11.2
Servizi
19.6
27.3
28.3
9.5
12.0
12.8
Area geografica
Nord ovest
10.1
11.5
12.8
11.0
11.9
12.8
Nord Est
6.9
8.9
9.4
8.5
9.5
10.9
Centro
5.9
8.9
8.7
8.8
13.5
13.6
Sud e Isole
5.8
7.9
7.4
8.9
12.0
12.2
Classe dimensionale
1-9
10.0
15.5
14.3
6.8
9.2
9.6
10-49
5.8
8.7
7.3
6.9
10.5
9.7
50-249
4.7
7.7
6.0
13.7
16.5
15.1
250 e oltre
8.1
5.3
10.6
19.8
21.5
22.9
Totale
28.6
37.2
38.3
9.4
11.6
12.3
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011
35
4. Le tipologie contrattuali nelle aziende italiane: un approfondimento
In questa sezione si indaga l’utilizzo da parte delle imprese italiane delle diverse tipologie contrattuali
esistenti per valutare quale siano le realtà imprenditoriali e i settori economici in cui ciascuna tipologia è
più diffusa e per comprenderne l’articolazione sul territorio e l’evoluzione nel tempo. In particolare,
l’attenzione è focalizzata sull’uso di forme contrattuali atipiche in modo da provare ad evidenziare le
condizioni che ne caratterizzano l’impiego e i contesti maggiormente esposti ai potenziali rischi della
precarietà. Le forme contrattuali a cui si fa riferimento sono i contratti a tempo indeterminato; i contratti a
tempo determinato; i contratti di apprendistato; i contratti di inserimento; altre tipologie contrattuali. Le
informazioni utilizzate per descrivere le situazioni qui esposte sono ricavate dalle analisi effettuate del
Sistema Informativo Excelsior 2011 di Unioncamere sulla base di dati raccolti attraverso interviste a
carattere annuale sulle previsioni e intenzioni di assunzione. Il campione di imprese dell’indagine Excelsior
è composto da circa un milione e 540 mila imprese dell’industria e dei servizi privati con almeno un
dipendente a inizio 2011.
4.1
Assunzioni previste dalle imprese in base alle divers e forme contrattuali
Sulla base dei dati a disposizione è possibile tracciare l’andamento negli ultimi anni delle assunzioni
previste dalle imprese italiane per le diverse forme contrattuali. Come mostra la tabella 13, negli ultimi
quattro anni si osserva una tendenziale caduta nelle intenzioni di assunzione, che nel 2011 si attestano a
circa il 70% di quelle del 2008. In termini assoluti tale fenomeno riguarda tutte le tipologie contrattuali qui
considerate con l’unica eccezione rappresentata dalle forme rientranti nella voce “altri contratti”, la cui
diffusione nello stesso arco temporale appare quasi triplicata. In termini percentuali sul totale delle
assunzioni effettuate, si osserva come la quota di contratti a tempo indeterminato si sia ridotta di circa 3
punti percentuali, passando dal costituire il 47,4% delle nuove assunzioni nel 2008 a rappresentarne solo il
44,9% nel 2011. Piuttosto stabile nel tempo appare la quota di contratti di apprendistato e di inserimento
che nel 2011 è pari rispettivamente all’8,1% e all’ 1,7% delle nuove assunzioni. Malgrado la contrazione in
valore assoluto, rispetto al totale delle assunzione la percentuale di contratti a tempo determinato appare
aumentare negli ultimi anni, passando dal 42,6% nel 2008 al 43,4% nel 2011. Nello stesso periodo la
diffusione di altre forme contrattuali risulta aumentare non solo in termini assoluti, come è già stato
osservato, ma anche in rapporto al totale delle assunzioni, passando dallo 0,5% nel 2008 all’1,8% nel 2011.
Tabella 13. Assunzioni previste nel 2011 dalle imprese in base alle diverse forme contrattuali
Valori assoluti
Quota % su totale assunzioni
2008
2009
2010
2011
2008 2009 2010 2011
Totale assunzioni
827,890 523,620 551,950 595,160 100.0 100.0 100.0 100.0
Contratti tempo
392,580 251,710 255,290 267,440 47.4
48.1
46.3
44.9
indeterminato
Contratti tempo determinato 352,480 212,510 233,640 258,390 42.6
40.6
42.3
43.4
Contratti apprendistato
66,030
47,120
44,760
48,400
8.0
9.0
8.1
8.1
Contratti inserimento
13,030
8,250
11,980
9,980
1.6
1.6
2.2
1.7
Altri contratti
3,780
4,030
6,280
10,950
0.5
0.8
1.1
1.8
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2008-2011. I dati si riferiscono alle assunzioni non stagionali.
36
4.2
Assunzioni previste per il 2011 per le diverse forme contrattuali per
ripartizione territoriale e classe dimensionale
Disaggregando su base territoriale le informazioni circa le intenzioni di assunzione si osserva che, in valori
assoluti, il contesto più dinamico è rappresentato dal Nord Ovest (181,830 unità assunte previste). Per
quanto riguarda le tipologie di contratti offerte dalle imprese, forme contrattuali tradizionali, quali i
contratti a tempo indeterminato, sono maggiormente presenti al Sud e nelle Isole, dove costituiscono il
53.2% delle nuove assunzioni previste. Ciò potrebbe essere dovuto, tra le altre cose, ai meccanismi di
incentivo all’occupazione disegnati per il Meridione, i quali prevedono agevolazioni alle imprese che
assumono a tempo indeterminato, o alla diversa diffusione sul territorio delle imprese per classe
dimensionale. Infatti, come mostra la tabella 15, la classe dimensionale delle imprese appare collegata
allatipologia di contratto offerto. Sud e Isole presentano anche la minor quota di altre forme contrattuali
con un valore che costituisce l’1.1% delle nuove assunzioni, contro una percentuale che si attesta all’1.8%
nel Nord Ovest, al 2.6% nel Nord Est e all’1.9% nel Centro Italia.
Tabella 14. Assunzioni previste nel 2011 per tipologia contrattuale e ripartizione territoriale
Ripartizione
Totale
% contratti a
% contratti
% contratti
% contratti a
territoriale
assunzioni
tempo
di
di
tempo
indeterminato apprendistato inserimento determinato
Nord Ovest
181,830
45.0
8.5
2.1
42.4
Nord Est
144,860
40.5
8.6
1.2
47.1
Centro
121,290
40.1
10.1
1.7
46.3
Sud e Isole
147,180
53.2
5.6
1.6
38.6
% altri
contratti
1.8
2.6
1.9
1.1
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011. I dati si riferiscono alle assunzioni non stagionali.
Analizzando le forme contrattuali offerte dalle imprese in base alla loro classe dimensionale il quadro
appare abbastanza eterogeneo. Le microimprese fino ai 10 dipendenti offrono la percentuale più elevata di
contratti a tempo indeterminato sul totale di assunzioni previste. Sempre le imprese appartenenti alla
stessa classe dimensionale presentano le quote più elevate di contratti di apprendistato e di altre forme
contrattuali, mentre decisamente modesta appare la quota di contratti di inserimento (0.9%). Per le
imprese tra i 10 e i 50 dipendenti e tra i 50 e i 250 dipendenti la quota più consistente di nuove assunzioni è
costituita da contratti a tempo determinato (rispettivamente pari al 51.0% e al 52.4%). Anche le grandi
imprese tra i 250 e i 500 dipendenti fanno un ampio ricorso ai contratti a tempo determinato (47.9%),
mentre le altre forme contrattuali e i contratti a tempo indeterminato costituiscono, rispettivamente, il
2.6% e il 43.6% del totale delle nuove assunzioni. Infine, nelle grandi imprese al di sopra dei 500 dipendenti
trovano discreta diffusione i contratti di inserimento (4.4%) e i contratti di apprendistato (7.4%) e la
percentuale di altre forme contrattuali si arresta all’1.6%.
Tabella 15. Assunzioni previste nel 2011 per tipologia contrattuale e classe dimensionale
Classe
Totale
% contratti a
% contratti
% contratti % contratti a %
altri
dimensionale
assunzioni
tempo
di
di
tempo
contratti
indeterminato apprendistato inserimento determinato
1-9
240,280
47.0
11.4
0.9
38.0
2.7
10-49
113,580
41.5
6.5
0.6
51.0
0.5
50-249
79,660
41.7
3.7
0.9
52.4
1.2
250-499
35,590
43.6
3.6
2.4
47.9
2.6
500 e oltre
126,050
46.6
7.4
4.4
40.0
1.6
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011. I dati si riferiscono alle assunzioni non stagionali.
37
4.3
Assunzioni previste nel 2011 per forme contrattuali e settore di attività
La scomposizione delle previsioni di assunzione per tipologia contrattuale e settore di attività (tabelle 16 e
17) permette di evidenziare l’uso delle varie forme contrattuali nell’industria e nei servizi. In valore
assoluto, in termini di intenzioni di assunzione, il settore più in espansione appare quello dei servizi, in cui
vengono assorbite il 62% delle nuove assunzioni previste complessivamente nell’economia nel 2011 (pari a
595,160 unità). Di queste, le quote più significative sono rappresentate dai contratti a tempo indeterminato
(267,440 unità) e dai contratti a tempo determinato (258,380), mentre i contratti di apprendistato, di
inserimento e le altre tipologie contrattuali costituiscono una realtà numericamente più contenuta (pari,
rispettivamente, a 48,400 unità, 9,980 unità e 10,950 unità). Data la maggiore dinamica occupazionale nel
comparto dei servizi, in tale settore si riscontra una quota maggiore di nuovi contratti in valore assoluto
rispetto a quelli previsti nel settore industriale in corrispondenza di ogni tipologia contrattuale.
In termini percentuali, le tipologie contrattuali analizzate risultano cosi suddivise: le altre tipologie
contrattuali costituiscono l’1% delle nuove assunzioni nel comparto industriale e il 2% delle nuove
assunzioni nel comparto dei servizi. Anche i contratti di inserimento sono leggermente più diffusi nei
servizi, dove costituiscono il 2% delle nuove assunzioni a fronte di un 1% nell’industria. Contratti di
apprendistato, a tempo determinato e a tempo indeterminato, invece, risultano essere lievemente più
diffusi nell’industria, dove costituiscono, rispettivamente, il 9%, il 47% e il 46% delle nuove assunzioni
(rispetto a valori che, nei servizi, corrispondono, rispettivamente, all’8%, 42% e 45% delle nuove
assunzioni).
Tabella 16. Assunzioni previste nel 2011 per tipologie contrattuali e settori di attività, valori assoluti
Assunzioni
Contratti a
Contratti
Contratti
Contratti a Altri
tempo
di
di
tempo
contratti
indeterminato apprendistato inserimento determinato
Totale
595,160
267,440
48,400
9,980
258,380
10,950
Industria
222,060
101,140
19,490
2,700
103,370
2,380
Servizi
366,100
166,300
28,920
7,280
155,030
8,570
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011. I dati si riferiscono alle assunzioni non stagionali.
Tabella 17. Assunzioni previste nel 2011 per tipologie contrattuali e settori di attività, valori percentuali
Assunzioni
Contratti a
Contratti
Contratti
Contratti a
Altri
tempo
di
di
tempo
contratti
indeterminato apprendistato inserimento determinato
Totale
595,160
45.0
8.0
2.0
43.0
2.0
Industria
222,060
46.0
9.0
1.0
47.0
1.0
Servizi
366,100
45.0
8.0
2.0
42.0
2.0
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011. I dati si riferiscono alle assunzioni non stagionali.
4.4
Assunzioni previste nel 2011 per forme contrattuali e livello di istruzione
Piuttosto rilevante appare l’analisi delle previsioni di assunzione delle imprese italiane nel 2011 per
tipologia contrattuale e livello di istruzione dei lavoratori. Al riguardo si rileva che, in termini assoluti, la
quota più significativa di assunzioni concerne i lavoratori aventi una formazione secondaria o post
secondaria e i lavoratori senza formazione specifica.
38
Scomponendo l’analisi per tipologie contrattuali si osserva che, tra i laureati, la quota di assunzioni più
rilevante è rappresentata da contratti a tempo indeterminato (53.3%), seguita dai contratti a tempo
determinato (35.7%). Sempre tra i laureati gli altri contratti costituiscono, in proporzione alle intenzioni di
assunzione, una quota decisamente modesta, pari allo 0.9% del totale, mentre si evidenzia la quota
maggiore di contratti di inserimento, pari al 2.9% del totale, contro un valore che, per gli altri livelli di
istruzione, oscilla dall’1.9% tra chi ha un livello secondario di istruzione e l’1.1% tra chi non ha alcuna
formazione. La percentuale più bassa di contratti a tempo indeterminato si registra tra chi ha una
formazione professionale (41.7%), tra cui si riscontrano quote significative anche di contratti di
apprendistato (8.6%) e di contratti a tempo determinato (46.9). Infine, la percentuale maggiore di altri
contratti è diffusa tra chi non ha alcuna formazione specifica (2.5%).
Tabella 18. Assunzioni previste nel 2001 per tipologia contrattuale e livello di istruzione
Livello di istruzione Totale
% contratti a
% contratti
% contratti % contratti
assunzioni tempo
di
di
a tempo
indeterminato apprendistato inserimento determinato
Università
74,140
53.3
7.2
2.9
35.7
Scuola secondaria e 244,280
44.2
9.4
1.9
42.9
post-secondaria
Formazione
80,270
41.7
8.6
1.4
46.9
professionale
Nessuna
196,470
44.1
6.8
1.1
45.7
formazione
specifica
% altri
contratti
0.9
1.7
1.5
2.5
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011. I dati si riferiscono alle assunzioni non stagionali.
4.5
Utilizzo dei collaboratori a progetto nel 2011 per livello di istruzione,
settore economico e classe dimensionale d’impresa
I lavoratori parasubordinati (co.co.co. e co.co.pro.) rappresentano una delle categorie maggiormente
penalizzate e a rischio di precarietà in base alle principali definizioni che di questa possono essere offerte:
precarietà nella continuità della carriera lavorativa, precarietà nel livello delle retribuzioni percepite,
precarietà nel tipo di tutele previste in caso di perdita del lavoro o inoccupazione. Focalizzare l’analisi
sull’utilizzo di tali tipologie contrattuali all’interno del tessuto produttivo italiano permette quindi di
comprenderne la diffusione in modo avere una percezione dell’espansione di forme lavorative associate a
condizioni di particolare vulnerabilità.
Le tabelle 19 e 20 presentano i dati relativi all’utilizzo previsto di collaboratori a progetto a seconda del
livello di istruzione del lavoratore, del settore economico di impiego e della classe dimensionale
dell’impresa. La tabella 19 mostra che nel comparto industriale il 27.9% di chi lavora con un contratto a
progetto ha un livello di istruzione di tipo universitario e il 52.1% un livello di istruzione secondario, mentre
relativamente minoritaria è la percentuale di chi ha una formazione professionale (7.4%) o nessuna
formazione specifica (12.6%). Anche nell’ambito dei servizi l’utilizzo di lavoratori a progetto vede una
maggioranza di lavoratori aventi un livello di istruzione universitario (39.2%) e secondario (51.7%), mentre
le percentuali di chi ha una formazione professionale o nessuna formazione specifica sono, rispettivamente,
del 5.1% e al 4.0%. Considerando l’utilizzo previsto di lavoratori a progetto a seconda della grandezza
dell’impresa (tabella 20) si rileva che, in corrispondenza di ogni classe dimensionale, la maggior parte dei
lavoratori a progetto ha un diploma di laurea o di istruzione secondario. Sempre in corrispondenza di ogni
39
categoria di dimensione d’impresa la percentuale di lavoratori a progetto con un livello di istruzione
secondario è superiore a quella dei lavoratori a progetto con un livello di istruzione universitario (unica
eccezione rappresentata dalla classe dimensionale tra i 250 e i 499 dipendenti), mentre all’aumentare della
classe dimensionale si riduce drasticamente la percentuale di lavoratori a progetto senza alcuna formazione
specifica, che passa dal 7.4% nelle microimprese al di sotto dei 10 dipendenti allo 0.8% nelle grandi imprese
con più di 500 dipendenti.
Tabella 19. Utilizzo previsto di collaboratori a progetto nel 2011 per settore e livello istruzione
Livello di istruzione
% Industria
% Servizi
Università
27.9
39.2
Scuola secondaria e post-secondaria
52.1
51.7
Formazione professionale
7.4
5.1
Nessuna formazione specifica
12.6
4.0
Totale
31,890
118,340
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011. Sono esclusi gli amministratori di società.
Tabella 20. Utilizzo previsto di collaboratori a progetto nel 2011 per livello istruzione e classe dimensionale
Classe dimensionale
Livello di istruzione
% 1-9
% 10-49
% 50-249
% 250-499 % 500 e oltre
Università
36.5
36.7
38.4
50.3
31.4
Scuola secondaria e post-secondaria
50.1
51.3
51.2
43.9
64.2
Formazione professionale
5.9
6.1
5.6
4.5
3.7
Nessuna formazione specifica
7.4
5.9
4.7
1.4
0.8
Totale
74,280
34,320
21,560
5,110
14,950
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011. Sono esclusi gli amministratori di società.
4.6
Utilizzo dei lavoratori a progetto previsto nel 2011 per età e livello di
istruzione
La tabella 21 riporta le dichiarazioni sulle intenzioni di utilizzo di collaboratori a progetto da parte delle
imprese a seconda del livello di istruzione del lavoratore e dell’età. Complessivamente, tra i lavoratori a
progetto la quota più consistente ha un livello di istruzione universitario o di scuola secondaria
(rispettivamente 55,270 unità e 77,740 unità su 150,230 collaboratori previsti). In base alle intenzioni di
utilizzo da parte delle imprese, tra chi ha un livello di istruzione universitario il 24.6% ha meno di 30 anni e il
27.3% ha tra i 30 e i 44 anni; mentre la quota di collaboratori over-30 si riduce sensibilmente in
corrispondenza degli altri livelli di istruzione. A partire dai 45 anni e oltre, al contrario, la quota di
collaboratori a progetto appare aumentare con il ridursi del livello di istruzione corrispondente: ad
esempio, mentre le imprese intendono utilizzare attraverso contratti a progetto il 5.7% dei laureati oltre i
54 anni, il valore corrispondente diventa il 6.7% nel caso di lavoratori con diploma di scuola secondaria,
l’8.0% nel caso di lavoratori con formazione professionale e il 9.1% nel caso di lavoratori senza formazione
specifica.
40
Tabella 21. Utilizzo previsto di collaboratori a progetto nel 2011livello istruzione e classe dimensionale
Età in anni
Totale
Livello di istruzione
% fino
%
%
% oltre
% età non
a 29
30-44
45-54
i 54
rilevante
Università
24.6
Scuola secondaria e post-secondaria
30.1
Formazione professionale
35.4
Nessuna formazione specifica
19.3
27.3
18.0
15.0
20.8
5.6
6.8
6.6
8.7
5.7
6.7
8.0
9.1
36.8
38.3
35.1
42.0
55,270
77,740
8,450
8,770
Fonte: Unioncamere – Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2011. Sono esclusi gli amministratori di società.
5. Pensioni e contratti precari: un approfondimento
Il concetto di precarietà, spesso associato all’utilizzo di forme contrattuali flessibili o atipiche, può essere
declinato considerando tre aspetti principali. Il primo aspetto concerne la continuità della carriera
lavorativa: la precarietà sorge nel momento in cui contratti di lavoro atipici si traducono in carriere
intermittenti, dalla durata incerta e dalle incerte prospettive occupazionali. Il secondo aspetto riguarda i
potenziali reddituali associati ai contratti flessibili: la precarietà emerge nel momento in cui a contratti
flessibili si associano livelli reddituali inferiori a quelli garantiti dai contratti tipici e spesso inadeguati. Infine,
il terzo aspetto è associato alle forme esistenti di assicurazione contro la disoccupazione: la precarietà
scaturisce dall’assenza per i lavoratori atipici di meccanismi di sostegno al reddito in caso di disoccupazione.
A queste tre definizioni di precarietà se ne può, tuttavia, affiancare una quarta, legata alle prospettive e alle
condizioni previdenziali dei lavoratori flessibili. Infatti l’insieme dei tre aspetti appena delineati può,
congiuntamente, creare le condizioni affinché chi è precario da lavoratore siavulnerabile anche da
pensionato. In questo senso la precarietà durante la fase lavorativa si accompagnaa ridotte prospettive
previdenziali, vale a dire al rischio di ricevere in futuro assegni pensionistici estremamente esigui sia in
valore assoluto che rispetto alla media dei salari percepiti nel corso della vita.
5.1
Il sistema pensionistico italiano
Il sistema pensionistico italiano, in seguito agli interventi di riforma iniziati nei primi anni ’90 (riforma
Amato del 1992, riforma Dini del 1995) e conclusi con la Manovra del Governo Monti di dicembre 2011, si
caratterizza per le coorti di lavoratori entrati dopo il 1995 come sistema (interamente) contributivo e a
ripartizione. Sistema contributivo vuol dire che ciascun lavoratore versa, in percentuale al proprio salario,
dei contributi che vengono “virtualmente” capitalizzati (in base alla crescita media del Pil) e che si
trasformano, al momento del ritiro dal mondo del lavoro, in assegni pensionistici. In particolare, la
pensione è calcolata moltiplicando il totale accumulato attraverso il versamento dei contributi capitalizzati
(il montante) per specifici coefficienti di trasformazione che tengono conto dell’aspettativa di vita.
Essendo il sistema a ripartizione, il meccanismo di computo “a capitalizzazione virtuale” appena delineato è
figurativo, vale a dire che i contributi versati dai lavoratori di oggi sono non sono effettivamente
capitalizzati, dal momento che nella realtà sono utilizzati per pagare le pensioni dei pensionati di oggi.
L’aspetto più attraente ed economicamente convincente del metodo contributivo consiste nella stretta
corrispondenza creata tra contributi versati e pensione percepita, per cui chi più versa durante la propria
carriera lavorativa più percepisce durante gli anni della pensione; in questo modo si incentivano i lavoratori
al versamento dei contributi e all’allungamento della vita attiva. Inoltre, l’uso dei coefficienti di
41
trasformazione sterilizza l’andamento della spesa alla dinamica demografica, dato che permette di
adeguare la spesa pensionistica all’aspettativa di vita e all’invecchiamento della popolazione; al crescere
dell’aspettativa di vita, e quindi del tempo trascorso come pensionati, si riduce infatti la prestazione
pensionistica percepita. Infine, il metodo contributivo si connota per essere attuarialmente neutrale, nel
senso che la pensione percepita dipende, tra le altre cose, dall’età in cui ci si ritira dal mondo del lavoro.
L’aspetto più critico del modello contributivo, invece, consiste nel fatto che lo stretto legame creato tra
contribuzione effettuata e prestazione pensionistica si traduce in uno stretto legame tra le condizioni
sperimentate dal lavoratore nel mercato del lavoro e le sue prospettive pensionistiche. In questo senso, chi
vive una condizione svantaggiata di precarietà nel mondo del lavoro è condannato a vivere una situazione
di difficoltà anche nel momento in cui va in pensione. Si aggiunga poi che, essendo il rendimento del
contributivo basato sulla dinamica del PIL, generazioni che lavorassero in periodi di limitata crescita del PIL
saranno a parità di condizioni generazioni di anziani meno abbienti.
Box1. La riforma delle pensioni: Legge n. 214 del 22 dicembre 2011
Con la riforma delle pensioni varata nel dicembre del 2011 (Legge n. 214 del 22 dicembre 2011), in Italia
entra in vigore il metodo contributivo per tutti i lavoratori a partire dal 1° gennaio 2012. Il metodo
contributivo differisce da quello retributivo dal momento che, mentre in base a quest’ultimo la pensione è
calcolata come media delle ultime retribuzioni percepite, la pensione dipende dall’ammontare di
contributi versati nel corso della carriera lavorativa. Il sistema in vigore finora era stato sostanzialmente
delineato con la riforma Dini del 1995. Tale riforma aveva introdotto il sistema contributivo, creando 3
differenti situazioni:
1. chi aveva almeno 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995 aveva la pensione interamente calcolata
con il sistema retributivo;
2. chi aveva meno di 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995 aveva la pensione calcolata applicando
il criterio del pro-rata: per leanzianità maturate fino al dicembre 1995 si applicava il sistema retributivo e
per le anzianità maturate successivamente si applicavail sistema contributivo;
3. chi iniziava a lavorare dopo il 31 dicembre 1995 aveva la pensione interamente liquidata con il sistema
di calcolo contributivo.
Con la riforma del dicembre 2011 anche i lavoratori che in base alla riforma Dini del 1995 avevano ancora
diritto al calcolo della pensione in base al metodo retributivo (coloro che al 31 dicembre 1995 avevano già
versato almeno 18 anni di contribuzione) hanno ora accesso ad una pensione che a partire dal 1° gennaio
2012 viene calcolata attraverso un meccanismo pro rata con il metodo contributivo. Ciò vuol dire che la
quota di pensione relativa alle annualità contributive versate dal 1° gennaio 2012 è calcolata con il metodo
contributivo anche per coloro che finora sono rientrati nel meccanismo retributivo.
Pensione di vecchiaia
La riforma ha apportato numerose modifiche alle norme in materia di pensione di vecchiaia e di pensione
di anzianità. La pensione di vecchiaia, per le donne lavoratrici nel settore privato iscritte all'Assicurazione
Generale Obbligatoria e forme sostitutive, a partire dal 1° gennaio 2012 spetta al conseguimento dei 62
anni di età. Inoltre, si prevede un incremento costante del requisito anagrafico fino ad arrivare entro il
2018 ai 66 anni di età. I requisiti di accesso alla pensione saranno comunque adeguati agli incrementi della
speranza di vita. Sempre dal 1° gennaio 2012 per le lavoratrici autonome e le iscritte alla Gestione
separata, l’età pensionabile è fissata a 63 anni e 6 mesi, requisito anch’esso crescente fino al
raggiungimento nel 2018 dei 66 anni di età. Anche in questo caso i requisiti di accesso alla pensione
saranno comunque adeguati agli incrementi della speranza di vita. Per le lavoratrici dipendenti del settore
pubblico il requisito anagrafico di sessantacinque anni per l’accesso alla pensione di vecchiaia è aumentato
a 66 anni. Per gli uomini, appartenenti sia al settore privato che pubblico, dipendenti o autonomi, già a
partire dal 2012 il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia è fissato a 66 anni. È previsto inoltre il
42
requisito di anzianità contributiva di almeno 20 anni e il requisito che la pensione sia superiore a 1,5 volte
l’assegno sociale. Tale requisito di importo minimo non è necessario qualora si abbia un’età anagrafica pari
a settanta anni e un’anzianità contributiva minima effettiva di cinque anni.
Pensione di anzianità
A partire dal 1° gennaio 2012 è stata abolita la pensione di anzianità, sostituita dalla pensione anticipata. I
requisiti contributivi per accedervi sono per l’anno 2012 di 41anni e 1 mese per le donne e 42 anni e 1
mese per gli uomini. Tali requisiti contributivi sono aumentati di un mese per l’anno 2013 e di un ulteriore
mese a partire dal 2014. E’ applicata una riduzione percentuale di 1 punto per ogni anno di anticipo
nell’accesso al pensionamento rispetto all’età di 62 anni; tale percentuale annua è elevata a 2 punti
percentuali per ogni anno ulteriore di anticipo rispetto a due anni .
Casi di esclusione
Sono esclusi dall’applicazione delle nuove norme i lavoratori che entro il 31 dicembre 2011 abbiano
maturato i requisiti di età e di anzianità contributiva previsti dalla normativa in vigore fino al momento in
cui è stata emanata la nuova legge di riforma. Sono inoltre esclusi, nei limiti dei fondi stanziati, i lavoratori
posti in mobilità in seguito ad accordi stipulati entro il 4 dicembre 2011 e che maturano i requisiti per il
pensionamento entro il periodo di fruizione dell’indennità di mobilità; i lavoratori in mobilità lunga effetto
di accordi collettivi stipulati entro il 4 dicembre2011; i lavoratori che, alla data del 4 dicembre 2011, sono
titolari di prestazione straordinaria a carico dei fondi di solidarietà; i lavoratori che, entro il 4 dicembre
2011, sono stati autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione; i lavoratori che alla data del 4
dicembre 2011 hanno in corso l’istituto dell’esonero dal servizio.
Eccezioni
Inoltre sono previste delle eccezioni alle norme suddette in materia di accesso alla pensione. In
particolare, le donne che entro il 31 dicembre 2012 raggiungono i 60 anni di età e hanno almeno 20 anni di
anzianità contributiva potranno andare in pensione di vecchiaia al compimento dei 64 anni di età. In via
eccezionale, per i lavoratori del settore privato, iscritti all’AGO e alla forme sostitutive, è stato previsto
quanto segue: a. i lavoratori (uomini e donne) che entro il 31 dicembre 2012 maturano 36 anni di
contribuzione e 60 anni di età o 35 di contribuzione e 61 di età potranno andare in pensione al
compimento dei 64 anni di età; b. le lavoratrici che entro il 31 dicembre 2012 maturano almeno 20 anni e
alla medesima data conseguano un’età anagrafica di almeno 60 anni potranno andare in pensione di
vecchiaia al compimento dei 64 anni di età. Infine, alle lavoratrici dipendente ed autonome, in presenza di
un'anzianità contributiva pari o superiore a trentacinque anni e di un'età pari o superiore a 57 anni per le
lavoratrici dipendenti e a 58 anni per le lavoratrici autonome per le quali, in via sperimentale fino al 31
dicembre 2015, è confermata la possibilità di conseguire il diritto all'accesso al trattamento pensionistico
di anzianità qualora optino per una liquidazione del trattamento medesimo secondo le regole di calcolo
del sistema contributivo.
Fonte: http://www.inps.it/portale/default.aspx?itemDir=7815&p7=2; Legge n. 214 del 22 dicembre 2011.
5.2
Le prospettive pensionistiche dei lavoratori atipici
Come è stato precedentemente sottolineato, gli elementi principali che connotano una condizione di
precarietà dei lavoratori atipici fanno riferimento alle prospettive di continuità della carriera lavorativa, al
livello del reddito da lavoro percepito e agli strumenti di assicurazione contro la disoccupazione. Per
considerare gli effetti della precarietà nel mondo del lavoro sulle condizioni previdenziali dei lavoratori ai
suddetti aspetti bisogna aggiungere le differenze nella normativa contributiva prevista per lavoratori tipici e
lavoratori atipici.
Nello specifico i meccanismi che determinano una condizione di forte difficoltà dei lavoratori precari nel
momento del pensionamento agiscono nel seguente modo: dal momento che le prestazioni pensionistiche
43
sono proporzionali ai contributi versati e questi, a loro volta, sono proporzionali allo stipendio percepito,
chi ha salari più bassi avrà anche pensioni più basse. Tale aspetto è fortemente acuito in caso di
discontinuità lavorativa e assenza di adeguate forme di sostegno al reddito nei periodi di disoccupazione e
conseguente assenza di contribuzione figurativa, poiché i periodi di inoccupazione non sono conteggiati a
fini pensionistici. Infine, le diverse norme contributive previste per lavoratori tipici e lavoratori atipici nella
forma di minori aliquote contributive per i lavoratori atipici comportano un’ ulteriore penalizzazione nella
consistenza delle prestazioni pensionistiche attese dai lavoratori precari.
In merito a questo ultimo aspetto è utile ricordare brevemente cosa dispone la normativa in materia di
contribuzione a seconda della tipologia contrattuale considerata. In linea generale i contributi previdenziali
sono interamente versati dal datore di lavoro ma una loro parte è a carico dei lavoratori. Il datore di
recupera la parte di contributi versati per conto del lavoratore attraverso un meccanismo di rivalsa, vale a
dire di recupero delle somme versate in busta paga. Nel caso standard di un tipico contratto a tempo
indeterminato è previsto in Italia un’aliquota contributiva pari al 33%.
5.3
Il contratto di apprendistato
Per chi ha un contratto di apprendistato il quadro è un po’ più articolato. Il Testo Unico sull’apprendistato
approvato con il D. Lgs. n. 167 del 14.09.2011 ha introdotto ulteriori agevolazioni rispetto a quelle già
esistenti in termini di oneri contributivi dovuti dai datori di lavoro.Fino al 2011, il contratto di apprendistato
prevede:per le imprese con almeno 10 dipendenti, un’aliquota contributiva agevolata pari al 10% della
retribuzione imponibile ai fini contributivi;per le imprese con al massimo 9 dipendenti:un’aliquota
contributiva pari all’1,5% per i periodi contributivi maturati nel 1° anno di contratto di
apprendistato;un’aliquota contributiva pari al 3% per i periodi contributivi maturati nel 2° anno di contratto
di apprendistato;un’aliquota contributiva pari al 10% per i periodi contributivi maturati successivamente al
2° anno di contratto di apprendistato.L’aliquota contributiva in capo all’apprendista è, invece, sempre pari
al 5,84%. Il D. Lgs. n. 167 del 14.09.2011 ha ora stabilito che i datori di lavoro con al massimo 9 dipendenti e
che decidono di assumere apprendisti dal 1° gennaio 2012 e fino al 31 dicembre 2016 godranno di uno
sgravio contributivo totale (100%) per i periodi contributivi maturati nei primi 3 anni di contratto (periodo
che generalmente coincide con la durata massima del contratto di apprendistato stesso). Per i periodi
contributivi maturati successivamente al 3° anno di contratto di apprendistato, l’aliquota contributiva
diviene quella ordinaria del 10%. Bisogna tuttavia specificare che tali agevolazioni contributive a favore dei
datori di lavoro non si traducono in una minore contribuzione effettiva per il dipendente apprendista, dal
momento che la differenza tra contributi effettivamente versati e contributi figurativi calcolati in base
all’aliquota del 33% (come per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato) è posta a carico della fiscalità
generale. Infine, va qui ricordato che il contratto di apprendistato prevede la possibilità, allo scadere del
terzo anno, di continuare il rapporto di lavoro o di interromperlo senza alcuna motivazione.
5.4
Il contratto a tempo determinato, il contratto di somministrazione e il
contratto di inserimento
Nel caso di contratti di lavoro dipendente a termine, e quindi nel caso di contratti a tempo determinato o di
somministrazione o di contratti di inserimento, la normativa (D.Lgs. n. 368 del 2001 e D.Lgs. n. 276 del
2003) prevede che ai lavoratori spettino gli stessi trattamenti economici previsti per i lavoratori aventi un
contratto a tempo indeterminato e ed essi equiparabili. Nel caso dei contratti di inserimento, che
sostituiscono il contratto di formazione lavoro nel settore privato, la disciplina del rapporto di lavoro è la
stessa applicata ai contratti a tempo determinato, ma sono previste particolari agevolazioni contributive
44
per i datori di lavoro. E’ altresì previsto che la copertura delle minori somme versate agli Istituti
previdenziali da parte di coloro che fruiscono di tali sgravi contributivi sia a carico della fiscalità generale.
5.5
I parasubordinati: co.co.co. e co.co.pro.
I contratti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.) o i contratti a progetto (co.co.pro.)
costituiscono due fattispecie contrattuali a cui si applica una disciplina in materia di contribuzione
previdenziale differente da quella dei contratti standard. In primis è previsto che i contributi versati dai
lavoratori appartenenti a queste tipologie contrattuali siano versati in un’apposita cassa, la Gestione
separate INPS. In secondo luogo, la contribuzione a carico di tali lavoratori è basata su aliquote
decisamente inferiori a quelle stabilite per i lavoratori tipici. In particolare, al momento dell’istituzione della
Gestione separata con la legge n. 335 del 1995 (la riforma Dini), i lavoratori parasubordinati versavano
contributi per un’aliquota pari al 10% del loro stipendio. Nel corso degli anni, interventi legislativi successivi
hanno previsto incrementi via via più consistenti delle aliquote, che nel 2011 sono stabilite come segue:
26,72% (26,00 aliquota IVS più 0,72 di aliquota aggiuntiva per le tutele di malattia, maternità) per tutti i
soggetti non assicurati presso altre forme pensionistiche obbligatorie;17,00% , per tutti soggetti titolari di
pensione o provvisti di altra tutela pensionistica obbligatoria.Per il 2012 la Legge di Stabilità (Legge
12.11.2011, n. 183), ha previsto un ulteriore aumento dell'1% delle suddette aliquote che passeranno al
27,72% e al 18%.
Al momento della sua introduzione, la ratio di tale differenza nella contribuzione dei lavoratori
parasubordinati poteva essere rintracciata nell’intento di far fronte ad eventuali vincoli di liquidità dei
giovani diversificando l’onere contributivo del lavoratore nel corso della sua carriera lavorativa,
alleggerendolo nel momento di ingresso nel mondo del lavoro, solitamente realizzato attraverso forme
contrattuali atipiche, e controbilanciando tale alleggerimento attraverso una più onerosa contribuzione
nelle fasi successive della carriera lavorativa, in cui si immaginava una trasformazione dei contratti atipici in
contratti standard. Tuttavia, come le analisi relative ai tassi di trasformazione chiaramente mostrano, il
passaggio da forme contrattuali atipiche a forme contrattuali tipiche non è immediato e chi entra nel
mercato del lavoro attraverso modalità contrattuali atipiche può restare in tale condizione anche per
diversi anni. Il risultato, sulla base di quanto affermato nel secondo paragrafo, è quello di penalizzare le
prestazioni pensionistiche dei lavoratori atipici, nella fattispecie dei lavoratori parasubordinati.
La penalizzazione per i lavoratori parasubordinati in termini di contribuzione va ad aggiungersi alla
penalizzazione spesso subita in termini di salari percepiti e continuità delle carriere lavorative. Ciò è
favorito dal fatto che i contratti di lavoro parasubordinato non sono coperti dalla contrattazione nazionale
e i livelli salariali sono quindi totalmente affidati alla contrattazione privata. La tabella 22 mostra i risultati
delle stime sui differenziali retributivi lordi dei lavoratori parasubordinati rispetto ai lavoratori tipici con
contratto a tempo indeterminato. Le differenze registrate variano a seconda del campione considerato tra
un massimo di 27.8 punti percentuali e un minimo di 9.7 punti percentuali. In particolare, le differenze
minime si registrano per lavoratori subordinati che presentano una continuità lavorativa, mentre sono
massime per i lavoratori parasubordinati che presentano una certa discontinuità lavorativa. Come
precedentemente argomentato, le penalizzazioni subite dai lavoratori parasubordinati nel corso della
carriera lavorativa possono tradursi in penalizzazioni previdenziali subite al momento del ritiro dal mondo
del lavoro dal momento che ai suddetti differenziali salariali si vanno ad aggiungere valori diversi e
altrettanto penalizzanti delle aliquote contributive.
45
Tabella 22. Differenziali retributivi lordi dei lavoratori parasubordinati rispetto ai lavoratori a tempo
indeterminato %
Dati
Whip
Cpi Torino
IsfolPlusa
Periodo
1998-2003
2006
2005
Campione
allargato
ristretto
allargato
ristretto
allargato
ristretto
Parasubordinati
-27.9
-9.7
-20.8
-23.9
-27.0
-23.3
Fonte: Flex-insecurity, Perché in Italia la flessibilità diventa precarietà. Elaborazioni su dati Whip, Cpi Torino e Isfol Plus. Il campione allargato
comprende tutti i lavoratori osservati e quindi anche coloro che non hanno svolto attività lavorativa in modo continuativo, mentre il campione
ristretto comprende solo i lavoratori che hanno svolto attività lavorativa in modo continuativo durante tutto l’anno. Alle stime effettuate sono
applicati vari controlli tra cui: genere, età, qualifica. a Il campione Isfol Pluscomprende i contratti di collaborazione occasionale.
La massima penalizzazione può essere quella sperimentata da lavoratori che trascorrano l’intera vita
lavorativa come lavoratori parasubordinati. Le differenze in termini di prestazione pensionistica attesa sono
riassunte nella tabella 23. nel caso di un lavoratore che nel 2008 abbia iniziato la sua carriera lavorativa
come parasubordinato e che trascorra tutta la sua vita nella stessa condizione contrattuale, la
penalizzazione monetaria al momento della pensione rispetto ad un lavoratore che abbi iniziato la sua
carriera lavorativa nello stesso anno con un contratto a tempo indeterminato è di circa 26 punti
percentuali. In caso di salario netto mensile di 1000 euro, infatti, un lavoratore parasubordinato percepirà
una pensione pari a circa il 74% di quella di un lavoratore tipico; mentre nel caso di un salario netto mensile
di 1200 euro un lavoratore parasubordinato percepirà una pensione pari al 73% di quella di un lavoratore a
tempo indeterminato.
Tabella 23. Differenziali nelle prestazioni pensionistiche di lavoratori parasubordinati e lavoratori con
contratto a tempo indeterminato, valori in euro, anno 2008.
Retribuzione netta
1000
1200
mensile
Età
collaboratore
tipico
collaboratore
tipico
65 anni
694
940
819
1,124
Fonte: Flex-insecurity, Perché in Italia la flessibilità diventa precarietà. Le aliquote contrutive contributive considerate per i lavoratori
parasubordinati sono quelle vigenti nel 2008, pari al 23%. Le elaborazioni considerano un individuo che abbia iniziato la sua carriera lavorativa nel
2008 a 25 anni e non tengono in considerazione il fatto che negli anni precedenti al 2008 le aliquote contributive dei parasubordinati fossero
inferiori e quindi sottostima la penalità in termini di prestazione previdenziale associata al fatto di aver lavorato tutta la vita con un contratto di
lavoro parasubordinato.
Il caso estremo è quello di un lavoratore parasubordinato che per tutta la sua carriera lavorativa percepisce
un salario netto mensile inferiore a quello percepito da un lavoratore a tempo indeterminato. Ipotizzando
che un lavoratore parasubordinato percepisca, in media nel corso della sua vita lavorativa, un salario netto
mensile di 1000 euro, contro un salario netto mensile percepito da un lavoratore tipico di 1200 euro, la
prestazione pensionistica spettante al lavoratore subordinato sarebbe pari al 62% di quella spettante al
secondo tipo di lavoratore.
5.6
Il Tfr e il computo dei mesi contributivi dei lavoratori parasubordinati
Infine, per valutare compiutamente la vulnerabilità dei lavoratori parasubordinati per quanto concerne le
loro prospettive pensionistiche, due ultimi aspetti sono degni di nota. In primo luogo bisogna osservare che
ai lavoratori parasubordinati non spetta il Tfr, che viene invece accantonato per i lavoratori tipici. In
secondo luogo bisogna considerare il fatto che, affinché sia riconosciuto un intero anno contributivo, il
lavoratore parasubordinato deve versare una quota di contributi pari ad un certo minimale15. Ciò vuol dire
15
Ogni anno vengono definiti dall’INPS dei minimali e dei massimali su cui calcolare i contributi previdenziali. Tali valori
valgono non solo per i lavoratori parasubordinati, ma per tutti i dipendenti. Tuttavia, in pratica, le soglie minime
trovano applicazione solamente per i lavoratori part time, in quanto tutti i contratti full time sono superiori a tali
46
che se nel corso di un anno di lavoro la contribuzione effettivamente versata non raggiunge la soglia
minima prevista viene accreditato al lavoratore un numero di mesi di contribuzione pari all’importo versato
diviso la contribuzione minima mensile prevista per legge. Qualora nell’anno successivo il lavoratore
parasubordinato riceva emolumenti tali da superare l’anno di contribuzione, non potrà colmare attraverso
la maggiore contribuzione nel secondo anno i mesi restanti al completamento del primo anno contributivo,
dal momento che per ogni anno sono previsti massimali contributivi non cumulabili con gli anni precedenti.
Per i lavoratori a tempo indeterminato, al contrario, l’ammontare contributivo viene calcolato non in base
agli effettivi versamenti effettuati, ma in base alle settimane di retribuzione lavorate.
La penalità generata da tale differenza di trattamento emerge nel momento del calcolo delle anzianità
contributive talora previste dalle norme previdenziali per accedere a determinate prestazioni
pensionistiche. Ad esempio, in base alla riforma realizzata dal Governo Monti (Legge n. 214/2011) l’accesso
alla pensione di vecchiaia prima dei 70 anni è condizionato a determinati requisiti di età combinati al
possesso di un’anzianità contributiva minima di 20 anni. Mentre per i lavoratori a tempo indeterminato il
possesso di tale anzianità contributiva è garantito dal fatto di aver effettivamente lavorato almeno 20 anni,
poiché le settimane contributive coincidono con le settimane retribuite, per i lavoratori parasubordinati
tale coincidenza viene meno, dal momento che i mesi contributivi possono non coincidere con i mesi
effettivamente lavorati. Infatti, qualora un lavoratore parasubordinato svolga una attività lavorativa per un
certo numero di mesi ma, percependo un salario basso, in base ai minimi contributivi stabiliti per legge,
versi un numero di mesi di contribuzione inferiore al numero di mesi effettivamente lavorati, i venti anni di
contribuzione sopra richiamati si traducono in più anni di lavoro effettivo di quelli realizzati da un
lavoratore a tempo indeterminato che percepisca la stessa retribuzione mensile.
minimali. In particolare, Con la circolare 24 del 01/02/2011 si è provveduto a stabilire i nuovi importi di cui si riportano
le voci principali:
 minimale retributivo pari a 44,49 euro giornaliere;
 minimale dei lavoratori a domicilio pari a 24,72 euro da ragguagliare al minimale generale di 44,49 euro;
 minimale orario part time pari a 6,67 euro;
 fascia di retribuzione annua oltre la quale si deve applicare l'aliquota aggiuntiva IVS dell'1%, pari a 43.042
euro;
 massimale contributivo e pensionabile annuo per i nuovi iscritti dal 1° gennaio 1996 pari a 93.622 euro;
 limite di retribuzione per l'accredito dei contributi obbligatori e figurativi è pari ad una retribuzione
settimanale di 187,34 euro.
47
Appendice
OCCUPATI (valori assoluti in migliaia)
2004
2005
2006
2007
2008
2010
Standard
Dipendenti permanenti a tempo pieno
Autonomi a tempo pieno
Parzialmente Standard
17.791
12.618
5.173
2.207
Dipendenti permanenti a tempo parziale
Autonomi a tempo parziale
Atipici
Dipendenti a tempo determinato
1.590
617
2.406
1.909
1.724
531
2.483
2.026
1.815
547
2.719
2.222
1.919
521
2.759
2.269
2.037
554
2.788
2.323
2.071
520
2.549
2.153
2.159
540
2.582
2.182
Collaboratori
497
457
497
490
465
396
400
TOTALE
17.825 17.907 18.022 18.026
12.784 12.878 12.979 13.086
5.041 5.029 5.043 4.940
2.255 2.362 2.440 2.591
2009
17.886 17.590
13.053 12.768
4.833 4.822
2.591 2.699
22.404 22.563 22.988 23.221 23.405 23.026 22.871
OCCUPATI (composizione percentuale)
Standard
Dipendenti permanenti a tempo pieno
Autonomi a tempo pieno
Parzialmente Standard
Dipendenti permanenti a tempo parziale
Autonomi a tempo parziale
Atipici
Dipendenti a tempo determinato
Collaboratori
TOTALE
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
79,4%
79,0%
77,9%
77,6%
77,0%
77,7%
76,9%
56,3%
23,1%
56,7%
22,3%
56,0%
21,9%
55,9%
21,7%
55,9%
21,1%
56,7%
21,0%
55,8%
21,1%
9,9%
10,0%
10,3%
10,5%
11,1%
11,3%
11,8%
7,1%
2,8%
10,7%
8,5%
2,2%
7,6%
2,4%
11,0%
9,0%
2,0%
7,9%
2,4%
11,8%
9,7%
2,2%
8,3%
2,2%
11,9%
9,8%
2,1%
8,7%
2,4%
11,9%
9,9%
2,0%
9,0%
2,3%
11,1%
9,4%
1,7%
9,4%
2,4%
11,3%
9,5%
1,7%
100,0% 100,0% 100,0% 100,0% 100,0% 100,0% 100,0%
OCCUPATI (var. % sull'anno precedente)
2005
2006
2007
2008
2009
2010
Standard
0,2%
Dipendenti permanenti a tempo pieno
1,3%
Autonomi a tempo pieno
-2,6%
Parzialmente Standard
2,2%
Dipendenti permanenti a tempo parziale
8,4%
Autonomi a tempo parziale -13,9%
0,5%
0,7%
-0,2%
4,7%
5,3%
3,0%
0,6%
0,8%
0,3%
3,3%
5,7%
-4,8%
0,0%
0,8%
-2,0%
6,2%
6,1%
6,3%
-0,8%
-0,3%
-2,2%
0,0%
1,7%
-6,1%
-1,7%
-2,2%
-0,2%
4,2%
4,2%
3,8%
3,2%
6,1%
-8,0%
9,5%
9,7%
8,8%
1,5%
2,1%
-1,4%
1,1% -8,6%
2,4% -7,3%
-5,1% -14,8%
1,3%
1,3%
1,0%
0,7%
1,9%
1,0%
0,8%
Atipici
Dipendenti a tempo determinato
Collaboratori
TOTALE
-1,6%
-0,7%
48
OCCUPATI (var. % rispetto 2004)
2005
2006
2007
2008
2009
2010
Standard
0,2%
0,7%
1,3%
1,3%
0,5%
-1,1%
Dipendenti permanenti a tempo pieno
1,3%
2,1%
2,9%
3,7%
3,4%
1,2%
Autonomi a tempo pieno
-2,6%
-2,8% -2,5% -4,5% -6,6%
-6,8%
Parzialmente Standard
2,2%
7,0% 10,6% 17,4% 17,4% 22,3%
Dipendenti permanenti a tempo parziale
8,4% 14,2% 20,7% 28,1% 30,3% 35,8%
Autonomi a tempo parziale -13,9% -11,3% -15,6% -10,2% -15,7% -12,5%
Atipici
3,2% 13,0% 14,7% 15,9%
5,9%
7,3%
Dipendenti a tempo determinato
6,1% 16,4% 18,9% 21,7% 12,8% 14,3%
Collaboratori -8,0%
0,0% -1,4% -6,4% -20,3% -19,5%
TOTALE
0,7%
DIPENDENTI (valori assoluti in migliaia)
2004
2005
2006
Atipici BRS
Dipendenti permanenti a tempo parziale
Dipendenti a tempo determinato
Collaboratori
3.996
1.590
1.909
497
4.207
1.724
2.026
457
4.534
1.815
2.222
497
Dipendenti Standard
12.618
12.784
12.878 12.979 13.086 13.053 12.768
TOTALE
16.614
16.991
17.412 17.657 17.911 17.673 17.509
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
Atipici BRS
Dipendenti permanenti a tempo parziale
Dipendenti a tempo determinato
Collaboratori
24,1%
9,6%
11,5%
3,0%
24,8%
10,1%
11,9%
3,6%
26,0%
10,4%
12,8%
3,9%
26,5%
10,9%
12,9%
3,8%
26,9%
11,4%
13,0%
3,6%
26,1%
11,7%
12,2%
3,0%
27,1%
12,3%
12,5%
3,1%
Dipendenti Standard
75,9%
75,2%
74,0%
73,5%
73,1%
73,9%
72,9%
DIPENDENTI (composizione percentuale)
TOTALE
2,6%
3,6%
4,5%
2,8%
2,1%
2007
2008
2009
2010
4.678
1.919
2.269
490
4.825
2.037
2.323
465
4.620
2.071
2.153
396
4.741
2.159
2.182
400
100,0% 100,0% 100,0% 100,0% 100,0% 100,0% 100,0%
DIPENDENTI (var. % sull'anno precedente)
2005
2006
2007
2008
2009
2010
Atipici BRS
Dipendenti permanenti a tempo parziale
Dipendenti a tempo determinato
Collaboratori
5,3%
8,4%
6,1%
-8,0%
7,8%
5,3%
9,7%
8,8%
3,2%
5,7%
2,1%
-1,4%
3,1% -4,2%
6,1%
1,7%
2,4% -7,3%
-5,1% -14,8%
2,6%
4,2%
1,3%
1,0%
Dipendenti Standard
1,3%
0,7%
0,8%
0,8%
-0,3%
-2,2%
TOTALE
2,3%
2,5%
1,4%
1,4%
-1,3%
-0,9%
DIPENDENTI (var. % rispetto al 2004)
2005
2006
2007
2008
2009
2010
Atipici BRS
Dipendenti permanenti a tempo parziale
Dipendenti a tempo determinato
Collaboratori
5,3%
8,4%
6,1%
-8,0%
13,5%
14,2%
16,4%
0,0%
17,1%
20,7%
18,9%
-1,4%
Dipendenti Standard
1,3%
2,1%
2,9%
3,7%
3,4%
1,2%
TOTALE
2,3%
4,8%
6,3%
7,8%
6,4%
5,4%
20,7% 15,6% 18,6%
28,1% 30,3% 35,8%
21,7% 12,8% 14,3%
-6,4% -20,3% -19,5%
49
50
Bibliografia:
Berton, F., Richiardi, M. e Sacchi, S.
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Notizie sugli autori del lavoro
Alessandra Cataldi è dottoranda di ricerca in Economia Politica presso la scuola di dottorato di “Sapienza”
Università di Roma. Dal gennaio 2010 al giugno 2011 è stata visitingresearcher presso l’Université Libre de
Bruxelles, Belgio. Interessi di ricerca: mercato del lavoro. Vincitore della borsa di ricerca intitolata a
Massimo D’Antona, dal settembre 2011 collabora col il Dipartimento di Economia e Lavoro del Partito
Democratico.
Patrizio Di Nicola, Sociologo del lavoro, è docente di Sistemi Organizzativi Complessi, Condirettore del
Master in Comunicazione e Governance d’Impresa e responsabile delle Summer School internazionali
presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale – Sapienza Università di Roma. Ha diretto
ricerche nazionali ed internazionali sul mercato del lavoro. E’ membro dell’EuropeanPrecariety Network
(SUPI, http://www.supi-project.eu), una rete internazionale di ricerca della Free University di Berlino, ed ha
diretto l’Osservatorio sul lavoro atipico creato tra La Sapienza, il Nidil, l’Ires CGIL.
Gianluigi Nocella è dottorando di ricerca della Scuola di Dottorato in Economia di “Sapienza” Università di
Roma, presso il Dipartimento di Economia e Diritto. Nell’A.A. 2010/2011 è stato visitingstudent presso l’EIEF
(Einaudi Institute for Economics and Finance). I suoi interessi di ricerca riguardano l’analisi delle
disuguaglianze.Vincitore della borsa di ricercaintitolata a Ezio Tarantelli, dal settembre 2011 collabora con il
Dipartimento Economia e Lavoro del Partito Democratico.
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